Università di Roma “La Sapienza”
UN PERSONAGGIO IN CERCA DI AUTORE. LA COMPILAZIONE GIUSTINIANEA NEL MEDIOEVO
1. Ci sono stati momenti, nella
storia, in cui la nascita di ordinamenti politici minori in seno a ordini più
vasti ha creato problemi teorici significativi circa l'uso delle norme più
generali entro i sistemi più piccoli. Un caso noto e studiato è quello del Diritto
romano-comune medievale, di cui non solo l'immagine è stata controversa, ma le
cui relazioni con i diritti particolari sono apparsi tutt'altro che uniformi,
morbide e chiare con taluno ma con altri brusche e oscure. L'Impero, anche dopo
le traversie dei tempi del primo Federico, aveva conservato nella mente dei
giuristi la carica universale antica e l'aveva riversata sulle leges giustinianee, alimentando la
pretesa che vigessero ovunque. La cosa non aveva sollevato difficoltà nei paesi
di diritto scritto – ove peraltro quelle leges
erano tradizionalmente diritto positivo – quando a rappresentare il
"particolare" opposto all'"universale" furono i Comuni, che
almeno a parole si riconoscevano subordinati politicamente e giuridicamente. Ma
i Comuni costituivano una realtà limitata nel quadro politico europeo. La
grande novità dei tempi era costituita piuttosto dal nascere e dal consolidarsi
dei regni territoriali. E lì lo scontro tra diritto romano di marca imperiale e
la sovranità dei re fu aperto e combattuto.
2. Per tutto il Medioevo gli
ordinamenti giuridici hanno assegnato un ruolo ridotto alla legislazione. Essi
sono stati formati per la maggior parte non dall'alto ma dal basso a opera di
forze spontanee della società[1], tanto che vi sarebbe da pensare
per quei tempi a uno «svincolo del giuridico dall'abbraccio condizionante del
politico»[2]. Con la conseguenza che, persino
nel nuovo millennio, quando lo studio della compilazione giustinianea ripropose
all'attenzione l'immagine del princeps
padre oltre che obbediente figlio delle leggi, l'opinione comune sarebbe
rimasta affezionata alla biblica figura del rex-iudex, interprete della giustizia più
che creatore dell'ordinamento; una concezione non formale della legge si
sarebbe sempre imposta all'ombra di un ordo
formato al contempo da Dio e dalla vita sociale piuttosto che da un insieme di
comandi discrezionali del potere[3]. Le grandi scuole romanistiche,
poi, si sarebbero riparate dietro l'autorevolezza del Corpus iuris per dedicarsi, anziché a interpretare il testo delle leges in vista di una fedele
applicazione, piuttosto a enucleare e a fissare quell’ordo e sopratutto a costruire liberamente forme nuove adatte alle
esigenze nuove[4].
Questo quadro, tracciato pochi
anni or sono a grandi linee in modo avvincente, eccita l'attenzione, e induce
magari a ripensare qualche problema. C'è da domandarsi anzitutto quale natura
venisse riconosciuta, nella seconda parte del Medioevo, alla compilazione
giustinianea, che non era solo il libro dal quale i giuristi traevano ispirazione
per inventare il diritto comune, ma era un glorioso complesso normativo che si
portava dietro, indelebilmente impressa, la qualifica di 'legge'.
La sfera d'azione del Corpus iuris, si sa, era vastissima.
Essa copriva tra l'altro il diritto privato, ossia proprio quell'enorme spazio
della vita giuridica che gli interventi legislativi medievali, comunque sempre
scarsi, tendevano a ignorare. Ma l'idea che il Corpus iuris fosse indipendente dai poteri di produzione
legislativa in carica, ossia dal 'politico', era forse consona alla situazione
d'oltr'Alpe, ma risultava òstica alla mentalità giuridica italiana che non
rinnegò mai esplicitamente la sua natura positiva e la sua vigenza. Come si
poteva immaginare, da noi, che configurasse, per così dire, un «diritto senza
Stato»[5]? Lo si invocava come la legge
per antonomasia tanto che i suoi studiosi si chiamavano 'legisti': togliergli
il supporto politico e respingerne l'esegesi e l'applicazione in quella larga
sezione dell'ordinamento ch'era affidata alle consuetudini e alle autonomie
significava appannarne la storia e la dignità.
Naturalmente sarebbe senza senso
immaginare che il Corpus iuris
nutrisse la curiosa aspirazione a una sorta di 'statualità', come quella di cui
si parla oggi. Una simile idea potrebbe persino indurre nella pericolosa
tentazione di addentrarsi nel discusso e discutibile problema se lo 'Stato'
(quello moderno, naturalmente, ma la precisazione è spesso soltanto sottintesa)
cominciasse o non a formarsi nel tardo Medioevo – qualche storico del diritto
si è avvalso di argomenti bizzarri per negarlo[6] – o se non vedesse la luce più
tardi, nella celebratissima fucina politica e teorica cinquecentesca[7] se non addirittura negli
ordinamenti illuministici e postrivoluzionari. Quasi a corollario di tali
discussioni potrebbe esserci il rischio di cadere su stravaganti dubbi intorno
alla nascita del concetto di sovranità[8]: e senza Stato né sovranità il
Medioevo vedrebbe inaridire ogni sorgente di forza normativa.
3. A parte il fatto che le
ricerche di date di nascita e di morte di fenomeni storici e specialmente di
concetti sono spesso ricerche di chimere, colpisce la naturalezza con cui si
tende oggi a presupporre che non vi sia Stato ove non si riscontrino
corrispondenze sostanziali al modello odierno. Il giurista, in particolare,
quando pensa allo Stato ha innanzi agli occhi l'attuale monstrum astratto capace d'intendere e di volere, dotato di
singolare invadenza nell'esercizio di un governo tendenzialmente totalitario su
una popolazione e un territorio, e sicuro di costituire la fonte diretta o
indiretta del diritto[9]. E questo certo trova pochi
riscontri nell'età di mezzo.
Ma i concetti di Stato e di
sovranità non son che meccanismi di raccordo tra il dato 'politico' e il
'giuridico': e sin dall'antichità tale funzione di raccordo è stata svolta da
strutture pubbliche anche complesse; quella imperiale romana, per esempio, era
un organismo non da poco, e nel linguaggio corrente, per indicarne la stabilità
e la giuridicità, si parlava di status
rei Romanae[10]; la Chiesa, dal canto suo, si
preoccupava molto dello status Ecclesiae[11], mentre il pensiero medievale
invocava lo status Regni[12] o lo status Imperii. La parola status,
beninteso, indicava non il soggetto agente, come al giorno d'oggi, ma la
condizione giuridica della struttura pubblica oggettiva[13] entro e mediante la quale il
soggetto – imperatore o re o principe o papa – si muoveva. Una struttura di cui
il pensiero medievale andò tuttavia presto accentuando la natura di ente
astratto: venne risvegliata, per esempio, la concezione della res publica romana[14]; la corona fu ritenuta titolare di diritti separati da quelli del
monarca, e fu considerata ente ubiquo e immortale[15]; in Italia Marino da Caramanico
parlò del Regnum Siciliae come di una
universitas[16]; a Orléans, nella seconda metà del
Duecento, Jacques de Revigny insegnò che la potestas absoluta
non spettava al princeps quale
persona individua, ma che il princeps
la esercitava occasionalmente e cum causa
in nome dell'ente Imperium; precisò
poi che quest'Imperium era un'universitas antropomorfizzata, una persona repraesentata del tipo della persona ficta di Sinibaldo Fieschi:
quanto dire una persona giuridica[17].
Quanto poi al concetto di
sovranità – senza il quale le leggi non sarebbero formalmente leggi – è
difficile comprendere le remore a parlarne per il Medioevo. Si sorvoli pure sul
fatto che il termine stesso già circolava nella Francia del Duecento[18], ch'è cosa secondaria; è di
assai maggior peso ricordare come le norme romane e della Chiesa prospettassero
– sollecitando elaborazioni teoriche assai ricche – i termini auctoritas, potestas e altri che offrivano l'estro, già ai tempi dei
glossatori, per articolati disegni dei poteri supremi: dai quali era tutt'altro
che esclusa la componente legislativa. Alle enunciazioni teoriche
corrispondevano d'altronde iniziative politiche: basti pensare alle
codificazioni di Federico II nel Regno di Sicilia e di Alfonso il Saggio in
Castiglia e León che si presentano come espressioni duecentesche tutt'altro che
insignificanti di un dichiarato monopolio legislativo regio.
4. Qualunque forma assumessero
nel Medioevo le variabili istituzioni pubbliche, e chiunque fosse il titolare
degli altrettanto variabili pubblici poteri, resta che funzionava sempre
un'àncora istituzionale a cui fermare prassi e norme ondivaghe. Gli ordinamenti
spontanei dovevano convivere con la loro cornice ufficiale, il diritto prodotto
dal basso chiedeva un marchio impresso dall'alto, e qualsiasi diritto formatosi
'senza stato' cercava poi un'autorità politica di appoggio, ossia, alla fin dei
conti, un quadro normativo di paternità statuale.
Di leggi vere e proprie se ne
facevan poche, come si è detto, specialmente per quel che riguardava i rapporti
dei privati; il potere si occupava dell'organizzazione amministrativa, ossia
dell'antico ius publicum ulpianeo,
mentre quanto concerneva l'utilitas
singulorum era lasciato o alla regolamentazione da parte dei gruppi sociali
oppure, in misura via via crescente, alle costruzioni dei giuristi: allo stesso
modo in cui, nella Roma antica, il diritto privato era stato a lungo riserva di
caccia degli iura. Ma ciò non
significa che la massa di diritto non derivato da un'autorità ufficiale
rimanesse sempre, per così dire, acefala; persino nel disorganico alto Medioevo,
tempo di consuetudini e di regole spontanee, quando queste venivano redatte dai
re longobardi o quando Carlo Magno, profittando degli ozi bellici dell'802-803,
faceva correggere e pubblicare le ancestrali leges popolari germaniche, quei complessi venivano marcati di un
forte marchio di ufficialità: un marchio riconosciuto da tutti e al quale tutti
si dimostravano ossequienti. Per di più le compilazioni restavano sotto il
controllo del sovrano, come ben dimostrano le folate periodiche di Editti longobardi
e i numerosi capitularia legibus addita
carolingi.
5. Quanto al diritto
giustinianeo, sono note le sue contrastate vicende nei tempi oscuri anteriori
al Mille. Entro la prima metà dell'VIII secolo, dopo l'emanazione dell'Ecloga
di Leone l'Isaurico e la fine dell'Esarcato, esso aveva tagliato i tradizionali
ormeggi all'Impero costantinopolitano. E in Italia aveva cominciato a
galleggiare, apparentemente alla deriva, senza più attingere legittimità ed
efficacia dal suo imperiale autore.
In parte si era volgarizzato e
trasformato in consuetudine, ma non tutto. Un'altra autorità ne sorreggeva
resti esili, sì, ma conservati nella lezione autentica e muniti dell'antica
patente legislativa: era la Chiesa, che del diritto giustinianeo continuava a
usare per i suoi negozi temporali. E la Chiesa era altissimo potere formale
capace d'irraggiare, tra l'altro, la medesima carica di sovranazionalità che il
vecchio Impero aveva posseduto per sé e conferito alle sue auguste leges.
Forse sotto l'impressione di quel
ritorno dell'Impero nell'antica sede di Roma ch'era stato voluto dal pontefice
nel Natale 800, e aveva eccitato la nota ondata di entusiasmo per la romanità e
per le sue memorie, la Chiesa aprì una stagione di snelle antologie di testi
giustinianei: difficile dir qualcosa della fantomatica Lex Romana che lo stesso Carlo Magno sembra richiamare[19], ma i suoi probabili derivati
più tardi – la Lex Romana canonice compta,
gli Excerpta Bobiensia, la parte
romanistica della Collectio Anselmo
dedicata – mostrano quanto la Chiesa del IX secolo tenesse a preservare
almeno frammenti del Giustiniano genuino. La familiarità tra quest'ultimo e il
papa andò allora crescendo e divenne, anzi, tanto intima da generare quel
connubio tra la lex romana e la divina – comprensiva del diritto
canonico in senso stretto – che riuscì a fondere insieme i due ordinamenti nel
sistema unitario denominato dal Calasso dell'utraque lex[20]. Sembrò infatti, a molti notai
tra X e XI secolo, che le leges
disciplinassero i rapporti temporali con l'ausilio dell'auctoritas ecclesiastica[21], e nel X secolo persino la
proprietà parve loro da regolare canonico
ordine et legibus[22].
Fu la Chiesa, insomma, a
rifornire di auctoritas i resti della
compilazione giustinianea attirandoli nell'orbita del proprio ordinamento, e a
preservare così la loro natura legislativa originaria.
6. La nascita delle scuole e
della scienza romanistica, tra la fine dell'XI e l'inizio del XII secolo, diede
il via a una svolta. Quando le leges
riapparvero ai glossatori aureolate della stessa aureola che circondava il capo
del mitico legislatore Giustiniano – un'aureola tutta temporale – divenne
inadeguato l'ombrello protettivo e legittimante della Chiesa. Esse andarono
quindi alla ricerca di un nuovo ancoraggio a un potere laico coevo, capace di
far le veci dello scomparso Giustiniano bizantino.
Non che la Chiesa, pur piegandosi
all'idea che fosse un'auctoritas
laica a dare sostegno politico al diritto romano, accettasse l'ipotesi che
questo divorziasse dal diritto canonico. Fu lei, al contrario, a lavorar
pazientemente al restauro di quel legame che le era caro perché garantiva
l'ortodossia etico-religiosa dell'ordinamento secolare; dal tardo Duecento le
riuscì d'imporre anche alle scuole civilistiche il ben noto meccanismo dell'utrumque ius che rilanciava, nell'àmbito
del sistema tendenzialmente universale del Diritto comune, l'antico connubio
tra le due leggi. Era a ogni modo un connubio di stampo gelasiano, che
rinunciava a ogni pretesa di esclusiva appropriazione.
L'Impero, sin dalla lotta per le
investiture e l'inizio dell'affannosa politica di recupero delle regalie, aveva
cominciato a gettare qualche grappino per attrarre a sé le leggi romane. La
mossa finale fu compiuta da Federico Barbarossa, ammiratore della scuola di
Bologna e dei suoi maestri, che si appropriò del Corpus iuris e della sua scienza con abile operazione politica;
proclamò ad alta voce, ignorando ogni contraria pretesa bizantina, che il
proprio Impero era la continuazione di quello di Roma e che pertanto le leggi
di Roma erano le sue[23]. L'Occidente riconobbe allora
che Codice, Digesto, Novelle e Istituzioni avrebbero attinto efficacia da lui e
dai suoi successori[24].
Naturalmente si trattava di una
mistificazione. Essa conteneva oltretutto l'implicita pretesa che al nuovo
Impero fosse riconosciuta la natura sovranazionale dell'antico, e che il suo
potere originario e supremo – la sua sovranità, per così dire – si estendesse
quindi su tutte le terre d'Occidente. Una bella presunzione, in verità. Ormai
la politica del recupero delle regalie imperiali mostrava la corda, il papa
combatteva per impedire l'esercizio dei tradizionali diritti del monarca
sull'organizzazione ecclesiastica, le città italiane rivendicavano le proprie
consuetudini, un proprio fisco e la nomina dei propri magistrati, i grandi
regni in crescita non ammettevano che si osasse dubitare della loro piena
indipendenza.
Su quest'ultimo punto i
pontefici, cronicamente in disaccordo con l'Impero, si dichiaravano in accordo
con i re. L'inglese Alano, uno dei primi decretalisti e una delle prime voci
ierocratiche, testimonia che la divisio
regnorum, un portato ineluttabile di un ius
gentium nuovo, a papa approbatur[25]. In effetti era proprio la
Chiesa a porre in quel tempo sul tappeto sia il problema teorico della piena
sovranità dei regni territoriali in deroga all'asserita potestà universale
dell'Impero, sia la questione conseguente se l'imperiale diritto romano vigesse
o non in quei regni. La decretale Per
venerabilem d'Innocenzo III, la formula rex
superiorem non recognoscens in regno suo est imperator, il riconoscimento
della sovranità dei re sul piano politico concreto (de facto) e dell'imperatore sul piano giuridico astratto (de iure) – ai sensi cioè di quel diritto
romano ch'era quindi dato, sempre in astratto, per tuttora vigente – son cose
tanto note che non vale la pena di fermarsi a commentarle[26].
E' noto altresì, ma qui è
necessario ricordarlo, che, se i decretisti fecero buon viso all'idea che il
diritto romano comune dovesse alimentarsi dall'auctoritas imperiale, taluni vollero scansare l'inevitabile
deduzione che ciò dipendesse necessariamente dalla sudditanza di príncipi e re
dal monarca universale. Essi ricorsero allora, come alternativa, alla
tradizione antica che riconduceva anche al volere della Chiesa l'obbligo di
rispettare il diritto romano: e alla Chiesa – si sapeva bene – erano soggetti
tutti i fedeli[27]. Chi avesse voluto contestare la
vigenza del Corpus iuris ratione imperii doveva dunque pur sempre
riconoscerla ratione ecclesiae[28]: e così il trono di Pietro si
dichiarava tuttora pronto a rifornir le vecchie leges di efficacia normativa formale, come ai vecchi tempi
dell'alto Medioevo. Ad assicurare loro, insomma, quella copertura politica
della quale si riteneva non potessero fare a meno.
7. Molti erano però restii ad
ammettere l'autorità nonché dell'Impero anche della Chiesa sul Corpus iuris. A mostrare scetticismo
erano sopratutto i sudditi, anche se ecclesiastici, dei regni territoriali in
cui tutta la sovranità spettava notoriamente ai re. Nel loro spirito doveva
giocare anche un certo nazionalismo se persino un canonista come Lorenzo
Ispano, un po' più giovane di Uguccione, si ribellava all'idea che il papa
potesse imporre ai regni le leggi romane, e rivendicava per contro a qualsiasi
ordinamento politico la capacità di scegliersi il proprio diritto[29]. Nel regno di Sicilia, poi, dal
1231 la Post mundi machinam del Liber Augustalis aveva provveduto
ufficialmente a togliere ogni autorità a norme non recepite dalle costituzioni
regie.
Se le tormentate vicende della
monarchia sveva non avevano permesso súbito ai giuristi meridionali di
corredare quel libro di organici apparati di glosse e di commenti, l'epoca
angioina ne conobbe una buona fioritura. Il codice stesso prospettava, con la
cost. Puritatem, la vigenza del
diritto romano, e a nessuno veniva in mente di derivare tale vigenza dall'auctoritas imperiale dato che tutti
sapevano che quell'auctoritas non si
esercitava de iure sul nostro
Mezzogiorno: Federico stesso, infatti, si era impegnato con la promissio Argentinensis prestata nel
luglio del 1216 a Innocenzo III, e rinnovata nel febbraio del 1220 a Onorio III[30], a tenere per sempre disgiunto
il regno dall'Impero. Ecco allora Marino da Caramanico, pressato dal consueto
bisogno di appoggiar l'ordinamento comune a una 'sovranità', trasformare un
diritto che aveva goduto da sempre del marchio sovranazionale, omologo della
sovranazionalità dell'Impero di Roma, in un semplice e limitato ordinamento
territoriale. La legittimazione del diritto romano usato per lunga
consuetudine, scrive infatti Marino, proviene formalmente dalla volontà del re[31], ossia dalla sovranità locale,
fonte, diretta o indiretta, della vigenza di ogni norma entro i confini dello
Stato.
Non so se Marino, sul quale
secondo il Monti agì l'influenza dei francesi[32], ebbe notizia di quel detto di
San Luigi il quale nel 1254 aveva confermato l'uso degli iura scripta non perché si sentisse a ciò obbligato, ma solo perché
non voleva che si modificassero le consuetudini vigenti in certe parti del
regno[33]: un atteggiamento che sembra
dimostrare che anche in Francia circolavano idee abbastanza simili a quelle del
glossatore. Salvo che il pensiero di quest'ultimo poteva svolgersi in modo
particolarmente circostanziato e vigoroso perché si attagliava bene al Regno di
Sicilia: dal 1231 la monarchia meridionale spiccava infatti fra tutte per il
suo codice organico, simbolo eccezionale della plena et rotunda potestas del sovrano sul territorio, sui sudditi e
sull'ordinamento[34].
8. Nell'Italia comunale invece, e
negli Studia famosi che vi fiorivano,
la scienza giuridica non ebbe remore a conservar l'idea che il diritto romano
comune, essendo l'ordinamento dell'Impero, dovesse necessariamente attingere da
quest'ultimo la dose di auctoritas
necessaria alla sua efficacia normativa. E fa impressione che a tener ferma
tale idea fossero i grandi commentatori trecenteschi per i quali l'Impero
doveva apparire poco più di uno spettro, dopo che la fine della dinastia sveva
e il guelfismo trionfante gli avevano tolto le forze e avevano seppellito la
sua speranza, tanto a lungo nutrita, di recuperare gli antichi poteri[35]. Evidentemente il diritto
comune, almeno in Italia, pur di mantenere l'aggancio a un ordinamento politico
universale si contentava di ormeggi meramente formali; gli bastava insomma
un'astratta legittimazione da parte di un'astratta entità. Era un navigar nel
mare delle pure forme che ricorda, in fondo, le rotte tra meri concetti seguíte
dai vecchi decretalisti quando parlavano di soggezione de iure dei regni all'Impero per salvare de iure la vigenza in essi del diritto romano: salvo a riscontrar
che de facto le cose stavano
altrimenti[36]. Ed è curioso constatare in
queste ultime enunciazioni come, il ius
non essendo altro che la compilazione giustinianea, questa fosse chiamata, in
buona sostanza, a convalidar se stessa.
9. Il Cinquecento, si ripete
sempre, è il secolo del consolidamento degli ordinamenti monarchici; la
Francia, in particolare, accelera l'ascesa ai vertici della potenza. E' anche
il secolo, si continua a dire, in cui si afferma proprio in Francia il concetto
di sovranità, concetto di cui si usa far merito a quel Jean Bodin che passa per
il suo primo teorizzatore, se non addirittura per il suo inventore. E' il
secolo in cui, per conseguenza, partendo dalla consueta avocazione delle
consuetudini locali al controllo e al marchio del sovrano si procede per tappe
verso il progressivo potenziamento della legislazione regia vera e propria.
E' anche il secolo dei trionfi
scientifici del diritto romano, che ispira in Francia inarrivabili scuole di
giuristi culti. E tuttavia, malgrado il contesto culturale francese ricco di
romanisti geniali, la pressione di vecchie pratiche forensi tende a spegnere la
carica normativa della compilazione giustinianea. Non è un paradosso: in realtà
l'affermarsi della sovranità statuale e regia dà nuovo risalto al fatto che nel
pays de droit coutumier, le leges giustinianee non essendo diritto
positivo, era naturale la tendenza a svuotarle di auctoritas politica, per ridurle a un insieme di rationes appetibili soltanto per il
potenziale teorico prezioso.
Anche in Italia l'uso di giocare
con le rationes legum tradendo la
lettera era stato avviato dal Duecento, ma era stato fenomeno essenzialmente di
metodo scientifico – esportato poi dalla scuola nei tribunali – e non aveva
comportato alcuna dichiarata delegificazione del Corpus iuris: se non altro perché il dare per scontata la sua
efficacia legislativa garantiva alle invenzioni dei giuristi la migliore
copertura formale e di validità[37]. In Francia, invece, sin dal
Due-Trecento erano stati giudici e avvocati ad applicare nella prassi quelle rationes senza nemmeno curarsi di citare
le leggi da cui erano tratte, mostrando in tal modo una completa indifferenza
alla natura legislativa della compilazione giustinianea.
Gli atteggiamenti della prassi
francese fecero notizia in Italia, come testimonia Iacopo Bottrigari[38]. Ma potevano sorprendere solo i
giuristi italiani coevi, mentre non possono stupire noi. Non era forse proprio
nella prassi francese che si andava attribuendo al diritto romano, a poco a
poco, la qualifica di ratio scripta?
E' un'espressione che aveva avuto significati vari nelle vecchie raccolte
consuetudinarie transalpine dal secolo XIV in poi[39], ma una volta ch'essa venne
applicata anche al Corpus iuris è
ovvio che finisse col suonare esaltazione del suo contenuto di razionalità e di
equità. La storiografia usava tempo fa richiamare in proposito la tardiva
testimonianza seicentesca dell'inglese Arthur Duck[40], ma va ricordato che lo stesso
Duck assegnava correttamente ai soli francesi l'origine dell'idea, appunto, che
le leggi giustinianee andassero seguíte non perché leggi, ma per la grande
bontà delle loro rationes.
La presentazione ufficiosa in
Italia di tale tesi fu dovuta all'orleanese Jean Feu (Ioannes Igneus)[41]. Questi, nominato senatore di
Milano da Luigi XII nuovo signore del ducato, tenne – probabilmente nell'agosto
del 1509 – qualche repetitio nello
Studio di Pavia ch'era affidato al controllo appunto del Senato, e che il re di
Francia intendeva restaurare. Dopo una solenne lezione sull'Auth. ex causa[42], Jean Feu svolse un'altrettanto
solenne disputatio – con l'intervento
di oppositori numerosi, agguerriti e anche di prestigio – su un punto ch'era di
particolare rilevanza politica in quel momento, e che al re Luigi stava
certamente a cuore. Si trattava di mettere bene in testa agli italiani che il
re di Francia era del tutto indipendente, e di smontare una volta per sempre la
fastidiosa teoria – ostinatamente ripetuta dal bartolismo – ch'egli fosse
invece de iure sottoposto
all'imperatore.
Ripercorrendo sentieri già
tracciati dai vecchi decretisti, Jean Feu agganciò al tema politico-giuridico
della sovranità dei re il tema della vigenza del diritto romano nei regni. Ammise
senz'altro l'uso delle leges
giustinianee in Francia, ma naturalmente escluse la giustificazione in chiave
di auctoritas politica
dell'Imperatore, rinnegandola sia de
facto sia de iure. Non fece
ricorso – come aveva fatto larvatamente San Luigi nel 1254 oltr'Alpe e
esplicitamente Marino a Napoli – all'auctoritas
del re quale fonte esclusiva di normatività. Non richiamò nemmeno l'argomento
della lunga consuetudine, ch'era espediente spesso usato per legittimare prassi
formalmente poco chiare; preferì dire che i Galli non usavano delle leggi
imperiali in quanto leggi, ma che vi ricorrevano perché le vedevan provenire da
quella ratio naturalis da cui
l'onestà non ammette facilmente di recedere[43].
Colpisce che fosse un professore
romanista a sottrarre al diritto romano-comune ogni auctoritas normativa tagliando il ponte che l'univa con il potere
politico. Egli sapeva, tuttavia, di dire cose né nuove né tanto meno
rivoluzionarie; era consapevole di riferire una vecchia idea tutta francese ma
teneva a corroborarla di fronte al pubblico pavese allegando solo testimonianze
italiane: richiamava infatti quella autorevolissima di Baldo[44] la quale, a sua volta, si
limitava a copiare alla lettera la notazione del Bottrigari di cui si è parlato
poco sopra[45]. Sicché il grande fenomeno della
trasformazione del diritto romano da lex
generalis in libro di eccellenti rationes
appare svolto dal tenue ricordo, conservato nelle scuole italiane, di taluni
metodi correnti sin dal Duecento in ambienti di pratici oltremontani[46].
10. Questa sorta di
'delegificazione' del diritto romano divulgata da Jean Feu in un'aula italiana,
ma con spirito nazionalistico francesissimo, ebbe qualche risonanza oltr'Alpe
specialmente nelle scuole legate ai grandi tribunali[47], non escluso il Parlamento di
Parigi e gli ambienti scientifici che lo circondavano[48]. Fu una 'delegificazione' che,
spostando il Corpus iuris verso il
terreno filosofico-giuridico, agevolò forse il cammino verso il filosofeggiare
romanistico di giusnaturalisti e illuministi. Quanto alla prassi francese, essa
salvò un po' di Giustiniano solo ponendolo a rimorchio delle consuetudini,
nelle cui redazioni ufficiali s'introdussero talvolta regole e criteri tratti
dal Corpus iuris.
In Italia le cose non potevano
fare a meno di seguire strade diverse. Se non altro perché, a differenza
dell'oltr'Alpe, la legge giustinianea, radicata nel territorio sin dalla Pragmatica sanctio del 554, con l'aiuto
della Sede Apostolica aveva non solo resistito ai venti avversi, ma mantenuto
ostinatamente la prerogativa di mater
omnium legum e di lex generalis
omnium. Aveva insomma conservato la natura di legge positiva: sicché, se è
vero, come si è accennato, che dal Trecento invalse presso i commentatori la
moda di giocare sempre più liberamente con le rationes delle norme trascurando l'esegesi letterale, questa moda
non impedì che si continuasse formalmente a riconoscere nel 'libro'
giustinianeo un codice di leggi.
Quanto a notai, avvocati e
giudici, essi potevano, di fatto, seguire le elucubrazioni dei maestri più che
i dettami del testo e adottare a piacimento princípi spesso lontani dalla
lettera, ma non per questo essi pensarono mai che l'opera di Giustiniano fosse
una sorta di manuale di filosofia giuridica. D'altronde non mancavano istituti
ai quali la prassi, anche nell'epoca moderna, conservò la natura legislativa
antica. Per esempio: si continuava da secoli a credere che il senatoconsulto
velleiano – con il quale si proibiva alle donne di obbligarsi nell'altrui
interesse – servisse a sollevarle da responsabilità; che per tale sua funzione
si comportasse come un privilegio e fosse quindi rinunciabile. I mariti, in
previsione dei loro debiti e trovando naturalmente vantaggioso che le mogli
fossero legittimate a obbligare i propri beni e le doti per soddisfare i
creditori, avevano instaurato l'uso, nei capitoli matrimoniali, di far
rinunciare le spose al senatoconsulto velleiano: cosa che la documentazione
notarile ci mostra in effetti frequentissima. Si può dir quel che si vuole, ma
non si può negare che il velleiano fosse considerato vigente: anzi, per
rassodarne proprio la vigenza al fine di reprimere la furbizia e la cupidigia
dei mariti, nel regno di Napoli il viceré Pietro di Toledo fece nel 1543 una
celebre prammatica e vietò alle donne di far quella rinuncia[49].
Gli avvocati nei loro pareri e
sopratutto i giudici nelle decisiones
mostrano sempre, nel Cinquecento e dopo, di ritenere il Corpus iuris non solo miniera di astratte rationes, ma codice che disegnava istituti applicati e da
applicare. Sicché sarebbe errato pensare che Giustiniano legislatore
naufragasse anche in Italia senza scampo in un Diritto comune esclusivamente
giurisprudenziale.
E' possibile che i contemporanei
attribuissero – in via tutta teorica – quel tanto che restava della natura legislativa
della compilazione giustinianea all'auctoritas
proveniente dal tacito consenso dei sovrani nei confronti di un uso
consuetudinario inveterato, un po' come aveva creduto nel nostro Mezzogiorno
Marino da Caramanico alla fine del Duecento. In concreto, poi, v'era la prassi
giudiziaria a mantener viva la forza normativa se non di singole leggi, di rado
applicate testualmente, almeno di istituti romani: e i giudici costituivano pur
sempre un grosso canale tra vita giuridica e potere politico, dacché esercitavano
di fatto, all'interno degli Stati monarchici di antico regime, una funzione
vicaria della normazione ufficiale in quanto produttiva di una sorta di moderni
iura, ma formalmente si presentavano
come funzionari che parlavano e comandavano in nome del re.
11. Comunque ancóra nel
Settecento, e sempre in Italia, quando Ludovico Antonio Muratori condannava
questo diritto giurisprudenziale perché fonte di confusione intollerabile, egli
faceva discendere i suoi gravi difetti dalla superbia di un ceto che,
pretendendo di conoscere le leggi, in realtà le consultava poco, preferendo
trastullarsi tra consilia, trattati e
decisioni. E così – egli diceva – quei giudici e giuristi ai quali sarebbe
toccata la funzione di semplici interpreti dell'ordinamento finivano col
tradire il proprio ruolo, creavano diritto a discrezione e quindi cadevano
spesso nell'arbitrio. Neppure il contraddittore Francesco Rapolla, che
giustificava come inevitabili i dubbi, le ambiguità, le ombre e le incertezze
che affannavano il fòro, attribuiva alla giurisprudenza funzione diversa
dall'ermeneutica di leggi. Sopratutto di quelle giustinianee, naturalmente:
nessuno in Italia si sognava infatti di negare che fossero 'leggi', né di
mettere in dubbio i loro rapporti con lo Stato, con la sovranità, con il
'politico'.
A tagliare formalmente quei
rapporti saranno naturalmente le codificazioni, le quali ripudieranno il Corpus iuris: una condanna a morte,
quasi l'impossibilità di abbeverarsi a un'auctoritas
sovrana – vera o falsa, forte o debole, vicina o lontana – gli togliesse,
insieme con la forza precettiva, anche le ragioni della vita.
La gloriosa legislazione
giustinianea, miniera inesauribile specialmente di diritto privato fin quasi ai
giorni nostri, dopo essere andata tanto a lungo in cerca, se non di uno
'Stato', comunque di una potestà capace di erogare forza precettiva, dopo aver
invocato il riconoscimento di un qualsiasi padre creatore anche fittizio, dopo
aver subíto un parziale processo di 'delegificazione', sotto i colpi di quei codici
in cui si concentrava il monopolio normativo dei nuovi Stati era
inevitabilmente destinata a ridursi a mero strumento di cultura. E,
naturalmente, a oggetto ricercatissimo di storiografia.
[2] P. Grossi,
L'ordine giuridico medievale, cit.,
59.
[3] P. Grossi,
L'ordine giuridico medievale, cit., 135 ss.
[4] P. Grossi,
L'ordine giuridico medievale, cit.,
157. V'è da osservare tuttavia che, se la funzione del Corpus era anche di costituire il «momento di validità» delle
costruzioni dei giuristi, esso doveva per forza rivendicare una propria valenza
formalmente normativa, ossia fondata sulla sanzione dell'autorità. Venerabilità
e sacralità, giustamente invocate dal Grossi come forze convalidanti, potevano
certo bastare all'uomo medievale, ma non al giurista.
[5] Frutti di autonomia, in una cornice di
sostanziale indifferenza del potere politico, i diritti medievali sono
significativamente caratterizzati come «senza Stato» da P. Grossi, Un diritto senza Stato (la nozione di autonomia come fondamento della
costituzione giuridica medievale), in Quaderni
fiorentini 25, 1996, 267 ss.
[6] Data l'incompatibilità del concetto di Stato
con l'idea, diffusa presso i giuristi medievali, che il rapporto tra la respublica e il princeps fosse identico a quello che corre tra un minorenne e il
suo tutore: è ovvio che uno 'Stato' sotto tutela non si sarebbe potuto
concepire (W. Ullmann, Juristic Obstacles to the Emergence of the
Concept of the State in the Middle Ages, in Annali di storia del diritto 13 (1969 = Studi in memoria di Francesco Calasso), 43-64, ora in W. Ullmann, The Church and the Law in the Earlier Middle Ages [Variorum], XII,
London 1975). Le fonti romanistiche dell'immagine 'tutoria' del principe sono
state ricordate da R. Orestano, L'assimilazione canonistica degli enti
ecclesiastici ai pupilli e la sua derivazione romanistica, in Études d'histoire du droit canonique dédiées
à Gabriel Le Bras, II, Paris 1965, 1353 ss. Ombre di questa funzione del
sovrano sembrano comunque conservarsi nella dottrina fino al Settecento (nei
confronti, ad esempio, delle comunità locali nel Granducato toscano secondo L. Mannori, Il sovrano tutore. Pluralismo istituzionale e accentramento
amministrativo nel principato dei Medici (Sec. XVI-XVIII) [Per la storia
del pensiero giuridico, 45], Milano 1994, 205-211).
[7] E' il secolo del consolidarsi delle
monarchie, e da tempo usa trovarvi gli elementi caratterizzanti di un modello
di Stato dall'aspetto moderno (centralizzazione del potere, utilizzazione
istituzionale delle autonomie, costruzione di apparati vòlti a gestire il
consenso dei sudditi, e via dicendo): se ne veda una recente rassegna negli
atti del convegno tenuto a Chicago nell'aprile 1993 (Origini dello Stato. Processi di formazione statale in Italia fra
medioevo ed età moderna, a cura di G. Chittolini, A. Molho, P. Schiera,
Bologna 1994), con le ulteriori note della recensione di L. Mannori, Genesi dello Stato e storia giuridica, in Quaderni fiorentini 24, 1995, 485 ss. Recentemente M. Stolleis si è
anche soffermato, oltre che sull'emergere dell'immagine bodiniana della
sovranità, anche sulla comparsa dei concetti di ragion di stato e di leggi
fondamentali (Staat und Staatsräson in
der frühen Neuzeit. Studien zur
Geschichte des öffentlichen Rechts, Frankfurt a. M. 1990, 178 ss.). Il panorama degli studi celebrativi di questo
modello cinquecentesco.
[8] Recentemente si è dato per scontato che il
concetto di sovranità sia apparso, sì, nell'età medievale, ma solo «con la
rivendicazione della plenitudo potestatis
da parte delle repubbliche cittadine», si sia affermato al tempo delle
polemiche sull'indipendenza del Regno di Francia dall'Impero, dalla Chiesa e
dai poteri feudali (le Roi ne tient de nului fors de Dieu et de lui), e infine sia stato eretto al rango di
nozione centrale dello Stato solo, naturalmente, con Jean Bodin (F. Fardella, Le dogme de la souveraineté de l'État. Un
bilan, in Archives de philosophie du droit
41, 1997, 116 s.).
[9] P. Grossi,
L'ordine giuridico medievale, cit., 42.
[10] Nel celebre passo di Ulpiano ove il diritto
che ad statum rei Romanae spectat è
contrapposto a quello che concerne la singulorum
utilitatem (D. 1.1.1.2); lo status
della res Romana riguarda le cose
sacre, i sacerdoti e i magistrati, ossia appunto l'organizzazione pubblica. Né
ha significato granché diverso l'espressione rursus res publica suum statum recepit che, nell'Enchiridion attribuito a Pomponio,
allude al ristabilimento dell'ordine legale (D. 1.2.2.24 in fi.). Questo valore
del termine si riscontra naturalmente nelle applicazioni ad altri tipi di
realtà organizzate: a livello cittadino, per esempio, lo status civitatis rappresenta quell'ordine stabile che il patrizio
Basilio, prefetto al pretorio di Odoacre, auspica non sia turbato a Roma da
discordie nell'elezione del pontefice (Graziano, Decretum D. 96 c. 1).
[11] Si sa quanto la Chiesa tenesse alla
preservazione dello status generalis
ecclesiae il cui sovvertimento era stato addirittura visto dai primi
decretisti come limite all'azione della plenitudo
potestatis papale (E. Cortese,
La norma giuridica [Ius Nostrum, 6],
I, Milano 1962, 107, nt. 21).
[12] Cfr. G. Post, Status Regni: Lestat du Roialme in the Statute of York, 1322, ora
in Studies in Medieval Legal Thought. Public
Law and the State, 1100-1322,
Princeton, New Jersey 1964, 310 ss. Nelle città si parlava dello status di corporazioni o di altre
organizzazioni minori. Il termine assumeva ulteriori, noti valori, se riferito
a persone (status giuridico
soggettivo, dignità ecc.): cfr. su quest'insieme di significati specialmente G.
Post, Studies in Medieval Legal Thought, 241 ss.
[13] Tanto che il termine status, genericamente allusivo alla stabilità di una struttura
giuridica, aveva sempre bisogno di un complemento di specificazione per
definire se stesso mediante il riferimento a una realtà politica: come ha
notato di recente A. Rigaudière, Pratique politique et droit public dans la
France des XIVe et XVe siècles, in Archives
de philosophie du droit 41, 1997, 85 s. Qui anche folta bibliografia sulle
vicende dello 'Stato', nome e realtà, in Francia.
[14] Y. Sassier, L'utilisation du concept de res publica en France du Nord aux Xe, XIe et XIIe siècles, in Droits savants et pratique françaises du
pouvoir, a cura di J. Krynen e A. Rigaudière, Bordeaux 1992, 79 ss.
[15] A. Rigaudière, Pratique politique et droit public dans la France des XIVe et XVe
siècles, cit., 87 ss.; in particolare sull'autonomia concettuale della dignitas anche J. Krynen, L'empire du roi. Idées et croyances politiques en France XIIe-XVe
siècle, Gallimard, Paris 1993, 127 ss. Restano classici H.E. Kantorowicz, The King's Two Bodies. A Study in Mediaeval Political Theology ,
Princeton, New Jersey 1957, 273 ss. (trad. it.di G. Rizzoni, I due corpi
del Re. L'idea della regalità nella teologia politica medievale, con
introd. di A. Boureau, Torino
1989, 234 ss.) e G. Post, Status Regis: Lestat du Roi in the Statute
of York, ora in Studies in Medieval
Legal Thought, cit., 368.
[16] Marino da
Caramanico, Prooemium in Constitutiones Regni Siciliae, § xiii, ed. F. Calasso, I glossatori e la teoria della sovranità, 3ª ed., Milano 1959, 191
s. Il regno-universitas era
configurato da Marino come mero oggetto di dominium
– directum del papa e utile del re – ossia come ente collettivo
materiale simile all'eredità giacente.
[17] Jacques de Revigny, Prooemium
Authenticorum, ms. Madrid
573, fo. 40vab, passo segnalato e parzialmente edito in E. Cortese, Il diritto nella storia medievale, II, Roma 1995, 406 s. e nt. 48.
[18] Il termine superanus (da cui superanitas)
che viene ovviamente da superior, è
comparso soltanto nel Duecento in Francia nel linguaggio feudale per indicare,
essenzialmente, l'originarietà del potere regio sottratto alle limitazioni,
appunto, della delega feudale. Dei due derivati in lingua volgare, suzerain è rimasto radicato nel terreno
feudale, souverain è passato nella
terminologia pubblicistica generale (F. Calasso,
I glossatori e la teoria della sovranità,
cit., 44 ss., nt. 11). Ma questa è storia solo di parole.
[19] Quando ordina ad un suo missus, perentoriamente, lege
Romanam legem: cfr. E. Cortese,
Il diritto nella storia medievale, I,
cit., 246.
[20] F. Calasso,
Medioevo del diritto, Milano 1954,
232 s.
[21]
Leges e auctoritas ecclesiastica son messe insieme nei famosi documenti
caietani segnalati da F. Brandileone,
La «stipulatio» nell'età imperiale romana,
ora in Scritti di storia del diritto
privato italiano, II, Bologna 1931, 509, 515-526. La precedente diffusione
della formula in Provenza è stata segnalata da G. Vismara, «Leges» e
«canones» negli atti privati dell'alto Medioevo: influssi provenzali in Italia,
ora in Scritti di storia giuridica,
II, Milano 1987, 28 ss.
[22] G. Vismara,
«Leges» e «canones» negli atti privati
dell'alto Medioevo: influssi provenzali in Italia, cit., 16 ss. Sul
problema dell'utraque lex una sintesi
ora in E. Cortese, Il diritto nella storia medievale, I,
cit., 385 ss.
[23] La più esplicita delle dichiarazioni
tramandateci in proposito si trova nella sua celebre costituzione del 26
settembre 1165 sulla testamentifactio
degli ecclesiastici (ed. L. Weiland,
in MGH, Const. et acta publ., I, 322,
nr. 227.3, qualche riferimento bibliografico in E. Cortese, Il
rinascimento giuridico medievale, 2a ed., Roma 1996, 34 s.). Tale pretesa
di Federico era comunque venuta all'orecchio dell'opinione pubblica coeva: più
o meno nello stesso giro d'anni le Questiones
de iuris subtilitatibus parlano chiaramente degli imperatori germanici che
volevano essere successori dei romani. La scienza bolognese, a tutta prima,
concesse poco spazio al problema: comunque, quando si trattò di aggiungere
costituzioni imperiali coeve alle novelle giustinianee, lo fece.
[24] Furono di nuovo le Questiones de iuris subtilitatibus a proclamare l'esigenza dell'unum ius cum unum sit Imperium (ed. H. Fitting, 1.16, 57, ed. G. Zanetti, 2.16, 16), che significava
portare alle ultime conseguenze il rapporto diritto romano-Impero. Per chi
avesse voluto negar questo rapporto, proseguiva l'autore, non v'era che
riconoscere una pluralità di diritti corrispondente alla pluralità dei regni:
ch'era modo esplicito di dichiarare la necessaria dipendenza dell'ordinamento
giuridico da quello politico. Ma, a onor del vero, si trattò di una voce che
rimase a lungo piuttosto isolata tra i legisti.
[25] Il notissimo
passo di Alano è stato segnalato e pubblicato da J.F.von Schulte, Literaturgeschichte der Compilationes
antiquae, besonders der drei ersten, in Sitzungsberichte
der kaiserlichen Akademie der Wissenschaften 66, Wien 1870, 90.
[26] Basti ricordar, tra le opere che più hanno
pesato sulla storiografia degli ultimi cinquant'anni, W. Ullmann, The Development of the Medieval Idea of Sovereignty, in English Historical Review 64, 1949, 1
ss., ora in W. Ullmann, Law and Jurisdiction in the Middle Ages
[Variorum], VII, London 1988; S. Mochi
Onory, Fonti canonistiche dell'idea moderna dello Stato (Imperium spirituale -
iurisdictio divisa - sovranità) [Pubbl. dell'Univ. cattolica del Sacro
Cuore, n. s., 38], Milano 1951; F. Calasso,
I glossatori e la teoria della sovranità,
cit.
[27] Nel XII secolo la tesi circola e, per la
verità, chiama in causa la Chiesa non solo come autorità di sostegno del
diritto romano, ma come fonte della necessaria universalità dell'Impero. E'
citatissimo il frammento di Uguccione da Pisa in cui, dal principio ch'è la
Chiesa a voler l'unus imperator in orbe,
si deduce che omnes tenentur vivere
secundum leges romanas, saltem quas
approbat ecclesia (cfr. F. Calasso,
I glossatori e la teoria della sovranità,
cit., 63 s. e nt. 58; S. Mochi Onory, Fonti canonistiche dell'idea moderna dello Stato, cit., 174 s.). Si
tratta della glossa In eos solos alla
D. I c. 12 Ius Quiritum che offre
effettivamente un singolarissimo panorama di problemi; già edita da F. Maassen, Beiträge zur Geschichte der juristischen Literatur des Mittelalters,
insbesondere der Decretisten-Literatur des zwölften Jahrhunderts, in Sitzungsberichte der kaiserl. Akademie 24,
Wien 1857, 78; da S. Mochi Onory, Fonti canonistiche dell’idea moderna dello Stato, cit., 174 s.;
infine da G. Catalano in appendice
al suo Impero, regni e sacerdozio nel
pensiero di Uguccio da Pisa, Milano 1959, 61 s. La si ripubblica qui con
poche varianti (in corsivo) ispirate da una nuova collazione dei testi
pubblicati e dei mss. Vat. lat. 2280,
f. 3vb; Borgh. 272, f. 2vb e Vat. lat. 2491, fo. 3rab: Qui subsunt Romano imperio, nam
<Maassen om.> hoc iure soli Romani et qui subsunt Romano imperio
astringuntur. Sed quid de Francis et Anglicis et aliis ultramontanis, nunquid ligantur
legibus romanis et tenentur vivere secundum eas? Respondeo: utique, quia
subsunt vel subesse debent romano imperio, nam unus imperator in orbe, ut vii.
q. i. In apibus (C.7 q.1 c.41), sed in diuersis provinciis diuersi reges sunt
sub eo, ut vi. q. iii. Scitote
(C. 6 q.3 c.2). Preterea quicunque utuntur lingua latina dicuntur Romani, unde
et lingua latina romana dicitur, ut de cons. di. iiii. Retulerunt (D. 4 c. 86 de cons.), et ideo Romani hic
intelliguntur omnes latini; secundum hoc
<Maassen: unde et> omnes latini hoc iure astringuntur. Item saltem
ratione pontificis subsunt romano imperio, omnes enim christiani subsunt
apostolico, et ideo omnes tenentur vivere secundum leges romanas saltem quas
approbat ecclesia. Item quid de clericis, nunquid et ipsi ligantur legibus
romanis? Sic: illis que approbantur ab ecclesia et non obviant canonibus, sed
non ideo quia sunt promulgate ab imperatore, sed quia sunt confirmate a domino
papa, ideo in causis ecclesiasticis locum habent leges seculares que non
obviant canonibus, alias autem repelluntur, ut xxxiii. q. ii Inter hec (C. 33
q.2 c.6) et xi. q.i. Continua (C. 11 q.1 c.5). Item quid de sarracenis?
Respondeo non ligantur legibus romanis quia eas non receperunt, unde secundum
eas non tenentur vivere, licet in aliis peccent. Videtur tamen quod et ipsi
debeant subesse romano imperio, et ideo teneantur vivere secundum leges
romanas. Sed quid si non tenentur et
lis est inter sarracenum et christianum, cuius
leges sequetur iudex? Respondeo <Maassen: Judex sequitur>: suas uel rei.»
[28] Seppure re e príncipi noluerint confiteri se subesse imperatori, necessarie habent confiteri
se subesse pontifici Romano, si legge in un trattato anonimo che
potrebb'essere di Enrico da Cremona, almeno secondo il cauto suggerimento di R.
Scholz, Die Publizistik zur Zeit Philipps des Schönen und Bonifaz VIII. Ein Beitrag zur Geschichte der politischen
Anschauungen des Mittelalters [Kirchenrechtliche Abhandlungen hrsg. U. Stutz, Heft 6-8], Stuttgart 1903, 171, ed.
del testo 476; cfr. ora F. Calasso,
I glossatori e la teoria della sovranità,
cit., 63.
[29] La teoria di Lorenzo, in chiara polemica con
quella di Uguccione, è riferita da Guido da Baisio nel Rosarium, C. 12 q.2 c.8 Cum
devotissimum, nr. 7: Quaelibet regio
potest sibi imponere legem, et ita Franci et Hispani non obligantur romanis
legibus. Romana ecclesia non confirmat eas, nisi circa eos circa quos proditae
sunt, C. de infantibus expositis, l. ult. (C. 8.51.3.1 in fi.). Unde non circa Gallicos vel Hispanos,
secundum lau. Il passo è anch'esso segnalato dal Maassen, Beiträge zur
Geschichte der juristischen Literatur des Mittelalters, insbesondere der
Decretisten-Literatur des zwölften Jahrhunderts, cit., 81.
[30] Ed. L. Weiland,
in MGH, Const. et acta publ., II, 72
e 82; ed. J.-L.-A. Huillard-Bréholles, Historia dipl. Friderici Secundi, I.2, Parisiis 1852 = Torino 1963,
469 s. e 741 ss.; cfr. G. De Vergottini, Studi sulla legislazione imperiale di Federico II in Italia. Le leggi
del 1220 [Pubbl. straord. dell'Acc. delle Scienze di Bologna, 11], Milano
1952, 66 s.; F. Calasso, I glossatori e la teoria della sovranità,
cit., 130 s. L'impegno di Federico, peraltro immediatamente violato, era di
emancipare súbito dopo la propria incoronazione imperiale il figlio Enrico e di
consegnare a lui il Regno di Sicilia, ne
forte...aliquid unionis regnum ad imperium quovis tempore putaretur habere.
[31] L'innegabile lunga osservanza del diritto
romano nell'Italia meridionale non basta a convalidarne l'efficacia, spiega
Marino, senza il sostegno del tacito consenso regio: Sed licet vero regnum desierit subesse imperio, tamen iura romana in
regno per annos plurimos convenientia regum qui fuerunt pro tempore servata
diutius consensu utpote tacito remanserunt (M. da Caramanico, Prooemium in Constitutiones Regni Siciliae,
xix, ed. F. Calasso, I glossatori e la teoria della sovranità,
cit., 199).
[32] G.M. Monti,
Intorno a Marino da Caramanico e alla
formula "rex est imperator in regno suo", in Annali del Seminario Giuridico Economico della R. Università di Bari
6, 1933, 10 ss. dell'estr.
[33] Iura
scripta quibus utuntur ab antiquis volumus observari, non quia eorum nos
obliget auctoritas seu astringat, sed quia mores eorum in hac parte non duximus
immutandos: passo edito da P.A. Isambert,
Recueil Général des Anciennes Lois
Françaises, Paris 1830, 164, e riportato da W. Ullmann, The
Development of the Medieval Idea of Sovereignty, cit., 11 e nt. 1.
[34] La definizione della sovranità come plena et rotunda potestas si legge in Marino, Prooemium, VIII, ed. F. Calasso,
I glossatori e la teoria della sovranità,
cit., 186; egli si dilunga anche a descriverla interpretando suggestivamente i
simboli del potere,185.
[35] Si può osservare, tuttavia, che anche la
semplice astrazione, forse per via dell'amore medievale per le forme
d'intelletto, almeno nella mentalità italiana conservava un'efficacia concreta
singolare. A metà del Trecento Firenze pagava a Carlo IV, per esempio, 100.000
fiorini per ottener la revoca del banno di Arrigo VII, la Perugia di Bartolo
comprava talune libertà, i signori andavano in caccia di vicariati imperiali,
l'ascesa dei Visconti riceveva impulso dalla concessione del ducato da parte
dell'Imperatore Venceslao: tutti segni del riconoscimento d'un potere imperiale
che nei fatti era un'ombra (J. Canning,
The Political Thought of Baldus de Ubaldis
[Cambridge studies in medieval life and thought, 6], Cambridge 1987, 18 s.).
[36] E' uso corrente, com'è noto, riferir la
teoria, poi largamente seguíta per secoli, alla glossa ordinaria di Bernardo da
Parma alla Per venerabilem
d'Innocenzo III (gl. minime recognoscat
in X. 4.17.13) e alla Super
Specula<m> di Onorio III (gl. non
utuntur in X. 5.33.28).
[37] Come avverte il P. Grossi, L'ordine
giuridico medievale, cit., 11.
[38] Iacopo Bottrigari, in l. Nemo, C., de sententiis et interlocutionibus omnium iudicum (7.45.13), ed.
Parigi 1516 = Bologna 1973 [Opera Iuridica Rariora, XIII], II, f. 47vb: Nota quod iudex non debet sequi sententias
nisi in se habeant rationem, et tunc non sequitur eas quia sic iudicatum
fuerit, sed quia ius ita vult, sicut faciunt francigene qui servant rationem
legis non quia lex hoc dicit, quia leges non allegant, sed quia ratio vult sic.
[39] Una sintesi ora in A. Guzmán, Ratio scripta [Ius Commune, Sonderhefte, 14] Frankfurt a. M. 1981,
40 ss.
[40] A. Duck,
De usu et authoritate iuris civilis
Romanorum in dominiis Principum Christianorum, I, 2, 6, ed. London 1689 =
Bologna 1971, 24, ed. Neapoli 1719, 22.
[41] Nato a Orléans nel 1477, nominato senatore
di Milano da Luigi XII prima del 1509, ebbe nel settembre del 1512 la carica di
consigliere al Parlamento di Rouen e nel luglio del 1525 quella di secondo
presidente del medesimo tribunale, carica che tenne per il resto della vita.
Morì nel novembre del 1549. La Nouvelle
biographie générale di Hoefer, XVII, Paris 1856, 591 e ora il Dictionnaire de biographie française del
1975, 1211-12, pongono la sua nomina a senatore di Milano nell'anno 1518 per
volontà di Francesco I: ma il silenzio che su Jean Feu mantengono le cronache
milanesi e le storie del Senato non consentono riscontri all'ipotesi di una
conferma di Jean Feu al Senato milanese da parte del nuovo re.
[42] De
liberis praeteritis, C. 6.28
in fi. L'anno della repetitio si
rileva dalla lettera di lodi scritta a Jean Feu dal collega senatore Giacomo
Filippo Simonetta il 2 luglio 1510 e pubblicata in testa all'edizione del pezzo
negli opera dell'Igneo, Lugduni et
Aureliae 1541, I, fo. [17]v: Repetitio
quam in florentissima Academia Ticinensi superiori anno habuisti (la
lettera manca nell'ed. pavese del 1513; non ho potuto vedere l'editio princeps del 1510). In questa
lettera il Simonetta testimonia altresì che la quaestio sull'indipendenza del re di Francia era stata una sorta di
appendice della repetitio (quandam appendicem nonnullas quaestiones
addidisti). L'indice preposto alle varie repetitiones pavesi dell'Igneo nella stampa curata in questa città
da Bernardino Garaldi tra il 5 settembre e il 26 ottobre del 1513 avverte
invece che i pezzi risalivano a pubbliche lezioni tenute il 10 agosto 1510. Ma
è assai più attendibile la data che si desume dalla lettera del Simonetta:
l'indicazione del 1510 potrebbe o riferirsi a un solo pezzo, o essere il frutto
di una confusione con l'anno dell'editio
princeps pavese la cui esistenza è testimoniata da A.G. Cavagna, Libri e tipografi a Pavia nel Cinquecento. Note per la storia
dell'Università e della cultura, II [Fonti e studi per la storia
dell'Università di Pavia, 3], Milano 1981, nrr. 136-138, p. 235 (curatore di
quell'editio princeps fu Iacopo di
Borgofranco, del quale compare nell'elenco della Cavagna, nr. 151, p. 237,
anche una stampa di disputationes
dell'Igneo eseguita nel successivo 1511: ma potrebbe trattarsi della
continuazione dell'editio princeps
che fu compiuta, come la successiva pavese del 1513 dovuta a Bernardino de
Garaldis, a scaglioni successivi di pezzi separati).
[43] Jean Feu,
An rex Franciae recognoscat imperatorem,
nr. 41, nei Commentarii Ioannis
Ignei...in aliquot constitutiones..., ed. Lugduni et Aureliae 1541, I, fo.
67ra: dicit Bal. in l. Nemo C. de sen. et
interlo. om. iud. (C. 7.45.13) quod
Galli non utuntur legibus imperialibus ut eas pro legibus habeant, sed quia
sumptae sunt ex ratione naturali ex qua non potest commode nec honeste recedi,
ideo eis utuntur.
[44] Baldo, in l. Nemo, C., de sententiis et
interlocutionibus omnium iudicum (C. 7.45.13, ch'è la costituzione di
Giustiniano in cui s'impone ai giudici di giudicar non exemplis ma legibus),
pr.: Nota quod iudex non debet sequi
sententias nisi in se habeant rationem, et tunc non sequitur eas quia sit hoc
vel illo modo iudicatum, sed quia ius ita vult. Sicut faciunt Francigenae qui
servant rationem legis, non quia lex hoc dicat, nam leges non allegant, sed
quia ratio sic vult. But.
[45] Cfr. supra,
nt. 34.
[46] A. Guzmán,
Ratio scripta, cit., 51; anche E. Cortese, Il diritto nella storia medievale, cit., II, 479 e nt. 47.
[47] Poco dopo la discussione della quaestio la citò Jean Montaigne, ex
docente tolosano di leges
trasferitosi a Bordeaux, nel suo Tractatus
de authoritate Magni Consilii et Parlamentorum del quale egli stesso dice,
nell'epistola al lettore, di aver dato mano nel 1510, la notte del 29 agosto,
vigilia del giorno della decollazione di Giovanni Battista (cfr. l'ed. in
appendice alle Decisiones di Nicolas
Bohier, nr. 47, Venetiis 1576, 903 s.). Va tuttavia osservato che la stampa del
trattato, recante in margine le additiones
di poco successive del Bohier, è disordinatissima, e parte delle additiones si rivela scivolata nel
testo: sicché non può esser escluso che la citazione dell'Igneus risalga al
Bohier e non al Montaigne.
[48] È suggestiva, per esempio, la notizia data
da G. Coquille sulla polemica corsa in proposito tra due presidenti del
Parlamento di Parigi della seconda metà del Cinquecento, Pierre Lizet e
Christophe de Thon: l'uno definiva il diritto romano norma comune di fronte
alla quale il diritto francese era speciale e soggetto quindi a interpretazione
restrittiva, l'altro lo relegava invece al livello di semplice ratio scripta al traino delle
consuetudini: in taluna delle quali, nel corso del lavoro di emendatio di cui era stato incaricato,
non aveva esitato a introdurre regole romane (A. Guzmán, Ratio scripta,
cit., 49 ss.). La cornice del dibattito era, a onor del vero, la questione di
cosa s'intendesse per diritto comune in Francia: ch'è problema diverso e, come
si sa, dibattutissimo. Quanto poi, in particolare, alla quaestio di Jean Feu sull'indipendenza del re, essa risulta ben
nota a taluni avvocati che operavano innanzi al Parlamento di Parigi (tra
l'altro ai canonisti impegnati a trattare dei poteri regi sulle chiese di
Francia dopo il concordato del 1516 tra Francesco I e Leone X: cfr. ad es. le additiones di Philippus Probus alla lectura di Jean Le Moyne al Sesto, ed.
Venetiis 1585, fo. 351rb, e quelle alla Prammatica Sanzione di Carlo VII del
1438, ed. Parisiis 1546, fo. 3ra).
[49] Cfr. F. P. De
Stefano, Romani, longobardi e normanno-franchi della Puglia nei secoli XV-XVII.
Ricerche sui rapporti patrimoniali fra coniugi fino alla prammatica «de
antefato» del 1617 [Pubbl. della Fac. giuridica dell'Univ. di Napoli, 173],
Napoli 1979, 101 s.