N. 3 – Maggio 2004 – Strumenti – Bibliografie
Mediazione: bibliographia
selecta
a cura di
Sebbene l’ideologia giuridica abbia
plasmato la nostra percezione della realtà sociale, il diritto non è l’unico
modo possibile per regolare i conflitti sociali. Sono numerosi e vari i modi
con cui, in tempi e spazi diversi, i sistemi sociali regolano e gestiscono i
conflitti. Questi modi mutano continuamente, col mutare delle relazioni sociali
e della tipologia dei conflitti. Come ormai riconosciuto pacificamente in
ambito sociologico, definire il conflitto, circoscrivendone l’ambito dei
significati e individuandone le cause, è estremamente difficile. I tentativi di
spiegazione del fenomeno si traducono piuttosto nello studio dei rimedi con cui
i sistemi sociali contengono e gestiscono i conflitti. Come dice Resta «Non c’è
scienza sociale, per quanto ricca di letteratura sui conflitti, che alla fine
ci possa raccontare questo mondo hobbesiano, inestricabile, ricco di passioni,
interessi, comportamenti, inclinazioni, motivazioni»(2002, 69).
Il diritto e il processo
giurisdizionale nascono come strumenti monopolistici del potere statuale di
gestione della conflittualità sociale, segnando un netto confine tra la sfera
pubblica e quella privata del diritto, e consegnando la risoluzione dei
conflitti all’ambito pubblico attraverso la costruzione di un sistema di
garanzie. Nel tempo, il diritto ha operato una selezione dei conflitti che
potevano essere considerati come generatori di disordine sociale e che dovevano
essere definiti e risolti attraverso la giurisdizione, lasciando ad altri
meccanismi di regolazione sociale, quali la comunità sorretta da tradizioni e
la famiglia allargata e gerarchicamente strutturata, la gestione di un ampio
ventaglio di fenomeni conflittuali. Negli ultimi decenni, le complesse
trasformazioni sociali, legate all’industrializzazione e all’urbanizzazione,
hanno condotto alla crisi di quelle modalità di regolazione, e canalizzato la
domanda di giustizia verso la giurisdizione, che si trova spesso a dover
gestire conflitti che potrebbero essere risolti in ambito sociale con modalità
e obiettivi diversi da quelli processuali. In questi ultimi vent’anni si
assiste, in Europa e in Italia, all’elaborazione di strategie che consentano di
affiancare al diritto e al processo i metodi della “giustizia informale”,
definiti tali in quanto «strumenti alternativi alle procedure legali-formali su
cui si fonda il processo» (Cosi, 1998, 343).
La mediazione, che tra questi è la pratica più
diffusa e teoricamente rilevante, è il risultato dell’incontro tra due o più
persone che, con l’aiuto di un terzo imparziale, intendono cercare, e trovare
insieme, la soluzione al conflitto che le divide. Oltre, e prima, che tecnica
di gestione dei conflitti, la mediazione è un modo per ristabilire la
comunicazione tra le persone, e per avviare, sia pure parzialmente, un
importante processo di pacificazione sociale attraverso la costruzione di
‘spazi di parola’.
*****
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Il Mediatore
Il
mediatore è un terzo neutrale al quale le persone si rivolgono per risolvere il
conflitto che le oppone. Il mediatore non è un arbitro, e tanto meno un
giudice, perchè non decide, non ‘taglia’ il conflitto, imponendo una decisione
alle ‘parti’, che rimangono, dall’inizio alla fine della mediazione, gli unici
soggetti dotati di potere decisionale . Il mediatore lavora per riattivare il
circuito interrotto della comunicazione tra i litiganti e favorisce la ripresa
delle loro relazioni, necessaria alla gestione autonoma del conflitto. È per
questa ragione che la sua figura è più assimilabile a un pacificatore che a un
decisore, perchè, ‘stando nel mezzo’, (e non al di sopra) consente alle persone
di affrontare il conflitto, e di assumere la responsabilità in merito alle
proprie scelte future.
Lo
‘stare nel mezzo’ del mediatore equivale alla conquista di una posizione
difficile, ma ricca, come dice Eligio Resta, «dell’appartenere comune, del
condividere, e persino dello ‘sporcarsi le mani’»(2002,89); il concetto della
neutralità e dell’imparzialità vanno infatti rivisitati alla luce del ruolo di
necessaria partecipazione al conflitto, di grande attenzione prestata dal
mediatore all’accoglienza e al riconoscimento dei sentimenti che si liberano nella
stanza della mediazione. Per questo nella mediazione si deve abbandonare
«l’illusione ipocrita e analiticamente scorretta della terzietà e
dell’imparzialità» (Resta, 2002, 89); il mediatore entra nel conflitto, senza
mostrare di parteggiare per l’uno o per l’altro dei litiganti, ma parteggiando
per entrambi: «tutto con una parte, tutto con l’altra parte, e tutto
completamente esterno alle parti» (Lenzi, in Cosi – Foddai, 51).
Se la capacità del mediatore di esercitare un
ruolo così complesso è frutto di un’attitudine, che potremmo definire
vocazione, è tuttavia allo stesso tempo il risultato di una rigorosa
preparazione e di un lungo addestramento, che ne fanno una figura nuova nel
panorama professionale contemporaneo. L’elaborazione di una griglia di competenze,
che prevede saperi tratti dalla psicologia e dalla psicoterapia,
dall’antropologia e dal diritto, è uno dei traguardi più difficili, che ormai
da più di due decenni sta impegnando i centri di formazione alla mediazione. E
poiché «non esistono mediatori per tutte le stagioni», come dice Stefano
Castelli, al percorso formativo di base deve seguire la preparazione specifica
e particolarmente accurata nel campo in cui il mediatore opererà.
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Mediazione e diritto: la difficile alleanza
La realtà
sociale e giuridica sta vivendo da alcuni decenni in Europa un importante
quanto radicale cambiamento. Questo riguarda diversi aspetti riassumibili nella
critica alle istituzioni giudiziarie, repressive, stigmatizzanti e lontane dai
bisogni reali dei cittadini, oltre che lente e inadeguate; nella valorizzazione
della figura della vittima dei reati, che nel processo ordinario viene
sacrificata sull’altare del pubblico interesse, e infine nella crisi dello
stato sociale, che si volge a nuovi criteri economici e a nuovi soggetti per lo
svolgimento di alcune funzioni di interesse pubblico. In questo contesto si
sviluppa la mediazione, che propone un modello di regolazione dei conflitti
alternativo a quello rappresentato dal diritto.
Recenti
tendenze legislative mostrano che è in atto un processo, nel nostro
ordinamento, di ridefinizione degli ambiti della giurisdizione, divenuta ormai
destinataria di un’esasperata litigiosità sociale. Ma non solo, anche la
giurisdizione, un tempo monopolio esclusivo dello stato, assume un aspetto
transnazionale con l’istituzione di organismi giurisdizionali internazionali
cui il cittadino può ricorrere, valicando i confini della sovranità statale. Il
monopolio statuale dell’offerta di giustizia si incrina, accogliendo nuovi sistemi
di regolazione della conflittualità e, come dice Resta, istituendo dei “filtri”
della giurisdizione (2002, 71). Vari provvedimenti normativi segnalano questa
tendenza, sollecitata da una domanda insoddisfatta di giustizia, che vorrebbe
una riduzione dei tempi e dei costi della giurisdizione.
La legge
n.580 del 1993, che disciplina il riordino delle Camere di Commercio,
istituendo le camere di conciliazione, e il decreto legislativo n.40 del 2003,
che regola la conciliazione in materia di diritto societario e di
intermediazione finanziaria, sono solo due esempi del ricorso a meccanismi di
risoluzione delle controversie alternativi al giudizio.
La
bibliografia che segue considera sia il difficile rapporto tra mediazione e
diritto, sia i significativi mutamenti i in atto nell’ordinamento giuridico
nazionale e internazionale. Le due successive sezioni bibliografiche riguardano
la mediazione penale e quella familiare; la scelta è stata determinata da un criterio
qualitativo per quanto riguarda la mediazione penale, ed uno potremmo dire
quantitativo per la mediazione familiare. L’ambito penale è infatti quello in
cui i meccanismi di giustizia alternativa presentano caratteri del tutto
particolari, determinati dal fatto che nel nostro ordinamento l’azione penale è
pubblica, poiché persegue il pubblico interesse, e la mediazione deve trovare
forme di compatibilità con l’ordinamento, non potendo essere affidata
esclusivamente all’iniziativa dei singoli, come avviene ad esempio in ambito
familiare. Quest’ultimo è il settore in cui la pratica della mediazione ha
mostrato la massima vitalità ed espansione, offrendo agli studiosi un ampio
campo di osservazione sulle sue modalità, la sua efficacia e il grado di accettazione
sociale.
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Mediazione penale
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penale è il vero banco di prova della mediazione, quello in cui la riflessione
intorno alla giustizia e al diritto si fa più difficile e profonda, ma anche
quello in cui i risultati possono configurare reali forme di giustizia
alternativa, più che di mera risoluzione conflittuale. Oltre alle ragioni
brevemente enunciate sul rapporto tra mediazione e diritto, che vedono un
bisogno pratico di riduzione di costi e tempi della giustizia, e di un carico
ormai insostenibile del contenzioso giurisdizionale, vi sono, come ha sostenuto
Claudia Mazzucato, «ragioni più profonde che attengono a una dimensione alta, per certi aspetti perduta, della
giustizia» (in Cosi-Foddai, 154), enunciando le potenzialità etiche, culturali
e sociali della mediazione. L’esito del processo, rispondendo alla logica
vincente o perdente, spesso amplifica gli effetti del conflitto, lasciando sul
campo più insoddisfazione e dubbi che consenso e pacificazione. La mediazione
passa da una logica competitiva (che risponde alla ormai celebre “concezione
sportiva della giustizia” enunciata da Pound) ad una cooperativa, che ricerca
la verità attraverso il dialogo e il riconoscimento, piuttosto che attraverso
l’esclusione operata dal processo. Questo passaggio da una logica decisionale
ad una consensuale, da un ordine negoziato ad uno imposto, è irto di difficoltà
e va affrontato con estrema cautela, al fine di salvaguardare quelle garanzie
che rappresentano la conquista degli stati di diritto. Tuttavia, come ha ben
evidenziato la letteratura in materia, ci sono degli spazi di ‘accoglienza’ nel
nostro ordinamento, che consentono di realizzare una strategia di compatibilità
tra giurisdizione e mediazione.
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Così come nell’ambito penale, commerciale, lavorativo
e culturale, anche in quello familiare non ogni conflitto che conduce alla
separazione può, o deve essere mediato. Vi sono infatti separazioni in cui il
conflitto viene risolto e autonomamente gestito dai coniugi, e separazioni che
avvengono senza rilevanti conflitti, così come vi sono casi di altissima
conflittualità che nascondono situazioni di violenza e abusi, che non possono
essere mediati, ma gestiti per altre vie. Possiamo dire quindi che la
mediazione familiare si rende utile e necessaria in quei casi di elevata
conflittualità familiare, che vedono sia i genitori, ma soprattutto i figli,
vittime di un conflitto ormai divenuto distruttivo e dannoso. L’obiettivo
comune ad ogni modello di mediazione familiare è quello di ristabilire la
comunicazione tra i coniugi, per poter raggiungere un obiettivo concreto: «la
realizzazione di un progetto di organizzazione delle relazioni in seguito alla
separazione o al divorzio, che tenga in considerazione i bisogni di ogni membro
della famiglia» (Carta Europea sulla
formazione dei mediatori familiari, in Corsi-Sirignano, 50). In questo
contesto, il compito essenziale del mediatore è quello di creare uno spazio di
comunicazione, attraverso il quale i coniugi affronteranno serenamente la trasformazione
del loro rapporto e la ridefinizione del loro ruolo genitoriale.
Nel suo ruolo il mediatore familiare racchiude
numerose competenze e lambisce molti ambiti disciplinari, senza tuttavia
identificarsi con nessuno di questi, ma mantenendo una sua peculiarità. Pur
avendo conoscenza dei diritti spettanti ai coniugi e delle norme sulla
separazione giudiziale, il mediatore non è un consulente legale; pur conoscendo
alcune dinamiche psicologiche derivanti dal sistema di relazioni che compone la
famiglia, non è uno psicologo che cura il disagio derivante dalla crisi, così
come, pur essendo in grado di ricostruire, attraverso la versione di ciascuno
dei coniugi, la storia del loro conflitto, il mediatore non è un giudice che
accerta le responsabilità di ciascuno.
Ecco i compiti del mediatore nell’esempio colorito
ed efficace citato da Stefano Castelli: «Il mediatore familiare opera in
circostanze simili a quelle del soccorritore che giunga sul luogo di una
catastrofe naturale: un’alluvione ha devastato una vallata, distruggendo i
ponti che collegavano tra loro le sponde del fiume, e lasciando la popolazione
senza case entro cui proteggersi e riscaldarsi. Sicuramente, sceso dal suo
fuoristrada, il soccorritore non si metterà ad analizzare la tipologia dei
suoli, o a tracciare un profilo idrogeologico della zona per capire come il
disastro sia potuto accadere. E non sarà carino (né prudente) da parte sua
aggirarsi fra i superstiti disperatamente in lacrime, che hanno perso tutto ciò
che costituiva il loro mondo, biasimando la loro debolezza ed esortandoli a
rimboccarsi le maniche per stendere nuovi piani regolatori, progettare nel
dettaglio, e realizzare, nuovi ponti e nuove case. In casi del genere, il
soccorritore si premurerà sensatamente di portare la popolazione al riparo da
nuove ondate di piena, aiuterà a erigere baracche provvisorie per offrire un
riparo temporaneo, avvierà cucine da campo e, se è il caso, costruirà ponti di
barche che, almeno provvisoriamente, consentano di ristabilire le comunicazioni
interrotte fra le due sponde del fiume» (139).
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