STATO CENTRALIZZATO E DELEGA DEL POTERE NELLO STATO ISLAMICO
DI ETÀ ABBASIDE: LA QUESTIONE DEL VISIRATO E DELL’EMIRATO NELLA DOTTRINA DI
AL-MAWARDI (BAGHDAD, 1058)
Per “stato islamico” si
intende uno stato, anzi più esattamente, considerata la vocazione
universalistica dell’islam, “lo stato” in cui vige la legge islamica; e la
legge islamica (la sharica) è, come la jurisprudentia dei Romani, “rerum
divinarum atque humanarum notitia”, voluta da Dio per gli uomini e
trasmessa in modo diretto nel Corano e in modo indiretto nella Sunna (Tradizione) del Profeta Muhammad.
La sharica
regola tutti gli aspetti, pubblici e privati, della vita religiosa, sociale,
politica ed economica del musulmano e, salvaguardando con perfezione
inimitabile quelli che sono definiti i “diritti di Dio” e i “diritti degli
uomini”, consente all’umanità di seguire la “retta via” nella vita terrena e di
poter sperare nel premio eterno.
Considerando i principi
profondi che lo costituiscono, lo stato islamico è definibile come una
teocrazia laica (perché nell’islam non vi è sacerdozio) ed ugualitaria in cui
“il magistero legislativo” (amr)
appartiene unicamente al Corano; il magistero giudiziario (fiqh) appartiene ad ogni credente che, attraverso la lettura
assidua e fervente del Corano, acquisisce, con la memoria delle definizioni e
l’intelligenza delle sanzioni che esso emana, il diritto di applicarle. Resta
il potere esecutivo (hukm) insieme
civile e canonico, esso non appartiene che a Dio solo... ed esso non può essere
esercitato se non attraverso un intermediario, un capo unico. La comunità dei
credenti (la ummah) presta giuramento
(bayca)
di obbedire a Dio nelle mani di questo delegato (tutore della volontà di Dio),
sprovvisto di iniziativa legislativa e di “autorità giudiziaria”, il Califfo,
cioè il Khalifa rasul-i’llahi
“vicario dell’inviato di Dio”, detto anche imam
“guida”[1].
Questa definizione ideale va
sfumata alla luce della complessità delle condizioni storiche concrete:
invasione della giurisprudenza da parte dell’curf “diritto consuetudinario”
dei popoli islamizzati; frequente tolleranza fino ad istituire una giudicatura
profana accanto a quella canonica; trasformazione del califfato, se non di
diritto, almeno di fatto in regno (mulk)
autocratico; frazionamento del potere esecutivo in principati e sultanati a
volte totalmente indipendenti, precursori delle nazionalità e degli stati
moderni.
Se di fatto, poi, il regime
califfale, formatosi sotto l’influenza delle idee bizantine e persiane[2],
fu un regime di pura autocrazia, nella coscienza musulmana rimase sempre viva,
anche dopo la sua disfatta politico-militare del XIII secolo, una forte
tensione verso la realizzazione dello Stato islamico ideale.
Utopia sempre riaffermata di
conformarsi all’esempio del Profeta e dei primi quattro califfi, definiti Rashidun “Bendiretti”. Il califfo,
dunque, come vicario del Profeta, capo di una comunità di uguali in quanto
credenti, in cui l’universalismo religioso aveva sostituito l’antico vincolo di
sangue della società tribale.
La spettacolare espansione
del VII secolo, di cui fu protagonista la dinastia degli Omayyadi
rappresentante della vecchia aristocrazia araba pagana[3],
significò tra l’altro la necessità di utilizzare principi e metodi
amministrativi bizantini e persiani, restando comunque il potere nelle mani
degli arabi. I convertiti di razza non araba, via via più numerosi specialmente
in area iranica, rivendicarono sulla base del carattere egualitario dell’islam[4]
il diritto ad avere un peso nella gestione dello stato e portarono al potere a
metà dell’VIII secolo, una nuova dinastia califfale, gli Abbasidi, della
famiglia del Profeta, che si presentava come restauratrice della fede
musulmana. Fu riaffermato il carattere speciale della carica califfale, potenza
temporale ma interamente sorretta dalla legge religiosa: fu proclamata
l’assoluta uguaglianza dei credenti, lo spostamento della capitale da Damasco a
Baghdad, fu il disegno che la tradizione persiana diveniva a pieno titolo una
componente essenziale di quella civiltà islamica che si stava costituendo.
I miei attuali studi sullo
stato islamico si concentrano al X-XI secolo: è appunto questo il tempo in cui
si va completando l’auto-definizione dell’ortodossia in rapporto ad elementi
esterni (che impongono il confronto) e ad elementi interni di dissenso
(specialmente il partito alide che ha dato vita alla shica, cioè ad un vero
partito di opposizione). In una situazione politicamente difficile, di relativa
perdita di potere a favore di un clan di capi militari, i Buwayhidi, di
osservanza sciita, si scrivono i primi trattati di diritto pubblico in cui la
questione dell’organizzazione dello stato è considerata in modo sistematico. Si
delinea la forma ideale dello stato islamico in conformità, per quanto
possibile, con la realizzazione abbaside.
L’opera concordemente
ritenuta dagli autori arabi (il suo successo fu infatti notevolissimo), nonché
dagli orientalisti, come la esemplare esposizione dello stato islamico
medioevale è gli Ahkam al-sultaniyya
(“Le norme del governo”) scritta a Baghdad nei primi decenni dell’XI secolo dal
giurista al-Mawardi[5].
Il trattato è stato ritenuto da alcuni anche autorevoli studiosi una
composizione puramente ideale, utopica, in aperta contraddizione con la crisi
politica del califfato sotto la tutela degli emiri sciiti. Studi più recenti
sul periodo buwayhide, che hanno messo in luce aspetti e dinamiche di una
società e di una cultura molto vitali, suggeriscono invece una lettura diversa
che condivido: l’opera esprimerebbe in modo eloquente la politica califfale di
quel periodo, breve purtroppo, che vide al potere personaggi di califfi
(al-Qadir e al-Qa’im) e di visìr (Ibn al-Muslima) dotati di senso politico e
lungimiranza, capaci di elaborare strategie che, tenendo conto della mutata
realtà del tempo, inglobassero i cambiamenti nella legalità dello stato[6].
Così, per la prima volta in un’opera giuridica, si affronta il problema del
frazionamento di fatto dello stato islamico unitario; si tratta di cariche
quali il visirato e l’emirato, esistenti di fatto, ma non regolamentate
prevedendone una normativa in base alla quale diventino delle “istituzioni”
dello stato.
Con queste premesse, vediamo
ora come nel testo viene affrontato il tema della delega del potere e del
decentramento dello stato, avendo presente il fatto che non sempre e non
puntualmente la realtà storica corrispose alla regolamentazione proposta negli Ahkam.
Il visirato (wizarah) può essere di delega (tafwid) o di esecuzione (tanfidh): «il primo è quello in cui l’imam
affida a colui che delega l’amministrazione degli affari secondo il suo proprio
criterio e la loro esecuzione tramite il suo sforzo personale». Questa carica
trae fondamento e legittimità dal testo coranico, in cui Dio Altissimo aveva
detto citando il Suo profeta Mosè: «Dammi un visir della mia famiglia, mio
fratello Aronne, attraverso il quale mi fortificherai e che tu associerai alla
mia opera» (Cor. XX, 30-33). «Se ciò è lecito nella profezia, a maggior ragione
lo è nell’imamato...»; la luogotenenza del visir, associato all’imam
nell’amministrazione, consente un miglior disbrigo degli affari perché l’imam
«si fa assistere da quello che lo mette in guardia anche contro se stesso, così
da tenerlo lontano dall’errore e da difenderlo contro i disordini»[7].
Le condizioni richieste per
il conferimento del visirato di delega sono le stesse richieste nell’imam
tranne la discendenza dalla tribù del Profeta; in più il visir deve avere
particolare competenza «negli affari della guerra e in quelli della tassazione».
Forse più delle norme in senso stretto, serve allo scopo di chiarire quale
fosse il ruolo del visir accanto al califfo un passo che M. riporta
attribuendolo ad al-Ma’mun: «Esigo per i miei affari un uomo che riunisce le
qualità della virtù, morigeratezza nei costumi, dirittura nei comportamenti;
che l’educazione (adab) abbia
raffinato e le esperienze abbiano fortificato; capace di gestire gli affari
(riservati) che gli sono affidati, che affronti le questioni più gravi per le
quali riceve il mandato; che l’indulgenza faccia tacere e la scienza (cilm)
renda-loquace, a cui basti lo sguardo e per il quale un’occhiata furtiva (un
cenno) sia sufficiente, che abbia l’audacia dei militari e la ponderatezza dei
saggi, l’umiltà dei sapienti e l’acume dei giuristi, che sappia riconoscere un
beneficio e dia prova di pazienza (sabr)
nelle afflizioni, che non venda la sua parte dell’oggi per gli onori del
domani, che si introduca nel cuore degli uomini con il fascino del suo eloquio
e la bellezza della sua esposizione»[8].
Segue una breve
puntualizzazione che è però illuminante a proposito di quanto si diceva prima
sullo stato islamico: «Sebbene non si tratti propriamente di condizioni
prescritte dalla religione, sono tuttavia condizioni politiche e nel contempo
condizioni religiose perché influenzano sia gli interessi generali della
nazione sia il buon mantenimento della religione (milah)»[9].
Molto spazio è poi riservato
alle modalità e alle formule per l’investitura: la sua validità «dipende
dall’enunciazione della volontà del califfo che lo nomina perché si tratta di
una funzione che necessita di un patto (caqd) e i patti non sono validi se non
attraverso la chiara espressione verbale della volontà». Ancora una volta viene
richiamato l’esempio coranico delle parole del profeta Mosè (Cor. XX, 29-32)
per affermare che non è sufficiente la sola menzione del visirato, bensì è
necessario aggiungere «la nozione di accrescimento della forza e di
associazione al suo potere».
Le condizioni del patto su
cui si fonda l’attribuzione della funzione sono due: da una parte il visìr deve
«tenere l’imam al corrente degli atti
di governo che compie, dei provvedimenti amministrativi che prende e delle sue
nomine in modo da non rendersi, agendo in modo completamente autonomo, simile
all’imam».
Questi ha d’altra parte, il
diritto-dovere di «esaminare l’operato del visìr e la sua gestione degli affari
di governo per poter dare il suo accordo a quelli che sono conformi all’equità
e rettificare quelli che la violano in quanto è all’imam che compete la direzione della nazione ed è al suo sforzo
personale (igtihad) che essa è
attribuita».
Fatte salve queste
condizioni, «tutto ciò che è validamente compiuto dall’imam, lo è anche dal visìr» tranne la designazione del successore
all’imamato, la richiesta di esenzione dell’imamato e «il diritto dell’imam di deporre chi il visìr ha
nominato, mentre il visìr non può deporre chi l’imam ha nominato». Il primato dell’imam è comunque intatto ma ciò non toglie che alcune regole
garantiscano alla delega una certa operatività: l’imam, ad esempio, non può intervenire su una decisione presa con
avvedutezza circa un giudizio da eseguire o del denaro da distribuire, mentre
gli è invece consentito di revocare un funzionario nominato da visìr e, in caso
di guerra, di cambiare il piano di battaglia[10].
Quanto poi al visirato
definito “di esecuzione” (tanfidh),
il visìr in questione si limita di fatto a far «da tramite fra l’imam e i suoi
soggetti e i suoi funzionari: trasmette i suoi ordini, applica i suoi moniti,
esegue le sue decisioni, rende note le nomine dei funzionari e la mobilitazione
delle truppe; gli rende conto degli avvenimenti importanti e del ripetersi di
avvenimenti che potrebbero diventarlo». In sostanza il suo ruolo è quello di
tenere al corrente il califfo di ciò che accade e di trasmettere quanto da lui
emana.
Le qualità richieste sono di
ordine morale, accentuando così il carattere personale e fiduciario di questo
incarico: fedeltà, franchezza, mancanza di avidità, benevolenza, ottima
memoria, sagacia, equilibrio e razionalità. Questo visirato di semplice
esecuzione può essere affidato ad un ebreo o ad un cristiano di cui il califfo
abbia fiducia ma non ad una donna «in quanto implica l’esercizio di competenze
dichiarate estranee alle donne dalle parole del Profeta: «Non può diventare
potente un popolo che affida i suoi affari ad una donna»; ed anche perché si
richiedono un’applicazione di senno e una fermezza di decisione troppo
impegnative per le donne, oltre al fatto che la vita all’esterno della casa necessaria
per l’esercizio degli affari è a loro vietata».
In sostanza, mentre la donna
è ontologicamente incapace di gestire il visirato di esecuzione e a maggior
ragione quello di delega, per ebrei e cristiani la motivazione è diversa: non è
lecito che esercitino il visirato di delega perché «diventerebbero presuntuosi
e la loro presunzione deve essere impedita»[11].
Le competenze riservate al
visìr di delega (e non al visìr di esecuzione) sono: l’esercizio del potere
giudiziario, anche nel tribunale degli abusi (mazalim); l’investitura di funzionari; l’organizzazione di
spedizioni militari; l’accesso al Tesoro pubblico (Bayt al-Mal). Da questo divario di responsabilità deriva una
rilevante differenza fra le condizioni richieste per avere accesso alle due
cariche; il visìr di delega deve essere libero, musulmano, esperto delle norme
della sharica, competente nelle questioni militari e in quelle fiscali;
il visìr di esecuzione può essere di condizione servile, non musulmano (ma
monoteista) e deve soltanto possedere le qualità morali che gli facciano
meritare la fiducia califfale. Il potere esteso connesso al visirato di delega,
il senso medesimo di questa carica, escluderebbe che possa essere esercitato da
due persone simultaneamente; nel caso di una doppia investitura le competenze
vanno o esercitate congiuntamente (riportando al califfo le questioni su cui ci
fosse divergenza) oppure vanno distinte ed esercitate separatamente, o anche
vanno esercitate interamente ma su un territorio definito per entrambi. Evidentemente
si tratta di un visirato di delega inferiore; meno problemi pone la nomina di
un visìr di delega e di uno di esecuzione, perché le due funzioni non
interferiscono.
Il visìr di delega ha una
straordinaria ampiezza di poteri, nell’emanare provvedimenti amministrativi e
nella nomina di funzionari, tale da apparire davvero l’alter ego del califfo, il cui primato è comunque nella normativa
saldamente garantito. Che poi nella storia dello stato islamico ci siano state
figure di visìr che hanno segnato il loro tempo, oscurando o dominando di fatto
colui che legittimava il loro potere, rientra nella storica dialettica tra
autorità e potere e non implicò mutamenti nella coscienza collettiva dei
musulmani a questo riguardo[12].
Dalla sua istituzione nella
seconda metà dell’VIII secolo il visirato era stato un incarico fiduciario più
che una carica istituzionale: particolarmente, dalla fine del IX secolo il
visìr occupava a fianco dell’emiro comandante in capo e del gran qadi un vero posto di primo ministro che
coordinava le attività amministrative e partecipava all’elaborazione della
politica generale, compresa quella militare. In questa epoca i visìr furono
prevalentemente scelti tra i funzionari esperti di finanze, perché il problema
finanziario cominciava ad essere la principale preoccupazione del governo
abbaside[13].
La conclusione del capitolo
sul visirato anticipa il tema, ben più delicato, dell’emirato, ossia del
governo delle province: «Quando il califfo affida la direzione delle province
ai loro governatori e ne affida il controllo a coloro che se ne sono
impadroniti, così come accade ai nostri giorni, il sovrano (malik) di ogni provincia può nominare
visìr e la posizione di questo visìr nei suoi confronti è uguale a quella del
visìr del califfo nei confronti del califfo stesso»[14].
Cosa accadeva di nuovo e di
diverso che il nostro giurista sente di dover sottolineare? Questo è
l’argomento del capitolo dedicato al governo delle province, questione delicata
alla luce di quanto stava avvenendo nell’impero. Dal IX secolo i califfi
avevano affidato il governo di regioni periferiche difficilmente gestibili (si
pensi al Maghreb e al Khorasan o alla Spagna) a funzionari delegati alla
esazione delle imposte e a capi militari (gli emiri) delegati al controllo
militare del territorio. Questi ultimi, diventati via via più potenti,
ottennero di cumulare le due cariche trasformandosi ben presto in vere dinastie
regnanti.
Esse traevano pur sempre la
loro legittimità dell’investitura califfale e riconoscevano la supremazia
abbaside devolvendo una parte, via via più esigua, delle entrate alla Tesoreria
di Baghdad e celebrando il nome del califfo abbaside durante la solenne
preghiera del venerdì. Nel corso del X secolo alla progressiva contrazione del
gettito fiscale si aggiunse l’accrescimento a Baghdad del potere arrogante dei
militari turchi della guardia califfale con il conseguente tentativo da parte
di califfi deboli di affrancarsi chiedendo sostegno ad una forza esterna: gli
emiri Buwayhidi, di osservanza sciita, provenienti dal Daylam (a sud del mar
Caspio) che si installarono nella capitale ricevendo il titolo di amir al-umara’ e controllando di fatto
le terre centrali del califfato. Alla fine del X secolo si assiste al tentativo
da parte dei califfi al-Qadir e al-Qa’im di recuperare una supremazia non solo
formale.
Di fronte alla nuova realtà
della frammentazione generalizzata dello stato unitario, della perdita di
potere a vantaggio di nuove componenti militarmente forti, fu elaborato un
progetto politico-ideologico di ampio respiro allo scopo di poter gestire il
cambiamento nell’ambito dell’ortodossia di cui la dinastia abbaside si
promuoveva come unico garante e baluardo. La perdita di potere doveva evolversi
in una strategia di delega del potere e recupero di autorità.
Teorizzatore di questo
progetto, oltre che attivamente coinvolto nella attività politica al tempo di
Ibn al-Muslima, potente visìr di al-Qa’im, al-Mawardi affronta per la prima
volta in un trattato giuridico la spinosa questione dell’emirato, il governo
delle province[15].
L’emirato è una forma
particolare di visirato assegnato ad un amir
“capo militare”, ma mentre “il visirato è un incarico da parte del califfo”,
“l’emirato è un incarico (niyaba) da
parte dei musulmani”. Esso può essere generale o speciale; l’emirato generale è
a sua volta “di capacità” (istikfa’)
o “di conquista” (istila’). L’emirato
generale di capacità e quello speciale sono conferiti dal califfo in base ad
una libera scelta (ikhtiyar); al
contrario l’emirato generale di conquista è conferito per circostanze di forza
maggiore, per stato di necessità (idtirar).
«L’emirato di capacità che è
conferito per scelta si esercita su un territorio limitato e un ambito
determinato”, cioè con competenze definite ed implica sette obblighi:
1) sovrintendere
alla messa in opera delle truppe, alla loro ripartizione territoriale e alla
fissazione delle loro paghe a meno che il califfo non l’abbia già fissata, nel
qual caso egli si limita a versarla loro;
2) sovrintendere
all’applicazione della giustizia e alla nomina dei qadi e dei giureconsulti (hukam);
3) prelevare
l’imposta fondiaria e riscuotere le elemosine legali (decime elemosinarie sadaqat), nominare i funzionari ad esse
proposti (camil) e ripartire il ricavato fra gli eventi diritto;
4) proteggere
la religione e difenderla dal sacrilegio in modo da salvaguardarla da ogni
innovazione (tagyir) o alterazione (tabdil);
5) applicare
le pene legali (hudud) in quanto
concerne il diritto di Allah e anche i diritti degli esseri umani;
6) esercitare
la funzione di imam nella preghiera
del venerdì e nelle altre preghiere comunitarie o presiedendole (lui stesso) o
nominando un vicario;
7) far
partire i pellegrini del suo territorio e quelli di passaggio di provenienza
diversa in modo da proteggerli nel compimento del loro dovere.
Se questo territorio è di
frontiera in vicinanza del nemico, esiste un ottavo obbligo, cioè fare il gihad contro i nemici di quel territorio
e ripartire i loro bottini tra i combattenti dopo averne prelevato il quinto in
favore di quelli a cui spetta» [16].
Le condizioni di capacità
richieste per l’esercizio di questo emirato sono le medesime che per il
visirato di delega perché nella sostanza le due cariche si equivalgono, avendo però
l’emirato limiti territoriali che il visirato non ha.
Le modalità della nomina
ripropongono la nozione di caqd “patto, contratto” fra le due
parti: il califfo difende, com’è suo dovere e per quanto possibile, le
disposizioni essenziali della legge rivelata; l’emiro ottiene il vantaggio
politico e morale di una legittimazione. L’investitura implica per le due parti
il riconoscimento di obblighi comuni che hanno la forza imperativa di
disposizioni di diritto pubblico.
Quanto alle questioni
finanziarie, l’amir può aumentare le
paghe dell’esercito e mettere a carico del Bayt
al-Mal questo aumento solo se è strettamente temporaneo e ben motivato. Nel
caso che egli ritenga necessario un aumento permanente, deve chiedere
l’intervento e l’autorizzazione del califfo. La destinazione delle entrate è
così regolamentata: «Nel caso in cui dopo il pagamento dell’esercito il gettito
dell’imposta fondiaria ha un’eccedenza, questa spetta al califfo che la versa
al Tesoro per essere destinata alle opere di pubblica utilità. Quando il
ricavato delle elemosine legali supera
la somma necessaria agli eventi diritto fra gli amministrati, (l’emiro) non
deve inviarlo al califfo ma lo destina agli aventi diritto più vicini della sua
circoscrizione. Quando il ricavato del kharag
non è sufficiente al pagamento del suo esercito, egli chiede al califfo
quanto manca (l’integrazione necessaria) a spese del Tesoro; e quando il
ricavato delle elemosine legali non è sufficiente agli aventi diritto della sua
circoscrizione, non può chiedere al califfo il mancante perché le paghe
dell’esercito sono fissate adeguatamente (secondo la norma) mentre i diritti
dei destinatari delle elemosine legali sono valutati sulla base di quanto si
trova»[17].
L’emirato definito
“speciale”, fermo restando il conferimento per capacità e su base di libera
scelta del califfo, «consiste nel fatto che l’emiro esercita un potere limitato
all’organizzazione dell’esercito, all’applicazione delle pene, alla protezione
del territorio, alla salvaguardia di ciò che è sacro...». Il califfo, però, non
gli delega alcun potere in campo giudiziario né in ambito fiscale. In sostanza,
quindi: «Per l’esercizio di questo emirato si devono riunire le condizioni
richieste nel visirato di esecuzione e inoltre le due condizioni di essere musulmano
e libero, perché comporta una competenza negli affari religiosi che non è
compatibile con la miscredenza (kufr)
o lo stato servile (raqq). Non sono
rilevanti né la scienza teologica (cilm) né la conoscenza del diritto (fiqh) che, se ci sono, sono in
sovrappiù»[18].
L’emirato generale e quello
speciale, per il fatto di essere stati conferiti per capacità e mediante libera
scelta, non comportano l’obbligo di informare il califfo della ordinaria
amministrazione. Se invece si verificano fatti nuovi o eccezionali gli emiri
sono tenuti a darne notizia al califfo tempestivamente e ad attuare poi le
istruzioni califfali «perché l’opinione del califfo, che ha una visione più
generale e completa delle cose, è decisiva nei casi nuovi».
La delega del governo delle province
non sembra, finora, scuotere il principio della sovranità califfale, tant’è che
mai si parla di un qualunque “obbligo” del califfo. La situazione diventa
invece più complessa quando si tratta dell’emirato di conquista conferito in
circostanze obbligate (idtirar).
Esso consiste nel fatto che
un capo (‘amir) che si impadronisce
con la forza di un paese, viene poi investito dall’emirato (su quel paese) dal
califfo che gliene affida la direzione e la guida politica (siyasah).
Così l’emiro attraverso la
sua conquista esercita in piena autonomia sia il governo sia l’amministrazione,
e il califfo, con la sua acquiescenza (idhin)
consente mediante artifici legali che un fatto diventi da legalmente
inaccettabile, accettabile, da vietato ammissibile. Questo procedimento,
sebbene nelle sue condizioni e nelle sue regole sia estraneo al modo abituale
di conferire l’investitura propriamente detta, tutela, salvaguardando in
qualche modo le prescrizioni legali (della sharica) e proteggendo le norme religiose,
«ciò che non è lecito tradire o minare, falsare o indebolire»[19].
In cambio della
legittimazione del suo potere di fatto, l’amir
in questione si impegna al rispetto di norme cogenti: in primo luogo,
riconoscere che l’imamato consiste nel «vicariato del profetismo e nella
sovranità sulle questioni spirituali», che esso è «necessario per legge» e i
suoi diritti vanno rispettati; «manifestare obbedienza alla religione così da
rimuovere l’opinione che in esso persista ostilità e cancellare il suo peccato
di insubordinazione». In sostanza l’obbedienza che l’amir deve all’imam è
un’obbedienza “religiosa” e non vi è una divisione di sovranità (quella
spirituale dell’imam e quella
temporale dell’amir) come risulta
dall’essenza stessa della Legge «che ordina di obbedire a Dio, al Suo Profeta e
a quanti detengono l’autorità»[20].
Entrambi devono impegnarsi nella tutela della religione «proclamando i diritti
di Allah quando sono riconosciuti, ricordandoli attraverso la da’wa quando sono misconosciuti» e
devono «accordarsi per l’amicizia e l’aiuto reciproco affinché i musulmani
abbiano autorità sulle altre nazioni»: hanno, quindi doveri verso Dio e la sua
religione, ma anche verso la ummah
dei credenti. Di conseguenza, sono obbligati entrambi a garantire l’applicazione
delle disposizioni legali e la corretta applicazione delle pene legali
confermandosi alla norma che «la persona di ogni credente è inviolabile se non
lede i diritti di Allah tanto da meritarne le pene»[21].
Quando questi precetti sono
rispettati, allora «diventa necessaria l’investitura del conquistatore» che,
dunque, è per l’imam un atto dovuto
«allo scopo di ottenere la sua obbedienza e di dissuaderlo da ogni scissione o
opposizione».
Ma l’attuazione del
principio della daruriyya, cioè della
necessità che fa legge nel senso in cui la necessità crea un nuovo stato
giuridico e riceve da questo fatto come un carattere di legittimità, va per il
nostro giurista ancora oltre. Nel caso in cui il conquistatore non abbia le
condizioni di capacità richieste, «è lecito al califfo annunciare pubblicamente
(izhar) la sua investitura allo scopo
di sollecitare la sua obbedienza e troncare ogni opposizione e resistenza»[22].
Proclamare l’investitura, darne la massima pubblicità è il modo di mettere il
conquistatore di fronte al fatto compiuto di un caqd sicuramente
onorevole ma che sbarra la strada a rivendicazioni di altro tipo, a meno che
non si voglia addossare la pesante responsabilità di una frattura dell’ummah o addirittura di conflitti
sanguinosi fra i musulmani.
Evidentemente, però, la
comunità deve poter essere tutelata nel suo diritto di essere governata da una
persona degna del potere che esercita (vale forse la pena di ricordare che
anche qui c’è di mezzo un caqd) ed è garantita in questo modo:
“l’efficacia giuridica (nufudh)”
delle decisioni del conquistatore «è subordinata al fatto che il califfo nomini
quale delegato (na’ib) per lui
qualcuno che abbia le condizioni di capacità previste in modo che la loro
presenza nel delegato supplirà a ciò che manca al conquistatore. Così
l’investitura va al conquistatore e l’esecuzione al delegato».
Si tratta di una procedura
quanto meno insolita e al-Mawardi, pur ammettendo che essa si discosta dai
principi giuridici (usul), la
considera “lecita” per due ragioni: «la prima è che la necessità dispensa dalle
condizioni richieste» quando non c’è la possibilità di realizzarle altrimenti;
«la seconda è che quando nelle questioni di interesse generale si teme qualche
inconveniente grave, si esigono condizioni meno rigorose di quelle normalmente
richieste nelle questioni di ordine privato»[23].
Da molte parti si è detto
che al-M. minava in modo spericolato i fondamenti di ogni legge, nel tentativo
di liberare l’imamato dai vincoli della sharica[24]. A
noi sembra, invece, che il suo equilibrismo giuridico fosse l’unica via
possibile per trovare una soluzione realistica alla scissione di fatto,
avvenuta nello stato islamico del X secolo, fra autorità e potere.
Non è utopia né dispregio
dei fondamenti stessi della sharica, ma un lucido tentativo di
“normalizzare” il cambiamento salvando, se non il potere, l’autorità califfale.
Il califfato concepito da M.
può così essere uno stato unitario, normalmente realizzato, ma anche uno stato
pluralista di tipo federale o confederale, in cui il decentramento
amministrativo, nato dalle circostanze variabili dell’espansione, lascia
sussistere la preminenza del califfo garante della religione e della legge.
[1] La citazione è da L. Massignon, La passion d’al-Hallàg, Parigi (Geuthner) 1922, 719. Sui fondamenti dell’ideologia politica nell’islam si veda: L. Gardet, La cité musulmane. Vie sociale et politique, Parigi (Vrin) 1981, 437 (particolarmente il 2° capitolo della prima parte sul concetto di “teocrazia ugualitaria” e il 2° capitolo della seconda parte sul potere esecutivo).
[2] Si veda E. Tyan, Histoire de l’organisation judiciaire en
pays d’islam, t. I , Parigi 1938, t. II, Harissa 1943 (I, 139).
[4] Sulla nozione di “ugualitarismo”
nell’islam si vedano: L. Gardet,
cit., 48-66 e B. Lewis, Il
linguaggio politico dell’islam, Bari 1991, Laterza, il cap. 3°, 74-75. Per
quanto attiene alla nozione di autorità nell’islam medievale importanti
contributi di W. Montgomery Watt, A. Dietrich, D. Sourdel, G. Makdisi, W.
Madelung, J. Van Ess, J.Cl. Vadet, J. Jomier, W. Heinrichs e J. Sourdel-Thomine
sono raccolti in: La notion d’autorité au
Moyen Age. Islam,
Byzance, Occident, Parigi (PUF) 1982, 286.
[5] Abu ‘l-Hasan cAli b. Muhammad b. Habib nato a Basra nel
364/974 è morto a Baghdad nel 450/1058. C. Brockelmann, v. al-Mawardi, in EI2, VI, 869. Per la biografia e la
lista critica delle opere si veda il recente, importante saggio di H. Mikhail, Politics and Revelation. Mawardi and after, Cambridge University Press
1995, 120. Vi
sono evidenziate le correnti ideologico-politiche del tempo e la posizione del
pensiero mawardiano in relazione a quelle, per poi passare all’influenza più o
meno diretta di M. sui suoi successori. Il “Foreword” di Bianca Maria Scarcia
Amoretti fornisce una attenta valutazione critica degli studi su M. e preziose
indicazioni sulle problematiche ancora aperte.
La
prima edizione europea risale al 1853: M.
Enger, Maverdii Constitutiones
Politicae, Bonn; La prima traduzione parziale (capitoli sull’imamato e sul
visirato) si deve a L. Ostrorog, el-Ahkam es-Soulthaniye: Traité de Droit
Public Musulman, Parigi 1906; la prima traduzione integrale in francese
risale al 1915: E. Fagnan, Les statuts gouvernamentaux, Algeri; La
più recente traduzione inglese, senza alcun corredo critico, è stata pubblicata
nel 1996: The Ordinances of Government,
translated by Wafaa H. Wahba (Center for Muslim Contribution to Civilization).
L’edizione da cui abbiamo tradotto i capitoli sul visirato e sull’emirato è
quella di M.B. Halabi, Cairo 1960,
264 (21-34) e sarà indicata nelle successive note con la sigla KAS.
[6] Sulle dinamiche politiche e religiose del tempo e sugli Ahkam di Mawardi si rimanda solo ad alcuni titoli più recenti o ritenuti più significativi: J. Kraemer, Humanism and Renaissance of Islam. The Cultural revival during the Buyid Age, Leiden 1986, 329 sugli aspetti culturali della rinascita sciita; G. Makdisi, Ibn cAqil et la résurgence de l’Islam traditionaliste au XIe siècle, Damasco 1963: specialmente il capitolo IV sul movimento hanbalita e la restaurazione sunnita, 294-383; D.P. Little, A new look at al-Ahkam al-Sultaniyya, in The Muslim World, LXIV, 1974, 1-15; A. al-Baghdadi, al-Mawardi’s contribution to Islamic Political Thought, in Islamic Culture, 58, 1984, 327-31; ed infine lo studio, per molti versi definitivo, di Henri Laoust, La pensée et l’action politique d’al-Mawardi, in Revue des Etudes Islamiques XXXVI, 1968, 11-92.
[12] L’accettazione del dato di fatto caratterizza l’attitudine, quasi calvinista, dei musulmani circa l’esercizio del potere: essendo ogni autorità appartenente a Dio, essendo Dio onnipotente e inaccessibile ed imperscrutabili le sue vie, la prima garanzia della legittimità di un potere sarà il fatto stesso della sua riuscita. Del resto, l’unico versetto coranico circa l’esercizio del potere è: «Obbedite a Dio, al suo Inviato e a quanti detengono l’autorità (‘amr)». A questa “acquiescenza” faceva riscontro un altrettanto costante spirito di fronda, particolarmente nelle città, che sfociava spesso in sedizioni popolari, alimentato dalla estrema libertà di apprezzamento dell’opinione pubblica rispetto agli atti del governo: l’esecutivo si confrontava con il potere degli culema e dei fuqaha i quali, vivendo nella città e non a corte, avevano un rapporto diretto con la popolazione. A questo proposito si vedano i saggi già citati di L. Gardet e B. Lewis.
[13] Sul visirato rimane un prezioso riferimento lo studio, non recente, di D. Sourdel, Le visirat abbaside de 749 à 936, 2 voll., Damasco 1959-60.