Università di Camerino
LE ORIGINI DELLO STATO MODERNO TRA RES FAMILIARIS E RES PUBLICA
Sommario:
1. Privato e pubblico nella formazione dello stato
signorile. – 2 Famiglia e potere. – 3. Res familiaris e Res pubblica. – 4. La continuità dinastica. – 5.
La tutela materna e la reggenza del regno. – 6. Un problema per la storia giuridica e delle istituzioni.
La formazione
dello Stato[1]
nella sua fase iniziale, mostra strette relazioni tra forme e istituti che
siamo abituati a considerare attinenti alla sfera privata delle persone e a
quella domestica della famiglia e forme ed istituti che siamo abituati a
ritenere attinenti alla cosa pubblica[2].
Con il termine
‘privato’ si vuole mettere in luce quanto di ‘non statuale’ si trova in società
che, dal medioevo alla formazione dello stato assoluto, presentano figure,
strutture e pratiche di governo che non coincidono, o non coincidono
totalmente, con le istituzioni pubbliche e statali formalizzate e riconducibili
ad una concezione dello Stato, inteso come un concetto forte, un nucleo di
sovranità piena, verso la quale si sono appuntati i riesami critici del più
recente dibattito storiografico[3].
La confusione fra sovranità e proprietà, tipica degli ordinamenti del regime feudale, si trasmise agli ordinamenti signorili e principeschi dell’età moderna ove perdurò la commistione di elementi privatistici- patrimoniali e giuspubblicistici-giurisdizionali. Alla base di ciò stava la prevalenza del momento personale su quello istituzionale nell’esercizio del potere che si fondava sulla concezione germanica del potere come diritto personale del signore.
Nella vita giuridica
medievale la realtà politico-istituzionale aveva appannato la distinzione fra
diritto pubblico e diritto privato[4] e la
scienza giuridica si dibatteva sul significato del contrasto tra la
consuetudine e la legge tanto che Bulgaro ed i suoi allievi avevano «preso ad
argomentare da privatisti proponendo soluzioni congeniali alla realtà dei
tempi»[5].
La
distinzione fra diritto pubblico e diritto privato risaliva alla autorevole
fonte del diritto romano, che tuttavia, distingueva poco[6]. La
scienza giuridica medievale[7] aveva
tentato di definire il concetto della publica
utilitas e del rapporto fra utilitas
pubblica e privata in relazione ai diversi interessi individuali e della
collettività. Interessi che non sono necessariamente in contrasto. La frase di
Pomponio, secondo la quale la costituzione della dote, per quanto attinente
alla sfera privata, fosse di interesse pubblico, trovava conferma nella glossa[8]
e nelle interpretazioni di Cino da Pistoia e Bartolo da Sassoferrato.
Cino da
Pistoia[9],
analizzando i criteri che differenziavano i due diritti, notava come talvolta
il diritto privato arrivasse ad influenzare quello pubblico. In particolare, in
riferimento alla dote, il giurista rifiutava l’affermazione che la tutela della
dote fosse di interesse pubblico, ma riconosceva l’esistenza di una relazione
tra l’interesse pubblico e quello privato perché la dote consentiva il
matrimonio alle donne e quindi la procreazione dei figli, e questo era
nell’interesse della società, vorremmo dire nell’interesse pubblico della
collettività[10].
Bartolo riteneva che l’interesse pubblico a che le donne fossero dotate fosse
un interesse principalmente privato e, in seconda istanza, anche pubblico[11],
in quanto aveva rilevanza sociale come fondamento economico del matrimonio. In sostanza,
quel che la giurisprudenza voleva mettere in risalto, era l’esistenza di un
interesse pubblico alla costituzione delle famiglie e quindi di una stretta
correlazione tra gli interessi privati ‘personali’ e quelli pubblici
‘istituzionali’.
Gli incerti
confini tra il diritto pubblico e il diritto privato erano ugualmente incerti
nel campo delle istituzioni politiche. La commistione o contiguità di pubblico
e privato era conseguente al modo in cui gli stati europei si erano formati
assorbendo un forte pluralismo di corpi, ceti, centri politici dotati di poteri
autonomi, che per tanto tempo ne hanno condizionato la storia e la politica.
Sulla base delle vecchie formazioni politiche permasero ancora nell’età moderna
nei nuovi stati o domini principeschi, per molte ragioni, forme assai varie di
ordinamenti di tipo feudale, comunale, signorile[12].
A questo si aggiungono gli ampi sistemi, che superano i confini regionali e statali, generati dai legami delle famiglie principesche e nobiliari impegnate nelle strategie di tipo familiare-privato che avevano una ricaduta immediata sulla struttura dello stato ed una influenza decisiva sulla sua formazione territoriale e sul consolidamento del suo potere politico.
Le politiche
familiari furono determinanti per la affermazione, il consolidamento e
l’ampliamento dello stato signorile al punto che diventa difficile distinguere
la res familiaris dalla res publica, soprattutto quando si
faccia riferimento alla famiglia del Principe: a questo riguardo i termini
privato e pubblico si confondono sino a perdere significato.
Nel così
detto stato patrimoniale, il principe esercitava i poteri sovrani come suoi
diritti personali e patrimoniali privati secondo una concezione legata alla
formazione e alle vicende proprie del feudalesimo che sopravvise negli
ordinamenti delle Monarchie medievali, continuò ad essere carattere
fondamentale degli stati autoritari del Rinascimento e si estese anche ai
principati di nuova formazione.
Le istituzioni
giuridiche che si formarono ebbero una vitalità incomparabile e furono a lungo
di importanza fondamentale per la formazione della civiltà giuridica europea in
quanto vissero e fecero sentire i loro effetti sino alla rivoluzione francese
ed oltre. I concetti dello stato feudale vengono da molti autori identificati
con quelli dello stato patrimoniale[13].
Nello stato, così detto, feudale-patrimoniale, si assiste al progressivo
corrompersi del diritto pubblico, di cui si stenta a ricavare la nozione
medesima.
Gli storici del
diritto e delle istituzioni hanno difficoltà a distinguerne le rispettive zone
e a definirne i termini formali, i limiti e i confini di strutture considerate
private come i gruppi familiari, le parentele, le fazioni, i partiti, le corti
principesche che non sono formalizzate come istituzioni pubbliche ma che, ad un
attento esame, si rivelano come elementi vitali della organizzazione politica
della società ed elementi essenziali della costruzione dello Stato[14].
Sono forze ed elementi diversi, ma tutti collegati e complementari gli uni agli
altri, che contribuiscono a determinare un sistema di istituzioni, di poteri e
di pratiche di governo che si intersecano e si condizionano. Distinguere ciò
che è pubblico da quanto è privato in senso moderno rischia di produrre
fraintendimenti e di falsare la visione storica di realtà politiche che di
quella distinzione non erano consapevoli e alla quale non erano interessati.
Quando si consideri la storia della unità politica
di un popolo non si può prescindere da quelle manifestazioni di potere che non
sono derivate dallo stato ma che non possono neanche essere intese solo da
punti di vista giusprivatistici. Una domanda alla quale può essere interessante
rispondere è quella relativa al posto occupato della famiglia del principe
nella storia della edificazione del potere monarchico.
La
famiglia, in generale, era strettamente connessa con la cosa pubblica, la
relazione che intercorreva tra le due istituzioni fu efficacemente messa in
evidenza da Jean Bodin che rigettò la separazione di origine aristotelica tra
‘economia’ e ‘politica’, vale a dire tra la famiglia[15]
e la città, perché non si poteva costruire una città senza costruire le case
come non era possibile smembrare la parte dal tutto. La casa, cioè la famiglia
e l’amministrazione domestica, erano da considerare parte della Repubblica, una
parte vitale dell’insieme. Secondo Bodin, la legge naturale che regge la
società umana, così come l’universo fisico, rimanda necessariamente alla
famiglia la cui organizzazione naturale e concreta non è una parte o un
elemento della Repubblica ma il modello stesso della Repubblica.
La
relazione tra le famiglie dei sudditi e la Repubblica aveva un riflesso, a
nostro parere non irrilevante, nello stretto rapporto tra la famiglia del
principe e la cosa pubblica soprattutto in quella fase originaria del potere
sovrano che si formò attraverso la signoria.
Come
scrive Otto Brunner, una radice essenziale dello stato moderno si trova nel
fenomeno della Signoria. Esistono molti tipi di signorie: si conoscono signorie
fondate su popoli, imperi, territori, servi, su unioni consociate come le
comunità cittadine, e via di seguito[16].
Tuttavia per quanto diverse, tutte le signorie si fondano sulla “possibilità di
trovare obbedienza ad un comando determinato”, secondo una nota espressione di
Max Weber[17],
al quale le comunità, le città e le popolazioni si sottomettevano, più o meno
spontaneamente nella speranza di un più ordinato e pacifico modo di vivere[18].
Il
primo passo verso l’affermazione della Signoria fu compiuto quando al signore
venne riconosciuto un potere vitalizio che divenne potere dinastico nel momento
in cui il signore riuscì a far riconoscere come successore il proprio figlio o
ad esso, alla morte del padre, la città riconobbe un diritto di successione.
Attraverso la concessione del vicariato perpetuo[19] da
parte dell’imperatore o del papa, i diritti signorili si sganciarono dal
condizionamento comunale rivestendo l’autorevolezza di un potere autonomo.
Quando le famiglie signorili ottennero un posto permanente nella gerarchia
imperiale, si compì l’ultimo passo verso un potere sovrano.
La natura
della signoria si comprende bene prendendo le mosse dalla casa del signore[20],
intesa nel senso più ampio, anche come famiglia del signore. Come famiglia, la familia del signore, si usava indicare
tanto l’insieme dei suoi seguaci e di quanti erano a lui legati da vincoli di
fedeltà, o da interessi comuni, quanto la famiglia naturale costituita da
persone legate da vincoli, più o meno stretti, di sangue[21].
Il governo
signorile e dei principi era pur sempre un governo personale-familiare nel
senso che il principe e la sua famiglia, i consanguinei, erano al centro dello
stato che, infatti, dalla famiglia principesca prendeva il nome. Stato
visconteo, mediceo, sabaudo, angioino, estense, e ancora gli stati di Ancien Regime borbonico, asburgico,
ecc., sono denominazioni che stanno ad indicare la stretta relazione ed
interdipendenza che legavano la comunità e la organizzazione politica alla
famiglia regnante.
Lo stato regionale
- rinascimentale si era costruito e costituito attorno ad una famiglia
signorile che era riuscita a raggruppare e controllare, anche con la violenza,
territori e città che in tanto si possono considerare parte di uno stato, in
quanto sono legate ad una famiglia signorile che funge da elemento unificante
di terre e città che spesso non sono neanche contigui fra di loro.
Nella
famiglia regnante le popolazioni stesse riconoscevano la loro identità.
Boussuet, che aveva sotto gli occhi l’affermazione della monarchia francese,
poteva ben scrivere «Così i popoli si uniscono nell’affetto alle famiglie
Reali. La gelosia che naturalmente suol aversi contro coloro che a se vedonsi
superiori, qui si cambia in amore, ed in riverenza: gli stessi Grandi ubbidiscono
senza ripugnanza ad una Famiglia ch’è sempre stata veduta Padrona e alla quale
si sa non poter mai esser uguagliata altra Famiglia»[22].
Il sistema
di governo familiare era ancora efficiente nello stato tardo-medievale e
moderno e conservò alcune caratteristiche sino alla fine dell’ Ancien Régime. è ancora Boussuet, che facendo ricorso alle sacre scritture,
ci spiega l’essenza della comunione tra il sovrano e la sua famiglia. Secondo
questa concezione, il regno altro non sarebbe che la successione dell’organizzazione
familiare[23].
Da questo
quadro non sono escluse le donne che, come i maschi, contribuivano a gestire e
perpetuare il potere familiare. Le donne non furono solo oggetto di scambi
matrimoniali, mezzo di ingrandimenti ed acquisizioni territoriali e indispensabili
strumenti di procreazione. Furono soprattutto veicoli di trasmissione e
conservazione del potere. La forma più consueta attraverso la quale si
manifestò il potere femminile fu la Reggenza, per il marito assente o per
l’erede minorenne. Attraverso questa istituzione si manifesta il raccordo tra
l’ambiente ‘privato’, domestico del principe e della sua famiglia con quello
pubblico dello Stato.
La
identificazione del principe con la sua famiglia naturale e la contiguità tra
la sfera privata-domestica della casa signorile con la sfera pubblica della
signoria, ebbero un rilevante riflesso nella storia della affermazione del
governo principesco. Il governo signorile-monarchico si affermò, consolidò e
trasmise attraverso gli istituti del diritto di famiglia: matrimonio, dote,
successione, adozione, testamento, tutela.
Il
matrimonio del principe era questione che riguardava lo stato e il bene
pubblico e la scelta della sposa era una questione politica di rilevanza generale,
ad essa Egidio Romano dedicò molto spazio e raccomandazioni. La sposa di un
principe doveva essere di bell’aspetto, ma anche bella interiormente. Doveva
essere ricca, nobile e portare al marito molti amici nobili e potenti. Fra
moglie e marito si stabilivano patti e convenzioni che si potevano assimilare
ad un regime politico e che dovevano essere rispettati. La moglie non doveva
essere considerata una schiava ma, sebbene inferiore all’uomo quanto alla
ragione, essa era da ritenere una compagna, tamquam
socia[24].
I
matrimoni principeschi avevano grande rilevanza per le conseguenze patrimoniali
e territoriali che ne derivavano. Gli stati si ingrandivano, si consolidavano e
ridimensionavano in seguito ai matrimoni. Gli apporti dotali delle spose dei
principi furono uno dei principali sistemi di accorpamento dei territori. La
politica matrimoniale di stati e sovrani fu sempre accorta e in molti casi
lungimirante. L’impero asburgico fu il risultato più noto ed importante della
politica matrimoniale della dinastia.
L’apporto
della moglie del sovrano alla costruzione dello stato non si limitava ai
territori portati in dote ma si esprimeva anche in una forma di collaborazione
che, difficile da definire, diveniva evidente quando questa assumeva il governo
in sostituzione del marito assente. E’ una forma di reggenza non definita dalle
istituzioni, nota attraverso, le cronache e i documenti, consolidata dalla
consuetudine in conseguenza della concezione patrimoniale-familiare dello stato
a capo del quale vi era un padre con al fianco una madre che lo sostituiva in
caso di necessità.
Lo Stato moderno nella sua formazione non fu
tributario solo al Principe quale ‘buon padre di famiglia’. La metafora re-paterfamilias era stata espressa da
Budé, ed anche dall’italiano Scipione di Castro[25], che
coltivò l’immagine del principe come padre e pastore, l’immagine ebbe grande e
duratura fortuna presso gli scrittori politici, i moralisti ed i sovrani
stessi.
Come ogni
padre di una buona famiglia anche il principe era affiancato da una ‘madre di
famiglia’ che prestava la sua opera per il mantenimento e rafforzamento della
continuità dinastica e della sua azione politica tutte le volte che ve ne era
occasione e necessità. De Mariana dedicò molta attenzione alla figura della moglie
del principe come madre di famiglia ed educatrice del figlio ed erede del regno[26].
Mariana era soprattutto preoccupata dalla possibilità che l’erede al trono
fosse affidato alle cure delle nutrici invece che a quella della madre.
La
collaborazione della coppia sovrana non si limitava alla educazione della
prole, ma si estendeva anche alla pratica di governo. Questa tradizione risale
molto addietro nel tempo, è testimoniata sia nel mondo romano-bizantino che in
quello germanico, ma si può ricondurre più precisamente alla figura della Consors regni[27]
che divenne in seguito coadiutrice, vicaria, reggente[28].
Era anche una forma di collaborazione coniugale ben nota nell’ambito
dell’organizzazione feudale, dove la signora era impegnata in sostituzione del
signore, sovente lontano per adempiere ai compiti diplomatici e militari
inerenti alla sua posizione[29]. La
collaborazione coniugale dei sovrani, anche ai fini di governo, era una prassi
ammessa e riconosciuta pressoché in tutte le forme di governo signorile,
principesco o monarchico. Qualche esempio sarà sufficiente per indicare la
estensione di questa prassi.
Federico
II, in partenza per la Germania, affidò la reggenza del regno di Sicilia alla
moglie, Costanza d’ Aragona, seguendo una consolidata tradizione risalente
tanto ai suoi antenati normanni quanto a quelli della moglie[30].
In tempi più recenti, ad essa fecero ricorso anche sovrani come il re
d’Inghilterra Enrico VIII e l’imperatore Carlo V. L’imperatore fu un accorto
dispensatore di incarichi familiari che attribuì alla moglie Elisabetta, alla
zia Margherita, alla sorella Maria, al fratello Ferdinando e al figlio Filippo
secondo le necessità nel suo vasto impero. Quando Carlo era assente dalla
Spagna, la reggenza nominale del regno spettava alla moglie.
I signori italiani non furono da meno: Cosimo
de’Medici in due occasioni affidò il governo di Firenze ad Eleonora di Toledo,
lo stesso fecero il duca di Modena e ripetutamente i Savoia[31].
Altri signori non esitarono a servirsi, in più occasioni, della collaborazione
della moglie.
“Morto il
re viva il re”: voleva dire che l’istituto regio era sempre vivo e lo era
attraverso un meccanismo successorio che faceva succedere al padre il figlio
primogenito, senza soluzione di continuità. La carica regia in origine fu
elettiva[34]
e il nuovo sovrano doveva ricevere il consenso dei grandi del regno, mentre
secondo l’antico diritto germanico, i figli ereditavano i beni paterni
attraverso la successione legittima. Già nel primo medioevo si riscontra una
tendenza verso la successione ereditaria attraverso una coesistenza di diritto
di sangue e di elezione che si realizzava attraverso la designazione, e incoronazione,
del successore da parte del re che è la approvazione dei grandi del regno.
Nell’813
Carlo Magno associò al regno il figlio Ludovico il Pio, incoronandolo e Ugo
Capeto, eletto nel 987, aveva in seguito associato al regno il figlio Roberto.
La designazione del sovrano non escludeva il consenso. La monarchia non era
ancora ereditaria, ma il re faceva eleggere il figlio ed erede mentre era
ancora in vita. Il re designato succedeva così al padre e il principio della
elezione era salvo[35]. La
stabilità e longevità della monarchia capetingia appare assicurata soprattutto
dal fatto che i re capetingi ebbero sempre un figlio maschio in età per
succedere: circostanza che fu determinante per l’affermazione del principio
ereditario.
Attraverso
la designazione ereditaria del nuovo signore, secondo linee di successione che
tendono a consolidarsi nel tempo, si assicurava stabilità alle ancora incerte
sorti del potere politico e si evitava il pericolo di contese e lotte furibonde
fra altri eventuali aspiranti al governo dello stato. Il meccanismo della
successione ereditaria coniugava gli interessi della famiglia, alla
trasmissione del potere ad uno dei suoi membri, con quelli della comunità ad un
governo stabile.
La
successione di un solo figlio, il primogenito, contrastava con le regole del
diritto franco ma seguiva quelle del feudo franco[36],
che richiedeva la trasmissione del feudo ad un solo successore che garantisse i
servizi dovuti, ed era divenuta la norma nella monarchia di Francia[37],
dove, nell’ambito dei territori feudali, si era formato uno stato territoriale.
La primogenitura fu una conseguenza della designazione per elezione. Il re
presentava uno solo dei suoi figli per essere eletto: quando la ereditarietà,
in linea discendente, sostituì l’elezione, il principio unitario era già
fissato.
Il
principio ereditario ormai dominava nell’ambito dei grandi feudi[38]:
la nobiltà, che si era affermata grazie ad esso, era disponibile ad ammettere
lo stesso principio per la corona. Il principio ereditario monarchico pare si
sia affermato con Filippo Augusto, che rivendicava ascendenze carolingie sia da
parte paterna che materna[39], e
divenne la norma nei regni di Francia, Inghilterra, Spagna e nei grandi
principati, l’imperatore veniva invece eletto ma sulla base di una successione
dinastica. I principi italiani crearono delle dinastie pur facendo salvo il
mito della scelta popolare[40].
Le
dottrine politiche e giuridiche oscillavano fra uno e l’altro principio. Il
principio elettivo appare favorito dalla scienza politica e giuridica italiana
che si riferivano alla elezione dell’imperatore e del papa. L’elezione era il
sistema fatto proprio dalla Chiesa[41].
Tommaso d’Aquino, che sulla scorta delle Scritture attribuiva alla monarchia la
qualità di optimum regimen per
mantenere l’unità e la pace del popolo, riteneva che i principi potessero
essere scelti, per le loro virtù, anche fra le persone comuni e che a tutti
competeva il potere di decidere: la scelta del sovrano apparteneva al popolo[42].
Diversamente,
Egidio Romano riteneva che la successione ereditaria fosse preferibile, e per
tre ragioni. Perché i re sarebbero stati più solleciti nella cura ed
amministrazione del regno, considerandolo una cosa propria e sapendo di poterlo
trasmettere ai propri discendenti. Perché l’erede, divenuto re per diritto di
successione, non avrebbe potuto vantare meriti superiori e quindi sarebbe stato
meno incline alla superbia e immune da tentazioni tiranniche. Ed infine, perché
il popolo era naturalmente più incline ad obbedire al figlio di un re che
appariva più adatto a gestire il potere di una persona nuova ad esso estranea.
La successione ereditaria aveva anche il vantaggio di ridurre, se non di
eliminare, le discussioni e le liti attraverso la designazione precisa di un
erede, il maschio primogenito[43].
Egidio
Romano aveva studiato a Parigi[44]
dove, dopo alterne vicende, legate alla condanna dell’aristotelismo di cui
appariva un valido difensore, tornò per essere dichiarato dottore. In quella
università insegnò dal 1286 al 1292. Divenne successivamente arcivescovo di
Bourges e fu impiegato dal papa in varie occasioni, infine morì ad Avignone. La
sua dimestichezza con l’ambiente francese, dove la monarchia dinastica era
ormai una realtà consolidata, aveva certamente influito sulle sue convinzioni.
La dottrina francese, attraverso Pietro Jacobi, aveva ormai acquisito l’idea
che la successione nel regno fosse simile ad una successione patrimoniale[45]
.
Idee
diverse maturavano nella scienza politica italiana. Marsilio da Padova affrontò
la questione in modo sistematico cominciando con l’esaminare la formazione del
potere monarchico dalle origini, distinguendo una signoria nata in seguito ad
elezione, da parte dei cittadini, da una signoria originaria nata o perché il
signore era stato il primo a stabilirsi in una regione, prima di lui inabitata,
o perché aveva ereditato un potere originale, costruito dai suoi antenati, o
perché lo aveva conquistato in battaglia.
Quando il
potere era derivato da elezione si doveva stabilire se attraverso di questa era
stato conferito un incarico a tempo determinato, o un incarico a vita, oppure
valevole anche per i successori. Marsilio riteneva preferibile la elezione del
monarca perché riteneva le persone più disposte a sottomettersi ad un potere
scelto liberamente[46]
(1.9.5-9). Tuttavia, non mancava di ricordare che Aristotele, a favore della
successione di lignaggio, sosteneva che il signore avrebbe avuto maggiore
interesse alla cosa pubblica, che avrebbe curato come una sua proprietà, e al
bene comune se avesse avuto la certezza di operare anche in favore della sua
discendenza. Inoltre, con i signori appena eletti si poteva correre il rischio
che questi si comportassero arrogantemente da nuovi arricchiti e non come
signori da tempo abituati al potere. I sudditi inoltre, apparivano più disposti
a rispettare un potere assunto da tempo che uno di nuova creazione (1.16.1-2).
Il maestro padovano, nonostante tutte queste ragioni, che ricordavano da vicino
le convinzioni di Egidio Romano, riteneva migliore e più adatta alla vita civile
l’elezione del principe, che non desse luogo a successione, certo che la
moltitudine dei cittadini avrebbe scelto un uomo prudente e virtuoso
(1.16.11-12). Marsilio risentiva delle idee, che all’epoca dominavano in alcuni
circoli romani, sul ruolo del popolo romano nella elezione del papa e
dell’imperatore[47]
e inoltre aveva presente la situazione delle città italiane e delle loro
cariche elettive; infatti fa un riferimento esplicito alla elezione del doge di
Venezia (1.16.13).
La scienza
giuridica italiana trecentesca, tuttavia, attraverso i suoi più illustri
esponenti, mostra un progressivo adeguamento a quella che era ormai divenuta la
regola del potere dinastico nelle monarchie europee. Se Bartolo da Sassoferrato
ancora mostra delle perplessità ed una evidente preferenza per il metodo
elettorale, Baldo degli Ubaldi, nella seconda metà del secolo, non poteva non
riconoscere compiuto il principio della successione ereditaria del potere
regio.
Bartolo
affrontò il tema nel trattato de Regimine
civitatis, dove riconosceva che i popoli e le genti erano meglio governati
quando erano guidati da un re forte e potente[48].
Anche per il giurista, la giustificazione originaria del potere regio e della
sua trasmissione in via ereditaria, risiedeva nelle Sacre Scritture[49].
Tuttavia, un potere simile gli appariva adatto ad un piccolo regno o dominio
con poca gente (parva gens), ma ove
le popolazioni fossero molte, governate da più principi ma tutti partecipi di
una comunità più grande, allora il Principe, colui che era a capo di tutti,
doveva essere eletto direttamente, o indirettamente, da Dio oppure da elettori
ispirati da Dio. La monarchia poteva essere ereditaria o elettiva, ma
quest’ultima si confaceva maggiormente alla monarchia universale, ossia
all’impero[50].
Bartolo riteneva che la elezione fosse più vicina al volere divino.
Una
definizione assai acuta, che non si discosta nella sostanza da quanto affermava
Bartolo, ci viene da Andrea d’Isernia, il quale, nel suo commento alle
Costituzioni del Regno di Napoli, affermava che nel suo regno il re era pari
all’imperatore, ma precisava che l’Impero era da considerarsi personale, perché
ad esso si accedeva mediante l’elezione, il regno invece poteva essere
considerato ‘reale’ perché è ereditario[51].
La
formazione della monarchia francese aveva influito sulle tesi e sulle idee dei
giuristi e maestri d’oltralpe, allo stesso la monarchia napoletana degli Angiò,
e le dottrine francesi che erano state importate nel Regno[52],
non potevano non far sentire la loro influenza sul pensiero di uno dei suoi più
grandi giuristi[53].
La
differenza tra impero e regno, per quel che riguardava la successione, era ben
presente anche ai Commentatori. Baldo degli Ubaldi distingueva i regni che si
basavano sulla elezione da quelli che si fondavano sulla successione, in questi
ultimi era ormai accertato che dovesse ereditare il primogenito, come era
sempre avvenuto e come sarebbe sempre stato. Anche Baldo operava una
distinzione tra impero e regno, identificando l’essenza reale del regno
attraverso un procedimento mentale diverso e meno preciso di quello indicato da
Andrea d’Isernia.
Il
principio ereditario, sosteneva Baldo, non poteva essere valido per l’impero,
perché attraverso la successione ereditaria si sarebbero potuti trovare alla
sua guida un fanciullo o una donna, come avveniva nelle successioni
patrimoniali. Il re dei romani doveva essere eletto e confermato[54]
e Baldo sosteneva la validità di questo principio facendo ricorso al diritto
canonico che aveva fissato le modalità della elezione dell’imperatore[55].
La successione dell’imperatore non poteva dirsi valida, solo in virtù della
investitura del suo predecessore, per essere efficace doveva venire completata
dalla elezione, perché era questa e non la successione ereditaria che creava
l’imperatore.
Le contrastanti
posizioni in merito alle elezione e alla successione ereditaria del principe
trovano spiegazione nei diversi ambiti politico-giuridici a cui fanno
riferimento. Le dottrine italiane erano più attente ai poteri che riconoscevano
nell’imperatore e nel pontefice una carica ed un potere in cui dominavano gli
aspetti pubblicistici ed istituzionali su quelli privatistici e familiari. Le
dottrine maturate oltralpe si riferivano invece a poteri maturati e sviluppati
nell’ambito della organizzazione feudale in cui gli aspetti privatistici e
familiari erano determinanti. L’analogia tra regno e feudo fu sottolineata da
Luca da Penne in riferimento al principio della successione del primogenito
valida in «regnum vel feudum»[56].
La
continuità del potere monarchico, scriveva Martino da Lodi, che includeva non
solo l’amministrazione ma anche la giurisdizione e la proprietà, poggiava sulla
successione dell’erede affermatasi consuetudinariamente[57]
nelle monarchie europee. Attraverso la ereditarietà si poneva l’accento sugli
aspetti patrimoniali del governo monarchico. Ne conseguì la necessità di
mettere in atto mezzi necessari per provvedere alla difesa del regno e
dell’erede nel caso che questo, per ragioni di età o di salute, non fosse stato
in grado di assolvere ai suoi compiti. Da qui il passo di affidare alla madre
dell’erede minorenne la sua tutela e quella del regno.
Il
testamento, con il quale il ‘buon padre di famiglia’ si preoccupava di
sistemare le faccende che riguardavano la moglie, i figli e il patrimonio
domestico, divenne anche la forma con cui il sovrano esprimeva le sue ultime
volontà sulla tutela dell’erede e sul governo del regno.
In caso di
morte o di assenza del padre, si affidavano la protezione e la amministrazione
della famiglia ad un membro di essa in grado di assolvere a questi compiti. Lo
stesso avveniva nel caso di un sovrano, malato, assente o minorenne in nome del
quale si esercitava la reggenza. Questa entrava in funzione nel caso di impossibilità
del sovrano al governo. Fu una forma di governo largamente praticata da
signori, principi, re e imperatori, per secoli, senza che ne venisse mai
fissato uno statuto coerente. Su alcuni punti, come quello della minore età per
il re, non si giunse mai a fissare la consuetudine istituzionale[58].
In Francia, gli Stati Generali, solo nel 1484, si pronunciarono sulla reggenza,
questa entrava in funzione quando il re aveva meno di 14 anni[59].
Se
l’erede, o gli eredi, erano minori, si affidava la loro tutela con la gestione
del patrimonio ad un tutore di solito scelto tra i membri della famiglia.
Attraverso la tutela si dava luogo alla reggenza dello stato che perdurava sino
a che il nuovo sovrano non avesse raggiunto con la maggiore età la capacità di
governare. Secondo la tradizione, la maggiore età per i regnanti si raggiungeva
all’età di quattordici anni.
La
reggenza poteva essere affidata ad un membro della famiglia, solitamente il
parente maschio più prossimo, oppure ad un consiglio di reggenza composto da
familiari e funzionari. La forma di reggenza più comune e longeva fu quella
delle madri che assicurava la tutela degli interessi del sovrano minorenne
insieme a quelli dello stato a garantire la successione al potere nel modo meno
conflittuale.
La reggenza
della madre per l’erede al trono minorenne seguiva il modello consolidato da
lungo tempo per la tutela dei figli nelle famiglie comuni[60].
La tutela della madre divenne reggenza per il regno attraverso un processo di
assimilazione consuetudinaria dei due istituti. Una consuetudine sviluppata a
Bisanzio già dal quarto secolo, in uso presso le monarchie merovie, fra sesto e
settimo secolo, e nell’impero tedesco dal nono secolo[61].
La
reggenza divenne la prerogativa più rilevante delle regine vedove in quanto
conferiva loro l’esercizio della sovranità. Talvolta si estese ad altre donne
delle famiglie sovrane: alle sorelle, alle nonne, e talvolta alle zie e alle
figlie. La reggenza materna, comunque, è quella che ricorre più spesso nella
storia della formazione delle dinastie europee e degli stati che attorno a
quelle dinastie si formarono.
Di solito era il re che, come ogni padre
accorto, sentendosi vicino a morire o per misura precauzionale, si preoccupava
di assicurare protezione ai suoi discendenti ed una corretta amministrazione
del patrimonio familiare affidando, con testamento, alla regina, il compito di
tutrice per il re minorenne e di reggente per il regno.
Il re di
Spagna, Alfonso il Saggio, nel suo testamento, aveva prescritto, che in caso di
sua morte prematura, la regina doveva essere indicata come reggente durante la
minorità del re. Sentendosi prossimo alla fine, il re aveva stilato un
documento con il quale riconosceva alla moglie la intera dote e poneva il
quindicenne erede sotto la sua protezione. Anche dopo che Ferdinando ebbe
raggiunto la maggiore età di diciannove anni, la regina rimase con un ruolo
rilevante di supervisione negli affari del regno[62]. La
reggenza della madre fu riconosciuta formalmente dalla Ley de las Siete Partidas. La seconda Partida, per quanto riguarda la successione al trono, prescriveva
che questa avvenisse secondo la linea diretta e rispettasse la primogenitura.
In caso di minorità del re, questi veniva affidato ad un consiglio di tre o
cinque tutori. Ma se era vivente la madre, a lei spettavano la tutela del re e
il governo del regno, a patto che non si risposasse[63].
Anche il
re dei francesi Luigi VIII, in punto di morte aveva dichiarato che il
successore, il regno e tutti i suoi figli dovevano essere posti sotto la tutela
della regina Bianca di Castiglia (1188-1252) che alla morte del marito assunse
la reggenza per il re minorenne[64].
Bianca governò con abilità e saggezza. Quando Luigi partì per la Crociata la
madre, sessantenne, assunse di nuovo la reggenza[65].
La reggenza della madre, si affermò perché era una
istituzione funzionale agli interessi della dinastia e al mantenimento della
pace. Aveva il pregio di eliminare le contese di parenti, tanto ambiziosi
quanto infidi, sempre di grande danno per il paese, favoriva la linea di
successione dinastica, mediante la quale si assicurava una trasmissione del
potere meno turbolenta.
Gli interessi del re minorenne, o impedito, non
erano sempre garantiti dal parente che se ne assumeva la tutela e non era
sempre facile stabilire quale fosse il parente più prossimo. Il problema
apparve drammaticamente evidente in Francia durante il regno di Enrico VI. Il
re era soggetto a ricorrenti condizioni di insania che rendevano necessaria una
reggenza: per essa si ritenevano ugualmente idonei il fratello e lo zio paterno[66].
Il contrasto tra Luigi d’Orleans e il duca di Borgogna, Filippo l’ardito,
provocò uno dei periodi più dolorosamente turbolenti della storia del paese[67].
Ai principi, alla lotta si aggiunsero le ambizioni della regina Isabella di
Baviera che reclamava per sé la reggenza e la tutela per l’erede minorenne
Carlo VII[68].
La
reggenza femminile non fu una forma di governo limitato alla Francia. Fu
adottata in tutta Europa ed anche gli stati italiani, grandi e piccoli, fecero
uso delle reggenze femminili.
Gli stati
sabaudi, in particolare, furono spesso retti da questa forma di governo, che
contribuì in modo decisivo al perpetuarsi della dinastia e alla formazione
dello stato[76].
L’influenza della Francia divenuta prevalente aveva contribuito a diffondere
l’uso al quale la dinastia sabauda fece spesso ricorso. La reggenza di madri,
mogli, e talvolta figlie, pure fra molte difficoltà, assicurò la continuità di
una dinastia fra le più longeve d’Europa. Già alla morte di Amedeo VII, il
conte rosso, si era manifestata la lotta tra la madre di questi, a cui il conte
morente aveva lasciata la reggenza per il figlio Amedeo VIII, e la vedova[77].
Amedeo IX,
incapace di governare perché epilettico, aveva nominato come reggente la moglie
Iolanda di Francia contro il volere dei fratelli. Alla morte del duca, gli
Stati generali dichiararono Iolanda reggente per Filiberto I. La reggenza per
gli Stati sabaudi fu ancora esercitata da Bianca del Monferrato ed ancora nel
XVII secolo dalle duchesse Cristina e Giovanna Battista. L’istituto della
reggenza materna era così storicamente connaturato alla storia della casa di
Savoia, che alla fine della seconda guerra mondiale fu presa in considerazione
da Luigi Einaudi nel tentativo di salvare la istituzione monarchica in Italia[78].
Il
fondamento giuridico della reggenza si trova, come acutamente rilevato anche da
Voltaire, nella tutela della madre per i figli minori che era diventata norma
del diritto comune[84]. La
tutela da istituto del diritto di famiglia diveniva un mezzo di designazione e
assunzione del potere, che contrastava con la sempre affermata e sostenuta
incapacità delle donne ad assumere i pubblici uffici.
In
assenza di una norma positiva, come in Spagna, suppliva la volontà del defunto
sovrano che nel suo testamento affidava[85] alla
moglie la tutela dei figli e la reggenza del regno. Se il sovrano morente non
aveva avuto modo di far conoscere le sue decisioni, erano i consiglieri, e
quanti lo circondavano, a sollecitare una decisione in tal senso o a sostenere,
a morte avvenuta, che quella era stata la sua ultima volontà. Di questo
procedere è indicativa la storia della reggenza di Cristina di Francia per gli
Stati sabaudi. Il duca era moribondo e gli fu proposto di testare lasciando la
reggenza e la tutela alla moglie. Sembra che non ne avesse la forza, o la
volontà: fu allora interpellato dal confessore, Padre Broglia, e si dice che il
morente emettesse un sospiro che fu ritenuto un segno di approvazione, come
venne poi sottoscritto da testimoni
Le
pressioni dei consiglieri, e le loro dichiarazioni di fede potevano essere
motivate da interessi personali, ma risiedevano, soprattutto, nello scopo di
sottrarre il momento cruciale e delicatissimo della successione e della scelta
del capo dello stato alla ambizioni, alle cupidigie e alle lotte di successione
che avrebbero recato grave pregiudizio alla corona e danni al paese.
La
reggenza materna, in età moderna, si era diffusa anche negli stati tedeschi in
contrasto con il principio che voleva le donne incapaci del governo della cosa
pubblica. Un giurista secentesco, Marquardo L. de Printzen[86]
non mancò di rilevare la connessione tra la tutela materna, che non contrastava
con il diritto naturale, e l’assunzione del governo di regni e principati in
nome dei figli.
Secondo il
giurista tedesco il potere di governo, ottenuto dalle donne per questa via, era
da ritenersi frutto di qualche inganno oppure il risultato di uno speciale
favore del popolo. Era un potere che, derivato da casi e consuetudini
singolari, era tuttavia estraneo allo ius
gentium che escludeva le donne dal governo e dalla difesa della repubblica.
Il governo e la difesa della repubblica, precisava il giurista, sono
prerogative maschili non femminili, alle donne non competeva il governo della
famiglia e quindi nemmeno quello della città. E come non succedevano le figlie
nel patrimonio o nel Principato della propria famiglia, così le vedove, che
provenivano da un’altra famiglia, non potevano aspirare alla sua tutela.
In base a
queste considerazioni, De Printzen poteva ritenere contrarie agli antichi
costumi le reggenze francesi, quella sabauda, che dalla Francia traeva
ispirazione, e quella svedese. La reggenza delle madri non era ammessa sulla
base di un diritto, ma derivava da qualche artificio, o accordo o posizione di
potere o dalla pietà che queste sapevano utilizzare[87].
Marquardo
de Printzen affrontò anche il problema della tutela feudale. Riconosceva il
diritto della madre e della nonna ad essere tutrici per i minori e si chiedeva
se queste potessero esserlo anche nel feudo[88]. Il
fatto che ciò fosse ammesso grazie alla presunzione dell’affetto materno gli
pareva una giustificazione frivola. Da un punto di vista più correttamente
giuridico, e di portata generale, notava che il tutore era anche
l’amministratore di tutto il patrimonio e che non era necessario nominarne uno
appositamente per il feudo. La madre e la nonna, che potevano essere tutrici
legittime per il minore, lo erano per anche l’amministrazione del suo
patrimonio e del feudo che ne faceva parte. Secondo il diritto germanico, le
donne non erano capaci di giurisdizione feudale, ma, con una elaborazione di
cui ci sfugge il nesso logico, de Printzen sosteneva che esse potevano
acquistare l’amministrazione e la giurisdizione del feudo se questo rientrava a
far parte del complesso patrimoniale[89].
Il
giurista tedesco operava una di distinzione, e graduazione, tra i feudi mediati
e i feudi imperiali, immediate
dipendente dalla corona, e gli stati principeschi[90]
nei quali, a differenza dei primi, non si poteva ammettere una tutela
femminile. In verità la differenza di regime, politico e giuridico[91],
subiva frequenti deroghe. Lo stesso de Printzen notava, infatti, esempi
illustri nel principato d’Austria e nel Langraviato di Kassel e Darmstadt. In
questo, Amelia Elisabetta era la tutrice per il figlio Guglielmo e in quello,
la madre aveva fatto valere il suo diritto alla tutela del figlio, nel 1660,
contro le aspirazioni dello zio[92]. Il
giurista spiega la situazione del Langraviato con gli usi della famiglia alla
quale era riconosciuto un diritto speciale in deroga al diritto comune. Per il
ducato del Würtemberg, invece, l’imperatore concesse, nel 1678, la tutela
dell’erede alla madre e l’amministrazione del ducato allo zio, al quale
affiancò dei consiglieri[93]. Le
norme che regolavano la successione e la tutela dei minori, non erano le stesse
per tutti i possessi feudali.
L’interesse
dell’imperatore di acquisire voti nella dieta si incontrava con quello delle
famiglie che ambivano ad avere il loro feudo annoverato fra i feudi imperiali
immediatamente dipendenti dalla corona. Nelle contrattazioni, le famiglie
riuscivano ad ottenere il privilegio di mantenere gli antichi usi legati alle
proprie tradizioni e storie familiari. Questo spiega il persistente uso della
tutela materna e del feudo anche in alcuni feudi regi.
Il
giurista tedesco tentava, faticosamente, di trovare un fondamento
teorico-giuridico ad uno di fatto ben noto e consolidato ed ormai diffuso anche
in Germania. Il suo ragionamento risentiva della influenza degli influssi
razionalistici, affiorati tra fine Seicento e primo Settecento, che avrebbero
dato il via a tendenze più logiche e sistematiche. Il clima culturale era
orientato verso soluzioni sempre meno fondate sulla autorità dei testi romani o
della dottrina del diritto comune e «si preferiva giustificare anche le
teoriche più tradizionali col ricorso alla naturalis
ratio»[94].
A questo riguardo ci pare rilevante la trasformazione della norma di diritto
romano mater vel avia, con la quale
si riconosceva alle madri e alla nonna la possibilità di essere tutrici per i
minori[95],
in principio fondato sul diritto naturale[96].
I problemi
nascevano, secondo de Printzen, dallo ius
gentium[97]
che negava alle donne giurisdizione e facoltà di governo. La contraddizione fra
quanto stabiliva il diritto e quanto avveniva nella pratica politica degli
stati moderni, grandi e piccoli, era in qualche modo sanata riconoscendo per la
nobiltà, e per le donne nobili in particolare, una condizione diversa.
La
convinzione che la reggenza della madre, o all’occorrenza di altre donne della
famiglia, fosse non solo nell’interesse della dinastia ma anche in quello dello
stato si era fatta strada nella giurisprudenza insieme alla considerazione che
alle donne nobili la consuetudine aveva concesso l’esercizio di un potere di
giurisdizione. Il differente status
delle donne nobili era stato rilevato dalla giurisprudenza medievale da Bartolo
da Sassoferrato e da Baldo degli Ubaldi[98] e
non è un caso se fu oggetto di numerosi trattati tedeschi, fra Seicento e
Settecento, sulla condizione delle foemine
illustris[99].
* Questo saggio è dedicato
al professore Ennio Cortese, un segno di gratitudine per le indicazioni ed i
suggerimenti e che mi ha dispensato con generosità e di cui spero di aver fatto
buon uso.
[1] Intendo la parola Stato
secondo la sua espressione più semplice, come viene indicata da Otto Brunner che si riferisce ad «ogni
durevole forma di convivenza ordinata nell’unità politica», cfr. Terra e potere, Milano 1983, 158. Per
quel che riguarda il concetto di stato nella storiografia più recente si veda M. Fioravanti, v. Stato (diritto intermedio),
in Enciclopedia del diritto, 43,
Milano 1990, 708-54. Si vedano inoltre Visions sur le devélopment des Etats Européens. Théories et
Historiographies de l’Etat moderne. Actes du colloque organisé per la Fondation
Européenne de la Science et l’Ecole française de Rome, Rome 18-31 mars 1990, W.
Blockmans-J.P. Genet, Roma 1993.
[2] La storiografia più recente
ha messo in risalto la rilevanza di una più adeguata comprensione della
definizione e delle connessioni tra i concetti di pubblico e privato: G. Chittolini, Il ‘privato’, il ‘pubblico’, lo Stato, in Origini dello Stato. processi di formazione statale in Italia fra
medioevo ed età moderna, a cura di G.
Chittolini, A. Moloho, P. Schiera, Bologna 1994, 553-89. Il problema era già stato evidenziato da W.
NÄf, Frühformen des “modernen
Staates” im Spätmittelalter, in Die
Entestehung des modernen souveranen Staates, hg. H.H. Hofmann, Koln 1967, 101 ss.
[3] A.M. Hespanha, Storia
delle Istituzioni politiche, Milano 1994, 10-11. La dicotomia pubblico/privato
è frequente nella storia delle dottrine giuridiche e delle dottrine politiche
che le attribuiscono significati diversi da ridefinire di volta in volta, P. Cappellini, Privato e pubblico (diritto intermedio) in Enciclopedia del diritto, XXXV, Milano 1987, 660-87; N. Bobbio, Pubblico/privato, in Enciclopedia
Eidaudi, XI, Torino 1980, 401-15. Altrettanto complessa è la valutazione
dei termini e dei confini della sfera pubblica e di quella privata in epoche
storiche diverse; J. Habermas, The Structural Transformation of the Public
Sphere, Cambridge (Ma.) 1989; Public
and Private in Social Life, ed. S.I. Benn-
G.F. Grauss, London 1983; G. Duby,
Potere privato, potere pubblico, in La vita privata dal feudalesimo al
Rinascimento, ed. G. Duby,
Bari 1987, 5-33. La contrapposizione tra pubblico e privato è centrale anche
nella riflessione giuridica e politica femminista; J.B. Elshtain, Public
Man, Private Woman, Princeton 1981; J.B.
Landes, Women and the Public
Sphere in the Age of French Revolution, Ithaca 1988.
[5] cfr. E. Cortese, Il diritto nella storia
medievale, II, Il Basso Medioevo,
Roma 1995, 175. Qui si fa riferimento alla questione dibattuta fra i
glossatori, della idoneità della consuetudine ad abrogare la legge, nata dalle
contrastanti interpretazioni del significato della lex regia. La lex regia
si riferiva alla decisione comiziale con cui il popolo romano, detentore
originario della sovranità, l’aveva conferita al principe, segnando in questo
modo la fine dell'età repubblicana (C. 1.17.1.7; D. 1.4.1pr. e I.1.2.6), sul tema si veda E. Cortese, Il problema della sovranità nel pensiero giuridico medioevale, Roma
1982 (1966), 92-97. La voluntas del
popolo superava le implicazioni privatistiche del consensus, sul quale si fondava la consuetudine, solo quando si
trasfigurava nella figura pubblicistica della respublica a cui sola competeva la legge. Si veda al riguardo E. Cortese, La norma giuridica. Spunti teorici nel diritto comune classico, II,
Milano 1964 [rist. 1995], 122-126. Sulla Consuetudine come fonte di diritto si
veda F. Calasso, Il Medioevo del diritto,
Milano 1954, 181-214.
[6] D.1.1.1.2, …duae sunt positiones,
publicum et privatum. Pulicum est quod ad statum rei Romanae spectat, privatum
quod ad singulorum utilitatem: sunt enim quaedam publice utilia, quaedam
privatim. «La
summa divisio ulpianea, è vero, aveva
individuato due positiones distinte –
la pubblica, appunto, e la privata – nell’ordinamento; si trattava però di una
divisione che divideva poco (il diritto pubblico riguardava solo le cose sacre,
i sacerdoti e i magistrati) e per di più non intaccava affatto l’unità del genus del diritto…», cfr. E. Cortese, Il diritto, cit., 175.
[7] F. Calasso, Ius
publicum e ius privatum nel pensiero comune classico, in Studi in memoria di Francesco Ferrara,
Milano 1943, 5-35.
[8] D. 24. 3, Soluto matrimonio, i; gl. Et reipublicae, D. 24. 3, Item nota quod ratio privatae utilitatis
concordat hic cum ratione publicae, quae etiam si dicordent, praefertur publica.
[9] Cino si riallacciava alla
interpretazione di Piacentino cha aveva qualificato i due diritti come due positiones,vale a dire due specie della
stessa ars iuris. Piacentino, Summa Institutionum, 1.1, De
iustitia et iure, in fin., Cino da
Pistoia, C. Pist. Lectura Super Disgetum vestus, 1.1, de iustitia et iure, ntt.
13-15.
[10] Cino da Pistoia, Cyni
Pistorensis…in Digesti veteris libros commentaria… Francoforti
1578, r.1, De Iustitia et iure, nt.
17, f.3v-4r, 640-41.
[13] G. Astuti La formazione,
cit., 57 ss. Per la definizione e il significato che le varie forme di stato
hanno preso nel corso dei secoli si veda E.
Bussi, La evoluzione storica dei
tipi di stato, Cagliari 1970.
[14] Si veda per alcuni temi
importanti della serie Istituzioni e
società, il volume Potere e società
negli stati regionali fra ‘500 e ‘600, a cura di E. Fasano Guarini, Bologna
1978 e per gli argomenti trattati e l’ampia bibliografia si veda Storia Sociale e dimensione giuridica.
Strumenti d’indagine e ipotesi di lavoro. Atti dell’incontro di studio, ed.
P. Grossi, Firenze 26-27 aprile 1985, Milano 1986; inoltre P. Cappellini, Gli ‘antichi’ e i moderni. Storia sociale e dimensione giuridica,
in Rivista di storia del diritto italiano
LVIII, 411-44; Origini dello stato,
cit.
[15] J. Bodin, Le six livres de la République, l. I,
II, si veda in proposito S. Goyard-Fabre,
Jean Bodin et le droit de la République,
Paris 1989, 81 ss.; G. Conti Odorisio,
Famiglia e stato nella ‘République di
Jean Bodin, Torino 1993.
[16] Per quel che riguarda la
formazione e della signoria medievale si veda M.
Bellomo, Società e istituzioni in
Italia dal Medioevo agli inizi dell’età moderna, Catania 1976, 248-52; M. Caravale, Ordinamenti giuridici dell’Europa medievale, Bologna 1994, 243 ss.
[18] G. Cassandro, Signoria,
estr. da Nuovissimo Digesto Italiano,
Torino 1962. Sul passaggio dal comune alla signoria si veda anche C. Storti Storchi, Diritto e Istituzioni a Bergamo Dal comune alla signoria, Milano
1984, 337-78, E. Cortese, La norma giuridica. Spunti teorici nel
diritto comune classico, II, Milano 1964, 38 e nt. 56, e Il Diritto, cit., 280-81.
[19] Sulle prime manifestazioni
di potere signorile e la concessione del vicariato per periodi limitati si veda
E. Cortese, Il diritto, cit., 280-82; per la concessione del vicariato perpetuo
si veda M. Ascheri, Istituzioni medievali, Bologna 1994, 285
ss. Durante lo scisma apparvero i primi vicariati perpetui. Nel 1463 Antonio
Piccolomini ottenne il vicariato ereditario anche a favore delle eredi femmine.
Per quel che riguarda la trasformazione del comune in signoria si veda della
serie Istituzioni e società nella storia
d’Italia, La crisi degli ordinamenti
comunali e le origini dello stato del Rinascimento, a cura di G.
Chittolini, Bologna 1979; E. Fasano,
Gli stati dell’Italia
centro-settentrionale tra Quattrocento e Cinquecento: continuità e trasformazione,
in Società e storia VI, 1983, 617-39;
G.M. Varanini, Dal comune allo stato regionale, in La storia a cura di N. Tranfaglia-L.
Firpo, Il Medioevo, t. II, Torino
1986, 689-724. In relazione alla base giuridica di questa trasformazione si
veda A. Marongiu, Storia del diritto pubblico. Principi e
istituti di governo in Italia dalla metà del IX alla metà del XIX secolo,
Milano 1973, 150-162. Per quel che riguarda più in particolare la formazione
degli stati regionali in Italia si veda G.
Chittolini, La formazione degli
stati regionali e le istituzioni del contado. Secoli XIV e XV, Torino 1979; M. Caravale, Ordinamenti, cit, 649 ss.
[21] Il diritto romano (C.
12.35.10) aveva formulato una concezione di famiglia in senso stretto, che
comprendeva i coniugi i figli e i servi: …Quiqumque
militum ex nostra auctoritate familias suas ad se venire meruerit, non amplius
quam coniugia liberos, servos etiam de peculio castrensi emptos neque
adscriptos censibus … Dal Medioevo si era invece affermata una concezione
più larga espressa da Luca da Penne,
Commentaria l. de Penna In Tres Libros…,
Lione 1582, 825-26, …Sed larga
significatione etiam amicus sub appellatio familia continetur…Item de
molteplici familia, scilicet religiosa perpetua, mercenaria et profana et illa
quae nec est perpetua nec mercenaria…. Sul significato delle diverse
definizioni di famiglia si veda, ‘Familia’
del Principe e famiglia aristocratica, a cura di G. Mozzarelli, Roma 1988.
[22] J. B. Boussuet, Politica
estratta dalle proprie parole della scrittura al serenissimo Delfino,
Venezia 1714, l. II, prop. X, 69. Su Boussuet e la sua concezione del potere
monarchico come assolutismo teocratico si veda M.
Prelot, Storia del pensiero
politico, I, Milano 1975 (1970), 255-64.
[24] E. Romano (E. Colonna) (1243c.-1316), Aegidii Columnae Romani…De Regimine Principum Lib. III, Romae 1607,
[rist. anas. Aalen 1967], I, L. I, I, cap. 8, 9, 10, 11, 12, 13, 14, 15.
[25] G. Budé, L’Institution
du Prince, in Le Prince dans la
France des XVIe et XVIIe siècles, a cura di C. Bontems, L.P. Raybaud,
J.P.Brancourt, Paris 1965, a p. 812 si legge «…nulla desta più meraviglia e
nulle è più encomiabile della saggezza con cui un individuo riesca a governare
se stesso e la propria famiglia in modo giusto e decoroso. Tale saggezza è
ancora più necessaria per coloro che, come i principi e i re, posseggono una
famiglia più grande, anzi così grande da render impossibile contarne i membri.»;
S. di Castro, A relation and Instruction Concerning the State of Milan, by don
Scipione di Castro; Bodleian Library, Oxford, MS, Rawl. C.293, f. 35v. si
veda anche S. de Castro, La politica come retorica, a cura di R.
Zapperi, Roma 1978. Su Scipione di Castro si veda Dizionario Biografico degli italiani.
[26] J. de Mariana, De rege
et regis institutione libri III, Toledo 1599, [rist. ans., Aalen 1969], l.
I, c. II, 139-145 e c. III, 147.
[27] C.M. Mor, 'Consors
regni': La Regina nel diritto
pubblico italiano dei secoli IX-X, est. da Archivio Giuridico CXXXV,
1948; P. Delogu, Consors regni, un problema carolingio in Bollettino
dell'istituto storico italiano per il medioevo e archivio muratoriano,
LXXVI, 1964, 47-98. M.T. Guerra Medici, Regine, Madri e Reggenti nel diritto
medievale in Rivista di storia del
diritto italiano LXX, 1997, 209-45.
[28] Paolo Diacono, Storia
dei Longobardi. In appendice Storia
dei Longobardi di Benevento di Ercemberto, a cura. di I. Pin, Pordenone
1990, l. II, c.31: «In Italia i Longobardi di comune accordo elessero re in
Ticino Clefi, uomo nobilissimo della loro nazione. Questi uccise o cacciò
dall’Italia molti potenti Romani. Dopo aver tenuto il regno insieme alla moglie
Masane per un anno e sei mesi, fu sgozzato con la spada da un uomo del suo
seguito». L. III, 15: «Tiberio Costantino dopo che ebbe retto l’impero per
sette anni, sentendo che si avvicinava il giorno della morte, in armonia col
consiglio dell’Augusta Sofia scelse quale successore al trono Maurizio…». Nel
1356 Giovanna di Brabante sottoscrisse con il marito Venceslao impegni precisi
con la popolazione che diedero origine ad una vera e propria costituzione.
[29] Di questa realtà abbiamo
una testimonianza diretta attraverso C.
de Pisan, Le livre des trois
vertus, ed. C. Connon Willard Champion,
Parigi 1989, dove la poetessa dà consigli e indicazioni a quelle signore che si
trovano a dover gestire il feudo in assenza del marito, si veda anche M.T. Guerra Medici, I diritti delle donne nella società altomedievale, Napoli 1986, 195-96.
[31] Il duca Carlo II fu
coadiuvato da Beatrice del Portogallo e Vittorio Amedeo II si avvalse più volte
della collaborazione della moglie Anna Maria.
[32] Caterina I (1683c- 1727),
imperatrice di tutte le Russie. La sua biografia è romanzesca, anche se non
pienamente attendibile. Nata da un contadino lituano si chiamava Marta. Crebbe
come serva nella casa di un pastore protestante a Marienburg. Durante
l’invasione russa del 1702 fu fatta prigioniera e finì a Mosca in casa di un
collaboratore di Pietro il Grande. Divenne l’amante dello zar nel 1703. Dopo la
nascita della figlia Caterina fu ricevuta nella chiesa ortodossa con il nome di
Caterina. Nel 1711 Pietro, dopo aver divorziato da Eudossia, la sposò. Fu una
impareggiabile compagna per il grande zar, lo accompagnò in tutte le imprese,
anche le più rischiose, dando sempre prova di grande coraggio e sangue freddo.
Nel 1722 fu proclamata successora di Pietro con un ukase e nel 1724 fu proclamata solennemente imperatrice consorte.
Divenne imperatrice alla morte di Pietro, che aveva assistito sino alla fine.
Istituì il consiglio privato supremo e in politica estera seguì una linea
anti-inglese. Sebbene praticamente analfabeta fu una donna intelligente,
sensibile e capace. Morì nel 1727. Cfr. S.M.
Solovev, History of Russia,
XIV-XVIII, St. Petrsburg 1895; K.
Walizewski, L’hèritage de Pierre
le Grand, Parigi 1911.
[33] Caterina Alexeievna ‘la
Grande’ imperatrice di tutte le Russie (1729- 1796), era figlia di Cristiano
Augusto di Anhalt-Zerbst. Sposò Pietro III Romanov nel 1745. Dopo la
deposizione del marito governò la Russia per 34 anni. Colta e politicamente
abile contribuì alla modernizzazione della sua patria adottiva. La letteratura
sulla grande imperatrice è molto ricca. Per un primo approccio si veda S.M. Solovev, History of Russia, XXI-XXIV, cit.
[34] I Germani eleggevano il
loro re e secondo il diritto germanico ogni carica temporale traeva origine
dall’elezione, cfr. M. G. H., nuo. ser., t. I, I; S Sachesenspiegel Landrecht, ed. K.A. Eckhardt, Gottinga 1955, I, 38, 55, par. 1, Al werlik gerighte hevet begin von kore, 112 .
[35] J. Ellul, Histoire des Institutions, III, Le Moyen Age, Paris 1962, 254-62; W.M. Newman, The kings the court and the royal power in France in the eleventh
century, Toulouse 1929, 55; M. Caravale,
Ordinamenti, cit., 384.
[36] E. Besta, La
successioni nella storia del diritto italiano, Padova 1935, 212-14. G. Cassandro, voce Monarchia in Enciclopedia del
diritto XXV, 1976, 732-33.
[37] G. di Monserrat, Tractatus
de G. de Monserrat Cathalani successione
regum (praecipue Galliae)…, in T.U.I., 16, nt. 2: Linea descendentium, qualiter in feudis procedat et maxime in regalibus,
f. 178 v.
[41] Per quel che riguarda
l’affermazione delle elezioni e del principio maggioritario nella Chiesa si
veda E. Ruffini, La ragione dei più, Bologna 1977; Il principio maggioritario, Milano 1976;
M.T. Guerra Medici, L’election de
l’abbesse, Democratie e droit canonique dans le couvent, in Parliaments, Estates and Representation
XVIII, 1998, 11-13.
[42] Tommaso d’Aquino, Summa
Theologica, P.I, T. II, q. 105, Resp: Unde
optima ordinatio principum est in aliqua civitate, vel regno, in quo unus
praeficitur secundum virtutem, qui omnibus praesit,et sub ipso sunt aliqui
principantes secundumm virtutem; et tamen
talis principatus ad omnes pertinet, tum quia ex omnibus eligi possunt, tum quia etiam ab omnibus eligantur.
[44] Il re Filippo III lo
avrebbe chiamato ad educare il figlio Filippo il Bello per il quale Egidio
compose il trattato De regimine principum.
Cfr. G. Santonastaso, Il pensiero politico di Egidio Romano,
Firenze 1939, 8.
[45] P. Jacobi, Practica P.
Jacobi, Lugano 1539, Pierre Jaime d’Aurillac (Petrus Jacobi) aveva studiato
legge a Monpellier, era divenuto dottore nel 1311 e poi professore, su di lui
si veda, P. Fournier, Pierre Jaime d’Aurillac (Petrus Jacobi),
jurisconsulte (sa vie et son ouvre), Hist. Litt. XXXVI, 1927, 481-521; Nouveaux
documents sur le jurisconsulte Pierre Jacobi et sa famille, Bibl. Ec.
Chartes XCVIII, 1937, 221-33 e C (1939), 72-92. Sulla scuola di Montpellier
si veda A. Gouron, Les juristes de l’ecole de Montpellier
in IRMA IV, 3, 1970, 3-35.
[46] Marsilio da Padova, Defensor
pacis of Marsilius of Padua, ed. C.W. Previté - Orton, Cambridge, Univ.
Press, 1928; Defensor Pacis nella
traduzione in volgare fiorentino del 1363, a cura di C. Pincin, Torino,
Fondazione Luigi Einaudi, 1966.
[47] P.S. Leicht, Le
funzioni elettive del popolo romano e la dottrina di Marsilio da Padova, in
Marsilio da Padova, Studi raccolti nel VI
centenario della morte a cura di A. Cecchini e N. Bobbio, Padova 1924,
39-45; A. Gewirth, Republicanism and Absolutism in the Thought
of Marsilius of Padua, in Marsilio da
Padova, Convegno internazionale, I, 23-48, pubblicato nei numeri V,
1979 e VI, 1980, di Medioevo. Rivista di
storia della filosofia medievale.
[48] Bartolo da Sassoferrato, De
regimine civtatis, in Bartoli a S.
….Commentaria.., t. IX, Venezia 1615, f.152r-153v., nt. 22.
[49] Deuteronomio 18. Il passo si riferiva alla istituzione da parte di
Dio dei sacerdoti che dovevano provvedere ai sacrifici. Il compito era stato
affidato ad Israele e a tutti suoi discendenti.
[51] Utriusque Siciliae Constitutiones, Capitula…d. A. de Isernia, B. de
Capua et aliorum…, Venezia 1598, Proemium, Sed imperium est personale, quia per electionem…regnum reale, ut ita
loquatur, quia hereditatur…Unde filius regis est rex. Le pagine del proemio
non sono numerate, le citazioni sono nella sesta pagina alle righe 38-8, 42 e
46.
[52] Sulla diffusione della
cultura francese a Napoli, in una corte di re francesi, si veda E. Cortese, Il rinascimento giuridico medievale, Roma 1992, 86-8.
[53] Sul giurista, sulla sua
formazione e sulla sua opera nell’ambito della monarchia francese si veda F. Calasso,
Andrea D’Isernia, in Dizionario Biografico degli Italiani, III,
Roma 1961, 100-3.
[54] Baldo degli Ubaldi, Baldi
U. … In primam digesti veteris commentaria….Venezia 1599. Nel commento al
titolo I del Digesto, de Iustitia et Iure
(D. 1.5) si legge, Quarto quaeritur utrum
Regna vadant per electionem, an per successionem, et dic quod sempre fuit et
sempre erit, quod primogenito succedit in regno, fallit in regno romanorum quod
est tenturum monarchia, ideo esset Rex eligendus et approbandus…. Nam si per succesionem iret indignum esset orbe regi
forte a pupillo vel mulier, nt. 11, f. 10 v-11r.
[56] L.
da Penne, Commentaria, cit., 896, nt. 10, «…Ita et regnum vel feudum quod in diem patris
mortis primogeniti defertur si procedat primogenitus spem huius successionis
transmittat in filium suum: et ipse regnum vel feudum ex huius spei
transmissione conquirat... Luca commentava C.12.43 de tironibus per giustificare i privilegi dovuti all’età e quindi
ai primogeniti»; G. di Monserrat, Tractatus de G. de Monserrat Cathalani successione regum (praecipue Galliae)…,
in T.U.I., v.16, nt. 2, Linea
descendentium, qualiter in feudis procedat et maxime in regalibus”, f.178v.
[57] Martino Garrati da Lodi, Tractatus
de primogenitura dem. M. Garati Laudensis… in T.U.I., Venezia 1584, v. X,1,
q. 8, f.16v., Quaero an ius primogeniturae
habeat locum in regnis…an regna deferantur successione vel electione, videtur
quod electione…de iure scriptum regna deferuntur electione, sed iure
consuetudinario successione…Hinc est quod regnum Franciae, Hispaniae et similia
regna de consuetudini generali deferuntur successione…primogenitus de
consuetudine generali succedit in regnum.
[58] J.
Ellul, Storia delle istituzioni, III, L’Età moderna e contemporanea dal XVI al XIX
secolo, Milano 1976, 18
[60] Sulla tutela della madre si
veda quanto ho scritto nel libro L’aria
di città: donne e diritti nella città medievale, Napoli 1996, 79-91.
[61] Fra il quarto e il quinto
secolo Pulcheria e Galla Placidia, quasi contemporaneamente, governarono le due
parti dell’impero romano, la prima in nome del fratello, Teodosio II, e la
seconda in nome del figlio, Valentiniano III. Le regine merovingie, Brunechilde
e Fredegonda, negli stessi anni ressero l’Austrasia e la Neustria in nome dei
rispettivi figli: Childeberto e Chilperico II. Teofano, e poi Adelaide di
Baviera, furono reggenti per l’impero in nome del giovane Ottone III, si veda
quanto ho scritto nel mio saggio Regine,
madri e reggenti nel diritto medievale, in Rivista di storia del diritto italiano LXX, 1997, 209-45.
[62] J. Gonzáles, El reino de Castilla en la època de Alfonso
VIII, 3, Madrid 1960, 341, nt. 769. Eleonora Plantageneta (1161-1214), figlia di
Eleonora d’Aquitania e di Enrico II, aveva sposato nel 1170 Alfonso VIII di
Castiglia. Eleonora morì solo un mese dopo il figlio e non fu mai reggente per
l’altro figlio Enrico che venne invece affidato alla sorella Berengère.
[63] Las Partidas, Partida II, tit. V, l. l.3: Que
si aveniese que al Rey niño fincase madre, essa ha da ser el primiero et el
mayoral guardador sobre todos los otros, porque naturalmente ella lo debe amar
mas que otra cosa por la laceria et el afan que levò trayendolo en su corpo, et
desi criandalo; et ellos debenia obedecer coma a señora, et facer su
mandamiento en todas las causas que fueren a pro del rey et del reyno; ma esta
guarda debe haber en quanto non casare et quinsiere estar con el niño; R. Gibert, Historia general del derecho español, Madrid 1974, 41-43. Sulla attribuzione di questo
ed altri testi al re Alfonso si veda M. Caravale,
Ordinamenti, cit., 471 e nt. 341.
[65] E. Berger, Histoire de
Blanche de Castille Reine de France, Paris s. d. Bianca di Castiglia
(1188-1252). Figlia di Eleonora Plantageneta e di Alfonso il Saggio, re di
Spagna, alla morte del marito Luigi VIII di Francia assunse la reggenza per il
re minorenne Luigi IX. La maggiore età per la nobiltà si raggiungeva a 21 anni,
il tentativo di alcuni nobili di portare il re alla maggiore età a 14 anni era
un evidente pretesto per mettere la regina fuori gioco. Il progetto fallì, Bianca rimase regina di Francia e
continuò ad esercitare una forte autorità sul figlio anche quando fu divenuto
adulto.
[66] Carlo VI (1380-1422) era
divenuto re all’età di dodici anni. Il padre, Carlo V, aveva designato come
reggente il proprio fratello, Luigi d’Angiò e tutori il duca di Borgogna e il
duca di Borbone. A questi si aggiungeva il duca di Berry il quale, sebbene non
avesse un ruolo istituzionale, controllava un terzo dello stato dai suoi
possedimenti. Nel 1392 il re, ventiquattrenne, subì il primo dei suoi
ricorrenti attacchi.
[67] Alla morte di Filippo
l’Ardito il figlio, Giovanni senza paura, subentrò nelle ambizioni paterne. Lo
scontro tra protagonisti ambiziosi e dal forte carattere provocò una frattura,
odi e sospetti all’interno della famiglia reale e disordini e guerre civili
nella Francia, ancora impegnata nella guerra dei Cento Anni con l’Inghilterra e
culminati nella disfatta di Agincourt. Quei tempi tristi e tormentati hanno una
testimone preziosa in Christine de Pisan che espresse il senso delle sofferenze
del paese nelle sue opere politiche e soprattutto nelle Lamentacion sur les maux de la guerre civile, vedili in R. Thomassy, Essai sur les écrits politiques de Christine de Pisan, suivi d’une
notice litteraire et des pièces inedites, Paris 1838; e nel Livre de la Paix, ed. Charity
C. Willard, L’Aia 1958.
[68] Isabella di Baviera
(1371-1435), figlia di Stefano II duca palatino, aveva sposato Carlo VI nel
1385 ed assunto subito un ruolo centrale nelle vicende politiche della Francia.
A Chartes aveva creato un suo Parlamento e nelle lettere si intitolava “per
grazia di Dio Regina di Francia e amministratrice del Regno”. Carlo VII viveva,
virtualmente prigioniero, nell’Armagnac e fu incoronato re dopo la vittoria di
Giovanna d’Arco ad Orleans. Per una testimonianza diretta degli avvenimenti di
quegli anni si vedano C. de Pisan,
Le livre du corps de policie nella
ed. The
Book of the Body Politic, ed. K. Langdon Forhan, Introduction,
XIII-XXIV, Cambridge 1994. Non meno turbolenti furono gli avvenimenti che accompagnarono il regno
di Enrico VI in Inghilterra. Anche
questo sovrano era incapace di governare, a lui fu affiancato un lord
protettore, e gli avvenimenti che ne seguirono diedero l’avvio alla ‘Guerra
delle due rose’. La regina Margherita, divenuta madre dopo otto anni di
matrimonio, tentò in tutti i modi, anche con le armi, di salvare il trono al
marito e di conservarlo per il figlio: il tentativo non riuscì e il Parlamento
dichiarò successore del re lo stesso duca di York. Margherita d’Angiò
(1430-1482) era figlia di Renato d’Angiò, conte di Provenza e di Anjou. Sposò
Enrico VI Lancaster, re d’Inghilterra, nel 1443. Esercitò un grande potere a
causa della assoluta incapacità del marito.
J.J. Bagley, Margaret of Anjou,
Queen of England, London 1948; M.
Christie, Henry VI, Boston
1922; J. Petithuguenin, La vie tragique de Marguerite d’Anjou reine
d’Angleterre; J. Ramsay, Lancaster and York, II, Oxford 1892;
J. Dahmus, Seven Medieval Queens, New York 1972.
[70] Luigi XI in punto di morte
aveva affidato il re tredicenne Carlo VIII alla figlia Anne de Beaujeu che fu
reggente di fatto per il fratello fino al 1490.
[71] La madre di Francesco I,
Luisa di Savoia fu reggente per il figlio durante la spedizione di questi nel
milanese e poi ancora quando il re fu prigioniero di Carlo V.
[72] A. Power, The Regency
of Maria de Médicis, New York 1903; S.
Mastellone, La reggenza di Maria
de’Medici, Firenze, 1962.
[73] Il duca di Orleans era
luogotenente generale, il principe di Condé capo del Consiglio del quale
facevano parte Pierre Séguier, il Cancelliere Claude Bouthillier,
sovrintendente alle finanze, suo figlio Chevigny ed il cardinale Mazzarino. Gli
ultimi giorni del re sono descritti con pathos e partecipazione dal suo
valletto Dubois «…Le lundì vingtième il fit le plus haute action qui se pouvait
faire en semblamble occasion. Il déclara la Reine Régente
aprés sa mort. Il fit cette action avec un visage gai et satisfait, en présence de la Reine, de Monsieur le duc
d’Orleans, de Monsieur le Prince et de tout ce qu'’l y avait de grands de la
cour…» cfr. P. Erlanger, La Monarchie franVaise. 1515-1715. Du
Roi-Chevalier au Roi Soleil, VIII, Le régne de Louis XIII, Paris 1972, Annexe, La mort de Louis XIII racontée par son valet Dubois, 357.
[74] Lundy diz-huitieme mil
sixcents quarante-trois. Le Roy Louis XIV, du nom feant en fon Lit de Justice. «Juché sur une pyramide de coussin fleurdelisés, le petit roi de cinq
ans a présidé la séance où le Parlement, cassant le textament de Louis XIII,
qui instituait un conseil de la Régence, a remis à la Reine, sa mère, un
pouvoir sans limite», cfr. P. Erlanger,
La Monarchie, cit., IX, Louis XIV.
1643-1680, 21; P. Dupuy, Traité de la majorité de nos rois et de
regences du royame, Amsterdam 1722.
[75] Voltaire (François-Marie
Arouet), Le siècle de Louis XIV, cap. III, p. 636 della ed. Bibliothèque
de la Pléiade, Voltaire, Oeuvres
Historiques, Dijon 1957. «L’usage qui donne la régence aux mères des rois
parut donc alors aux FranVais une loi presque aussi fondamentale que celle qui prive les femmes de la
couronne. Le Parlement de Paris ayant décidé deux fois cette question
c’est-à-dire ayant seul déclaré par des arrets ce droit des meres, parut en
effet avoir donné la régence; il se regarda, non sans quelque vraisemblance,
comme le tuteur des rois, et chaque conseilller crut etre une partie de la
souveraineté».
[76] Per quel che riguarda la
formazione dello stato sabaudo si veda, G.
Astuti, Gli ordinamenti giuridici
degli stati sabaudi, ora in Tradizione
romanistica, Napoli 1984, 621-710; G.S.
Pene Vidari, Profili delle
istituzioni sabaude da Amedeo VIII a Carlo Emanuele III, in Bollettino della Società per gli studi
storici, archeologici ed artistici della prov. di Cuneo 89, 1983, 27-39; E. Cortese, Il diritto,II, cit., 355-61.
[77] L’episodio, noto come la
lotta delle due Bone, si riferisce ai contrasti tra Bona di Borbone, vedova di
Amedeo VI e Bona di Berry, vedova di Amedeo VII.
[78] Einaudi proponeva di
agevolare il ritorno in Italia della principessa di Piemonte e del figlio e di
affidare la reggenza a Maria José affiancata da consiglieri, cfr. L. Einaudi, Diario dall’esilio. 1943-1944, Torino 1997, XXXV-XXXVI
dell’Introduzione di P. Soddu. Il
tentativo di salvare la monarchia per questa via fallì, cfr. Diario, lunedì, 7 gennaio 1944, 91.
[79] V.E. Orlando, voce Reggenza,
in Nuovo Digesto Italiano, XI, Torino
1939; E. Pagliano, Reggenza e luogotenenza, Roma 1915,
48-52.
[80] A. Morelli, Il re,
Bologna 1809; E. Crosa, La monarchia nel diritto pubblico italiano,
Torino 1922; E. Saìlis, Fondamento e natura giuridica della Reggenza,
Milano 1940.
[81] Las Partidas, Partida II, tit. V, l. l.3, cit., vedi sopra nt. Si vedano sul tema della reggenza materna: P.
Dupuy, Traité de la majorité des
nos rois et des régences du royaume, avec les preuves tirées tant du Trésor de
chartes du roy que des registres du parlement ensemble un traité des
prééminences du parlement de Paris, Paris 1655; F. Solar L. Dufau, Prècis
historique des règences en France, Paris 1849; E. Laboulaye, Recerches
sur la condition civile et politique des femmes, depuis les romaines jusqu’a
nos jours, Paris 1893, 324
ss., A. Kirchenheim, Die Regentschaft, Lipsia 1880, e il mio Regine, cit.
[82] Costituzione del 1791, Sez.
II, Della Reggenza, art. 2: «La reggenza spetta al parente del Re di grado più
vicino, secondo l’ordine dell’eredità al trono….Le donne sono escluse dalla
Reggenza». Alla madre era tuttavia ancora consentita la tutela del re
minorenne, Sez. II, art. 3: «La madre del Re minore che ne abbia la custodia, o
il custode eletto, se escono dal Regno, decadono dalla custodia. Se la madre
dell’erede presuntivo minore esce dal regno, non potrà anche dopo il suo
ritorno, avere la custodia di suo figlio minore divenuto Re, se non per un
decreto del Corpo legislativo». Cfr. A.
Saitta, Costituenti e Costituzioni
della Francia moderna, Torino 1952, 77 e 79. Nonostante fosse stata
riconosciuta alla madre la tutela per i figli minori durante le discussioni per
i lavori preparatori del codice civile questo principio trovò l’opposizione di
Cambacéres che si opponeva ad un riconoscimento di diritto, la debolezza del
sesso, l’incapacità ecc., vennero ancora addotte a giustifcazione delle
esitazioni del legislatore, cfr. P.A.
Fenet, Recueil complet des Travaux
Préparatoires du Code Civil, ris. anas. della ed. del 1827, Osnabrück 1968,
t. X, titre x, De la minorité, de la
tutelle et de l’émancipation,. 544 ss.
[84] Come aveva riconosciuto un
giurista cinquecentesco, Filippo Decio,
il diritto che escludeva le madri dalla tutela era un diritto antico al quale
si era sostituita la norma del diritto comune secondo la quale la tutela veniva
affidata alla madre, Hodie verum, etiam
de iure communi, mulier abilitata est ut tutelam filiorum suscipere possit…,
cfr. In titulus D. de regulis iuris, Venezia 1608, 34. Per la tutela della
madre si veda M.T. Guerra Medici, L’aria di città, cit., e per le reggenze
medievali Regine, cit.; F.M.A. Voltaire, Le siècle, cit., 636
[86] M.L. de Printzen, Disputatio
LXXXIV de Tutelis illustrium, in E.
Coccejo, H. de Cocceji
…Exercitationum curiosarum…, I, Lemgoviae 1722, 1281-1301.
[89] Per quel che riguarda lo Erblehen
o feudum ereditarium o perpetuum si veda K.F. Krieger, Die Lehnshoeit der deutschen
Könige im Spätmittelalter, Aalen 1979, 48-52. Il problema era già stato
posto dalla giurisprudenza italiana e riassunto da Alberto Bruno in un consilium con il quale si ammetteva che
la signora feudale come madre tutrice esercitava una giurisdizione che era
annessa al feudo; A. Bruno, Consiliorium feudalium D. Alberti Bruni ast.,
Venezia 1579, II, cons. 147, in fin. P. 55r, …Quia respondetur….ista iurisdictio est annexa Feudo, potest, per ipsam
Magnificam Dominam exerceri….
[90] In merito al complesso
problema della formazione degli stati tedeschi si veda O Brunner, Terra, cit., in particolare, 27-319; per la costruzione di un
possibile modello che colleghi la dimensione dello stato alla sua formazione si
veda S. Rokkan, Dimension of State Formation and Nation-Building: a Possible Paradigm
for Research on Variations Within Europe, in The Formation o National States in Western Europe, ed. C. Tilly, Princeton 1975, 562-600.
[91] Per quel che riguarda la
formazione e la distinzione delle signorie tedesche si veda O. Brunner, Terra, cit., 231 ss. Per una descrizione dettagliata delle signorie
medievali in Germania e Austria si veda W.
Brauneder, Le strutture territoriali nell’area austriaca e tedesco-meridionale,
in L’Organizzazione del territorio in Italia e Germania: sec. XIII-XIV,
a cura di G. Chittolini e D. Willoweit, Bologna, 39-70. Per la distinzione fra
signoria fondiaria e signoria territoriale si veda M. Caravale, Ordinamenti,
cit., 108-15 e 164-74.
[92] M:L. De Printzen, Disputatio, cit., 1304, Habuimus
quidem hoc ipso seculo in Principatu Ostrisiae, in Landgraviatu Cassellano et
Darmastadiano exempla illustria contraria, ut Amelia Elisabetta tutricis hodierni illustrissimi Landgravii Wilhelmi ,
sed in his familis speciali jure, usu, dispositione, vel consensu potius hoc
introductum est, quod proinde iuri communi derogat. Sed serenissima matri
Principis Ostrisiae, tutelam ejus anno 1660, obeunti, valde contradixit Patruus
ipsius: et casus eos singulares esse diximus.
[95] Cod. Teod. 3.17.4, matres
quae amissis viris tutelam administrationem negotiorum in liberos postulant
… e C. 5.35.2, Matres quae amissi viris
..ut mulier ,si aetate maiore est, tunc demum petendae tutelae ius habeat…. Giustiniano confermò l’esclusione
delle donne dall’esercizio della tutela …nisi
mater vel avia fuerit.. Cfr. Nov. 118.5. Sulla tutela materna si veda il
mio L’aria, cit., 79-91, ed anche La régence de la mère dans le droit
médiéval, in Parliaments, Estates
& Representation 17, 1997, 1-11. Sul tema della tutela materna si veda,
G. Calvi, Il contratto morale. Madri e figli nella Toscana moderna, Bari
1994.
[96] Alla base delle
elaborazioni scientifiche stava la dottrina del diritto naturale inteso come
modo fenomenico di apparizione del buono e del giusto quale risulta dalla forma
innata della ragione umana. Per un approfondimento del concetto di diritto
naturale si veda A. Passerin d’Entrèves,
La dottrina del diritto naturale,
Milano 1980 (1954), per una bibliografia più ampia si veda il mio Diritto internazionale nel diritto medievale
e moderno, estr. da Digesto, IV
Ed., v. V Pubblicistico, Torino 1990. Il diritto di natura risaliva alla fonte
del diritto romano attraverso un frammento di Ulpiano (D. 1.1.1.3) …Ius naturale est quod natura omnia animalia
docuit…In esso la scienza giuridica medievale aveva trovato il fondamento
sia alle esigenze etiche della scienza canonistica sia a quelle della scienza
civilistica che vi trovava «il solido ancoramento del diritto all’equità». Cfr.
E. Cortese, La norma, I, cit., 47, al quale rimando anche per un approfondito
esame delle posizioni dei canonisti e dei civilisti, 37 ss. Per quel che
riguarda lo sviluppo della dottrina del diritto naturale in Germania si veda M
.Stolleis, Geschichte des öffentlichen Rechts in Deutschland. E. B. 1600-1800,
Monaco 1988, in particolare. 268-97.
[97] Nel frammento ulpianeo lo ius naturale si riferiva a tutti gli
esseri animati, mentre lo ius gentium
si riferiva agli esseri umani e nonostante le chiarificazioni poste dalla
dottrina «in parecchi casi i due ordinamenti apparivano confusi», cfr. E. Cortese, La norma, I, cit., 73. Il diritto delle genti invocato dalla
scienza Seicentesca affondava le sue radici nel diritto romano e nella
filosofia scolastica.
[98] Sul tema della nobiltà
delle donne e dell’esercizio di officia,
giurisdizioni o incarichi amministrativi si veda quanto ho scritto in L’aria, cit., 163-8.
[99] J.P. Kress, De iuribus
foeminarum illustrium in Germania, Helmstadt 1630; E. R. Goclenio, Dissertatio
de iure foemina illustri, Rint 1687; G.M. Ludolff, Commentarium de iure foeminarum illustrium, Jena 1711; J.J.B. Prugger, Dissertatio in iuris et consuetudines Bavariae de iure foeminarum
illustris, Ingolstadt 1765; F.J.
Bodmann, De iure feminarum
illustrium, Dissertatio de iure foeminarum illustrium adpirandi ad substantiam
patris, fratribus allodialem neo acquisitam, Wurt. 1780; G.L. Böhmer, Electa iuris feudalis, 1795, nt. 5, De foemina ministeriali.