Università di Cagliari
IL FEDERALISMO DI GIUSEPPE FERRARI: DALLA FILOSOFIA POLITICA ALLA FORMA DI STATO
Se il dibattito sul
federalismo ha ormai antiche radici, ha coinvolto in passato numerosi
pensatori, ed oggi tanti studiosi, non vi è dubbio che mai, come in questa
difficile epoca di transizione politica, esso sia di grande attualità; il
moltiplicarsi di Convegni su questa problematica lo testimonia, e quindi il
mondo della scienza e della riflessione critica, è chiamato ad interrogarsi e a
dare il suo contributo in proposito. Spetta proprio ai costituzionalisti, agli
storici del diritto, del pensiero politico e delle istituzioni, chiarire i
presupposti, i significati, le implicazioni e le modalità di sviluppo, e
talvolta l’evoluzione, come ha spiegato nella sua relazione il professor
Giorgio Malinverni[1],
di un modello politico.
Forse per non sottrarsi a questa
responsabilità, la produzione su questa tematica si è tanto sviluppata in
questi ultimi anni e la bibliografia in proposito è conseguentemente
vastissima; mi limito a citare due recenti opere egualmente significative: la
prima edita dalla Scuola superiore della Pubblica amministrazione presso la
Presidenza del Consiglio dei ministri è una Antologia
Critica come recita nel titolo sul
Federalismo, si avvale di una articolata introduzione di Giuseppe Contini,
e di vari saggi che, oltre ad introdurre il pensiero degli autori, i classici
del federalismo, che si propongono alla attenzione del lettore, sono corredati
di significative ricostruzioni storiche dei momenti in cui furono concepiti, in
modo da invitare implicitamente ad una sintesi valutativa sulla efficacia delle
tesi prospettate[2].
La seconda : Il federalismo nel pensiero
politico e nelle istituzioni, a cura di Ettore Albertoni, raccoglie numerose analisi e riflessioni sulla natura
filosofica e concettuale del federalismo, nonchè sugli aspetti giuridico-istituzionali
dello stesso, unite alla testimonianza di studiosi delle diverse aree
geografiche, nei vari continenti, dove si è realizzata l’esperienza dello Stato
Federale, e anche in tempi assai recenti; un particolare spazio viene dato, ad
esempio, al Belgio[3].
L’intenzione apertamente annunciata dal curatore nella sua Introduzione è quella di porre le premesse per un Laboratorio federalista[4], un invito quindi che riguarda tutti, ed
al quale cercherò, per parte mia, di rispondere parzialmente, anche in questa
sede, accogliendo il suo approccio alla federalità,
che mi pare foriero di fecondi sviluppi[5]. Ecco
quindi l’importanza di questo Colloquio internazionale, che da angolazioni multidisciplinari
e interdisciplinari, affronta un fondamentale aspetto della realtà statuale. Il
mio plauso pertanto, oltre che il mio ringraziamento per avermi invitato a
partecipare, va a Luisa Bussi Contini che ha organizzato questo incontro.
1. Debbo dire subito che le
mie riflessioni prendono lo spunto dalla filosofia politica di Giuseppe
Ferrari, il filosofo milanese che, nel 1851, scrisse la Federazione repubblicana[6]:
opera politica che, negli anni in cui il problema dell’unità d’Italia era
ancora aperto, ha suscitato un certo scalpore, almeno in quella frangia del
pensiero liberal-democratico che non si riconosceva nella politica mazziniana,
e, naturalmente, osteggiava apertamente quella cavouriana.
Come dirà meglio il prof.
Lacaita, che ha dedicato all’esule di Castagnola profondi studi, dai quali non
si può più prescindere[7], e
che, tra breve, illustrerà la posizione di Cattaneo, il principale protagonista
di questo dibattito, le soluzioni allora erano ancora tutte aperte; il trionfo
dell’idea unitaria a svantaggio di quella federalista, non significò
assolutamente un prevalere teorico di certi princìpi, né la sconfitta degli
altri, ma che la realtà effettuale, come direbbe Machiavelli, impose la sua
soluzione del problema.
Quando, una decina di anni
orsono, una certa forza politica ha iniziato a parlare, in modo tanto confuso
quanto dirompente, di federalismo, ricordo che i miei studenti, incuriositi e
stupiti, mi chiedevano delle spiegazioni in proposito, visto che tenevo un
corso sul federalismo risorgimentale; quel federalismo che Arturo Colombo[8]
ha individuato nelle sue due essenziali componenti: quella interna, protesa
verso l’autonomismo, e quella esterna, che
auspicava l’europeismo, e io ero costretta ad ammettere la mia
impotenza, non ero in grado di rispondere: non sapevo a quale federalismo si
volesse alludere; avendo sempre sognato il federalismo in positivo non avevo
mai pensato ad un federalismo antisistema. Sicuramente non ci si riferiva, e i
successivi sviluppi di quel movimento, lo hanno dimostrato, ad un grande
modello politico capace di coniugare la libertà e la autodeterminazione dei
popoli con il principio di nazionalità dei medesimi[9]: il
federalismo che unisce e non divide. Per adoperare ancora una volta la celebre
frase di Cattaneo, quel federalismo che «è la teorica della libertà, l’unica
possibil teorica della libertà»[10].
A questo proposito è bene
sgomberare il campo da un equivoco assai diffuso, che potrebbe essere la
conseguenza di una impostazione per altro ricca di autorevolezza, in quanto
proveniente da uno studioso che tanta attenzione ha dedicato al federalismo, e
in tempi non sospetti, ma che induce, sposando l’idea federalista dello Stato,
a rinnegare, come se vi fosse una inevitabile contrapposizione, la concezione
dello Stato nazione. Mario Albertini distingue, infatti, due nozioni di federalismo[11]:
«una apparentemente chiara, quella connessa con l’uso della parola federazione,
per designare un tipo di Stato, (lo Stato federale), l’altra piuttosto oscura
che riguarda, in ultima istanza, un non ben identificato modo federalistico di
pensare e di agire (al quale in qualche modo ci si richiama quando la parola
“federazione” è usata per designare certe forme associative in diversi campi
dell’attività umana)», questa mentalità oggi è più che mai diffusa, grazie al
grande sviluppo che si è verificato specialmente nella realtà economica e
sociale. Anche nell’ambito della cultura, si avrebbe una dicotomia tra due poli
contrapposti, costituito l’uno «dalla teoria giuridico-politica dello Stato
federale», e l’altro da «una visione globale della società di carattere
metastorico» e, vorrei aggiungere metagiuridico, connessa - come ricorda
Albertini - con il pensiero di Proudhon, soprattutto quello della prima parte,
nettamente anarchica, con prospettive realisticamente infondate per non dire
utopiche, ma che aveva formulato una perspicua critica, ante litteram, dello Stato nazionale sottolineandone la inevitabile
connessione tra centralizzazione e nazionalismo[12].
D’altra parte è
vero che altri grandi maestri, tra i quali Maturi, contribuivano ad aumentare
l’equivoco, sottolineando il contrasto secolare tra federalismo ed unità nella
storia d’Italia[13].
Questo modo di
intendere, che per certi versi può trovare conferma nel pensiero di Ferrari, come
si vedrà tra breve, potrebbe indurre a ridurre il federalismo allo Stato
federale, scivolando nell’errore, come paventa Albertini[14],
di ritenere “positiva” l’idea dello
Stato federale, e “mitica” quella
della società federale. Errore gravissimo perchè, come insegna la Storia, non
può a lungo sussistere uno Stato federale senza il substrato di una cultura
federale. Occorrerebbe forse, più che una distinzione, ed una contrapposizione,
una sintesi interpretativa e operativa, volta a salvare questi due concetti che
riguardano due aspetti fondamentali ed entrambi imprescindibili del
federalismo, come emerge chiaramente dalla impostazione di Ettore Albertoni
sopra citata, e che sono impliciti nell’idea della federalità. Sintesi alla
quale, per altro, lo stesso Albertini, che pure ha denunciato l’incongruenza
della scissione che si è enunciata, si sottrae quando, altrove, esaminando il
concetto di nazione[15], sia
sotto il profilo teorico, per il probabile influsso della polemica
proudhoniana, e coerentemente ai suoi precedenti studi proprio sull’idea di
nazione e quello che egli chiama il “comportamento” nazionale[16],
sia da un punto di vista concreto, dimostrando di recepire il messaggio dei
tanti esempi storici di Stati nazionali unitari e centralistici, ne sottolinea
i risvolti di modello culturale a se stante, che si opporrebbe al liberalismo,
alla democrazia, ed al socialismo. Modello politico ritenuto quindi dai suoi
fautori - e a torto secondo Alberini - naturale e non storico e transeunte. Ne
consegue che anche l’internazionalismo, dunque, dovrebbe essere superato, con
il federalismo[17].
Tale prospettiva, che
contrappone nazionalismo e federalismo, e che considera il primo inconciliabile
con alcuni concetti fondamentali del patrimonio politico-dottrinale dell’Occidente,
può essere concretamente smentita dalla Storia. Mi limito a citare l’esempio
più eclatante: gli U.S.A., grande Stato federale, oltre alla forma
istituzionale, coltivano e mantengono una cultura federalista e un certo tipo
di valori, di cui si ritengono responsabili nei confronti di tutta l’umanità.
Ma, non si può certo affermare che non siano una nazione, e che i suoi
cittadini non si sentano americani e non abbiano una forte coscienza di
identità nazionale[18].
2. Qui sta, a mio modesto
avviso, la radice del pericoloso equivoco, che investe il dibattito attuale, ma
che ha le sue radici in una lettura piuttosto frettolosa, che talvolta viene
effettuata, della storia d’Italia dello scorso secolo: da cui deriva il timore,
per altro giustificato, proprio perché in assenza di un certo tipo di cultura,
che la frammentazione del potere, la sua parcellizzazione, nonché la sua
divisione in orizzontale, finiscano per inficiare la realtà nazionale. Ma, in
una ottica diversa, la libertà che si concretizza nella autonomia più estesa,
non porta alla divisione ma alla apertura, non alla dispersione dei valori, ma
alla libera aggregazione per il consolidamento dei medesimi[19].
«La libertà è una pianta di molte radici» come insegnava Cattaneo[20].
Sbaglia, pertanto, chi identifica l’idea di nazione e l’esigenza di identità
nazionale che le è propria, e che costituisce in sintesi il substrato culturale
dello stato nazionale, con il nazionalismo deteriore che ne è spesso scaturito
e che ne rappresenta invece la forma degenerata. La lezione mazziniana, a
questo proposito, che sempre univa il culto per la propria nazione al rispetto
per quella altrui, destinato a sfociare in una forma di fratellanza tra tutti i
popoli, dovrebbe essere ancora, oggi più che mai, valida, anche se espressione
dello spirito di un’epoca [21].
Queste considerazioni
trovano un ostacolo indiretto nella moda culturale, oggi assai diffusa
specialmente tra gli storici contemporaneisti, molto meno per la verità tra gli
specialisti del Risorgimento, di considerare quegli anni cruciali,
semplicemente come la storia dell’unità d’Italia, privilegiando l’aspetto della
unificazione territoriale e legislativa, alla quale viene data una valenza
esclusiva; ma che si traduce in una riduzione del fenomeno risorgimentale ai suoi
aspetti puramente materiali. Quel qualcosa che ri-sorge, infatti, e di cui tutti i protagonisti della scena
politica e culturale erano consapevoli, come ha spiegato Salvatorelli in
insuperate pagine di analisi storica, (scritte in antitesi a quella storiografia
sabaudista, che, partendo da premesse diametralmente opposte, perveniva a delle
conclusioni assai vicine alle teorie più recenti sopra ricordate), non è lo
Stato italiano, che come tale non era mai esistito, ma lo spirito, la cultura,
l’unità morale in sostanza, degli italiani[22].
Quei valori cioè, da secoli sentiti e invocati, e non soltanto dai sommi come
Petrarca e Machiavelli, che costituivano, e costituiranno per decenni la
religione laica del Risorgimento.
Non a caso nei massimi
esponenti del pensiero politico di quegli anni sia cattolico che laico, da
Rosmini a Cattaneo, e primieramente nel già citato apostolo dell’unità, si ha
una netta consapevolezza di questa realtà; e questo substrato spirituale si può
facilmente cogliere in quella parte della loro filosofia politica volta a
spiegare la natura e l’organizzazione dello Stato.
Rosmini distingue la società
invisibile da quella visibile che ne costituisce la manifestazione, l’interna
dalla esterna; a questa dicotomia corrispondono due specie di vincoli, quelli
interni ed invisibili: «i quali annodano insieme quella che Leibnizio chiamava
la repubblica delle anime», e quelli esterni e visibili che si constatano
quotidianamente. Tra la società esterna e visibile, e quella interna e
invisibile esiste come nell’individuo, composto di corpo e di spirito, un
doppio rapporto attivo e passivo. Mediante il rapporto attivo l’esterno della
società, cioè il visibile, diventa la fedele rappresentazione «delle interne
disposizioni delle anime», dando luogo a quella che il filosofo di Rovereto
chiama con una attualissima espressione la “legge costituente”, che deve
rispecchiare e quindi esternare le esigenze interiori della società, attuare,
in sostanza, il fine ultimo della aggregazione sociale. Per cui : «La società
esterna tanto meglio è costituita, quanto gli esterni vincoli degli uomini sono
più sinceri e più fedelmente rispondono ad altrettanti vincoli o ad altrettante
affezioni de’ loro animi, e per lo contrario» avviene che «se all’esterno e al
materiale della società non corrisponde qualche cosa d’interno e di spirituale,
quanto apparisce della società al di fuori non è che una finzione, la quale non
può avere durevolezza[23].
Come può constatarsi il
rispetto delle esigenze e dei sentimenti di una comunità politica non poteva
trovare espressioni più pregnanti e teoreticamente corrette.
In quegli stessi anni Carlo
Cattaneo, spirito poliedrico, realista pragmatico e filosofo antimetafisico[24],
nella sua lucida e attenta analisi della realtà politica, descriveva, da una
parte, la società civile come luogo di incontro e di scontro, di interessi e di
passioni, di bisogni e di emozioni, di tutti i principi propri alla natura
umana; e dall’altra, individuava lo Stato, vero e proprio, per le sue funzioni,
numericamente ridotte nella quantità delle competenze, ma non certo nella
qualità, che consistevano essenzialmente nell’operare «un’immensa transazione»,
perché nessuna esigenza espressa dai componenti della società civile, potesse
prevaricare sulle altre, e nessuna fosse del tutto soppressa, ma tutte fossero
costrette a compatirsi e a coesistere, onde impedire, con la creazione di un
sistema monolitico, la perdita della libertà[25].
Ecco il meraviglioso pluralismo di Cattaneo che se invocava per sussistere un
necessario federalismo, presupponeva i comuni valori di un popolo tra i quali
primeggia quello della identità nazionale!
Ma pure Ferrari, a ben
analizzare il suo pensiero, come si vedrà tra breve, salva l’unità culturale e
quindi morale del popolo italiano, ricostruendone contestualmente sia lo
sviluppo culturale che quello politico; anche nella sua azione pratica del
resto, come rivela il suo atteggiamento nel ‘48, quando rientrato dalla Francia
tenterà, come Cattaneo e Mazzini, di offrire il suo contributo alla causa italiana,
progettando un giornale, destinato a non vedere la luce, il cui titolo
significativo era “La Nazione”[26],
mai porrà in dubbio l’esigenza statuale nazionale, sia pure considerando, come
gli altri esponenti del liberalismo radicale, irrinunciabili quelle libertà che
vedeva irreparabilmente compromesse dalla forma monarchica del governo. Come
ricorda Salvatorelli[27],
infatti, la nazione non era una realtà trasmessa dal passato, poiché
concretamente non si era mai realizzata storicamente in unità, «ma una nuova
creazione della civiltà europea e mondiale», che, secondando il pensiero dei
federalisti, avrebbe potuto benissimo assumere una forma istituzionale
federale.
3. Il federalismo è dunque
da considerarsi come lo strumento tecnico istituzionale e culturale che
consente ai popoli una pacifica coesistenza (non a caso Kant auspicava, sin dal
1795, la pace perpetua, nel suo “progetto filosofico”; basti ricordare il “secondo articolo definitivo per la pace
perpetua: Il diritto internazionale deve fondarsi sopra una federazione di
liberi Stati”[28]),
per la costruzione di una società aperta a tutta l’umanità, nel rispetto delle
specificità ed identità. Il federalismo che unisce e non divide.
Una volta ribadito questo
concetto, è sempre utile considerare, dal punto di vista storico, le grandi
teorizzazioni, quelli che sono considerati i classici del pensiero politico, o,
in una prospettiva giuridica, l’esempio concreto degli Stati federali ormai
plurisecolari. Si scoprirà allora che i valori di una società aperta secondo la
profetica analisi di Popper[29],
facilitati nella loro diffusione dallo sviluppo tecnologico e dei mezzi di
comunicazione, inevitabilmente guadagneranno il futuro; un futuro di pace, dove
non ci sarà posto per le etnie rivali, poiché queste non avranno necessità di
contendere per affermare la loro identità e le loro motivazioni, ed i
gruppuscoli dissidenti appariranno sempre di più in antitesi con i tempi. Se in
taluni casi l’ effimero è riuscito a compiere il miracolo di far superare le
divisioni ideologiche etniche e religiose, come è avvenuto recentemente nel
caso verificatosi nella martoriata ex
Iugoslavia, (esempio di Stato federale imposto dall’esterno[30],
le cui popolazioni si sono rivelate del tutto estranee ai valori fondamentali
del federalismo quali la tolleranza ed il reciproco rispetto), dove migliaia di
giovani, dalle più svariate provenienze, sono confluiti per ascoltare il
concerto di una rok star americana,
dando uno spettacolo di integrazione e di relax
che mai si era visto in quelle regioni; probabilmente la musica ha un immenso
potere coagulante e uniformizzante, ma, ripeto, se si riesce ad ottenere tanto
con una manifestazione destinata ad esaurirsi in poche ore, perché non sperare
che analoghi risultati potranno ottenersi dalla adesione a quei valori che
garantiscano il rispetto per le esigenze individuali, la più reale autonomia e
autodeterminazione, nella costruzione di un modello politico che consenta, con
una ampia sintesi, di perseguire l’interesse collettivo dei popoli e delle nazioni?
Il federalismo è il modello
politico del futuro, è inutile, si può dire, parafrasando quanto scrive
Tocqueville a proposito della democrazia[31],
tentare di sottrarsi a un avvenire inevitabile; ma a quale federalismo si
intende riferirsi? Ed ecco che il pensiero di Ferrari, pur obbligando ad un
continuo lavoro di storicizzazione, può
essere di aiuto in proposito, proprio per la sua prospettiva storico-culturale
destinata a sfociare in una particolare forma di Stato.
4. Ferrari auspica nel 1851
una federazione di repubbliche; non una repubblica, ma, conformemente al
pensiero cattaneiano, le repubbliche di Lombardia, di Venezia, di Toscana, di
Roma, di Napoli, di Piemonte, di Parma, di Modena.
Vediamo la motivazione di
questo ragionamento: «Come mai il popolo piemontese potrebbe giudicare li
uomini di Roma? Come mai il popolo romano potrebbe accordare la sua confidenza
alli uomini di Lombardia, che operano secondo leggi, tradizioni, abitudini e
costumi che da mille anni sono ivi sconosciuti? Le republiche adunque, e non la
republica, che sarebbe il primo principio di un immenso errore, di un intrigo
senza esempio»[32].
A parte il sapore profetico
di quest’ultima frase, oggi dolorosamente attuale, è evidente quanto la stessa
storia abbia superato la visione di Ferrari e le sue, per allora, motivate
preoccupazioni; ma è lecito domandarsi per quali motivi egli fosse giunto a una
posizione di stridente contrasto con i maggiori protagonisti di quel momento
magico della nostra storia, contrasto che doveva isolarlo anche nell’ambito
degli esponenti di quella sinistra parlamentare, tra i cui banchi egli prendeva
posto alla Camera dei deputati[33].
Il filosofo lombardo
prospettava una soluzione politico-istituzionale della questione italiana, che
era dettata, insieme, dalla sua filosofia politica e dalla sua filosofia della
storia. A questo riguardo, il suo pensiero, che in generale non si presta ad
una interpretazione univoca[34], (a
torto o a ragione è stato spesso accusato di incongruenza o di paradosso, basti
pensare alla divergenti valutazioni in proposito tra Benedetto Croce[35]
e Gioachino Volpe[36], e
per altri versi è stato da più fronti strumentalizzato, tra l’altro fu
considerato un antesignano di taluni aspetti del fascismo e del pensiero di
Alfredo Oriani[37],
mentre sull’altro versante Franco Della Peruta ha visto in Ferrari il
precursore del socialismo risorgimentale)[38],
sotto questo profilo però è profondamente coerente. Le sue conclusioni sono la
logica e stringata conseguenza delle sue premesse teoriche e delle sue interpretazioni
storiche; mentre altrettanta linearità non si riscontra nelle sue azioni
quotidiane, nel privato e nella attività parlamentare[39];
questa contraddizione gli viene spesso rimproverata da quel suo amico,
“regionalista unitario”, secondo la definizione di Giovanni Spadolini[40],
duro critico, e nello stesso tempo ammiratore, che fu Giorgio Asproni. Nel Diario Politico[41], ormai da includere tra le fonti
memorialistiche di maggior rilievo del nostro Risorgimento[42],
come, non ostante le sue iniziali perplessità in proposito, ha riconosciuto
Giuseppe Tramarollo[43],
figurano numerosissime e talvolta argute citazioni del deputato sardo sulle sue
conversazioni con il Ferrari. Le discussioni, spesso animate, tra i due
personaggi vertevano su tutti i problemi politici del momento, e in conseguenza
talvolta sul federalismo[44];
quel federalismo che, ormai comunemente la storiografia riconosce quale prima
matrice culturale dell’autonomismo sardo, e quindi del pensiero di Lussu, i cui
precursori vanno dunque ricercati, sia
nei pensatori isolani del XIX secolo quali Tuveri e Asproni[45],
sia conseguentemente tra gli autori che maggiormente hanno inciso sulle loro
concezioni politiche, come Cattaneo e Ferrari.
Ma Ferrari oltre che storico[46]
era prima di tutto un filosofo e come tale va considerato[47].
Nel suo pensiero coesistono
da un lato i fondamenti filosofici del federalismo, che costituiscono i
presupposti teorici di quella imprescindibile cultura federale di cui si è parlato, e dall’altro la dimensione istituzionale del problema,
per la cui soluzione prospetta la federazione. “La federazione” è infatti il titolo del suo libro, proprio
emblematico di quella esigenza che, molto opportunamente, oggi è necessario
ribadire, cioè della coesistenza di questi due elementi, che debbono essere
entrambi presenti in un sistema statale perché questo meriti la qualificazione
di federale, Ettore Albertoni, come si è ricordato parla di federalità.
Giustamente Anna Maria
Lazzarino del Grosso[48], che
ha compiuto una profonda disanima del pensiero medioevalista di Giuseppe
Ferrari, mette in rilievo come proprio la sua filosofia della storia lo
sospingesse verso una concezione
federale della statualità, in modo particolare se questa era riferita al caso
italiano[49];
ed il processo è chiaramente visibile anche nei suoi lontanissimi presupposti.
Risulta, infatti, dalle molteplici analisi e interpretazioni del Medio Evo che
emergono spesso dalle sue opere. Egli ricerca, in ciascuna epoca storica,
secondo un approccio dialettico, «l’intreccio sempre mutevole di positivo e di
negativo dal punto di vista del progresso intellettuale e sociale dell’umanità»[50].
Il negativo delle idee cardine del Medio Evo è dato «dalla sottomissione al
principio di autorità e dall’accettazione della disuguaglianza sociale»[51].
La storia non presentava un Papato «difensore della libertà italiana»[52],
tutt’altro: anzi, la Chiesa aveva avallato con la conciliazione perseguita con
il mondo barbarico e la accettazione della sua dominazione, la prima fonte di
ogni diseguaglianza sociale: la dicotomia tra vincitori e vinti. Il Papato
aveva, secondo Ferrari, stipulato un patto con l’Impero, nel momento
dell’incoronazione di Carlo Magno, che avrebbe instaurato nella politica un
sistema pontificale-imperiale destinato a condizionare la storia d’Italia sino
ai tempi moderni. Gli italiani sono stati infatti, guelfi o ghibellini, o quasi
guelfi e quasi ghibellini, o neoguelfi e neoghibellini[53].
Questo patto di ferro, infatti, non riuscì a essere infranto né dai comuni, i
municipi, secondo il linguaggio ferrariano, né dalle signorie, donde le
migliaia di rivoluzioni, inutilmente tentate dal popolo italiano. Papato ed
Impero sono viste quindi come forze profondamente antinazionali.
«Dalla loro lotta è
scaturito un contrasto insanabile tra indipendenza e libertà che per primo
Machiavelli ebbe il merito di rilevare»[54].
Tale spartizione tra Impero e Papato e tra i loro princìpi continua con l’età
moderna. L’unica espressione della nazionalità, che rappresenta quindi un
valore altamente positivo, per Ferrari, è riscontrabile nei municipi. L’intera
vicenda italiana è letta in chiave di scontro tra unità e libertà[55],
si badi bene, non tra nazionalità e libertà. Dove l’unità in un paese federale,
anche geograficamente come l’Italia, non può che significare appiattimento e
soffocamento di civiltà. La libertà chiede, nella visione di Ferrari, la
federazione: ma è la federazione, e questo è l’aspetto più attualmente
rilevante del suo pensiero in questo contesto, che consente lo sviluppo della
nazionalità.
La federazione, come si
vede, è un concetto quanto mai duttile e mutevole a seconda delle esigenze dei
popoli federati, ma che implica nella sua naturale articolazione, una unità
morale dei medesimi.
Se la lotta comunale contro
l’Imperatore e contro il pontefice non fu lotta contro lo straniero, ma lotta
per la libertà contro il diritto esistente, cioè contro il patto di Carlo Magno
ecco che la “federazione” che, come ricorda Anna Maria Lazzarino Del Grosso[56]
ha le sue ultime manifestazioni nel cinquecento, periodo di pace e di civiltà,
il cosiddetto Risorgimento per Ferrari che noi oggi chiamiamo Rinascimento, è
il modello al quale rivolgersi, federazione, dunque, di repubbliche.
Ma le forme istituzionali,
insegna lo stesso Ferrari, hanno un carattere transeunte e strumentale di cui
le forze politiche e sociali si devono servire, per far valere i propri ideali,
le proprie esigenze, passioni ed interessi[57].
Bene attualmente, gli interessi possono essere composti, gli ideali salvati, e
le passioni sopite, proprio con il modello politico del federalismo.
[2] B. Caruso e L. Cedroni
(a cura di), Federalismo, Antologia
critica, Roma 1995.
[3] E.A. Albertoni (a cura di), Il Federalismo nel Pensiero politico e nelle Istituzioni, Milano,
1995. V. specialmente 17: Parte prima,
Che cosa è il federalismo, I fondamenti teorici e la loro evoluzione, 19
ss. Gli aspetti giuridico-istituzionali,
43 ss. L’analisi politica, 107 ss.; v.
anche 131 ss., il saggio di A. Alen, Il Federalismo in Belgio.
[4] V. ivi, III-LVVVIII, specialmente XLI: «(.....) Una complessità che,
sul piano del metodo, può essere meglio affrontata, impostata e risolta
seguendo il filo conduttore di quella federalità
non solo politica e territoriale, ma anche culturale ed economico-sociale che
ridà, oltre l’appiattimento statalistico-burocratico, ruolo e vigore al
pluralismo degli ordinamenti, espressione delle pluralità delle libertà e delle
iniziative».
[5] Ivi, XLIII: «La nuova statualità, infatti, per affermarsi non può
più esimersi dall’esprimere la sua compiutà progettualità,
ma un simile impegno non può affermarsi d’un sol colpo».
[6] G. Ferrari, La
Federazione Repubblicana, Capolago, 1851. Sulla edizione di alcune opere di
Ferrari, per i tipi della tipografia elvetica, v. L. Ambrosoli, Cattaneo
e Ferrari: L’edizione di Capolago delle
opere di Ferrari, in Giuseppe Ferrari
e il nuovo Stato italiano, a cura di S.
Rota Ghibaudi e R. Ghiringhelli,
Milano 1992, 225 ss, specialmente 227.
[7] Sul punto si veda C. Lacaita (a cura di), L’opera e l’eredità di Cattaneo, vol. I,
Bologna, 1973, vol. II, Bologna 1976; id., Autonomia e società civile in Carlo Cattaneo, vol. I., 37 ss.
[8] A. Colombo, IL
Federalismo nel movimento democratico repubblicano del Risorgimento, in Quaderni sardi di Filosofia e Scienze umane,
n. 13-14, 1984-1985. V. anche B. Caruso, Il pensiero federalista nel Risorgimento
italiano, in Federalismo, cit.,
107 ss.; A. Monti, L’idea federalistica nel Risorgimento
italiano, Bari 1922.
[9] Cfr. in proposito il
recentissimo lavoro di C. Malandrino,
Federalismo, Storia, idee e modelli,
Roma 1998, 18.
[10] V. R. Caddeo (a cura di),
Epistolario di Carlo Cattaneo, Firenze 1952, vol. II, 122, lettera n. 336 a
Lodovico Frapolli: «Il federalismo è la teorica della libertà, l’unica
possibil teorica della libertà, anche quando non è voluto da diversità di
razze, di lingue, di religione». Questa affermazione di Cattaneo, non a caso, è
stata affiancata nella pagina dedicatoria del volume Radici storiche e prospettive del federalismo (Cagliari 1989), ad
una riflessione di Giovanni Battista Tuveri, il massimo esponente del
federalismo sardo, con la quale si integra perfettamente: «Perchè uno stato
possa dirsi veramente federale, bisogna che le grandi frazioni che lo
costituiscono siano sovrane in tutto ciò che non è incompatibile con
l’interesse generale».
[11] V. M. Albertini, Il
federalismo, Antologia e definizione, Bologna, 1979, 10, anche per le
seguenti citazioni.
[12]V. P.J. Proudhon, Contradictions Politques, in Oeuvres Complètes, Parigi 1952, 235 ss.
[13]V. W. Maturi,
Interpretazioni del Risorgimento, Torino 1967, 394, in cui l’Autore
sottolinea l’influenza di Giuseppe Ferrari sul pensiero di Alfredo Oriani.
[14]V. M. Albertini, Il
Federalismo, cit., 11.
[15] M. Albertini,
L’identità europea e la crisi della ragione, in Il federalismo, cit., 299.
[16] M. Albertini, Lo stato
nazionale, Milano 1960, specialmente 143 ss. V. anche la recente
riedizione, Bologna 1997, 117 ss.
[17] Sulla teoria di Albertini
v. C. Malandrino, op. cit., 161 ss.
[18] V. G. Recchia,
Federalismo e confederazione nella storia americana. V. A. Panzeri, Dalle istituzioni liberal-rappresentative britanniche al federalismo
nord-americano, in Il federalismo nel
pensiero politico e nelle istituzioni, cit., 205 ss. Lo stesso discorso è valido per la Svizzera dove la cultura
federalistica costituisce un elemento di stabilità nazionale.
[19] M. Pacini, Un
Federalismo dei valori, in Il Sole-24
Ore, 29 ottobre 1994, ora in Percorso
e conclusioni di in programma della Fondazione Giovanni Agnelli (1992-1996),
Torino 1996, 11 ss.
[20] C. Cattaneo,
L’ordinamento del regno, in Antologia
degli scritti politici, a cura di G.
Galasso, Bologna 1978, 168: «I molteplici consigli legislativi, e i loro
consensi e dissensi, e i poteri amministrativi di molte e varie origini, sono
condizioni necessarie di libertà: la libertà è una pianta di molte radici».
[21] V. tra le tante pagine
mazziniane in proposito, Giovine Europa,
Atto di Fratellanza, in Scrittori
Politici dell’ottocento, vol. I, Giuseppe
Mazzini e i democratici, a cura di F.
Della Peruta, Milano 1969, 442 ss; v. anche Fede e avvenire in G. Galasso (a
cura di), Antologia degli scritti politici
di Giuseppe Mazzini, Bologna 1961, 66: «Crediamo quindi nella SANTA
ALLEANZA DEI POPOLI, come quella ch’è la più vasta formola d’associazione
possibile nell’Epoca nostra - nella libertà
e nell’eguaglianza dei popoli,
senza le quali non ha vita associazione vera - nella nazionalità, ch’è la
coscienza dei popoli e che assegnando ad essi la loro parte di lavoro nell’
associazione, il loro ufficio nell’Umanità, costituisce la loro missione sulla
terra, cioè la loro individualità,
senza la quale non è possibile libertà, né eguaglianza - nella santa Patria, culla della nazionalità, altare
e lavoreria per gli individui che compongono ciascun popolo». V. ivi,
Questione Morale, 151 ss.
[22] V. L. Salvatorelli,
Pensiero e azione del risorgimento, Torino 1974, 13 ss.
[23] A. Rosmini-Serbati, La
società e il suo fine, libri quattro, in Filosofia della Politica, a cura di M.
D’Addio, Milano 1972, 175 ss.
[24] V.P. Gastaldi, Carlo
Cattaneo e il federalismo radicale, in G.
Angelini, A. Colombo, V.P. Gastaldi, La
galassia repubblicana, Voci di minoranza nel pensiero politico italiano, Milano
1998, 17.
[25] C. Cattaneo, Considerazioni
sul principio della filosofia, in Antologia
degli scritti politici, a cura di G.
Galasso, Bologna 1978, 78 ss.
[26] G. Angelini, Gabriele
Rosa e il problema dell’unità, in La
galassia repubblicana, cit., 49; v. anche L.
Ambrosoli (a cura di), Tutte le
Opere di Carlo Cattaneo, Milano 1974, Vol. IV, 843, dove il sopracitato “La Nazione”, viene definito un “giornale
di principi”.
[27] L. Salvatorelli,
Pensiero e azione del Risorgimento, Torino 1974, 108. Sull’esigenza della
unità culturale, anche in campo linguistico, per Ferrari v. L. Compagna, Giuseppe Ferrari collaboratore della “ Revue des deux Mondes” in Giuseppe Ferrari e il nuovo stato italiano, cit., 455, dove esaminando il saggio
ferrariano De la littèrature populaire en
Italie, pubblicato in due puntate nella suddetta rivista, nel 1839 e nel
1840, rileva come «l’occhio, l’orecchio, la sensibilità di Ferrari si
concentrano unitariamente sulla decadenza italiana. Dall’ambito linguistico e
letterario, egli riporta continuamente la disamina ad un ambito politico e
culturale più generale» per cui pur limitatamente a questo riguardo l’Autore è
indotto ad affermare: «La sua
conclusione è decisamente antifederalista»
[28] V. I. Kant, Per la pace
perpetua progetto filosofico, in G. Sasso (a cura di), Antologia degli
scritti politici di Emmanuele Kant, Bologna 1961, 115. V. F. Livorsi, Pace perpetua e unione mondiale, in Il federalismo nel pensiero politico e nelle istituzioni, cit., 174 ss.
[29] V. K.R. Popper, La
società aperta e i suoi nemici, a cura di D.
Antiseri, Vol. 2, 307 ss.
[30] V. C. Malandrino, op.
cit., 148.
[31] A. Tocqueville, L’idea
madre della democrazia in America in Antologia
di scritti politici a cura di V. de
Capraris e N. Matteucci, Bologna 1978, 50: «Il nostro problema,
oggi, non è affatto di sapere se si può instaurare un regime democratico o un
regime aristocratico, ma di scegliere tra una società democratica, la quale
progredisce senza grandezza ma con ordine e moralità, e una democrazia
disordinata e depravata. (...) Il mio intendimento era di (...) mostrar loro la
sola via da scegliere; e insieme di piegare la loro volontà nella prospettiva
di un avvenire inevitabile».
[32] G. Ferrari, La
Federazione Repubblicana, in Scritti
politici, a cura di E. Sestan,
Torino 1977, 82 s.
[33] V.P. Gastaldi, Nella
galassia dell’estrema, in Giuseppe
Ferrari e il nuovo Stato italiano, cit., 421 ss. V. ivi, M. Corrias Corona, IL filosofo “ rivoluzionario” visto da
Giorgio Asproni, 411. Anche F. Della
Peruta, Giuseppe Ferrari, cit.,
369, pone l’accento sulla “figura solitaria” del filosofo lombardo: «Solitario
come storico, filosofo della storia e teorico della politica» e ancora «Solitario
come banditore all’indomani del 1849 di un programma federal-socialista
alternativo alla piattaforma di Mazzini, solitario come uomo politico e
parlamentare dal 1860 alla morte, quando continuò a criticare lo Stato unitario
e accentratore con scarso seguito tra gli uomini della sinistra».
[34] V. in proposito S. Rota Ghibaudi, G. Ferrari. L’evoluzione del suo pensiero (1838-1860), Firenze
1969. V. anche G. Ferrari, Scritti politici, a cura di S. Rota Ghibaudi,
Torino 1973, in part. Introduzione, 9
ss., e la vastissima Nota
bibliografica, 59 ss. V. anche L. Zanzi, Giuseppe Ferrari: un filosofo “militante”,
in Giuseppe Ferrari e il nuovo Stato
italiano, cit., 168 ss.
[35] B. Croce, Storia della
storiografia italiana nel secolo decimonono, Bari 1922, si cita qui la III
ed., Bari 1947, 24 ss., in particolare 25: «Il Ferrari a mio avviso, possedeva
un cervello affatto anticritico e antistorico e i suoi volumi, non ostante
l’erudizione di cui riboccano, non ostante l’ingegnosità di cui sfavillano, non
serbano quasi altra importanza che di curiosità scientifiche; e discorrerne in
una storia della storiografia non si può se non per via di digressione e quasi
tra parentesi».
[36] G. Volpe Il ritorno di
Ferrari? Articolo pubblicato nel Corriere
della sera nel 1927 a commento della raccolta di P. Schinetti, Le più
belle pagine di Giuseppe Ferrari, (Milano 1927) ampliato e ristampato in Guerra. Dopoguerra. Fascismo. Venezia
1928, 235 ss. Per il giudizio di Volpe su Ferrari cfr. anche G.B. Furiozzi, Angelo Oliviero Olivetti e Giuseppe Ferrari, in Giuseppe Ferrari e il nuovo Stato italiano,
cit., 281.
[37] G. Ferrari, Corso
sugli scrittori politici italiani, Milano 1929, Prefazione di A.O. Olivetti,
XIV: «Eppure egli è veramente il precursore del nostro tempo; il prefascista
per eccellenza in politica ed in filosofia», v. anche XV, XXVI, XXIX. V. anche
le belle pagine di W. Maturi, Interpretazioni del Risorgimento, cit.,
sull’influenza di Ferrari nel pensiero di Alfredo Oriani, 172, 381, 382; G. Volpe, op. cit., 240.
[38] V. F. Della Peruta, I
democratici e la rivoluzione italiana, Milano 1974, 100. Cfr. anche L.
Russi, Pisacane e Ferrari: Esiti
socialisti dopo una rivoluzione fallita, in Giuseppe Ferrari e il nuovo Stato italiano, cit., 261 s. V. ivi, C.
Ceccuti, Ferrari e la “Nuova
Antologia”: Il destino della Francia Repubblicana, 122, in cui sottolinea
come nell’ultimo Ferrari scompaia «l’interesse per la questione sociale o per
un generico socialismo risorgimentale».
[39] V. S. Rota Ghibaudi, Introduzione,
cit., 15.
[40] G. Spadolini, Il
pensiero politico di Giorgio Asproni, in Atti del Convegno Nazionale di studi su Giorgio Asproni, Cagliari
1983, 41.
[41] G. Asproni, Diario
Politico, 1855-1876, Profilo biografico a cura di B. J. Anedda, Introduzioni e note di C. Sole e T. Orrù,
vol. I, 1855-1857, Milano 1974. La pubblicazione, ormai ultimata, dei sette
volumi del diario, ha impegnato la Facoltà di Scienze Politiche dell’Università
di Cagliari, ed in modo particolare i due curatori ai quali va attribuito ogni
merito, per oltre 15 anni. Nel 1976 usciva il vol. II, 1858-1860, sempre a cura
di C. Sole e T. Orrù; nel 1980 il vol. III,
1861-1863, a cura di C. Sole; nel
1980 anche il vol. IV, 1864-1867, a cura di
T. Orrù; nel 1982 il vol. V, 1868-1870, a cura di C. Sole; nel 1983 il vol. VI, 1871-1873,
a cura di T. Orrù; infine nel 1991
il vol. VII, 1874-1876, a cura di entrambi gli studiosi. Per la pubblicistica
riguardante Asproni mi sia consentito rinviare al mio: Il Canonico ribelle, Pensiero politico e sentimento religioso in
Giorgio Asproni, Milano 1984.
[42] V. in proposito T. Orrù, Giorgio Asproni protagonista e memorialista del Risorgimento, in Atti del Convegno Internazionale,Giorgio
Asproni e il suo “Diario Politico”, Cagliari 1995, 41 ss. V. ivi, tutta la seconda sezione Luoghi e personaggi dell’Italia nella
memorialistica asproniana con le relazioni di B. Montale, Giorgio
Asproni e Genova, 65 ss.; U. Levra,
Luoghi e personaggi torinesi
risorgimentali nel Diario Asproni,
77 ss. G. Talamo, Giorgio Asproni e l’Accademia romana di San
Lucca 85 ss.; ed infine per i rapporti con Salvatore Morelli M. Corona Corrias, Giorgio Asproni e la “questione femminile”, 113 ss.
[43] G. Tramarollo, Giorgio
Asproni diarista del Risorgimento, in Atti
del Convegno Nazionale, cit., 93. Lo stesso Tramarollo di fronte alla
imponente mole del Diario politico, di cui allora avevano visto la
luce soltanto i primi due volumi, scriveva, v. 241: «non si potrà più trattare
la storia del risorgimento nazionale senza consultare le notazioni ora affrettate
ora fieramente polemiche, ora distesamente descrittive, talvolta intensamente
autobiografiche, talvolta obbiettivamente ritrattistiche del gran diario».
[44] G. Asproni, Diario
Politico 1855-1875, vol. III, Milano 1980, 182 ss., vol. V, 79, 189, 210,
217, 671.
[45] V. per tutti A Delogu, La prospettiva federalistica di Giovanni Battista Tuveri, in Radici storiche e prospettive del
federalismo, cit., 201 ss.; ivi, T. Orrù, La Sardegna nella visione federalistica di Giovanni Battista Tuveri,
219 ss.
[46] V. C.G. Lacaita, Il
problema della storia in Ferrari giovane, in Giuseppe Ferrari e il nuovo Stato italiano, cit., p. 131 ss.,
specialmente 142 s.
[47] V. La préface di S. Douallier e P. Vermeren a Les
Philosophes salariès di J Ferrari, suivi de Idées sur la politique de Platon et
D’Aristote et autres textes, Parigi
1983, 9 ss., tutte dedicate al Ferrari professore di filosofia. V. Anche L Zanzi, op. cit., 173. Cfr. M.
Schiattone, Alle origini del
federalismo italiano, Giuseppe Ferrari, Bari 1996, 8 ss. sulla formazione
filosofica, e 53 ss. sull’ Impianto
critico-euristico di Ferrari.
[48] A.M. Lazzarino Del Grosso, Il Medioevo in Giuseppe Ferrari, in G. Ferrari e il nuovo Stato italiano, cit., 89 ss.
[49] S. Rota Ghibaudi, Introduzione,
cit., 32: «L’analisi di fatto, concreta, sperimentale dell’indagine ferrariana
viene a innestare la sua concezione rivoluzionaria, in relazione soprattutto
alla situazione italiana, su basi federalistiche». Ancora p. 33: «Queste le
basi teoriche del federalismo del Ferrari, strettamente collegato prima
dell’unità alla sua concezione rivoluzionaria. Dopo il ‘60 la concezione
federale ferrariana non è più una alternativa rivoluzionaria alla soluzione
unitaria moderata e mazziniana, ma diventa il presupposto della sua opposizione
parlamentare alla politica governativa, caratterizzata dall’accentramento e dal
formalismo».
[50] V. A.M. Lazzarino Del Grosso, op. cit., 92; sul dualismo nella filosofia di Ferrari v. G. Panizza, La teoria della fatalità nell’“Histoire de la Raison d’Etat”, in Giuseppe Ferrari e il nuovo Stato italiano,
cit., 113; v. ivi, Zanzi,
cit., 179 ss., sulla dialettica nella concezione storiografica del Ferrari.
Sempre sul problema della dialettica e dell’influsso hegeliano v. E. Sestan, Introduzione, cit., IX; v. anche il mio Il filosofo rivoluzionario, cit., 407. “La dialettica hegeliana” è il paragrafo tratto dalla Filosofia della Rivoluzione, vol. I, 181, incluso da P. Schinetti in Le più belle pagine di Giuseppe Ferrari, Milano 1927, 120 ss.
[51] V. A.M. Lazzarino Del Grosso, op. cit., 93.
[52] V. ivi, 95 anche per le successive citazioni.
[53] V. G. Ferrari, Histoire
des révolutions d’Italie ou Guelfes et Gibelins, Parigi 1848, 4 voll.; v. anche Corso
su gli scrittori politici, cit., 13.
[54] V. in proposito A.M. Lazzarino Del Grosso, op. cit., 95. Cfr. anche S. Rota Ghibaudi, Giuseppe Ferrari e la “Teoria dei periodi politici”, in Giuseppe Ferrari e il nuovo Stato italiano,
cit., 48 s.; ivi, A. Colombo, Il Ferrari del “Corso”, 82 s., dopo aver ricordato le osservazioni
critiche di Ferrari su Machiavelli afferma: «E’ come oggi noi stessi sappiamo
benissimo, il Machiavelli che ha fatto della politica una “Scienza”, è il
Machiavelli “legislatore della politica” come lo definisce Ferrari, insistendo
su quella che chiama la “lucidezza incomparabile” di ogni sua descrizione, e
distinzione, e classificazione, sempre ricavata dall’esperienza». Cfr. l’opera
più importante in proposito di G. Ferrari,
Machiavel juge des revolutions de notre
temps, Parigi 1849, per la ed. italiana, v. S.
Rota Ghibaudi (a cura di), Scritti
politici, cit., Machiavelli giudice
delle rivoluzioni dei nostri tempi, 162 ss.
[55] Sul rapporto tra libertà,
indipendenza e federazione, v. P. Bagnoli, Giuseppe Ferrari e Giuseppe Montanelli,
in Giuseppe Ferrari e il nuovo Stato
italiano, cit., 241 ss., specialmente 245-248.
[56] V. A.M. Lazzarino Del Grosso, op. cit., 102.
[57] V. G. Ferrari, Corso su gli scrittori politici italiani, cit., 10 s.; A.M. Lazzarino Del Grosso, op. cit., 107; G. Asproni, Diario Politico, cit., vol. III, 383: «Dico che forse avrà ragione. Ma io stupisco come egli, sublime maestro di storia e professore esimio, che insegna le forme di governo non essere per i popoli che arme secondo la necessità de’ tempi, non veda oggi che il supremo bisogno della nazione italiana è l’unità politica».