Università di Sassari
LA RESPUBLICA
ROMANA, MUNICIPALE-FEDERATIVA E TRIBUNIZIA: MODELLO COSTITUZIONALE ATTUALE
«On peut assurer aurait suffisamment
expliqué l’ensemble du passé obtiendra inévitablement par suite de cette seule
épreuve, la présidence mentale de l’avenir» (A. Comte,
Discours sur l’esprit positif, 1844)
Sommario: – Premessa. La
‘ipotesi di lavoro’ dei due costituzionalismi e dei loro “modelli”. – I. I modelli. – 1. Il modello
romano antico del costituzionalismo repubblicano-municipale e tribunizio. –
2. Il modello inglese feudale-moderno del
costituzionalismo parlamentare-rappresentativo con la divisione-equilibrio dei
poteri. – II. Costituzionalismi e
costituzioni. – 1. La fine dell’‘Ancien régime’ e le
“due linee di tendenza”. – 2. I due costituzionalismi.
– 3. La formazione delle costituzioni. – III. Sviluppi contemporanei e prospettive
odierne: l’esempio della Costituzione italiana ed il suo contesto.
Nel diritto costituzionale, sono presenti – seppure
non in forma e misura eguali – due costituzionalismi che ‘convivono’, non come
due metalli in una lega o due liquidi in un unico recipiente ma come due fili
di diverso colore e spessore in una stessa trama: senza fondersi l'uno
nell'altro.
Possiamo collocare nel
diciottesimo secolo, particolarmente in Francia, la formazione della scienza
delle ‘costituzioni’ e, quindi, del ‘diritto costituzionale’, con la
articolazione nei due costituzionalismi, di cui Montesquieu e Rousseau sono,
rispettivamente, i massimi teorici e propugnatori.
Tale
articolazione è abbastanza nota. E’ decisamente meno noto che il
‘costituzionalismo rousseauiano’ assume a modello il Diritto (pubblico) romano.
E’ stata, infatti, osservata la «singolare sottovalutazione del modello romano
da parte di tanti critici» che «farebbe pensare a una sorta di generalizzata
rimozione» del «Carattere paradigmatico del modello romano» per cui il libro IV
del Contrat social (che contiene, nei
capitoli 3-8, la più diretta interpretazione e riproposizione delle istituzioni
giuspubblicistiche romane) acquista «il valore di vera e propria chiave di
volta di tutta l’opera»[1]. A
questa disinformazione si connette la interpretazione, tanto corrente quanto
falsa e fuorviante, della stessa ‘articolazione’ come contrapposizione tra
‘democrazia diretta’ e ‘democrazia indiretta’[2].
In realtà,
se vogliamo comprendere i due costituzionalismi, che fanno rispettivamente capo
(assumendoli esplicitamente come “modelli”) agli ordinamenti o sistemi precedenti
(tra loro diversi anche per epoca e
contesto d’origine) feudale-moderno inglese e antico romano, dobbiamo ripartire
dalle fondamentali categorie sistematiche interne
ai rispettivi modelli. Il costituzionalismo di modello inglese è definibile, in
senso proprio, come ‘parlamentare-rappresentativo’ (per quanto riguarda i
processi di formazione della volontà) con la connessa divisione-equilibrio dei
poteri (come mezzo di difesa della libertà) mentre il costituzionalismo di
modello romano è definibile, in senso altrettanto proprio, come
‘repubblicano-municipale’ e (rispettivamente) ‘tribunizio’. Applicando ad
entrambi (come è stato per lo più fatto) le, apparentemente, più intuitive
categorie politiche greche, i due costituzionalismi possono anche essere
definiti ‘aristocratico’ l’uno e ‘democratico’ l’altro. Quest’ulteriore
definizione comporta (in quanto almeno parzialmente eterogenea) una
approssimazione concettuale, tollerabile se la si integra con la
contrapposizione (la quale viene in essere, invece, proprio nell’intreccio
delle vicende storico-sistematiche dei due costituzionalismi e dei loro
modelli) tra ‘sovranità parlamentare’ e ‘sovranità popolare’. A questi due
costituzionalismi e rispettivi modelli può ricondursi anche la alternativa
Tra lo svolgersi del
modello inglese e la sua teorizzazione-riproposizione, da parte di Montesquieu,
non vi è soluzione di continuità. Sia pure in riferimento a vicende differenti,
una simile affermazione può farsi anche a proposito della
teorizzazione-riproposizione del modello romano, da parte di Rousseau. Ciò
perché – come cercherò di illustrare brevemente – la compilazione giustinianea
(del secolo VI d.C.) non è una cesura ma lo snodo di una vera e propria
continuità nella presenza e connesse applicazioni del Diritto pubblico romano.
Questa ‘presenza’ attraversa le epoche medievale e moderna, in costante
dialettica con quel genere di ordinamento o “sistema”, individuato come “forma
gotica di governo” e la cui ‘erfolgreichste’ specie inglese sarà assunta, a
partire dal Settecento, come modello costituzionale.
Nonostante i tentativi di composizione (si pensi a
tutta la teoria/prassi otto-novecentesca del ‘partito’)[3],
anche i due costituzionalismi sono sostanzialmente alternativi e, nel diritto
costituzionale della epoca contemporanea, prevale, nella sostanza, il
costituzionalismo parlamentare rappresentativo e della divisione-equilibrio dei
poteri, mentre la presenza – pure essendo importante – del costituzionalismo
repubblicano-municipale/federativo-tribunizio resta confinata sopra tutto a
livello terminologico; ciò che dà, come risultato, il riconosciuto carattere
anfibologico del diritto costituzionale contemporaneo. Penso – tra gli altri –
ai contributi convergenti di Madame Germaine de Staël (della quale è noto il
sodalizio con Benjamin Constant) nella falsificazione contemporanea del
concetto di ‘Repubblica’ (Des
circonstances actuelles qui doivent terminer la révolution et des principes qui
doivent fonder la République en France, 1798)[4] e di
Alexis de Tocqueville nella falsificazione contemporanea del concetto di ‘democrazia’
(De la démocratie en Amérique, I-II,
1835-1840).
Però, ogni volta
che il costituzionalismo prevalente entra in crisi (forse dovrebbe dirsi: in
una fase acuta di crisi), vi è un
vero ‘risorgere’ (sebbene non sempre in forma cosciente e, quindi, sistematica)
delle soluzioni costituzionali repubblicane romane; essenzialmente: (il ruolo
costituzionale de)i municipi (cui si accompagnano spinte anti-centralistiche e
federative) ed il tribunato. In effetti, il costituzionalismo parlamentare
attraversa una crisi crescente tanto nell’istituto della rappresentanza come
mezzo di formazione-manifestazione della volontà sovrana[5],
quanto nell’istituto della divisione-equilibrio dei poteri come mezzo di tutela
dei diritti[6].
Conseguentemente, negli ultimi anni, si sta diffondendo, seppure proprio nella
forma ‘incosciente ed a-sistematica’, una forte attenzione per il ruolo
costituzionale delle città-municipi (e, quindi, per la organizzazione
federativa), mentre, già a partire dalla epoca postbellica, gli Europei (e, a
partire dalla ‘decade degli ottanta’, i Latinoamericani) hanno tentato – in
buona sostanza – di dotarsi di tribuni, cercandoli però nel ‘precedente’,
totalmente alieno e senza consistenza, dell’‘ombudsman’ svedese[7].
La presenza di tale
dualismo-contrapposizione è avvertita dalla dottrina costituzionale
contemporanea[8].
Tuttavia una comprensione più approfondita di entrambi i costituzionalismi è –
ovviamente – possibile soltanto attraverso il Diritto (pubblico) romano.
Non soltanto, infatti, uno
dei due costituzionalismi è dichiaratamente 'romano', ma entrambi sono fondati,
seppure in forme diverse[9],
sulla dottrina di origine giusromanistica della 'sovranità popolare'; dottrina
gestita in ciascuno di essi con forme e con esiti altrettanto – se non ancora
più – diversi[10].
L’avvio della riformulazione moderna della dottrina della sovranità popolare è
fatto risalire alla epoca tra il secolo XI e il secolo XIII[11],
nell’àmbito degli, allora rinascenti, studi di Diritto romano. I Glossatori,
studiosi della codificazione di Giustiniano, proprio da loro chiamata Corpus Juris Civilis, riscoprono in
questo Corpus una logica giuridica
affatto straordinaria, dalla quale appaiono in qualche modo ‘conquistati’. Il
principio-base di tale logica giuridica (il popolo è il titolare del potere ed ogni
potere proviene, quindi, continuamente dal popolo) i glossatori trovano
esplicitato nella cd. lex regia (Ulp.
D. 1.4.1)[12]
e giustificato logicamente nella formula per cui quod omnes similiter tangit, ab omnibus comprobari debet (Codex Justiniani 5.59.5.2)[13].
Ma il Corpus Juris Civilis non è
l’unico canale di trasmissione del Diritto romano: vi è anche la “rete delle
città”[14].
a. Il ‘costituzionalismo
rousseauiano’ si inserisce in un filone caratterizzato in misura determinante
dalla struttura cittadina: i Comuni medievali (e le Città moderne) sono il
precedente crono-logico della ‘république’ di Rousseau ed i Municipi antichi
sono il precedente crono-logico dei Comuni medievali (e delle Città moderne).
Se non intendiamo il sistema repubblicano-municipale antico, organizzato con lo
strumento del foedus, ci precludiamo
la comprensione del cd. ‘costituzionalismo democratico’ contemporaneo e dei
suoi precedenti medievali e moderni. 'Municipio' è la istituzione
‘autonomistica’ della città; essa appartiene alla tradizione giuridica romana,
la quale – nel quadro della koiné mediterranea – ha sviluppato in relazione
essenziale le nozioni di populus e di
urbs-civitas[15].
Sia la “democrazia” sia la
“repubblica” sono nozioni ed esperienze istituzionali radicate esclusivamente
in quella realtà indissolubilmente fisica ed istituzionale che, da Fustel de
Coulanges (La cité antique, 1864),
chiamiamo – impropriamente benché efficacemente – “città-Stato”[16].
I cittadini delle Città greche e della Città di Roma, riuniti nella agorà e nel
foro (mercato, piazza d’armi e sede dell’assemblea), si scoprono Popolo in una
forma nuova in quanto scoprono il “potere del Popolo” (Eschilo, Le supplici, vv. 604 e 698). La
esperienza e la riflessione greche sulla polis,
i politai, il ‘demos come insieme dei politai’
ed il ‘potere del demos’ producono la
‘democrazia’ e la scienza della ‘politica’; la esperienza e la riflessione
romane sull’urbs e la civitas, i cives, il ‘populus come
insieme dei cives’ ed il suo potere
producono la res publica e la scienza
dello ius publicum.
Tra la teoria e la prassi
politiche greche e la teoria e la prassi giuspubblicistiche romane vi sono
grandi elementi di continuità e, al contempo, di novità.
Il grande elemento di continuità è costituito dal
ruolo essenziale della città: originario e che mai viene meno durante tutta la
storia romana. Secondo la scienza giuridico-augurale romana, il popolo romano
viene in essere a séguito della creazione dell’urbs-civitas[17],
Cicerone indica nelle civitates la
“costituzione” medesima del popolo[18],
Gaio e Giustiniano definiscono 'tout court' il populus come universi cives[19].
Il nesso con la città determina la natura “concreta” del popolo[20].
I grandi elementi di novità (tuttavia radicati e che
vivono sempre e soltanto nel contesto fisico e istituzionale della città) sono
le nozioni di ‘repubblica’ e di ‘municipio’.
La repubblica è la ‘rivoluzionaria’ costruzione
giuridica sulla ipostasi del popolo. Gli scienziati del pensiero
politico-giuridico medievale e moderno, che pure continuamente approfondiscono
la nozione di ‘democrazia’, sono condannati a non intendere né tale pensiero né
le dottrine e le istituzioni costituzionali contemporanee, se non indagano
adeguatamente la nozione di ‘repubblica’: antica, ma, quindi, fondamentale per
tutto il corso degli evi medio e moderno. A differenza della relazione
intercorrente tra ‘demos’ e ‘polis’, il popolo romano diventa
l’elemento fondante ed eponimo del suo stesso ordinamento: la repubblica. Nella
sua ‘monografia’ sulla repubblica, Cicerone può scrivere (1.25.39) Res publica id est res populi. E’ un vero
‘salto’ logico, la cui manifestazione più esterna è l’articolarsi in due
livelli dell’analisi ‘giuspubblicistica’ (rispetto all’unico livello
dell’analisi ‘politica’): 1) il livello della distinzione fra repubblica e
non-repubblica (il regnum) e 2) il livello
della distinzione fra forme diverse di repubblica (popularis, optimatium, regalis = democrazia, aristocrazia,
monarchia). Il primo livello è quello della produzione del diritto (tramite i
“comandi generali del popolo” che sono le “leggi” [Capitone presso Gell. n.A.10.20.2]), livello che noi (da
Bodin) chiamiamo della ‘sovranità’ e che (dallo stesso Bodin) è fatto
corrispondere alla categoria romana antica di maiestas[21]. Il
secondo livello è quello dell’‘esecutivo’, che già Cicerone chiama ‘governo’.
Mentre la scienza politica greca ammette la politeia aristocratica e la
politeia monarchica alla stessa stregua della politeia democratica, la scienza
giuspubblicistica romana pone nella categoria dei ‘crimini’ l’aspirazione
all’ordinamento diverso dalla repubblica
(il regnum), all’ordinamento, cioè,
nel quale l’esercizio della sovranità (il leges
jubere) non appartiene al popolo. Per altro, i romani – una volta stabilito
che i governanti (magistratus) sono
“servi del popolo” (Cic. de or.
2.167; Paul. D. 50.16.215) – possono
criticare le città greche, ove il popolo governa assemblearmente (Cic. pro Flacco 7.16; rep. 1.26 s.), e scegliere, invece, di affidare vantaggiosamente il
governo a “pochi”, la cui obbedienza alle leggi (generalia iussa populi)
viene controllata sia alla fine del mandato, attraverso l’esame giudiziario di
eventuali responsabilità[22], sia
– soprattutto – durante il mandato,
attraverso l’istituto, necessario alla repubblica, del tribunato e del suo
specifico potere di veto (Cic. leg.
3.15 s.: altra fondamentale novità giuspubblicistica).
La repubblica consente inoltre (a differenza ancora
della esperienza politica greca) di oltrepassare la dimensione cittadina
(intesa come limite) senza rinnegare la città. La concezione societaria del
popolo (v. infra) non ne fa
dimenticare a Cicerone la natura concreta grazie al ruolo determinante dei “concilia hominum” (Cic. rep. 6.13.13): il popolo dell’ultimo
secolo a.C., su cui lo stesso Cicerone fonda il nascente Principato[23],
è, dunque, sempre e soltanto il popolo dell’agorà e del foro. La Repubblica è, per ciò,
municipale. Il municipio è la invenzione giuridica della ‘autonomia’, per la
quale più città possono convivere in una unica repubblica ed in un unico
popolo, essendo e restando ciascuna di esse, giuridicamente, una repubblica ed
un popolo (Gell. n.A. 16.19.6). La
storia della repubblica del popolo romano è scandita dalle grandi svolte del
processo di articolazione municipale, il quale ne assicura anche la continuità:
dai primi municipi dopo la guerra latina del 340 a.C.[24]
alla loro moltiplicazione dopo la guerra sociale del 90-89 a.C. (che estende la
cittadinanza romana all’Italia), alla loro sistemazione con la constitutio Antoniniana del 212 d.C.
(che estende la cittadinanza romana all’Impero e – tendenzialmente – al mondo).
Anche durante l’impero, Roma resta, in senso proprio, una ‘repubblica
municipale’, cioè: una respublica di respublicae, un populus di populi; in
definitiva: una civitas di civitates, dove mai vengono meno gli
essenziali “concilia hominum”.
La spiegazione eziologica del complesso fenomeno
giuspubblicistico (romano), nonché ‘trait d’union’ tra i suoi elementi di
continuità e di novità, è indicata ancora da Cicerone, il quale definisce sia
il popolo[25]
sia la civitas[26]
come “società”, cioè come il frutto di un contratto consensuale di società
volto alla realizzazione della communio
utilitatis. Anche la ‘società’ è una ‘invenzione’ giuridica, le cui
potenzialità appaiono conquistare i Romani. Essi interpretano giuridicamente il
complesso delle relazioni umane in chiave societaria: dalla coppia coniugale
(Cic. off. 1.17.54, prima societas in ipso coniugio … principium
urbis et quasi seminarium reipublicae) alla umanità intera (off. 3.17.69, ius gentium …societas omnium inter omnes) attraverso l’urbs e la ‘res populi’[27]. In riferimento specifico all’ordinamento
repubblicano, il ricorso allo schema del contratto di società, per il quale i
cittadini sono soci e il popolo è la società risultante, consente di fondare teoreticamente
la partecipazione diretta di ogni cittadino (quindi, sovrano [= cum potestate] e non soltanto privato)
alla formazione della volontà pubblica e dà ragione della necessità, per la
Repubblica, della virtus (e della,
quindi connessa, magistratura censoria), senza la quale non sarebbe possibile
il complesso percorso volitivo di ciascuno e di tutti i cittadini verso la singulorum utilitas (Ulp. D. 1.1.1.2
= I.J. 1.1.4) attraverso la communio
utilitatis.
La scienza giuridica romana (il ius feziale) pone all’origine e nello sviluppo della società
repubblicana lo strumento del foedus (Liv.
34.57. 7 ss., tria genera foederum …
tertium esse genus cum qui nunquam hostes fuerint ad amicitiam sociali foedere
inter se iungendum coeant)[28]. Esso è posto sia all’origine della società del populus (Cic., pro Balbo 13.3: nostrum
fundavit imperium et populi Romani nomen auxit … princeps ille creator huius
urbis Romulus foedere Sabino) e del suo dinamismo interno alla urbs-civitas primeva, tra gruppi sociali
(patrizi e plebe) che sono e restano diversi (Liv. 2.33.1; 4.6.7, foedere ictu cum plebe, da cui nasce il
tribunato; cfr. Dion. Hal. 4.89), sia all’origine e nello sviluppo
dell’articolarsi della società dei municipi: dalla societas ‘nella’ città alla societas
‘tra le’ città[29].
La civitas romana è essenzialmente
‘crescente’ (come ricorda ancora Giustiniano, citando Pomponio in D. 1.2.2.8: augescente civitate; cfr. Codex Justinianus 7.15.2 civitas amplianda). La ‘crescita’ avviene principalmente attraverso il foedus[30]: la
federazione delle città rende soci
tra loro i rispettivi popoli per fonderli quindi in un solo popolo, esso stesso
società formata da numerose città: i municipia.
L’impero romano (la “repubblica dell’impero”
[Catalano]) è – come scrive Theodor Mommsen [Römisches Staatsrecht, 3a ed., 1887] – una «rete di città», che
costituisce il lascito del mondo antico al mondo medievale e moderno.
b. Gli storici
del diritto distinguono, a questo proposito, tre aree: 1) Italia, Francia
meridionale e Spagna, dove vi è una vera e propria continuità
fisico-istituzionale tra il municipium
romano e il 'comune' medievale; 2) Inghilterra, Francia settentrionale, Paesi
Bassi, Renania, Svizzera, Germania meridionale ed Austria, dove il declino
della vita urbana ha coinciso con la fine della fase antica dell'Impero romano
ma che conservano tracce del municipio romano; 3) Germania del nord e Paesi
scandinavi, dove non vi è tradizione romana[31]-[32].
Rispetto alla
Città-Municipio antica, 'Comune' è la 'novità' terminologica medievale della
società giurata tra cittadini; 'novità', però, che conserva o riprende la
equazione giusromanistica 'popolo = società di cives' contratta per la utilitatis
communio. Non si intende la istituzione comunale medievale senza una
adeguata comprensione della istituzione municipale antica[33].
Con tutti i suoi limiti, il Comune esprime la presenza e le potenzialità
continue – direi: insopprimibili – del filone ‘costituzionale’ repubblicano
municipale. I limiti localistici della esperienza comunale sono precisamente
nella mancanza della sintesi superiore, coessenziale alla esperienza municipale
e garantita – nell’evo antico – dalla Città di Roma nonché (quindi)
dall’autorità imperiale.
Tra il fiorire della
istituzione 'comunale' e la ripresa, dopo il '1.000' (secoli XI-XIII), dello
studio del Diritto romano vi è un nesso evidente, quanto meno sul piano
cronologico. Si potrebbe, anzi, dire che l’uno e l’altro fenomeno sono le facce
di un unico fenomeno. Gli studi del Diritto romano ‘risorgono’ con e nei
Comuni, attraverso la istituzione delle 'Universitates
studiorum' ('società' anche esse, come i 'comuni') di Bologna, Salerno,
Parigi, Oxford...[34]
Nel breve testo Oculus pastoralis (che si ritiene
apparso a Bologna poco dopo il 1240 e che è stato definito «primo fra tutti i
saggi di teoria dello Stato comunale»), l’ignoto autore scrive che i comuni (communitates locorum) chiamano a
consiglio il maggior numero di persone in conformità alla regola che quod omnes tangit ab omnibus comprobari
debet[35].
La influenza determinante
delle concezioni giuspubblicistiche (repubblicane) romane in questa epoca, si
evidenzia anche nel Defensor pacis di
Marsilio da Padova (1275-1343) il quale «sottopone il governo (la pars principans) al legislativo [… cioè]
al popolo» e secondo il quale la «democrazia caratterizza non la funzione
legislativa attribuita al popolo, ma piuttosto una forma di governo …
aristotelicamente … degenerata»[36].
Il principio ‘democratico’
giusromanistico del quod omnes tangit
sarà invocato anche da Edoardo I nel 1295, a proposito della istituzione
parlamentare[37],
ma, a differenza delle corti regie (composte di pauci et specialiter seniores), nel Comune è direttamente il ‘ceto
dei molti’ ad essere chiamato a decidere, senza (bisogno del) ricorso
all’istituto della finzione della rappresentanza della volontà.
Ogni Comune è, quindi,
propriamente[38],
una “repubblica”. Anzi, nel latino medievale, la parola commune (neutro di communis)
sta propriamente per ‘repubblica’[39]. Lo
storico del diritto italiano, Mario Galizia, così lo descrive: «nell'ambito del
comune si ricostituisce l'ente politico sotto la forma di universitas territoriale, che si identifica non con un singolo
governante ma con l'intero popolo. E la vita comunale è regolata
prevalentemente da statuti emanati dall'assemblea e rivolti non ad un gruppo di
sudditi ma astrattamente alla generalità dei cittadini. All'interno
dell'associazione il problema degli organi di governo e quello della condizione
giuridica dei sudditi sono poi risolti con l'attuazione del principio democratico
e del principio legalitario. Tutta la vita comunale affonda le sue radici nel
popolo. Il magistrato è strettamente subordinato alla volontà popolare; egli
non può agire che in conformità della legge; se i suoi atti sono compiuti contra jus sono nulli. Egli è pienamente
responsabile del suo operato. Allo scopo esiste il sindacato, controllo
generale sull'operato di tutti i funzionari; allo scopo esiste l'azione
popolare; allo scopo esistono tribunali e procedimenti speciali, che
garantiscono il pieno mantenimento della legalità. Al suddito [...] è poi
riconosciuta [...] una complessiva libertas
[...] garantita dalla azione concessa al cittadino contro il funzionario che
vìoli la legge, libertà che può essere modificata soltanto con legge generale,
con quella legge che emana dall'assemblea di tutti i cittadini»[40].
Potrebbe quasi essere la pagina di un manuale di storia del Diritto romano:
notevole, in particolare, il ruolo sindacale del sindaco!
c. La possibilità di costruire
ordinamenti ampi su base comunale, attraverso lo strumento federativo, è
percepita e sperimentata immediatamente. Lo scontro militare tra il re di
Francia, Luigi VII, e la federazione comunale ‘di Poitiers’ è del 1137.
Notevole è la esperienza delle leghe guelfe in Italia. La Lega Lombarda
(fusione delle Leghe Veronese e Cremonese) è del 1167 (giuramento di Pontida) e
nel 1176 sconfigge l’imperatore Federico I (battaglia di Legnano). Nel –
conseguente – trattato di pace di Costanza (1183) è esplicitamente riconosciuto
ai Comuni il diritto di costituirsi in leghe. La II Lega Lombarda, fondata nel
1226, sconfigge nel 1248 l’imperatore Federico II. La Lega Renana del 1254
comprende tutte le Città dell’alto e medio Reno. La Lega Anseatica, iniziata nel
1241 dalle Città di Lubecca e Amburgo, fiorisce particolarmente durante tutto
il medioevo, riunendo sino a 90 Città nord- e centroeuropee, ma sopravvive sino
al 1815. La Confederazione elvetica nasce nel 1291, su esplicita base comunale.
Cola di Rienzo, che si proclama nel 1347 'Tribuno' di Roma, propone (lettera al
Comune di Firenze) la unificazione dell'Italia in termini di Confederazione di
Comuni, della quale massimo organo di governo sarebbe dovuta essere una
assemblea dei delegati delle Città. Nello stesso secolo, una federazione di
Città e pievi corse si oppone, guidata da Sambucuccio d’Alando, alla
dominazione genovese[41].
All’inizio del secolo XVI, il movimento dei ‘comuneros’ unisce una decina di
Città della Castiglia in difesa dei loro diritti contro l’imperatore Carlo V,
che le sconfigge a Villalar nel 1521 (ma Toledo resiste sino al 1522)[42].
Tra la fine del secolo XVI e l’inizio del secolo XVII, il tedesco Johannes
Althusius, romanista (Jurisprudentiae
Romanae libri duo, 1586), riprende le – intrinsecamente connesse – nozioni
giusromanistiche di 'contratto sociale' e di 'sovranità popolare' nonché
(attraverso la categoria di 'eforato': si veda Calvino [Institution chrétienne, 1536] e Juan de Mariana [De rege et de regis institutione, 1599[43]]) di limite tribunizio al potere di governo, per
costruire (Politica methodice digesta,
1614) una ipotesi di organizzazione imperiale su base federativa, la quale,
attraverso un sistema di società concentriche, porti dalla molteplicità dei
singoli cittadini alla unità dell'impero, passando attraverso le famiglie, i
municipi e le province. Althusius sviluppa la componente federativa della sua Politica nella 3a edizione (1614; 1a ed.
1603): quando è nel pieno della esperienza di ‘Syndicus’ della Città di Emden
(per oltre 30 anni, a partire dal 1604)[44].
a. Pochi anni prima di
Althusius, un altro romanista – ma 'rinnegato' o 'pentito' –, il francese
François Hotman (Anti-Tribonianus,
1567), anticipatore in Francia di alcune delle dottrine di Montesquieu sulla
'forma gotica di governo', teorico di un costituzionalismo aristocratico
feudale-parlamentare, aveva affrontato nella maniera opposta il tema municipale
(Franco-Gallia, 1573). Hotman (come
scrive il politologo italiano, Nicola Matteucci) brilla per «la avversione
verso le libertà dei municipia
romani»: «Lamentava, infatti, l'Hotman, che nel sud della Francia si fosse
conservato il diritto romano e, assieme ad esso, i municipia e i consoli, insomma, anche se indebolita, la struttura
provinciale della vita romana»[45].
La
storia dei Parlamenti viene fatta iniziare, in Inghilterra (la Mater Parliamentorum), nel XIII secolo,
quando le locali, risalenti assemblee di magnati feudali, cioè le assemblee di
ordini o 'Stati', già impegnate in un conflitto di potere con il re 'sovrano',
compiono un decisivo 'salto di qualità'.
E’ stata, da lungo tempo,
affermata la natura totalmente
a-romana della istituzione parlamentare (in generale e di quella inglese in
particolare) sulla scorta della sua ascendenza
dal ‘witenagemôt’ germanico e della sua appartenenza
alla forma di governo feudale. Va, però, ricordato un altro importante elemento
di alterità nei confronti della tradizione giuridica romana. Secondo una linea
di pensiero, tanto diffusa quanto risalente, è fondamentale la contrapposizione
tra gli uomini 'civili' (propri, per definizione, dell’urbs-civitas) ed i 'barbari' (propri, per definizione, dei boschi e
che divengono, in epoca moderna, i 'selvaggi' delle 'selve'). Orbene, trovo
estremamente significativo che François Hotman prima e, quindi, lo stesso
Montesquieu sentano il bisogno di sottolineare che l’origine del modello
costituzionale inglese è “nelle foreste” (Hotman: «les grands marais et les
forêts du nord») e “nei boschi” (Montesquieu: «ce beau gouvernement a été
trouvé dans les bois»). Tuttavia, per compiere quel ‘salto di qualità’, le
autorità e i giuristi parlamentari invocano la dottrina giusromanistica della
sovranità del popolo, che essi cercano proprio nelle Città-Comuni. La invocano
ma, insieme, la negano o, quanto meno, la eludono. Essi, infatti, attraverso
l'istituto anti-giusromanistico della
“finzione della rappresentanza” della volontà[46], vi
fondano immediatamente l'esercizio della sovranità (ovverosia, la sovranità
effettiva) del Parlamento[47].
La Magna Charta libertatum –
il primo [1215-25], grande testo della 'costituzione' parlamentare inglese –
conferisce più poteri alla ‘City’. Nel 1265, Simon de Montfort (il feudatario
ribelle) per poter opporsi al re Edoardo I, convoca a Parlamento, assieme ai
'signori', i rappresentanti del popolo cioè delle città e dei borghi (i
Comuni). Nel 1295, Edoardo I, che pure ha sconfitto Simon de Montfort,
convocando il “parlamento” che resterà nella storia con il nome significativo
di 'Model Parliament', conferma la convocazione dei rappresentanti dei ‘Comuni’
e durante il suo regno – tra il 1272 e il 1307 – si afferma la distinzione in
Camera dei Lords (o alta) e Camera dei Comuni (o bassa); distinzione che sarà
consolidata, a partire dal 1330, con la uscita del clero dalla istituzione
parlamentare.
Assai significativamente,
però, lo stesso Edoardo I è colui il quale - da una parte - richiama esplicitamente, a fondamento della
istituzione parlamentare, il principio “democratico”[48]
giusromanistico di C. 5.59.5.2[49],
già utilizzato in àmbito comunale[50], e - da altra parte - ‘perfeziona’ contestualmente questa istituzione con
il ricorso alla rappresentanza senza mandato imperativo. Sin dalla
convocazione, da parte di Edoardo I nel 1294, delle elezioni per i
rappresentanti al Parlamento (e sino al 'Ballot Act', che, nel 1872, farà
semplice menzione della elezione) i 'writs of summons' (gli ordini di convocazione)
esigono che i deputati (delle Città e dei Borghi) abbiano "full and
sufficient power"): ciò che, infatti, costituisce esattamente il
perfezionamento pratico della rappresentanza fittizia della volontà.
La indifferenza alla
volontà del popolo "concreto" degli uomini-elettori (non, quindi,
‘cittadini’ ma soltanto ‘sudditi’) è una caratteristica sostanziale e formale,
nonché originaria e costante, della istituzione parlamentare. Obiettivo
costante delle autorità e dei giuristi parlamentari (da Edoardo I a Edmund
Burke) è la degradazione delle ‘città-comuni’ a ‘circoscrizioni elettorali’,
ovverosia l’annullamento del ruolo del popolo delle Città-Comuni nei processi
di formazione della volontà, nell’ordinamento costituzionale.
b. Nell’evo moderno, la
istituzione parlamentare inglese deve solamente sviluppare le proprie teoria e
prassi medievali.
Già nel XVI secolo, sono
sostanzialmente chiari alla dottrina 'costituzionale' inglese: 1) la struttura
composita del 'Parlamento' (re, 'lords', comuni) e conseguente limitazione –
interna al Parlamento – del potere del re, 2) la natura rappresentativa (in
termini complessivi, cioè: non della sola Camera dei Comuni) del potere del
Parlamento, 3) il contenuto assoluto dello stesso potere[51].
Thomas Smith (De Republica Anglorum,
1565) scrive: «Il potere più elevato e più assoluto del regno di Inghilterra
risiede nel Parlamento: [...] Perché ogni Inglese è concepito esservi presente,
sia in persona, sia per procura [...] dal principe, che sia un re o una regina,
sino alla persona più miserabile di Inghilterra. E il consenso del Parlamento è
considerato il consenso di tutti». Un 'bill' del 1571, che permette la elezione
alla Camera dei Comuni di candidati non residenti nella circoscrizione, offre
la occasione per approfondire la questione dei rapporti tra la volontà degli
eletti e la volontà degli elettori. All’inizio del XVII secolo, Edward Coke (Institutes of the laws of England, 1628)
scrive: «L'eletto di una contea, di un borgo, rappresenta il regno tutto
intiero. Occorre osservare che, benché eletto da una contea o un quartiere
determinato, l'eletto, quando siede in Parlamento, serve per l'insieme del
regno, perché il fine della sua presenza, qui, come appare nel 'writ' della sua
elezione, è generale». Sarà l’argomento principe (v. Sieyès) per sostenere la
irrilevanza della volontà degli elettori.
Nel XVII secolo, quando in tutta Europa le
"assemblee degli stati" sono oramai da lungo sostanzialmente
scomparse[52],
in Inghilterra, la istituzione parlamentare, forte della alleanza stabilitasi
da secoli tra la nobiltà rurale, e la élite borghese (la ‘borghesia’), vince
'definitivamente' la partita con la corona, superando le due crisi degli anni
'40[53]
e degli anni '80[54],
e raggiunge la propria maturità con gli apporti teorici di Hobbes e di Locke.
La fortuna parlamentare della medievale teoria
giuscanonistica della “finzione” della rappresentanza della volontà è
alimentata in maniera qualitativamente importante da Thomas Hobbes, primo
grande teorico dello Stato moderno (Leviatano,
1651), il quale, sviluppando la teoria della rappresentanza ‘politica’, offre
al parlamento la possibilità di 'sganciare' ulteriormente il proprio potere
dalla nozione-base di sovranità del popolo concretamente articolato nelle universitates cittadine. Hobbes
introduce (anche qui attraverso la utilizzazione distorta di una idea
giusromanistica - mediata, in questo caso, da Althusius [v., infra, prgf. ‘3.c.’] - il 'contratto di società’ o ‘sociale') la
nozione-postulato dello 'Stato-persona': persona "artificiale", cui
è, però, attribuita natura divina. Dalla nozione-postulato di 'Stato-persona',
Hobbes fa discendere una serie di corollari: 1) la titolarità della sovranità
non più da parte del popolo concreto ma da parte dell’astratto popolo
'Leviatano', cioè dello 'Stato–persona'; 2) la necessità intrinseca da parte
dello Stato – in quanto persona artificiale
– della rappresentanza ad opera di persone fisiche
e, quindi, 3) il riconoscimento della sovranità a queste ultime, chiunque esse siano,
sulla base del fatto che esse
esercitino effettivamente tale
sovranità. Apporto specifico di Hobbes (per quanto implicito nella logica del
‘modello’ che egli sviluppa) è il postulato della impossibilità degli
uomini-cittadini di partecipare alla formazione della volontà pubblica, dal
momento che ciascuno di essi può essere impegnato esclusivamente nel
conseguimento del proprio interesse particolare, dal ché consegue sia la natura
intrinsecamente ed esclusivamente ‘privata’ di ogni cittadino (la cui nozione
originaria è così totalmente rovesciata) sia la necessità che qualcun altro, indipendentemente dai cittadini,
pensi e provveda (comandi) per il loro insieme; in altre parole, la necessità
di un ‘sovrano’ altro dal ‘popolo dei
cittadini’, altro sovrano che Hobbes individua – appunto – nella “persona
artificiale” del Leviatano o, meglio, nelle persone fisiche dei
“rappresentanti” di quest’ultimo. Dopo Hobbes, il Parlamento, come il Barone di
Münchhausen, potrà tenersi sospeso auto-reggendosi per i capelli. Al popolo
inglese non era stato mai permesso di esercitare
la sovranità, la cui titolarità gli
era stata riconosciuta sulla scorta dei testi giusromanistici soltanto per
fondarvi, impropriamente, il potere parlamentare. Viene quindi meno, presso la
dottrina giuridica, anche la teoria della sovranità del popolo, abbandonata a
favore delle teorie della ‘sovranità della nazione’ (quindi, della ‘sovranità
dello Stato’) e della ‘sovranità della legge’ (fino alla teorizzazione
kelseniana del diritto come ‘norma dello Stato’, cui corrisponde la equazione
sovranità dello Stato = sovranità della 'Grundnorm', 'norma fondamentale' effettivamente vigente). Il passo
logicamente successivo è (secondo la anticipazione di Kant) il venire meno
della teoria stessa della sovranità[55].
John Locke (Trattati
sul governo civile, 1680-81; pubblicati 1688) perfeziona la riflessione
parlamentare, teorizzando, quale garanzia della libertà, la consolidata prassi
della divisione e dell'equilibrio dei poteri internamente al Parlamento. La generale complementarità ‘in
negativo’ (vale a dire, quale sistema di ‘contrappesi’) del pensiero di Locke
nei confronti del pensiero di Hobbes, si manifesta ulteriormente nella dottrina
lockiana della “tolleranza” (Lettera
sulla tolleranza, 1685-86; pubblicata 1689)[56], la
quale sta alla dottrina hobbesiana dell’individualismo aggressivo – motore
dell’operare umano come la dottrina della “moderazione” (Montesquieu) starà (a
partire dal ‘700) alla dottrina del vizio-egoismo (B. Mandeville, La fable des abeilles ou Vices privés,
bénéfices publiques, 1714) – fonte del benessere delle nazioni (A. Smith, Ricchezza delle nazioni, 1776).
Ulteriore aspetto importante del pensiero di Locke è la svalutazione della
attività federativa. Il “potere di fare leghe e alleanze”, tradizionalmente
espressione della sovranità, pure ancora distinto dagli altri ‘tre poteri’,
viene presentato (nei Trattati) come una sorta di appendice del potere
esecutivo. Montesquieu «toglierà definitivamente [… al potere federativo] ogni
rilievo autonomo» trasformando quella che era una caratteristica essenziale del
genus repubblica in una specie
particolare di repubblica: la “repubblica federale”. Per altro, secondo
Montesquieu (come, poi, ancora secondo Kant) soltanto le repubbliche possono correttamente
federarsi tra loro e il «modello di buona repubblica federale» è «l’antica
Repubblica di Licia, composta dall’associazione di 23 città» (De l’esprit des lois, 1748, libro nono)[57].
Nel XVIII secolo, si sviluppano, in Francia, la opposizione e la lotta
all'assolutismo monarchico moderno, che ha raggiunto il proprio apice con Luigi
XIV (e Richelieu) è che è, al contempo, anti-parlamentare ed anti-comunale.
In tale lotta, la
contrapposizione tra parlamentarismo (o 'sistema rappresentativo' o 'governo
gotico') e autonomia municipale emerge ancora chiaramente e resta fondamentale
per tutto il corso del secolo. Sono le "due linee di tendenza"[58],
che si esprimono, da una parte, nel richiamo all'istituto feudale degli Stati
generali, a favore del quale milita il modello parlamentare inglese, e,
dall'altra parte, in una serie di tentativi di ripristinare le autonomie
municipali di origine romana.
In Francia, le "due
linee di tendenza" trovano, all'inizio del secolo, le rispettive
teorizzazioni nelle opere di Boulainvilliers e di Dubos. Come già Hotman, anche
Henri de Boulainvilliers[59]
teorizza, per la Francia, un regime aristocratico parlamentare, fondato sui
diritti 'di sangue' dei Germani-Franchi conquistatori, il cui principio
organizzatore è la razza[60].
L'Abbé Dubos[61]
è il grande contraddittore di Boulainvilliers e capostipite di quella che verrà
chiamata 'école romaniste' (Fustel de Coulanges). Anche in questo caso, la
opposizione è tra il governo feudale («chef-d’œuvre de l’esprit humain»,
secondo Boulainvilliers) e le autonomie municipali romane difese da Dubos.
In De l'esprit des lois,
Montesquieu prende partito a favore di Boulainvilliers, contro Dubos.
a. «Au début du XVIIIe siècle, le modèle d'institutions politiques de la
démocratie moderne est presque entièrement édifié en Grande-Bretagne, où il
fonctionne effectivement», scrive Duverger, autorevole esponente francese del
contemporaneo costituzionalismo "anglofilo"[62]. Nel 1716, il 'Septennial Act' dispone una cadenza
settennale per la durata e il rinnovo del mandato parlamentare e ne riafferma
la emancipazione dalle 'istruzioni'. Nello stesso periodo, il parlamentarismo
inglese, così attrezzato, 'sbarca', con la mediazione della pubblicistica
protestante francese[63], sul
continente europeo.
I principi enunciati da
Thomas Smith e da Edward Coke, da Thomas Hobbes e da John Locke trovano
conferma presso Montesquieu, il quale - come è stato osservato - descrive in forma sistematica il potere del
Parlamento inglese senza assolutamente porsi il problema del suo fondamento (è
il contributo di Hobbes). William Blackstone, seguace di Montesquieu ed autore del
trattato più noto di 'Common Law', i Commentaries
on the laws of England (1765-69), insegna la rappresentanza con assenza di
mandato imperativo e la sovranità ("onnipotenza") del Parlamento, nei
confronti del quale non è ammessa la resistenza popolare[64].
Edmund Burke, ‘conservatore’ (le sue Reflections
on the Revolution in France – 1790 – restano un 'classico' del
‘conservatorismo’ contemporaneo) e (secondo Matteucci) «ultimo dei grandi
costituzionalisti inglesi moderni [... che] fonda, sul piano teorico, il regime
parlamentare»[65],
nel noto discorso ai suoi elettori di Bristol (1774), ribadisce per l’ennesima
volta il principio della rappresentanza senza mandato imperativo.
La «théorie de la souveraineté et de la représentation nationales», la
quale «correspond [à] celle du mandat représentatif [...] aboutit ainsi à
déformer l'idée de représentation politique, et à transférer de la nation au
Parlement la véritable souveraineté» scrive con qualche imbarazzata contorsione
l’'anglofilo' Duverger. Matteucci osserva
che «per fare una legge è necessario il consenso del re, dei lords [...] e dei
Comuni. Ma se dal loro accordo, derivasse poi una violazione dei diritti dei
cittadini, è problema che non sembra [...] sfiorare il Blackstone» ed aggiunge:
«Il Parlamento inglese rimase, nella sua storia, sempre fedele, in via di
principio, alla tesi della propria onnipotenza»[66]. Più semplicemente,
secondo Journes, «La doctrine du gouvernement représentatif» svolge pienamente
il ruolo di «justification objective de l'oligarchie»[67]. Già Max Weber (il quale conosceva bene il Diritto
romano: v. la sua Römische
Agraargeschichte, 1891) aveva osservato che, nella rappresentanza senza
mandato vincolante, i rappresentanti si trasformano da “servitori” (“Diener”)
in “padroni” (“Herren”) dei rappresentati (Wirtschaft
und Gesellschaft, 1922). Weber aveva anche precisato (ibidem) che la natura dei corpi rappresentativi non è democratica
ma “aristocratica o plutocratica” (“come in Inghilterra”). Per completare il
quadro, occorre osservare che la categoria di repubblica resta sostanzialmente
estranea al costituzionalismo di modello inglese: marginale ed ininfluente in
Montesquieu[68],
è seppellita come «di poco valore sia sul piano giuridico sia sul piano
politico dai costituzionalisti odierni[69]. E’
l’‘esito inglese’, profondamente eterogenetico, di un percorso iniziato, nel
secolo XIII, a partire dalla nozione di origine giusromanistica della sovranità
popolare (v., supra, il prgf.
‘Premessa’).
b. Nel Contrat social (1761), Rousseau, in quanto si dichiara
“repubblicano” (contro il parlamentarismo “feudale” e “inglese”, che egli
definisce «la pire des souverainetés» [“il popolo inglese è servo”] benché la
miglior forma di governo “moderna”), riafferma la necessità della
partecipazione del popolo alle grandi decisioni di interesse generale. Rousseau
riafferma, cioè, titolarità ed esercizio della sovranità da parte del popolo
come essenza della Repubblica, con le
conseguenze 1) del ruolo propriamente esecutivo del governo e 2) della
istituzione di un tribunato, difensore del popolo contro il governo. Orbene:
Rousseau coglie in modo magistrale, già nel Contrat
social, il nesso popolo-città. Proprio nel capitolo
dedicato al "pacte social", egli scrive: «Cette personne publique qui
se forme ainsi par l'union de toutes les autres prenait autrefois le nom de Cité[70], et
prend maintenant celui de République
ou de corps politique, lequel est
appelé par ses membres Etat quand il
est passif, Souverain quand il est
actif, Puissance en le comparant à
ses semblables. A l'égard des associés ils prennent collectivement le nom de peuple, et s'appellent en particulier Citoyens comme participants à l'autorité
souveraine, et Sujets comme soumis
aux loix de l'Etat».
Il passaggio – nella forma
più chiara – dalla affermazione del principio alla sua concreta traduzione,
avviene con il Projet de Constitution pour la Corse[71].
La tesi, qui sostenuta da Rousseau, è che la instaurazione di un rapporto
dialettico vincolante tra le assemblee dei cittadini dei
Comuni-"Pievi" (il sovrano) ed il governo centrale (l’esecutivo) è la
soluzione costituzionale sia più democratica sia, al contempo, più favorevole
alla economia corsa[72]; la
soluzione, cioè, che consente una corretta distribuzione della popolazione e
delle attività economiche sul territorio e che scongiura il prevalere e di ceti
oligarchici e di concentrazioni urbane[73]. Nel
Projet de Constitution pour la Corse,
i tribuni sono previsti con il nome di ‘Gardes des Loix’. Le indicazioni di
soluzioni costituzionali fornite nel Projet possono essere opportunamente
integrate con quanto Rousseau scrive nella Nouvelle
Héloïse, ove egli preconizza la divisione dell'Isola in dodici
giurisdizioni «ou petits Etats confédérés ayant chacun son assemblée
souveraine» ed un governo federale dalle funzioni ridotte, con sede in un
capoluogo che non sia una vera 'capitale', perché la presenza di una 'capitale'
è causa di corruzione nello Stato. Il Projet
de Constitution pour la Corse è redatto, da Rousseau, tra il 1760 e il 1769
ma, purtroppo, pubblicato postumo soltanto nel 1861. Ciò gli ha, ovviamente,
impedito di incidere sul processo costituzionale di fine Settecento e primo
Ottocento e può – forse – concorrere a dare ragione di una certa erronea
immagine 'centralistica' del costituzionalismo democratico in generale e
giacobino in particolare[74]. A
mio avviso però, va, invece, osservato che – proprio per il mancato magistero
rousseauiano – la costante presenza dell’autonomia municipale (con il connesso
strumento federativo) in tale costituzionalismo è prova dell’intrinseco,
genetico legame tra l’una e l’altro.
a.
Nel precipitare tardo-settecentesco della crisi della monarchia assoluta, si
acutizza il confronto tra i due costituzionalismi.
Nel 1764 sono pubblicate le
Considérations sur le gouvernement ancien
et présent de la France (1737) del “repubblicano” Marquis d'Argenson (+
1757)[75]
il quale propone – in polemica con le tesi di Boulainvilliers – la
rivitalizzazione e la diffusione in tutta la Francia del regime municipale
romano e delle connesse libertà comunali come luogo di espressione del popolo.
Nel 1776, il ministro Turgot si propone di realizzare il progetto di
«municipalità autonome che – scrive ancora Matteucci – sembravano quasi
ricordare le antiche libertà delle città romane difese dal Dubos e teorizzate
dal d'Argenson; progetto che venne poi realizzato dal Necker nel 1778 nelle
généralités di Bourges e di Montauban, e in seguito riproposto dal Calonne nel
1787 all'Assemblea dei notabili e parzialmente attuato da Loménie de Brienne
nel 1788»[76].
Alla "linea di tendenza" 'municipale' si allinea, almeno
inizialmente, lo stesso Condorcet[77].
Di fronte alla resistenza
dell'Assemblea dei notabili (nel 1787) e sotto la pressione della rivolta
parlamentare (apertamente scoppiata con sommosse a Pau, Rennes, Grenoble), l'8
agosto 1788, Loménie de Brienne convoca gli Stati generali per il 1º maggio
1789. Questi, alla loro volta, si trasformano (sotto la pressione, ora, del
Terzo Stato, guidato da Emmanuel Sieyès, il grande teorico del parlamentarismo
borghese e contrario alla democrazia anche nel "più piccolo
municipio"[78])
nella 'Assemblée nationale' (27 giugno) e, quindi, nella 'Assemblée
constituante' (9 luglio). Il regolamento (24 gennaio 1798) degli Stati generali
vieta il mandato imperativo, il divieto è ribadito da Luigi XVI il 23 giugno. La prima Costituzione
francese (1791), al capo III art.2 sanziona: «La Nation, de qui seule émanent
tous les pouvoirs, ne peut les exercer que par délégation. - La Constitution
française est représentative: les représentants sont le Corps législatif et le
Roi». Il deputato Condorcet, in una
lettera ai suoi elettori (1792), potrà scrivere :«Mandatario del popolo come
sono, farò quel che credo conforme ai suoi veri interessi; il popolo mi ha
inviato non per sostenere le sue opinioni, ma per esporre le mie». Nella connessa
'Déclaration des droits' (all'art.16) è detto: «Toute société dans laquelle la
garantie des droits n'est pas assurée ni la séparation des pouvoirs déterminée,
n'a point de constitution». E’ la
affermazione del modello aristocratico (feudale-borghese) inglese del potere
parlamentare, garantito dagli equilibri interni al parlamento, in luogo del
modello democratico (giuspubblicistico) romano della sovranità del popolo,
garantita dal tribunato.
b. Non mancano, tuttavia,
Costituzioni e tentativi di costituzioni per le quali le assemblee dei deputati
del popolo non zittiscano il popolo. E' qui che va ancora cercato il 'filo'
della tradizione repubblicana-municipale (e federativa). Mi limito – anche qui
– a menzionare qualche esempio.
La Costituzione francese
del '93, detta 'giacobina', è (come ha osservato Carré De Malberg)[79]
sicuramente l'esempio più illustre di ‘costituzione democratica’. Essa è preceduta (nella
Convenzione del 1792, che pone fine alla monarchia) dalla affermazione che «à
l’établissement des municipalités [... on doit] le patriotisme qui a
constamment régné dans les campagnes; et le jour où l’Assemblée constituante
les dissémina jusque dans les plus petits hameaux de la République, fut celui
où elle assura à jamais la liberté à la France»[80]. Saint-Just aveva criticato la divisione del territorio
della Francia in Dipartimenti, proposto dal progetto girondino di Costituzione,
affermando: «in una repubblica la divisione del territorio deve risiedere nella
popolazione, non nel territorio, e la sovranità del territorio deve risiedere
nei comuni»[81].
Ed Hérault-Séchelles, nel presentare la Costituzione giacobina alla Convenzione
nazionale (il 10 giugno 1793), afferma il ruolo dei comuni, specialmente dei
piccoli comuni, per cui condanna come reazionaria l’idea della riduzione del
loro numero: «elle n’a pu naître que dans la tête des aristocrates, d’où elle
est tombée dans la tête des modérés». La Costituzione del ‘93 stabilisce: «La
souveraineté réside dans le peuple ...» ('Déclaration des droits' art.25);
«Aucune portion du peuple ne peut exercer la puissance du peuple entier; mais chaque section du souverain assemblée
doit jouir du droit d'exprimer sa volonté avec une entière liberté» (ibidem art.26); «Le peuple souverain est
l'universalité des citoyens Français» ('Acte constitutionnel' art.7); «Il nomme
immédiatement ses députés»; 10 «Il délibère sur les lois» (ibidem art.8). Inoltre (artt.33-35 della
'Déclaration des droits') legittima il «droit de résistance» e il «droit
d'insurrection [...] du peuple et de
chaque portion du peuple» in caso di "oppression". La Costituzione giacobina prevede i
'deputati-rappresentanti' riuniti in un 'Corps législatif', che si chiama
'Assemblée nationale'. Ma, il meccanismo costituzionale è tale per cui la
assemblea dei deputati non può fare a meno, sulle grandi questioni, del
concorso diretto della volontà dei cittadini. «Respectez surtout la liberté du
souverain dans les assemblées primaires» raccomanda Robespierre nel discorso
noto come “pour la Constitution”. Ciò
implica, inoltre, una drastica limitazione numerica delle "leggi":
presuppone, cioè, la realizzazione dell'odierno, agognato obiettivo della
'delegificazione'[82]. E',
attraverso Rousseau, il modello giuspubblicistico romano[83].
In Sardegna, i moti
angioiani del 1797 sono la manifestazione più acuta della contrapposizione tra
i “realisti” (sostenitori del sistema feudale che trova la propria più elevata
espressione di governo nel parlamento degli Stamenti) ed i “giacobini”, che
progettano la trasformazione della Sardegna in una “repubblica federale”. La base
organizzativa dei repubblicani-giacobini sardi sono i comuni (le “ville” di
origine romana)[84],
che avviano il processo “federale” con “atti di unione” formali (notarili)[85].
Il progetto municipale sardo, che cerca sostegno in Francia (mentre i feudatarî
si volgono all’Inghilterra), fallisce forse soltanto per una questione di
giorni. Giovanni Maria Angioy apprende a Oristano, mentre da Sassari muove con
le sue truppe comunali verso Cagliari, che non potrà più avere l’aiuto della
Francia, la quale ha concluso a Cherasco la pace con il Piemonte[86].
Anche la giacobina
Repubblica Romana del 1798 si organizza in Federazione delle Municipalità e dei
Dipartimenti[87].
a. In Europa, tra la fine
del XVIII secolo e gli inizi del XX secolo, la scienza tedesca dello
'Staatsrecht' (Kant, Hegel, Mommsen, Kelsen) porta al parlamentarismo il
sostegno della costruzione sistematica, non sostanziali innovazioni. Anzi
(complici l’abbandono ottocentesco del metodo dei modelli per il metodo
'ingenuo' della utopia e la connessa fede nella economia) i livelli della
riflessione giuspubblicistica (e, quindi, giuridica in generale) del Settecento
divengono lontani, nonostante contrari (autocelebrativi) luoghi comuni; ciò che
spiega il progressivo disinteresse per il Diritto (pubblico) romano.
Nello stesso periodo, si registra una crisi delle
città. L'affermarsi della economia 'industriale', caratterizzata dalle grandi
concentrazioni, intorno alle 'fabbriche', di ‘masse’ di uomini organizzati
secondo il principio della 'divisione del lavoro', comporta anche la
riorganizzazione delle città, che vengono riorientate su nuovi poli e
ridimensionate su nuove dimensioni. I nuovi poli sono la fabbrica, il centro
finanziario, le periferie dormitorio. Le dimensioni crescono a dismisura. Si
moltiplicano le megalopoli, che assorbono abitanti dalle altre città (a volte,
trasformate esse stesse in dormitori) e dalle campagne. Le nuove città non
hanno più niente (o molto poco) in comune con le città storiche, le «città
vere» (La Pira): esse assomigliano molto di più, con le loro 'selve' di
palazzi, ai boschi. In questo contesto si colloca la riflessione di Marx,
secondo cui la forma economica capitalistica proviene non dalla forma economica
'pre-capitalistica' antica (greco-romana) incentrata sulla società urbana ma
dalla forma pre-capitalistica medievale (germanica) incentrata
sull'individualismo degli abitanti dei boschi. Il nesso con i temi
costituzionali è evidente. Già Hotman e Montesquieu avevano posto “nei boschi”
la origine del governo parlamentare (v., supra,
prgf. I.2.a). Sieyès aveva invece già visto e teorizzato la equazione tra
divisione del lavoro nella economia e divisione del lavoro nelle istituzioni
costituzionali: alla distinzione di ruoli economici tra imprenditori e
lavoratori (a loro volta distinti per mansioni) corrisponde la distinzione di
ruoli costituzionali tra rappresentanti e rappresentati.
Comunque, il
costituzionalismo parlamentare-rappresentativo assolutamente predominante nei
secoli XIX e XX non annulla ogni manifestazione democratica e federativa del
costituzionalismo repubblicano-municipale. Nell’Ottocento, la Costituzione
della Repubblica Romana del 1849, al "Principio" 4º, dichiara che
riguarda «tutti i popoli come fratelli, rispetta ogni nazionalità propugna la
italiana» (in termini di "confederazione") e al "Principio"
5º stabilisce che «i Municipî hanno uguali diritti, la loro indipendenza non è
limitata dalle leggi d'unità generale dello Stato». Durante i lavori della
Assemblea Costituente, il ‘socialista’ Carlo Luciano Bonaparte aveva proposto –
benché senza successo – la istituzione del “Tribunato”[88].
In Francia,
P.J. Proudhon[89] propugna le
"federazioni municipali" (Du principe
fédératif et de la nécessité de reconstituer le parti de la révolution,
1863). Nel 1871, la Comune di Parigi
anticipa il movimento operaio internazionale.
b.a. La storia, relativamente breve, dello Stato italiano
può costituire un utile paradigma dello stato della questione dall’Ottocento ai
giorni nostri.
Anche presso la
Costituzione italiana, nonostante la sua pluralità di ispirazioni, è certamente
dominante il ‘costituzionalismo parlamentare’. L'art.67 della Costituzione
italiana (1º gennaio 1948) stabilisce che «Ogni membro del Parlamento
rappresenta la Nazione ed esercita le sue funzioni senza vincolo di mandato».
E’ la consacrazione delle tesi di Edmund Burke ed il giudizio impietoso di Max
Weber vale perfettamente anche per il nostro ordinamento. Costantino Mortati
afferma, infatti, nella maniera più esplicita e più autorevole (nel grande Commentario della Costituzione italiana
a cura di Giuseppe Branca [1975]), che nessuna delle condizioni necessarie a
consentire l'esercizio popolare della sovranità, pure solennemente affermato
come «principio fondamentale» all'art.1 della stessa Costituzione, si realizza
nell’“ordinamento della Repubblica”, con la conseguenza che «il regime di
poliarchia effettivamente vigente viene a realizzare una forma di sovranità del
Parlamento». Corrispondentemente, le autonomie locali sono escluse dall’iter (parlamentare) di formazione della
volontà pubblica.
La presenza del
costituzionalismo repubblicano non è confinata nella sola prima parte della
Costituzione. Vi è una spinta, tuttora inattuata, alla costruzione della
compagine statuale come «sistema delle autonomie» (v., infra, citazione della sentenza 87/1996 della Corte
costituzionale). Inoltre, secondo Giuseppe Grosso, una presenza ‘tribunizia’ si
fa strada nella Costituzione attraverso l’art.40 (riconoscimento del diritto di
sciopero)[90].
La questione del ruolo
costituzionale delle autonomie municipali e dei loro nessi federativi, in un
ordinamento realmente ‘repubblicano’ è stata ed è riproposta continuamente. Ricordo,
nella fase della formazione dello Stato italiano[91],
Vincenzo Gioberti (1801-1852)[92],
Antonio Rosmini Sorbati (1797-1855)[93],
Niccolò Tommaseo (1802-1874)[94],
Carlo Cattaneo (1801-1869[95],
discepolo di Romagnosi[96])
Giuseppe Ferrari (1811-1876, amico di Proudhon)[97],
Giuseppe Montanelli (1813-1862)[98],
Carlo Pisacane (1818-1857)[99] e –
sopra tutto – Pietro Ellero (1833-1933). Èllero[100],
filosofo del diritto e penalista, deputato e senatore del Regno di Sardegna,
critica gli “ordini rappresentativi”, di ascendenza inglese, ed esalta la
organizzazione municipale ed il tribunato, di ascendenza romana[101].
Gli scritti di Èllero (che, come ricorderà Giuseppe Brini, è sostenitore della
«rinnovellazione del diritto romano pubblico») hanno costituito, per il
pensiero giuspubblicistico italiano, un punto di riferimento alternativo
rispetto al punto di vista proposto dagli scritti di Bluntschli (e di Gneist).
Press'a poco negli stessi anni di Èllero, il "monarcomaco sardo"
Giovanni Battista Tuveri (sacerdote e uomo politico) è un assertore del ruolo
‘politico’ dei Comuni, che egli difende contro il governo piemontese[102]-[103].
La spinta municipale (e, in
misura ovviamente minore, federativa) non viene meno, nonostante la imposizione
della organizzazione politica e giuridica sabauda al resto della Penisola da
parte di Vittorio Emanuele II (con l’aiuto determinante del ministro Conte di
Cavour e delle armi di Napoleone III). Nel nostro secolo, Luigi Sturzo
(1871-1959), anche egli sacerdote ed uomo politico (fondatore del ‘Partito
popolare’ e deputato nonché a lungo pro-sindaco di Caltagirone, in Sicilia), dà
significato istituzionale alla propria scelta “popolare” [104].
Nel 1920, anche l’altro tentativo di una uscita non fascista dalla crisi
post-bellica dello Stato sabaudo, la Carta del Carnaro, si qualifica per «le
larghe funzioni attribuite ai Comuni», attraverso le quali si ricerca la
realizzazione della “democrazia diretta”[105].
Nel secondo dopoguerra, Giorgio La Pira (1904-1977), professore di Diritto
romano, costituente, deputato e sindaco di Firenze, interpreta l’ufficio di
sindaco con la rigorosa categoria giusromanistica del 'mandato' che – per ragioni
di comprensibilità – chiamerò ‘imperativo’. «mandatum non suscipere liberum
est; susceptum autem consummandum [...] est» (si è liberi di non accettare il
mandato, ma una volta accettato esso deve essere adempiuto) scrive La Pira
(citando Giustiniano, Inst. 3.26.11)
nel discorso di conclusione dell'incarico di sindaco di Firenze (1964). Merito
specifico di La Pira è l'avere ricollocato con forza il 'municipio' nella
dimensione e nella prospettiva della cooperazione sovranazionale (1955:
convocazione a Firenze del primo "Convegno dei sindaci delle capitali del
mondo")[106].
In questi ultimi anni, la crisi della cd. ‘prima
Repubblica’ ha prodotto novità ‘costituzionali’ importanti (la cui portata è
stata, a mio giudizio, sottovalutata dai costituzionalisti) proprio e soltanto
a partire dalle autonomie locali. La Legge 8 giugno 1990, n.142
"Ordinamento delle autonomie locali", al capo II, rilancia la
«autonomia statutaria» e, al capo III (artt. 6-8), prevede la attivazione di
«Istituti di partecipazione popolare», che sono il «referendum consultivo», la
«azione popolare» e il «Difensore civico». La Legge 1993 n.81 impone al
candidato Sindaco (e al candidato Presidente della Provincia) di presentarsi ai
comizi elettorali con un programma per il quale chiedere ai cittadini il
mandato ad amministrare la comunità cittadina (o la comunità provinciale). I
principi basilari del parlamentarismo feudale-moderno (rappresentanza 'sovrana'
e riduzione della garanzia delle libertà agli equilibri tra legislativo ed
esecutivo) sono negati da queste leggi che introducono, con il referendum e l’azione popolare, il
mandato imperativo e la possibilità del difensore civico eletto direttamente
dai cittadini[107].
Si noti che, secondo i costituzionalisti italiani[108],
la istituzione di un difensore civico nazionale modificherebbe la struttura
costituzionale dello Stato (non del governo), spostandone gli equilibri
dall’assetto rappresentativo a favore della sovranità popolare, soltanto se ad
elezione diretta da parte dei cittadini.
b. Instaurare la “partecipazione” nel municipio,
sebbene sia necessario, è però insufficiente e corre anzi il rischio di
produrre a medio termine disillusione e disaffezione gravi tra i cittadini, se,
nell’ordinamento costituzionale, il municipio resta solamente come ultima
agenzia esecutiva e non assume anche il ruolo di momento primo e basico del
processo di formazione della volontà pubblica.
Nel contesto regionale sardo, ricordo il programma di
“federalismo interno” annunziato dal governo regionale di inizio legislatura ed
il connesso tentativo di riformare la legge regionale 33/1975, facendo partire
in maniera determinante dai Comuni il processo programmatorio e di formazione
della legge finanziaria.
Ultimamente, questa esigenza repubblicana ha iniziato ad ottenere udienza anche nel
contesto costituzionale italiano.
Una sentenza della Corte costituzionale (n.87 del
28/3/1996) ha esplicitato la chiamata alla “programmazione concertata tra
Regione ed enti locali come metodo di raccordo dei vari livelli di governo”
contenuta nella legge 142 del 1990, la quale – alla sua volta – realizzerebbe
principi già presenti nella nostra Costituzione (artt.115 e 117).
Tra le più rilevanti conclusioni, alle quali è pervenuta
l’interrotta “Commissione bicamerale” italiana, vi è la nuova definizione degli
elementi costitutivi dell’‘ordinamento’ della Repubblica (parte seconda della
Costituzione). Nel progetto bicamerale di riforma costituzionale, il titolo
primo è: “Comune, Provincia, Regione, Stato”. Nella redazione attuale, il
titolo primo è “Il Parlamento”. Occorre aggiungere che, sempre secondo il
progetto di riforma uscito dalla ‘Bicamerale’, la seconda parte della
Costituzione muterebbe la denominazione attuale di “Ordinamento della
Repubblica” in “Ordinamento federale della Repubblica” e che lo stesso
estensore e relatore di maggioranza di questa parte del progetto, Francesco
D’Onofrio, ne indica come elemento qualificante la «centralità del Comune».
Il passaggio da un
costituzionalismo all’altro non potrebbe apparire più evidente. Purtroppo è
‘incosciente ed a-sistematico’. Esso, oltre ad essere incompiuto, rischia
gravemente di restare velleitario e contraddittorio. Debolissima è la apertura,
nel nuovo art.111 del testo della Commissione bicamerale, verso il “difensore
civico”. Inoltre, gli orientamenti partecipativi della Bicamerale sono smentiti
dalle leggi cosiddette “Bassanini” (n.59 del 15 marzo 97, n.127 del 15 maggio
98 e n.191 del 26 giugno 98) le quali scelgono la strada, opposta, del decentramento esecutivo[109]. Il
pericolo, sempre incombente, è di conservare ed anzi di esasperare, sotto
l’apparenza del cambiamento, la odierna e ‘vecchia’ contraddizione, denunziata da
Mortati, tra sovranità nominale del Popolo e sovranità effettuale del
Parlamento.
c. Se la – tentata – riforma
costituzionale italiana è – ancora – più terminologica che sostanziale e con
molti elementi equivoci, non è, però, difficile comprendere ciò che ‘bolle’
sotto ‘definizioni’ come quelle menzionate. Gli economisti e i sociologi
parlano di ‘post-fordismo’ e di ‘sviluppo sostenibile’ e vi riconnettono la
nuova stagione (opportunità e rischi) delle città e delle autonomie locali[110].
A tale proposito, propongo alcuni esempi, tratti da diverse aree del mondo.
Il primo esempio è europeo.
L’Unione Europea (Decisione della Commissione delle Comunità europee del 14
nov. 1995) ha ‘scoperto’ la inefficacia della propria politica programmatoria
centralistica (“dall’alto”), per settori della economia, ed ha deciso di
“capovolgerla, favorendo” «una nuova metodologia di sviluppo partecipativa per
la quale è necessario che l’impulso provenga dalle stesse forze locali […] e
dalle istituzioni territoriali, che meglio conoscono le peculiarità e le
potenzialità delle proprie risorse e sono in grado di individuare, secondo le
opportune priorità, le azioni da intraprendere per sostenere il proprio
sviluppo economico e sociale nel rispetto delle tradizioni locali e culturali».
Il secondo esempio è di
àmbito mediterraneo. Nel “Documento finale” del II Forum Civile Euromed, che ha
avuto luogo a Napoli, dal 12 al 14 dicembre 1997, è stata auspicata la
assunzione di un ruolo maggiore, nella cooperazione euro-mediterranea, da parte
delle autonomie: Regioni e Città. Per queste ultime si indica «Un ruolo
strategico nel predisporre servizi alle imprese e nuove opportunità di
riallocazione delle attività» e si rivendica, per tanto, il «loro passaggio da
oggetto della pianificazione a soggetto pianificatore». Si raccomanda, in fine,
«la creazione di opportunità di interscambio tra gli operatori e gli studiosi
dei fenomeni delle città mediterranee» e «la definizione di strumenti
appropriati di analisi, valutazione e controllo dei fenomeni urbani al fine di
governarne la trasformazione».
Il terzo esempio si riferisce
alla America Latina. Cito, testualmente, un lavoro di due ricercatrici messicane[111]: «El Plan Nacional de
Desarrollo 1995-2000 para Méjico hace patente la importancia de impulsar un
nuevo federalismo por medio de: 1) Impulsar la descentralización de funciones,
recursos fiscales y programas públicos; 2) Formular nuevas bases para el
sistema de contribución fiscal; 3) Vigorizar la participación municipal en la
planeación del desarrollo; 4) La participación directa de las comunidades en la
definición de los programas socialmente prioritarios». A mio giudizio, è il punto ‘3’
che illumina è dà senso all’insieme del ‘Plan’ federalista messicano.
Negli Stati Uniti d’America la
questione costituzionale al centro, oramai da tempo, del dibattito scientifico[112]
e politico è la stessa.
[1] A. Postigliola,
La città della ragione, in Storia e ragione, a cura di A.
Postigliola, Napoli 1979, 229; 235; 244 e 248.
[2] Cfr. G. Duso,
Pensare la democrazia: le aporie dei
concetti, in Paradosso,
Roma-Bari, 1998, 11: «La differenza tra democrazia diretta e democrazia
rappresentativa non fornisce categorie utili a far intendere la distinzione tra
il mondo antico e il mondo moderno, ma
porta a fraintenderla».
[3] Su cui, v. G. Leibholz,
La rappresentanza nella democrazia,
ed. or. 1929; trad. it. di S. Forti, Milano 1989, in part. 171 ss.
[4] Prima edizione a stampa
solamente nel 1906; v. M. Ganzin, Aux sources de la symbiose
République-Nation: G. de Staël et E. Vacherot, deux temps du républicanisme
libéral, en AA.VV., La symbiose de la
modernité: République – Nation, Aix-Marseille 1997.
[5]
J.R. Vanossi, El misterio de la representación
política, Buenos Aires 1972; A. Torres
del Moral, Crisis del mandato representativo
en el Estado de partidos in Revista
de Derecho político 14, Verano 1982;
G. Ferrari, Rappresentanza
istituzionale, in Enciclopedia
Giuridica, XXV, Roma 1991.
[6] F.A.v. Hayek,
Rules and Order, 1973, ora in Id., Legge,
legislazione e libertà, trad. it. di P.G. Monateri, Milano 1989.
[7] In realtà, almeno per il Defensor del Pueblo della
Costituzione spagnola del 1978 (che assume il ruolo di referente per tutta
l’America Latina), il modello è il Justicia Mayor de Aragona. Ciò non impedisce
l’uso indiscriminato, anche in Spagna e in America Latina, della denominazione
di Ombudsman. In proposito: G. Lobrano,
El defensor del pueblo, in II Seminario
internacional José Gaspar Rodríguez
de Francia – La República del Paraguay e integración en América Latina,
Asunción 1998 e relazione introduttiva al Seminario internazionale Divisione dei poteri – Defensor del Pueblo –
Difensore civico, Roma 1998.
[8] Come ricorda Massimo Luciani (Il referendum impossibile, in Quaderni costituzionali 11,3 -dic. 1991-
509) Ernst Fraenkel, in un saggio di circa quaranta anni fa, contrappone il
«sistema rappresentativo» che «non può mai rinnegare definitivamente la propria
origine storica dalla società di ceti», la cui «base ideologica è l'idea della
differenziazione del popolo» e che «dal punto di vista sociologico, si presenta
come la sovrastruttura politica di una società consapevole del proprio
carattere pluralistico», alla «forma di governo ideal-tipicamente
plebisicitaria» che «parte dal tacito presupposto di una volontà unitaria del
popolo, la quale si suppone a priori identica all'interesse generale» (E. Fraenkel, Die repräsentative und die plebiszitäre Komponente im demokratischen
Verfassungsstaat, Tübingen 1958, 6 ss.) Più drasticamente, Rescigno
definisce il fondamento «pluralistico» del «sistema rappresentativo» come
inesistenza del popolo in luogo del quale vi è «un coacervo di interessi
configgenti» sì che «parlare oggi di sovranità del popolo suona derisorio»
(G.U. Rescigno, La sovranità popolare ieri e oggi, in Principi dell'89 e Costituzione democratica,
a cura di L. Carlassare, Padova 1991, 94; cfr. M. Luciani in AA.VV., Commenti
al messaggio del Presidente della Repubblica del 26 giugno 1991 sulle riforme
..., estr. da Giurisprudenza
costituzionale, fasc. 5, 1991, 3284).
[9] Il costituzionalismo
parlamentare inglese si richiama espressamente a origini "germaniche,
non-romane"; esso cerca tuttavia nel Diritto romano gli strumenti con cui
costruire adeguatamente l'istituto parlamentare (v. infra).
[10] V., infra, prgff.
‘I.2.a’ e s.
[11] Va rammentato che,
correntemente, si considera J. Bodin,
(1530-96), Six livres de la république,
1576, il primo autore a costruire il proprio sistema scientifico sulla nozione
di sovranità, definita come potere di fare le leggi.
[12] E. Crosa, Il principio
della sovranità popolare dal Medioevo alla Rivoluzione Francese,
Milano-Torino-Roma 1915: «Sull'affermazione del Digesto che l'autorità politica
risiedeva nel popolo, da cui era stata trasferita nell'imperatore, non vi era
discussione. I legisti accolsero questa tesi ... Quale subbietto del cosiddetto
potere costituente le diverse tendenze e dottrine politiche indicarono nel
Medioevo il popolo, rifacendosi alla tradizione romanistica della lex regia ... Come formula storica, il
principio della sovranità popolare si risolse nella sintesi delle diverse
dottrine avverse all'assolutismo monarchico. Fondata sulla lex regia, ... sulla giustificazione cioè data dal Digesto
dell'autorità imperiale, ceduta o conceduta dal popolo all'Imperatore, ebbe,
sin dall'alto Medioevo uno sviluppo grandioso».
[13] Cfr. Paul. D.
4.7.1; Ulp. D. 39.3.8. Sulla
'formula' si è addensata una vasta bibliografia, v., in particolare P.S. Leicht, Un principio politico medievale, in Rendic. Acc. Lincei – Cl. Sc. Mor., 1920; quindi in Id., Scritti
di storia del diritto italiano, I, Milano 1934, 23; G. Post, A romano-canonical maxim 'quod omnes tangit', in Traditio 4, 1946, 197 ss.; A. Marongiu, L’istituto parlamentare dalle origini al 1500, Roma 1949; Id., Il
Parlamento in Italia nel Medio evo e nell’Età moderna, Milano 1962; cfr. M.
Galizia, La teoria della sovranità dal medio evo alla Rivoluzione francese,
Milano 1951, 91, che sottolinea il ruolo di Nicolò da Cusa.
[14] V., infra,
prgf. ‘I.1.b’.
[15] Cfr. K. Marx,
Formen, die der Kapitalistischen
Produktion vorhergehen, 1857-58 (pubblicato per la prima volta
integralmente come parte dei Grundrisse
der Kritik del Politischen Ökonomie, a Mosca nel 1930-41) ma v. ora anche Toynbee, Il mondo ellenico, tr. it., 1967; M. Aymard, in La
Méditerranée. L’Espace et l’histoire, a cura di F. Braudel,
1985.
[16] Cfr. J. Bouineau, Démocratie antique, démocratie Viking, in AA.VV., La pensée démocratique. Actes du Colloque
d’Aix-enProvence (21-22 septembre 1995), Aix-Marseille 1996, 14.
[17] P. Catalano, Urbis initia selon les juristes,
in Da Roma alla III Roma Initia
urbis. Fondazioni di Roma Costantinopoli Mosca, Campidoglio 21-24 aprile 1997, 1: «D’après
le ius élaboré par le collège
sacerdotal des augures publici populi Romani, la fondation de l’urbs Roma, avec l’assentiment donné par
Jupiter à Romulus (inauguratio du pomoerium), précède la constitution du populus Romanus, ainsi appelé justement
parce qu’il a un rapport certain avec cette urbs
et avec son fondateur. Le pastorum vulgus,
dont les jumeaux Romulus et Rémus étaient duces,
devient, à travers la fondations de l’urbs
(Roma), une ensemble de cives, populus (Romanus). La
précise terminologie d’Ovide (Fasti
4.806 ss. Ipse locus causas vati facit:
urbis origo / venit …) reflète bien sur la dogmatique juridique des
documents sacerdotaux: d’abord omne
pastorum vulgus sub gemino duce erat; puis le rex Romulus, indiqué par les aves, demande et obtient de Jupiter le
consentement pour la fondation de l’urbs;
ensuite augurio laeti iaciunt fudamina cives;
enfin Rémus se demande “… populus tutus
erit?”». Cfr. Verg. Aen. 5.755-8 Interea Aeneas urbem designat aratro /
sortiturque domos; hoc Ilium et haec loca Troiam esse iubet. Gaudet regno
Troianus Acestes / indicitque forum et patribus dat iura vocatis; Pomp. D. 50.16.239 ‘Urbs’ ab urbo appellata est: urbare est aratro definire. Et Varus ait urbum appellari curvaturam aratri, quod in urbe condenda
adhiberi solet;
Paul D. 50.16.2 ‘Urbis’ appellatio muris, ‘Romae’ autem in continentibus aedificiis
finitur, quod latius patet (su cui v. F. Sini,
La fondazione di Roma tra teologia e
diritto negli autori dell’epoca di Augusto (linee per una ricerca su Virgilio e
Ovidio), in Da Roma alla III Roma. Initia
urbis. Fondazioni di Roma Costantinopoli
Mosca, Campidoglio 21-24 aprile 1997.
[18] Rep. 1.41 omnis
civitas, quae est constitutio populi, omnis res publica, quae [...] populi res est. Cicerone indica inoltre nella fondazione e nella
conservazione delle città le attività in cui la virtù umane più si avvicina
alla divina (rep. 1.12 Neque enim est ulla res in qua proprius, ad
deorum virtus accedat humana, quam civitates aut condere novas aut conservare
iam conditas).
[19] Gai. 1.3 e I.J. 1.2.4 populi appellatione universi cives
significantur.
[20] Sulla concezione “concreta” del popolo nel Diritto
romano, v. P. Catalano, Populus Romanus Quirites, Torino
1971-1974, 97 ss.
[21] Sulla nozione di maiestas
anche in Althusius, v. G. Duso, Una prima esposizione del pensiero politico
di Althusius: la dottrina del patto e della costituzione del regno, in Quaderni fiorentini. Per la storia del
pensiero giuridico moderno, 1997, 65-126. Sulla mancanza di corrispondenza
greca alla nozione romana di maiestas,
v, J. Gaudemet, Maiestas populi Romani, in Synteleia Arangio-Ruiz, Napoli 1964, 699-709, ora in Id., Etudes de droit
romain II Institutions et doctrines politiques, Napoli 1979, 34 nt. 11, che
rinvia alla voce Maiestas di Kübler sulla PW 5, 1928, 542.
[22] E. Costa,
Storia del Diritto romano pubblico,
2a ed., Firenze 1920, 143.
[23] E. Lepore,
Il princeps ciceroniano e gli ideali della tarda repubblica, Napoli 1954.
[24] La osservazione che l’origine dei municipia coincide con la fine della
unica lega cui abbiano mai partecipato i Romani, la Lega Latina, e, tuttavia,
il loro nesso con l’istituto del foedus,
può aiutare a comprendere la specificità del fenomeno municipale romano.
[25] De republica 1.25.39: … populus
… non omnis hominum coetus quoquo modo congregatus, sed coetus multitudinis
iuris consensu et utilitatis communione sociatus.
[26] Rep. 1.32.49: quid
est enim civitas nisi iuris societas; cfr. 6.13.13: concilia coetusque hominum iure sociati, quae civitates appellantur.
[27] Cfr. G. Grosso,
Problemi generali del Diritto attraverso
il Diritto romano, Torino 1967, 59.
[28] Merita un approfondimento il passaggio, nelle fonti
in materia foedus, dalla (sola)
nozione di amicitia alla nozione di societas.
[29] Ancora Cic. pro
Balbo 13.31 [Romulus] docuit etiam hostibus recipiendis augeri han
civitatem oporteer, cuius auctoritate et exemplo numquam est intermissa a
maioribus nostris largitio et communicatio civitatis. Si noti che soltanto
i foedera con i populi sono, a differenza di quelli con i reges, a tempo indeterminato.
[30] Maria Pia Baccari,
Cittadini popoli e comunione nella
legislazione dei secoli IV-VI, Torino 1996, 56; Ead., Il concetto
giuridico di civitas augescens: origine e continuità, in SDHI 61, 1995, 759 ss. Baccari ricorda
(760) le coeve e convergenti considerazioni di Fernand De Visscher (il
«concetto romano di cittadinanza … ne fa un elemento di unione fra i popoli,
tutto al contrario del concetto moderno [… che] ne fa un elemento di divisione
ed anche di opposizione» [F. De Visscher,
L’espansione della civitas romana e la diffusione del diritto romano, in Conferenze romanistiche, 4, Trieste 1957, 4]) e di Hanna Arendt,
che, partendo dalla riflessione sul pensiero antico, giunge a proporre
«l’istituzione di un sistema federale di consigli dove i cittadini siano
impegnati a vari livelli nelle decisioni sugli affari della comunità politica».
[31] Si può ipotizzare che il ruolo del ceto e della
economia mercantili in opposizione ai ceti agricoli sia tanto più determinante
quanto più è debole la tradizione municipale romana. Su origini e sviluppi dei
Comuni, esiste una vasta bibliografia; una selezione recente, riguardante
soprattutto l’Italia, in L. Gatto,
L’Italia dei Comuni e delle Signorie,
Roma 1996. Tra le opere elencate da Gatto, menziono per lo specifico nesso con
il discorso qui sviluppato, G. Fasoli,
Dalla ‘Civitas’ al Comune, Bologna
1961.
[32] E' degno di nota che in
Inghilterra la pure ricca tradizione di governo locale ('Distretti urbani',
'Borghi' e 'Borghi-Contee' nelle zone urbane; 'Parrocchie', 'Distretti rurali' e
'Contee' nelle zone rurali) debba attendere il XIX secolo per conoscere
l'autogoverno, nel passato essendo la amministrazione degli enti locali
affidata a 'Giudici di pace' nominati dal Sovrano. Così P. Biscaretti Di Ruffia, Le collettività locali e la costruzione
dell'unità europea. Aspetti giuridico-amministrativi, Milano s.d. ma 1961,
15, il quale aggiunge che il suffragio universale per le elezioni
amministrative è stato introdotto soltanto nel 1848/49 ma che la partecipazione
popolare alle elezioni locali risulta assai scarsa, non superando spesso il 25
per cento degli aventi diritto.
[33] Direi che la capacità di cogliere o meno tale nesso
fa la differenza tra le varie interpretazioni scientifiche e riproposizioni
contemporane del fenomeno comunale. Penso, esemplarmente, alle posizioni di
Giuseppe Montanelli, il quale contrappone il Comune al Municipio (v., nella
stessa linea, A. Danese, Il federalismo. Cenni storici e implicazioni
politiche, Roma 1995, 120; cfr. 197) e di Giuseppe Ellero, il quale sottolinea
la continuità (v., infra, prgf. III
b).
[34] Per un approccio al tema, v. G. Arnaldi, Le origini dell’Università, Bologna 1974.
[35] P.S. Leicht, Un principio
politico medievale, cit., 23.
[36] G. Duso,
Pensare la democrazia: le aporie dei
concetti, cit., 6.
[37] V., infra,
prgf. ‘I.2.a’.
[38] E. Gojosso, Le concept de République en France (XVIe-XVIIIe siècle), Aix-Marseille 1998.
[39] G. Devoto-G.C.
Oli, Milano 1982, s.v. Comune.
[40] M. Galizia, La teoria
della sovranità dal medio evo alla Rivoluzione francese, cit., 45 s.; cfr.
G. Duso, Pensare la democrazia: le aporie dei concetti, cit., 4, osserva
correttamente (seppure con qualche imprecisione terminologica) che il «potere
del popolo» era «esercitato direttamente nell’agorà dei Greci, nei comitia dei Romani e nell’arengo degli
antichi comuni medievali» mentre è «indiretto nello Stato moderno».
[41] L. Gatto,
L’Italia nel Medioevo. Gli Italiani e le
loro città, Milano 1995, che rinvia a G. Volpe,
Corsica, Firenze 1927 e A. Solmi, La Corsica, in Archivio
Storico di Corsica, 1925.
[42] Si noti che, per analogia, sono stati chiamati
comuneros anche i ribelli della Colombia e del Paraguay, che, nel ‘700,
lottarono contro la dominazione della Spagna.
[43] Cfr. P.
Catalano, Tribunato e resistenza,
Torino 1971.
[44] Su Althusius: Th. Hüglin, Sozietaler Foederalismus. Die politische Theorie des Johannes
Althusius, Berlin-N.Y. 1991; G. Duso, Althusius e l’idea federalista, in Quaderni fiorentini 21, 1992, 611-622; Id., Una prima esposizione
del pensiero politico di Althusius: la dottrina del patto e della costituzione
del regno, cit., 65-126; G. Duso, W.
Krawietz, D. Wyduckel (hrsg.), Konsoziation
und Konsens. Grundlage des modernen
Föderalismus in der politischen Theorie, Berlin 1996.
[45] N. Matteucci, Organizzazione
del potere e libertà. Storia del costituzionalismo moderno, Torino 1988,
37.
[46] Introdotto, sembra, dal canonista Sinibaldo dei
Fieschi (quindi Papa Innocenzo IV, morto nel 1254) attraverso la nozione di persona ficta vel repraesentata (in
proposito, v. A. Rota, La persona giuridica collettiva nella
concezione di Sinibaldo dei Fieschi (Papa Innocenzo IV), in Archivio storico sardo di Sassari 3,
1977, 5 ss.; cfr. R. Feenstra, L’histoire des fondations (à propos de
quelques études recentes), in Tijdschrift
vor Rechtsgeschiedenis 24.1, 1956, il quale, pure registrando presso Pierre
de Belleperche (Petrus de Bellapertica,
‘romanista’ della ‘scuola di Orleans), il primo uso della espressione persona repraesentata, conviene con il
riferire a Sinibaldo de Fieschi (ed alla scienza giuscanonistica) la connessa
teorizzazione.
[47] H. Kelsen, Von
Wesen und Werden der Demokratie, 1920, trad. it., Bologna 1955; cfr. A. Oliet Pala, El principio político formal de identidad en el ordenamiento español,
en Revista de Derecho político 23,
Verano 1986.
[48] A. Marongiu, opp.citt.
[49] Anche esso mediato - sembra - attraverso il diritto canonico. Così
O. Stubbs, Const. Hist. of England, Oxford 1873,
trad. fr. di Ch. Petit-Dutaillis,
II, Paris 1913; critico A. MARONGIU, Il
parlamento in Italia, cit., 43 e passim.
[50] V., supra,
prgf. ‘1.b.’
[51]Trovo notevole la osservazione
che, in Inghilterra, la nozione di rappresentazione si sviluppi contemporaneamente nella politica e nel
teatro. Sul contestuale sviluppo, in Inghilterra, della rappresentanza
politica, della rappresentazione scenica (teatro di Shakespeare, 1564-1616) e
della architettura pubblica, v. C. Journes,
L'État britannique, Paris 1978, 66 s.
[52] In Francia non vi sarà più nessuna riunione degli
'Etats généraux' tra il 1614 e il 1789.
[53] Dal 1642 la 'Ciwil War' e dal 1649, con la
decapitazione di Carlo I, il Protettorato di Cromwell, sino, nel 1653, alla
Restaurazione.
[54] Nel 1688 la 'Glorious Revolution' e nel 1689 il
"Bill of Rights" che Guglielmo di Orange-Nassau deve accettare come
condizione per essere incoronato re d'Inghilterra in sostituzione di Giacomo
II.
[55] Nella ‘voce’ Repubblica del NNDI, 15, Torino 1968 – rist. 1980, gli autori, G. Maranini e S. Basile, liquidano sbrigativamente come «mito politico» la
«teoria della sovranità» (466).
[56] Locke aveva già prodotto, nel 1667, il meno noto An Essay Concerning Toleration. Degno di
riflessione il fatto che la nozione della tolleranza è fondata, da Locke, sulla
nozione propria delle tre grandi religioni monoteistiche (giudaismo,
cristianesimo ed islamismo) di ‘carità’.
[57] C. Malandrino,
Federalismo, cit., 29 ss.
[58] N. Matteucci,
Organizzazione del potere e libertà, cit.,
175 ss. e 183.
[59] + 1722, Histoire du gouvernement de la France,
1727 ed Essai sur la noblesse de la
France, 1733.
[60] Anticipando, quindi, le teorie del Conte
Joseph-Arthur de Gobineau, Saggio sulla
ineguaglianza delle razze umane, 1853-55.
[61] Histoire critique de l'établissement de la monarchie
française, 1734.
[62] M. Duverger,
Institutions politiques et droit
constitutionnel I Les grandes
systèmes politiques, Paris 1978, 46 ss. «la doctrine juridique reste
globalement anglophile» osserva C. Journes,
L'Etat britannique, Paris 1994, 15.
[63] E’, soprattutto, la pubblicistica dei protestanti
emigrati in Inghilterra a séguito della revocazione dell'Editto di Nantes nel
1685; in particolare: P.de Rapin-Thoyras,
Histoire d'Angleterre, in otto volumi
(1723-28).
[64] La variante continentale americana (presidenzialista
e federalista) del ‘costituzionalismo inglese’ non ne pone in discussione gli
elementi fondamentali, che andiamo qui ricostruendo, anche per il debito che
pure i padri costituenti nord-americani hanno nei confronti di Montesquieu. V., ora, in proposito,
R.D. Salas, Aproximación al léxico político rioplatense (1816-1826). Democracia,
República y Federación: Alcances semánticos del discurso de sus detractores,
in Jahrbuch für Geschichte von Staat, Wirtschaft
und Gesellschaft Lateinamerikas 31, 1994, 91-94. Sulla specificità del
federalismo nordamericano, rispetto a quello romano, v. V. Frankl, El jusnaturalismo tomista de fray Francisco de Vitoria come fuente del
plan de confederación hispanoamericana del dr. José Gaspar de Francia, en Revista de historia de América 37-38,
México, Ene.-Dic. de 1954.
[65] N. Matteucci, Organizzazione
del potere e libertà, cit.,
122.
[66] Op. cit. 114 e 116.
[67] C. Journes,
L'État britannique, cit., 99. Cfr. A. Laugel, La Chambre des Communes et le Gouvernement parlementaire, in Revue des deux mondes XLIIe année
seconde période tome XCIX (mai 1872) 271 ss.: «Il deputato è un rappresentante
senza essere un delegato. Egli rappresenta degli interessi, non delle persone. Sovrano il giorno
della elezione, il corpo elettorale scompare l'indomani. Ogni interesse cerca
il suo collegio elettorale e se necessario lo compra. L'elettore, come una
puleggia d'ingranaggio trasmette un potere che non produce e che appartiene
alla ricchezza, sia essa terriera, manifatturiera, commerciale o finanziaria.
Gli elettori non possono che scegliere tra uomini sostanzialmente fungibili».
Il Parlamento può essere definito «un club di uomini ricchi». Né è possibile
diminuire i costi di elezione. Anzi, più il diritto di suffragio si estende,
più i costi aumentano. Ogni candidato deve far cadere una pioggia di danaro nel
suo distretto. Le leggi contro la corruzione elettorale non fanno che
restringere il numero dei candidati potenziali, perché il rischio importa una
pre-selezione.
[68] Cfr. G. Lobrano,
Res publica res populi, Torino 1996,
194 ss.
[69] G. Maranini-S.
Basile, Repubblica, cit., 465-467. Cfr. C. Nicolet,
L’idée républicaine en France (1789-1924),
Paris 1982 o il saggio divulgativo di R. Debray,
La République expliquée à ma fille,
Ed. du Seuil 1998 (dello stesso autore, v. anche Etes-vous démocrate ou républicain?, nel Nouvel Observateur del 6/XII/1989, 115-121).
[70] [Nota di Rousseau] «Le vrai sens de ce mot
s'est presque entièrement effacé chez les modernes; la plupart prennent une
ville pour une Cité et un bourgeois pour un Citoyen. Ils ne savent pas que les
maisons font la ville mais que les Citoyens font la Cité. Cette même erreur
coûta cher autrefois aux Carthaginois».
[71] Nel Projet,
Rousseau «met en scène la fondation du corps politique, il vit sa théorie du Contrat à partir de l'image qu'il se
fait de la Corse» (J. Roussel,
"Introduction" al Projet de
Constitution pour la Corse in J.-J. Rousseau,
Oeuvres politiques, a cura di J. Roussel,
Paris 1989, 364).
[72] Si noti che Rousseau anticipa qui le più
recenti acquisizioni della scienza del governo pubblico della economia, la
quale ha scoperto la necessità, nelle "società complesse", di
includere «les destinataires des normes dans la recherche du consensus et dans
le processus de prise de decision» (H. Wilke,
Trois types de structures juridiques:
programmes conditionnels, programmes finalisés et programmes relationneels,
in L'Etat propulsif. Contribution à
l'étude des instruments d'action de l'Etat, a cura di Ch.A. Morand, Paris
1991, 85; cfr. D. Freiburghaus, Le developpemrnt des moyens de l'action
étatique, ibidem 49 ss.) Cfr., infra, al prgf. ‘III.c’ l’omologo stato dell’ultima riflessione
socio-economica e, al prgf. ‘III.a’, la invece opposta teoria
economico-costituzionale di Sieyès sulla necessità moderna della netta
divisione di compiti tra imprenditori – lavoratori e tra rappresentanti –
rappresentati.
[73] «L'administration la plus favorable à
l'agriculture» scrive Rousseau nel Projet
«est celle dont la force n'étant point réunie en quelque point n'emporte
pas l'inégale distribution du peuple, mais le laisse également dispersé sur le
territoire, telle est la démocratie. [...] Celui qui convient à la Corse est un
Gouvernement mixte où le peuple ne s'assemble que par parties et où les
dépositaires de son pouvoir sont souvent changés. [...] De cette forme bien
établie il résultera deux grands avantages. L'un, de ne confier
l'administration qu'au petit nombre, ce qui permet le choix de gens éclairés.
L'autre, de faire concourir tous les membres de l'Etat à l'autorité suprême, ce
qui mettant tout le peuple dans un niveau parfait, lui permet de s'épandre sur
toute la surface de l'Isle et de la peupler partout également. C'est ici la
maxime fondamentale de notre institution. [...] Les pièves ... sont le seul
moyen possible d'établir la démocratie dans tout un peuple qui ne peut
s'assembler à la fois dans un même lieu; elles sont aussi le seul moyen de
maintenir le pays indépendant des villes ... [de] détruire la noblesse etc.».
E' opportuno ricordare che già la
Costituzione data da Pasquale Paoli alla Corsica nel 1755 è ispirata al modello
municipale, come emerge – tra l'altro – dall'istituto del 'sindacato'.
[74] V., infra, prgf., ‘II.3.b’.
[75] Si veda R. Villers, Un ‘républicain malavisé’: le marquis René-Louis d’Argenson (1694-1757),
in Etudes en souvenir de G. Chevrier,
II, Dijon, Mémoires de la société pour l’histoire du droit des anciens pays
bourguignons, 1970-71.
[76] N. Matteucci Op.cit.
183. Per altro, il ministro del
Re, Turgot, il quale fa esprimere
le proprie idee nella Mémoire sur les
municipalités (1755; scritta, almeno formalmente, da Dupont de Nemours),
prende le distanze dal repubblicanesimo e dal romanesimo di d’Argenson, ma la
soluzione proposta resta simile a quella del Marquis. In proposito: J.-L.
Harouel, J. Barbey, E. Bournazel, J. Thibaut-Payen, Histoire des institutions de l’époque franque à la Révolution, 4e
éd., Paris 1992, 541 ss.; E. Gojosso, Le concept de République en France
(XVIe-XVIIIe siècle), Aix-Marseille 1998, 336 ss.
[77] Essai sur la constitution et les fonctions des
assemblées provinciales, 1788.
[78] «Nous n'entendons point soumettre le
Gouvernement National, ni même les plus petits Gouvernemens Municipaux au
régime Démocratique» (E. Sieyès, Observations sur le rapport du comité de constitution, concernant la
nouvelle organisation de la France, 1789, ora in Id., Œuvres, II, Genéve Paris 1989).
[79] La Loi, expression de la volonté générale, 1931.
[80] La affermazione è del
convenzionale Mignard (A. P., tomo 65, 155, citato da M. Verpeaux, Des corps administratifs et municipaux, in La Constitution du 24 juin 1793, cit.).
[81] Saint-Just, Terrore e libertà. Discorsi e
rapporti, a cura di A. Soboul, Roma
1966, 88. Semplicistica la contrapposizione tra girondini federalisti e
giacobini centralisti, tra i quali ultimi spiccherebbe proprio Saint-Just. La
componente rivoluzionaria antiparlamentare è precisamente comunale e
federativa; le parole d’ordine “Unità e fraternità” sono della lega, formata
con patto giurato da 14 Città della Franca Contea e rapidamente estesa a tutta
la Francia, che il 14 luglio del 1790 celebra sia il primo anniversario della
presa della Bastiglia sia la ‘Fête de la Fédération’. Con i problemi tattici,
propri del momento rivoluzionario, si combinano – presso i Giacobini – la
opposizione alla divisione della Francia in “dipartimenti”, “cantoni” e
“distretti” ed il sostegno alla unione delle volontà popolari, le quali restano
individuate comunque nelle “assemblee primarie” che sono comunali. Nei giudizi
su questo periodo pesa molto la confusione concettuale odierna in materia di
federalismo. In proposito, v. A. Danese,
Il federalismo. Cenni storici e
implicazioni politiche, Roma 1995, 46; G. Lobrano,
Quale Regione, in Quale sviluppo
con quale Regione. Atti del convegno regionale della CISL, Cagliari 1996,
nt. 21.
[82] Cfr. la presentazione del progetto della
Costituzione giacobina da parte di Hérault-Séchelles alla Convenzione Nazionale
(10 giugno 1793): «Nous pensons avoir rétabli sur la représentation nationale
une grande vérité, connue sans doute, mais qui désormais ne restera
probablement plus sans effet! C'est que la Constitution française ne peut pas
être exclusivement représentative, parce qu'elle n'est pas moins démocratique
que représentative. En effet, la loi n'est point le décret, comme il est facile
de le démontrer; dès lors, le député sera revêtu d'un double caractère.
Mandataire dans les lois qu'il devra proposer à la sanction du peuple, il ne sera
représentant que dans les décrets: d'où il résulte évidemment que le
gouvernement français n'est représentatif que dans toutes les choses que le
peuple ne peut pas faire lui-même. On nous dira peut-être: 'Pourquoi consulter
le peuple sur toutes les lois? Ne suffit-il pas de lui déférer les lois
constitutionnelles et attendre ses réclamations sur les autres?' Nous
répondrions: 'C'est une offense au peuple que de détailler les diverses actes
de souveraineté!' Nous répondrions encore: 'Avec les formes et les conditions
dont ce qui s'appelle proprement loi sera entouré, ne croyez pas que les
mandataires fassent un si grand nombre de lois dans une année. On se guérira
peu à peu de cette manie de législation qui écrase la Législation au lieu de la
relever; et dans tous les cas, il vaut mieux attendre et se passer même d'une
loi, que de se voir exposé à la multiplicité des mauvaises'» (Archives parlementaires LXVI, 258).
La monografia di A.De Castilho Neto, O
processo legislativo <= O poder
legislativo 5>, Brasilia 1981, inizia con la seguente affermazione, 7:
«Vivemos una época de crise legislativa ... caracterizada pela superabundancia
de leis que provoca o colapso do exercício da funçâo jurisdicional, que
compromete e ameaça a ordem e a sobrevivencia do Estado de Direito».
[83] Rousseau, in Contrat social, IV 1, afferma che «Un état ainsi [bien] gouverné a
besoin de très peu de lois», nelle Considérations
sur le gouvernement de la Pologne X raccomanda «Peu de loix, mais bien digérées,
et surtout bien observées»; in uno dei Fragments
(Sezione IV § 7), al quesito quale sia «le plus vicieux de tous les Peuples»,
risponde «sans hésiter que c'est celui qui a le plus de Loix». Cfr. Tacito Ann. 3.27.3 corruptissima res
publica plurimae leges. Di parsimonia da parte dei Romani nell'uso della lex parla F. Schulz, I principii
del Diritto romano (1934) tr. it. a cura di V. Arangio-Ruiz, Firenze 1946,
7.
[84] Cfr. G. Volpe,
Medioevo italiano, Firenze 1961,
sulla origine romana “specialmente in Sardegna” della istituzione comunale (102
s.) e A. Boscolo, Il Feudalesimo in Sardegna, Cagliari
1967, sulla introduzione in Sardegna del feudalesimo contro «l’ordinamento
precedente, basato su istituzioni di tipo comunale» (1).
[85] V.L. Berlinguer,
Alcuni documenti sul moto antifeudale
sardo nel 1795-96, estr. da AA.VV.,
La Sardegna nel Risorgimento, Sassari 1962.
[86] In proposito v. G. Manno,
Storia moderna della Sardegna,
Firenze 1858, in particolare 374 ss.; A. Boi,
Giommaria Angioi alla luce di nuovi documenti,
Sassari 1925, in particolare 14 ss.; A. Mattone-P.
Sanna, Giovanni Maria Angioy e un
progetto sulla storia del ‘Diritto Patrio’ del Regno di Sardegna (1802), in
AA.VV., Studi e ricerche in onore di
Girolamo Soggiu, II, Cagliari 1994, 231 ss.
[87] M. Battaglini,
Le istituzioni di Roma giacobina
(1798-1799), 1971.
[88] M. Ferri,
Costituente e Costituzione nella
Repubblica romana del 1949, in Diritto
e Società 1, 1989; G. Meloni, Modello istituzionale romano e Repubblica
romana del 1849, estr. da Quaderni di
Sandalion, 6, senza data.
[89] Du principe fédératif et de la nécessité de reconstituer
le parti de la Révolution, 1863.
[90] G. Grosso,
Il diritto di sciopero e l'intercessio
dei tribuni della plebe, in RISG
6, 1952/53.
[91] Su cui v. A. Monti,
L’idea federalistica nel Risorgimento
italiano. Saggio storico, Bari 1922; ristampato
(significativamente!) Milano 1945; A. Albertoni,
Centralisme et fédéralisme dans le
Risorgimento italien, in AA.VV., Actes
du Colloque de Toulouse, Aix-Marseille 1992; R. Ghirindelli, L’idée
démocratique en Italie au XIXème siècle dans le courant fédéraliste, en
AA.VV., La pensée démocratique,
Aix-Marseille 1996, 211.
[92] Del primato
morale e civile degli Italiani, Bruxelles 1843; Del rinnovamento civile d’Italia, Paris 1851. Propone una
confederazione degli Stati italiani sotto la guida del Pontefice e, quindi,
dopo la esplicita rinunzia di questi (1849) sotto la protezione dei Savoia.
[93] La costituzione
secondo la giustizia sociale con un’appendice sull’Unità d’Italia, 1848,
ove prevede la istituzione di un "Tribunale politico" garante delle
norme costituzionali e dei diritti sociali (modello statunitense? Così M.D’Addio, Storia delle dottrine politiche, II, Genova 1992, 266 ss.).
[94] Dell’Italia,
5 voll., Paris 1835. Insieme a Daniele Manin (1804-1857) alla testa del governo
provvisorio della Repubblica di Venezia (1848-1849). Considera le «libertà
municipali» momento centrale della costruzione dello Stato unitario italiano.
Concepisce la democrazia, in forte assonanza con la dottrina di Philippe Buchez
(1796-1865) precursore del cattolicesimo sociale, come forma di vita associata,
fondata sulla morale cristiana e sulla autonomia delle municipalità.
[95] Ràdica nella storia municipale italiana: la coscienza
civile, il senso del diritto, la dignità umana nonché la necessità di una
federazione (v., in part., il saggio: La
città considerata come principio ideale delle istorie italiane). Gli è
chiara la contrapposizione (che sembra sfuggire al legislatore italiano [v. le
leggi cosiddette “Bassanini”]) tra decentramento e partecipazione. Progetta,
come soluzione democratica, in alternativa al governo sabaudo, la
organizzazione federale su base municipale: «l'unità principesca e ministeriale
ripugna alla natura italica, indelebilmente municipale e federale» (C. Cattaneo, Stati Uniti d'Italia, antologia a cura di N. Bobbio, Torino 1945,
106; cfr. Antologia degli scritti
politici, Bologna 1978).
[96] Giandomenico Romagnosi, nelle sue Istituzioni di civile Filosofia, ossia di
Giurisprudenza teoria (Parte I – Libro VII – cap. 4 in Id., Opere riord. e ill. da A.De Giorgi
vol. III parte II, Milano, 1845, 1602) propone un ordinamento nazionale, di
evidente stampo romano, le cui parti sono «Consolato, Comizj, Consulta di
Stato, Senato, Avvogaria», dove la 'Avvogaria' sta per 'tribunato' (e la
Consulta di Stato per "Pontificato dottrinale"). Cfr. G. Lobrano, Il potere dei tribuni della plebe, Milano 1982, 35 s.
[97] La federazione
repubblicana, Torino 1851. Uno dei pensatori italiani più celebri in
Francia, fonda il suo pensiero sullo studio della tradizione storica municipale
italiana.
[98] Introduzione ad
alcuni appunti storici sulla rivoluzione d’Italia, 1851. Del gran Ducato di
Toscana, assume a modello storico le abitudini d’autoregolamentazione dal basso
della vita comunale e passa dalla proposta della soluzione federale (una volta
venuta meno questa possibilità) alla difesa della concezione dello Stato come
complesso di autonomie.
[99] Il quinto principio “eterno e incontestabile”, da lui
enunciato in Id., La rivoluzione, 1860, recita «Come ogni
Italiano non può esser che libero e indipendente, del pari dovrà esserlo ogni
Comune. Come è assurda la gerarchia fra gli individui, lo è fra i Comuni. Ogni
Comune non può essere che una libera associazione d’individui e la Nazione una
libera associazione di Comuni»; cfr. C. Malandrino,
Federalismo, cit., 68.
[100] La riforma
civile, 1879; La tirannide borghese, 1879.
[101] Ellero propone una interpretazione delle pubbliche
istituzioni e della loro vicenda storica in cui è dominante la antitesi (o
"antagonismo") tra "latino" e "teutonico",
ovverosia tra "romanesimo" e "germanesimo" «tra
l'individualismo germanico e l'universalismo romano». Sono 'romani' o 'latini',
per Ellero, la giurisprudenza romana, la idea stessa e la organizzazione
imperiale, nonché il Papato e, in particolar modo, la organizzazione municipale
(cui attribuisce il merito di aver avviato la "riscossa latina") e,
quindi, la Rivoluzione francese, per cui la Francia è «oggi unico [...]
campione delle genti latine». Sono invece 'germanici' il feudalesimo e la –
connessa – concezione patrimoniale dello Stato. Secondo Ellero, il
"germanesimo" è l'ambiente naturale sia dell'«egoismo borghese
esaltato al grado di principio» sia – richiamandosi, si direbbe, al marxismo –
di «utopie sociali» tuttavia «impotenti a fondare [...] que' gloriosi
stabilimenti, che in Roma e in Firenze le plebi nostrane in sì degna guisa
fondarono». Il riferimento è al tribunato «il più stupendo istituto umano».
Inoltre, Ellero è – secondo il suo stile – ferocemente critico della «forma
mista di reggimento preferita dalla [‘anglomane’] borghesia», ovvero la
«monarchia temperata dai così detti ordini
rappresentativi», la quale egli non vuole confusa con la «forma mista» preferita dagli Antichi «sino a
Machiavelli, Guicciardini e Giannotti», che consisteva invece nel «felice
conserto del consolato, del senato e del tribunato»: «nella elezione de'
principi e nelle deliberazioni delle leggi ebbe sempre parte il popolo, almeno
ne' comizi curiati: poiché, secondo la ragione italica, sino da' più vetusti
tempi non è legittimo altro impero, se non questo».
[102] Per il quale governo, secondo
una «teoria [...] sostenuta da non pochi pubblicisti inglesi [...] Il vero
proprietario [dell'isola] era il solo Stato, cioè il Principe; e i suoi sudditi
non erano che usufruttuari» (G.B. Tuveri,
I beni ademprivili, 1875, ora in Id., Tutte
le opere 4 Il Governo e i Comuni. La
questione barracellare a cura di L.Del Piano e G. Contu, Sassari 1994,
169). Lorenzo Del Piano osserva, nella propria nota introduttiva ("I
Comuni e la questione sarda"): «Nella vastissima produzione pubblicistica
di Giovanni Battista Tuveri [repubblicano e federalista] un posto di rilievo
occupano gli scritti dedicati ai problemi che, direttamente o indirettamente,
[...] interessano il Comune, e cioè l'istituzione più vicina ai cittadini,
attraverso la quale anche a chi non fosse provvisto di una vasta cultura
politica e amministrativa era possibile misurare e giudicare l'efficienza delle
istituzioni in generale» (cit., 7).
[103] Tuveri sostiene le ragioni e il
ruolo dei Comuni anche contro «le idee in voga, [per le quali] l'intelligenza
degli interessi cresce a misura della distanza degli interessati» onde «I
Consigli comunali ne sanno più dei loro mandanti; i Consigli provinciali più
dei Comuni; il Governo più di tutti». Secondo Tuveri, invece, «Il semplice buon
senso detta, che le popolazioni sono in grado di conoscere quel che loro convenga,
più che altri». In questa logica, Tuveri (evidenziando la propria adesione alla
sistematica rousseauiana) precisa: «la rappresentanza comunale ora è
dipendente, ora indipendente più del dovere. Ma al vero Comune, cioè al popolo
rappresentato, non è chi badi. Eletto che egli abbia i suoi rappresentanti, ei
deve avergli addosso un quinquennio. Qualunque bestialità essi facciano, purché
il Prefetto trovi la risoluzione regolare nella forma e non contraria alle
leggi, al popolo non resta che il dovere dell'ubbidienza. La sua dipendenza
cresce in ragione dell'indipendenza della sua rappresentanza dalle Autorità
amministrative. Il concetto cui dovrebbe pertanto uniformarsi una legge
veramente liberale non è di rendere i Consigli comunali sempre più indipendenti,
ma di accordare al popolo dei mezzi legali, onde non essere vittima di una
rappresentanza che abusi del proprio mandato» (G. B. Tuveri, La legge
comunale, 1872,ora in Id., Tutte le
opere 4, cit., 159).
[104] V., in proprosito, U. Chiaramonte, Il municipalismo di Luigi Sturzo
pro-sindaco di Caltagirone (1989-1920), Marcelliana 1992, e E. Guccione, Municipalismo e federalismo in Luigi Sturzo, SEI 1994.
[105] M. Ferri,
Appunti per una riflessione sulla ‘Carta
del Carnaro’, in Quaderni Dannunziani
ns. 1-2, 1987, [= D’Annunzio politico.
Atti del Convegno (Il Vittoriale, 9-10 ottobre 1985)] 37 ss.
[106] V. Giorgio La Pira professore di Diritto romano, in Index 23, 1995, 1 ss.
[107] Il comma 2 dell’art. 8 della legge 142/1990 lascia
allo «statuto» comunale e provinciale la «disciplina [del]l’elezione, [del]le
prerogative e [de]i mezzi del difensore civico nonché [de]i suoi rapporti con
il consiglio comunale o provinciale».
[108] G. Apione, L’Ombudsman:
il controllore della pubblica amministrazione, Milano 1969; G. Zagrebelsky, Problemi costituzionali sulla nomina di un Commissario parlamentare in
Italia, in L’Ombudsman (il Difensore
civico), a cura di C. Mortati, Torino 1974.
[109] G. Duso,
Pensare la democrazia, cit., 28:
«identificare il federalismo con un semplice processo di decentramento appare
contraddittorio».
[110] Vedi A. Mela,
Sociologia delle città, Roma 1996, in
part. 61 ss;
e A.E. Ochoa Arias, Una aproximación crítica al papel de la
organización comunitaria en el ámbito del desarrollo sostenible, in Revista Iberoamericana de Autogestión y
Acción Comunal, segunda época, n.32, año XVI, primavera 1998, 53 ss.
[111] C.G. Flores Gonzalez y T. Kwiatowska, La
ilusión de la autonomía: Los municipios del Valle del Mezquital, Ponencia
en el II Congreso Europeo de Latinoamericanistas,
Halle 4-8/IX/1998.
[112] Su cui v. Comunitarismo
e liberalismo, a cura di A. Ferrara, Roma 1992; cfr. La cittadinanza. Appartenenza, identità, diritti, a cura di D.
Zolo, Bari 1994. Adde: gli atti del
convegno The State of American Cities,
in Capital University Law Review 25,
1996, 1-48 (ivi, in particolare, F.S. Bosley,
The Challenge of Living and Governing in
an Urbancity, 225-235); gli atti del convegno The Twentieth annual law review symposium fear federalism, in Ohio Northen University Law Review 4,
1997, 1179-1455; Saxer, Local Autonomy or Regionalism? Sharing the
Benefits and Burdens of Suburban Commercial Dvelopment, in Indiana Law Review, 1997, 659-692; Farole, Interest Groups and Judicial Federalism: Organizational Litigation in State
Judiciaries, Praeger Pubs., 1998. Devo
queste integrazioni bibliografiche alla amichevole segnalazione del collega
Alfredo Calderale (Università di Bari) che ringrazio cordialmente.