Università di Sassari
Parlare
di reges socii et amici, di re soci ed amici del popolo Romano,
significa affrontare il tema dei rapporti fra Roma ed il mondo extra-italico a
partire almeno dagli inizi III sec.a.C., quando Roma, forte della potenza
acquisita grazie al controllo diretto o indiretto del territorio italico,
incominciò a sviluppare una politica di inserimento nel quadro delle potenze
che controllavano in particolare il Mediterraneo orientale.
Per quanto l'interesse di Roma per
il Mediterraneo orientale risulti documentato già per il IV sec., è infatti nel
III che Roma iniziò ad intessere una serie di rapporti con le grandi potenze
ellenistiche, l'Egitto, la Macedonia, la Siria ed il regno di Pergamo, nel
quadro di una politica che la portava ad instaurare una serie di relazioni
anche con numerose città libere della Grecia e dell'Asia, e con potenti leghe,
quale quella degli Etoli.
Allo stesso secolo inoltre risalgono
i primi rapporti con potenze minori, come il regno illirico, mentre la guerra
contro Cartagine comportava l'instaurazione di rapporti di alleanza con Gerone
di Siracusa e con il regno africano di Numidia[1].
Gli strumenti di cui Roma si servì
per inserirsi nel gioco delle potenze che controllavano il Mediterraneo, e per
legare ai propri interessi i diversi Stati con cui essa venne a contatto o in
contrasto, furono essenzialmente l'amicitia e la societas: si pone quindi il problema di studiare la struttura e
la funzione, dal punto di vita giuridico, dei rapporti così definiti dalle
fonti, ed in primo luogo il problema di determinare se essi fossero rapporti
giuridici, e se fossero rapporti giuridici di diritto internazionale[2].
Al proposito è appena il caso di
ricordare come la maggior parte della moderna dottrina positiva tenda ad
escludere la possibilità che si possa parlare di diritto internazionale per i
rapporti fra entità politiche diverse nell'antichità e durante il Medio Evo,
dato che essa concepisce la comunità internazionale come comunità universale
di Stati sovrani,
la cui vita giuridica è regolamentata da norme distinte e diverse
da quelle che regolano la vita interna di ogni singolo Stato.
Alcuni storici del diritto,
accettando tali affermazioni, tendono ad escludere l’esistenza di un diritto
internazionale nel mondo romano, ma la dottrina prevalente oggi sembra
indirizzata in senso contrario[3]: in
particolare il problema della universalità viene superato ammettendo la
possibilità della formazione del diritto internazionale per ambienti
particolari[4].
E’ noto come, per molto tempo, ogni
tentativo di ricostruzione dei rapporti internazionali nel mondo antico sia
stato condizionato dalla teoria dell’ostilità naturale fra i popoli, elaborata
con riferimento a Roma dal Mommsen, nei termini di “ostilità” o “indifferenza”
fra comunità non appartenenti alla stessa stirpe[5]: la
stessa possibilità di instaurare rapporti giuridici fra comunità di stirpe
diversa veniva subordinata alla conclusione di un trattato volto a porre fine
all’ostilità naturale[6].
La teoria del Mommsen risulta ormai
completamente abbandonata dalla storiografia moderna[7], che
tenta di risolvere su altre basi sia il problema del fondamento della
giuridicità delle norme di diritto internazionale nel mondo antico[8],
sia il problema della identificazione dei requisiti la cui presenza viene
considerata essenziale per l'esistenza di un diritto internazionale[9].
Per quanto mi concerne ho già
espresso l’opinione[10] che
la teoria istituzionalista, con i correttivi proposti dall’Orestano[11],
consenta meglio di altre di tentare una ricostruzione quanto più possibile
aderente alla realtà, del complesso di norme che regolavano i rapporti
internazionali nel mondo antico.
D’altro canto la maggior parte degli
studiosi del moderno diritto internazionale sembra ormai aver abbandonato sia
le impostazioni del positivismo statalistico, che riscontrava nella
imperatività e nella coercibilità gli elementi caratterizzanti del fenomeno
giuridico, individuando il fondamento della giuridicità delle norme
internazionali nella cosiddetta “volontà collettiva degli stati”[12],
sia le impostazioni del positivismo critico, che non sembra aver avuto grande
seguito in campo internazionalista, nonostante la rilevanza attribuita dal
Kelsen al pricipio di effettività proprio con riferimento al diritto
internazionale e ai rapporti fra ordinamento internazionale e ordinamenti
nazionali[13].
Nella dottrina contemporanea di gran
lunga prevalente, infatti, il ruolo essenziale viene giocato proprio dal
principio di effettività: ribadita la socialità di ogni fenomeno giuridico,
l’ordinamento giuridico internazionale viene concepito come l’insieme delle
norme che si constatano esistenti nella vita di relazione di una determinata
comunità di stati[14]. In
questo contesto assume particolare rilevanza la consuetudine, considerata fonte
del diritto internazionale generale, cui si contrappone il diritto
internazionale particolare, di origine pattizia. Le norme consuetudinarie, a
loro volta, si ritengono esistere ed essere norme giuridiche quando si constati
che i membri della comunità uniformano ad esse i propri comportamenti,
manifestando in concreto di ritenerle regole di osservanza obbligatoria.
Se pertanto, d’accordo con la
dottrina oggi prevalente, il diritto internazionale è dato dalle norme che si
constatano vigenti ed osservate come obbligatorie dai componenti di una
determinata comunità internazionale, siano esse di origine consuetudinaria o
pattizia, mi sembra difficile negare l’esistenza di un diritto internazionale
che regolamentava i rapporti fra Roma e le entità politiche con cui essa venne
a contatto durante la sua espansione nel mondo mediterraneo. Non vi è dubbio
infatti che i Romani, nel momento di intraprendere una politica diretta ad
inserire Roma nel gioco delle potenze che controllavano il Mediterraneo
orientale, percepivano l'esistenza di entità politiche diverse da Roma stessa,
con le quali il senato intratteneva rapporti necessariamente di carattere
internazionale, dato che le condizioni di uguale - e forse talvolta superiore -
potenza politica non avrebbero consentito altra possibilità. E di ciò la classe
dirigente romana aveva piena e precisa percezione.
Si trattava per Roma di inserirsi
nel quadro articolato e complesso delle relazioni fra le monarchie
ellenistiche, le città e le leghe[15], e
ciò essa fece da un lato, almeno in parte, uniformandosi a quella vita di relazione[16],
dall’altro portando con se - e via via imponendo con il crescere della sua
potenza - concetti e modelli suoi propri, frutto di un’elaborazione svoltasi
durante l’espansione nel Lazio ed in Italia.
Come è noto sin dai tempi più
antichi (stando alle fonti sin dall’età della monarchia latino-sabina) esisteva
in Roma un collegio sacerdotale, quello dei feziali, la cui attività veniva
richiesta nei momenti più significativi
dei rapporti con altre comunità. La letteratura sull’origine del
collegio dei feziali, sulla loro attività e sulla natura di tale attività,
nonchè sul complesso di riti e di norme denominato ius fetiale, è relativamente ampia[17], e
le questioni sollevate sono molteplici. In questa sede sembra opportuno
limitarsi ad alcune brevi considerazioni su questioni per altro non semplici,
quali quelle della risalenza del collegio, della natura - squisitamente
religiosa, oppure anche laica - della loro attività, per giungere al problema
che più direttamente ci interessa, quello della natura del ius fetiale e delle relazioni instaurate da Roma con le comunità
con essa venne via via in contatto.
Per quanto attiene alla risalenza
del collegio dei feziali ritengo sia da seguire l’opinione della dottrina
dominante, che colloca la sua origine all’età monarchica[18],
mentre mi sembra inaccettabile il parere della Saulnier, la quale ha
recentemente sostenuto, con argomentazioni a mio avviso del tutto
insufficienti, che il collegio dei feziali venne organizzato in modo stabile
solo all’epoca della restaurazione augustea[19].
Secondo l’A. durante l’età monarchica il re, e poi il senato, designavano di
volta in volta il o i feziali, i quali avevano un compito essenzialmente
religioso, quello di intermediari fra gli dei ed il mondo degli uomini e di
vittima designata in caso di rottura della fides.
Questa accentuazione del ruolo
religioso dei feziali, piuttosto diffusa in dottrina insieme alla convinzione
che i feziali svolgessero un ruolo meramente “esecutivo” di una volontà
politica altrui (del re, del senato), non ha consentito, a mio avviso, di
cogliere un aspetto assai rilevante della loro attività, e cioè il fatto che le
formule ed i riti del ius fetiale
testimoniano un’elaborazione giuridica raffinata, per certi aspetti
paragonabile a quella dei pontefici nel campo del diritto privato[20].
In altre parole, se è fuor di dubbio che l’attività dei feziali aveva dei
contenuti religiosi ritenuti dagli stessi Romani di importanza essenziale per
la vita della comunità, ed è fuor di dubbio anche che non erano certo i feziali
a prendere le decisioni di politica estera, è tuttavia altrettanto vero che le
formule utilizzate nella rerum repetitio,
nella dichiarazione di guerra, nella conclusione formale di un foedus, nella deditio internazionale, testimoniano una riflessione dai contenuti
squisitamente giuridici.
Nella rerum repetitio[21] il
feziale, nel momento in cui varcava il confine della comunità presso cui si
stava recando, e prima di esporre i postulata
del popolo romano, chiedeva di essere ascoltato da Giove, dai confini del
popolo in questione, dal fas,
chiarendo la propria posizione di publicus
nuntius del popolo romano, inviato iuste
pieque: vi è la consapevolezza di varcare un confine, di entrare in un
territorio straniero, e la necessità di esporre i motivi di un’azione che in sé
potrebbe essere illegittima. Informati gli dei, la stessa dichiarazione veniva
poi ripetuta più volte, onde essere certi che la comunità tutta era stata
informata della legittimità della presenza del feziale romano nel suo
territorio e delle richieste di cui egli stesso era portatore[22].
Trascorsi i dies sollemnes[23] senza che avvenisse la riparazione
richiesta, il feziale faceva constatare agli dei il comportamento ingiusto
della controparte, e rendeva noto che sarebbe tornato a Roma, dove si sarebbe
deciso il da farsi[24]. A
Roma il re convocava il senato e chiedeva ad ogni senatore il suo parere, con
una formula che, se dobbiamo credere alle parole di Livio, si presenta
sorprendentemente tecnica, dal punto di vista giuridico, sia nella domanda che
nella risposta:
“Quarum
rerum, litium, causarum condixit pater patratus populi Romani Quiritium patri
patrato Priscorum Latinorum hominibusque Priscis Latinis, quas res nec dederunt
nec solverunt nec fecerunt, quas res dari, solvi, fieri oportuit, dic”, inquit
ei quem primum sententiam rgabat, “quid censes?” Tum ille: “Puro pioque duello
quaerendas censeo itaque consentio consciscoque”[25].
Alla delibera del
senato seguiva l’invio del feziale per la formale dichiarazione di guerra, che
avveniva attraverso il lancio dell’asta in territorio nemico e la pronuncia di
una formula alla presenza di almeno tre uomini puberi appartenenti alla
comunità nemica[26]:
mi sembra interessante sottolineare che secondo il racconto liviano il momento
religioso si esaurisce nella fase della rerum
repetitio, mentre nelle fasi successive, la delibera del senato e il lancio
dell’asta, l’accento viene posto sulla illegittimità del comportamento della
comunità nemica e sul riferimento della decisione della guerra agli organi
della comunità romana, senza più alcun riferimento alla divinità.
Interessante è anche la procedura
descritta da Livio per la conclusione di quello che, secondo la storico, è
stato il più antico dei trattati conclusi da Roma[27]:
in particolare vanno sottolineate, a mio avviso, da un lato le parole
pronunciate dal feziale durante il giuramento esecratorio, laddove si invoca la
punizione divina sul popolo romano se Roma per prima verrà meno al trattato “publico consilio dolo malo”, dall’altro
la formale richiesta rivolta dal feziale al re di essere nominato regium nuntium populi Romani, e la
risposta del re "Quod sine fraude
mea populique Romani Quiritium fiat, facio".
Naturalmente molti dubbi possono
essere avanzati, e lo sono stati, sulla credibilità storica dell'episodio
narrato da Livio, ma anche in questo caso mi sembra difficile negare la
risalenza delle formule, a meno di non aderire, con riferimento alla richiesta
del feziale di essere nominato regium
nuntium populi Romani, alla tesi di coloro credono che proprio questa parte
del rito sia stata elaborata più tardi, in relazione al dibattito sviluppatosi
nel 137, quando si discusse se un impegno contratto dal comandante, senza iussum del senato e del popolo, potesse impegnare lo stato romano[28].
A queste affermazioni io ritengo si possa rispondere richiamando la formula e
la procedura della deditio,
nell'ambito della quale il comandante romano (nel primo esempio tramandato da
Livio, il rex) chiede al
rappresentante dell'altra comunità se la stessa sia in sua potestate, e validamente rapppresentata dal rispondente.
La formula più antica secondo Livio
prevedeva una serie di domande e risposte, ciascuna delle quali ha un contenuto
giuridico preciso: esse erano dirette ad accertare l'investitura di chi compiva
la deditio da parte della propria
comunità, nonchè l'essere questa in sua
potestate, e quindi capace di decidere autonomamente della propria sorte.
Inoltre veniva elencato dettagliatamente ciò che si intendeva ricompreso nella deditio, onde non lasciare margine ad
incertezze e a possibili future contese[29].
Naturalmente anche in questo caso si
può dubitare dell'episodio tramandato dallo storico, ma è più difficile dubitare
dell'attendibilità della formula, che sembra essersi mantenuta nel tempo, pur
con ovvie modificazioni, come ritengo abbia efficacemente provato il Nörr nella
sua ricerca sul bronzo di Alcàntara, databile al 104 a.C.[30].
Orbene, tanto nel formulario della deditio, quanto in quello di nomina del
feziale per la conclusione di un trattato, emerge la riflessione sulla alterità
della entità politica con cui Roma tratta, e la consapevolezza del fatto che si
vanno ad instaurare rapporti fra comunità, e non fra individui, per cui è
necessario che chi tratta abbia ricevuto un'investitura formale, onde poter
validamente rappresentare la propria comunità. ááá
Lo stesso tipo di riflessione
sottostà alla deditio di un
comandante che avesse promesso al nemico, senza l'assenso del senato e del
popolo, la conlusione un trattato, mentre Roma non intendeva onorare la
promessa.
La deditio doveva essere iusta,
e cioè i colpevoli dovevano essere consegnati nudi e con le mani legate dietro
alla schiena[31].
La formula pronunciata dal feziale secondo Livio era la seguente:
"Quondoque
hisce homines iniussu populi Romani Quiritium foedus ictum iri spoponderunt
atque ob eam rem noxam nocuerunt, ob eam rem quo populus Romanus scelere impio
sit solutus hosce homines vobis dedo"[32].
Le implicazioni religiose e
giuridiche sono evidenti: la promessa è stata fatta da un comndante romano, e
quindi Roma ne è comunque coinvolta. Non onorarla rappresenta un scelus impium, dal quale Roma si libera
consegnando colui che ha promesso, e ciò può fare in quanto lo stesso
comandante, avendo promesso iniussu
populi Romani, non aveva alcun potere di impegnare Roma[33].
E tutto ciò espresso in termini assolutamente chiari e sintetici, che
suggeriscono una riflessione sugli aspetti appunto giuridici e religiosi
dell'atto, ed uno studio attento della capacità di ogni singola parola di
esprimere il concetto voluto.
Le fonti sin qui citate, dunque, a
mio avviso testimoniano un'attenta riflessione e la conseguente elaborazione in
termini giuridici dei rapporti fra Roma e le comunità straniere, nonchè lo
sforzo di elaborare formulari che esprimessero con efficacia, chiarezza e
completezza gli aspetti giuridicamente rilevanti, fra i quali rientra - ed anzi
assume in determinati contesti un’importanza essenziale - il momento religioso:
tutto ciò, tuttavia, senza risolvere in riti esclusivamente religiosi le
situazioni ritenute rilevanti dal punto di vista giuridico.
Non si vuole con questo sostenere
che i feziali, con riferimento a quanto sin qui descritto, avessero elaborato
norme di diritto internazionale: si trattava
piuttosto, se vogliamo esprimerci con terminologia moderna, di
"diritto pubblico esterno"[34]. Ciò
che mi sembra importante sottolineare è che un collegio sacerdotale rifletteva
in termini giuridici sui rapporti con comunità straniere, elaborando formule e
riti con una tecnica che non mi sembra azzardato paragonare a quella utilizzata
dai pontefici, “tecnici del sacro e del profano insieme”[35],
nell’isolare il dato rilevante dal punto di vista giuridico, e nell’escogitare
le parole ed i gesti che andavano rispettivamente pronunciate e compiuti per
raggiungere il risultato voluto[36].
Sappiamo che i feziali furono
operanti durante tutta la fase dell'espansione romana in territorio italico,
mentre il loro intervento diretto in territorio trasmarino è documentato solo
per la conclusione del trattato con Cartagine del 201 a.C.[37].
Tuttavia essi non scomparvero, e soprattutto non cessarono di adattare il ius fetiale alle nuove esigenze,
fornendo pareri su come affrontare correttamente, dal punto di vista giuridico,
situazioni nuove.
Significativo è l'episodio narrato
da Servio in relazione alla dichiarazione di guerra contro Pirro: non potendosi
procedere all'indictio belli secondo
il rito, poichè i confini del regno epirota si trovavano al di là del mare, un
soldato di Pirro venne catturato e costretto ad acquistare un appezzamento di
terra vicino al Circo Flaminio, ut quasi
in hostili loco ius belli indicendi implerent. Successivamente, continua
Servio, in quel luogo, davanti al tempio di Bellona, venne consacrata una
colonna, dalla quale veniva lanciata l'asta nel territorio considerato nemico[38].
Anche in questo caso sono stati
sollevati dubbi intorno alla credibilità del racconto serviano[39],
ma giustamente, a mio avviso, il Watson sottolinea come la soluzione escogitata
nella circostanza in questione mostri l'utilizzo di una tecnica interpretativa
non diversa da quella utilizzata dai pontefici ad esempio per la mancipatio familiae o per la vindicatio in libertatem, tecnica
interpretativa tesa a raggiungere il risultato voluto utilizzando le forme a
disposizione, e modificandole - pur
senza stravolgerle - anche se questa operazione richiedeva una certa
spregiudicatezza e costringeva ad abbandonare la logica più stretta[40].
Nel caso descritto i feziali, se
possiamo credere a Servio, costruirono un modello modificato ma efficace di indictio belli, un modello che
consentiva di completare le formalità richieste per la proclamazione di un bellum iustum pur in assenza delle
circostanze di fatto per le quali le stesse formalità erano state elaborate.
L'attività rispondente del collegio
dei feziali è attestata per il 200 a.C., quando si trattava di dichiarare la
guerra a Filippo V di Macedonia. Secondo Livio i feziali vennero consultati dal
console, e risposero con un decreto:
Liv.
31.8.3: ... consultique fetiales ab consule Sulpicio, bellum quod indiceretur
regi Philippo, utrum ipsi utique nuntiari iuberent, an satis esset in finibus
regni quod proximum praesidium esset, eo nuntiari. Fetiales decreverunt, utrum eorum fecisset recte
facturum.
Ancora
il parere dei feziali venne richiesto in occasione della dichiarazione di
guerra contro Antioco III e gli Etoli:
Liv. 36,3,7-12: Consul deinde M. Acilius ex senatus consulto ad collegium fetialium rettulit, ipsine utique regi Antiocho indiceretur bellum, an satis esset ad praesidium aliquod eius nuntiari, et num Aetolis quoque separatim indici iuberent bellum, et num prius societas et amicitia eis renuntianda esset quam bellum indicendum. Fetiales responderunt iam ante sese, cum de Philippo consulerentur, decrevisse nihil referre, ipsi coram an ad praesidium nuntiaretur; amicitiam renuntiatam videri, cum legati totiens repetentibus res nec reddi nec satisfieri aequum censuissent; Aetolos ultro sibi bellum indixisse, cum Demetriadem, sociorum urbem, per vim occupassent, Chalcidem terra marique oppugnatum issent, regem Antiocum in Europam ad bellum populo Romano inferendum traduxissent.
Questo secondo parere dei feziali mi sembra particolarmente interessante poichè rivela come la riflessione del collegio non fosse rivolta solo a determinare in quale modo si dovesse comportare Roma nei rapporti con altre entità politiche - elaborando norme che, abbiamo detto, potrebbero essere definite di diritto pubblico esterno - ma fosse rivolta anche a valutare il comportamento dell'altra comunità, per stabilire se tale comportamento costituisse o meno una violazione di impegni assunti, e trarne conseguenze in ordine a quale dovesse essere la condotta di Roma. La decisione politica veniva presa in altra sede, ma la valutazione dal punto di vista giuridico veniva richiesta ai feziali, in un contesto che mi sembra non possa essere definito che internazionale.
D'altra parte una competenza dei
feziali in questioni che ritengo possano essere definite propriamente di
diritto internazionale emerge in particolare quando si trattava di decidere se
un cittadino romano avesse violato una norma universalmente riconosciuta,
quella della sacrosanctitas degli
ambasciatori. Nei casi concretamente attestati dalle fonti risulta che ai
feziali veniva affidato - dal senato o dal supremo magistrato in carica[41]
- si l’incarico di consegnare il colpevole alla comunità offesa[42].
Che il loro compito, almeno originariamente, non fosse però esclusivamente
quello di dare esecuzione agli ordini del senato o del magistrato, emerge da
alcune fonti che, in riferimento all’ipotesi di violazione di legati,
attribuiscono ai feziali la funzione di giudici. Particolarmente esplicito è
Varrone (De vita p.R. 3,111, in
Nonius 529, s.v. Fetiales):
Si autem legati violati essent, qui id
fecissent, quamvis nobiles essent, uti dederetur civitati, statuerunt; fetialesque
viginti, qui de his rebus cognoscerent, iudicarent et statuerent,
constituerunt.
Più
laconico è Dionigi, il quale si limita a dire che i feziali giudicavano t£
te per… toÝj
presbeut¦j ¢dik»mata[43],
mentre in Cic. De leg. 2,21 si legge:
Foederum, pacis belli, induciarum oratorum fetiales iudices non sunto:
bella disceptanto.
Questa affermazione, che da alcuni
editori viene corretta in iudices nontii
sunto[44],
è comunque significativa, poichè attesta per lo meno l’esistenza del problema.
Sulla base di queste fonti il
Mommsen[45]
ha avanzato l’ipotesi, ripresa recentemente dal Broughton[46],
che i feziali agissero come consilium
del magistrato incaricato di giudicare della condotta di chi fosse stato
accusato di violazione della sacrosanctitas
di ambasciatori stranieri. L’ipotesi mi sembra da condividere, poichè
sicuramente non si può ritenere che i feziali avessero una funzione
giurisdizionale in senso proprio, ma non si può d’altro canto negare a priori
ogni credibilità alle fonti: ne risulta la conferma del fatto che i feziali
formavano un collegio cui era demandato il compito di esaminare dal punto di
vista giuridico i problemi che potevano sorgere nei rapporti con comunità
straniere, in sostanza un collegio di esperti di diritto internazionale.
Secondo l’opinione dominante in
dottrina nel corso dell’espansione romana nel mediterraneo i feziali persero
rapidamente di importanza, poiché i compiti che essi avevano svolto durante
l’espansione in territorio italico furono affidati ad altri[47].
Abbiamo già visto, tuttavia, come agli inizi del II sec. essi fossero ancora
operanti nel fornire pareri sulla condotta da tenere in situazioni dubbie.
Questo fatto, a mio avviso, riveste una duplice importanza. Da un lato esso
attesta la vitalità del collegio, dall’altro evidenzia come la competenza dei
feziali rappresentasse nella concezione romana un patrimonio di conoscenze
irrinunciabili proprio nel momento di maggiore spinta espansionistica.
Il II sec. a.C. vide, come è noto,
l’imposizione dell’egemonia romana sull’intero bacino del Mediterraneo, e la
conseguente imposizione ai rapporti fra Roma e gli stati mediterranei -
rapporti retti a mio avviso da norme di carattere internazionale[48]
- di modelli funzionali agli interessi della potenza egemone. E ciò avvenne,
naturalmente, sulla base dell’esperienza che Roma aveva maturato nei secoli
precedenti, grazie anche alle riflessioni e alle elaborazioni dei feziali. Ne
sono prova, fra l’altro, la cura che sempre il senato mise nel rispettare le
forme nei rapporti internazionali, ottenendo il risultato di determinare
unilateralmente il contenuto dei rapporti instaurati con gli stati amici ed
alleati, senza per questo intaccare, almeno dal punto di vista formale, la
sovranità dell’altro contraente.
Un esempio concreto sarà utile ad
illustrare le mie affermazioni. Perseo di Macedonia nel 179 a.C. era succeduto
al trono del padre, Filippo II, il quale l'anno precedente aveva fatto uccidere
l'altro proprio figlio, Demetrio, candidato romano alla successione. Appena
salito al trono Perseo aveva chiesto al senato il riconoscimento della propria
posizione di re ed il rinnovo dell'amicitia con Roma[49].
Ben resto però Perseo cominciò ad avvertire come troppo pesanti le condizioni
che erano state imposte al padre, e che risultavano imposte anche a lui in
virtù del rinnovo, e nel giro di pochi anni divenne chiaro che la Macedonia si
preparava alla guerra, con grande preoccupazione, è evidente, non solo di Roma,
ma anche - e vorrei dire soprattutto - degli alleati di Roma in Grecia e in
Asia.
Alla rottura si giunse nel 172,
quando ambasciatori romani vennero mandati in Macedonia per denunciare
l'amicizia con Perseo e compiere la formale dichiarazione di guerra, la rerum repetitio[50].
Ammessi alla presenza del sovrano dopo lunghi giorni di attesa, i legati romani
gli contestarono l'inosservanza delle clausole del trattato sottoscritto da
Filippo e da lui stesso rinnovato, in base alle quali era fatto divieto al re
di uscire in armi dai propri confini, ed era fatto divieto altresì di portare
guerra ai soci del popolo romano. Il senato gli chiedeva quindi soddisfazione
per questi comportamenti contrari al diritto (iniuriae è
il termine usato da Livio), e gli chiedeva di restituire a Roma ed ai suoi soci
le cose trattenute contra ius foederis[51].
Il re allora, dopo aver manifestata la propria ira per la pretesa di Roma di
immischiarsi a proprio piacimento con le cose del suo regno, impose loro di
tornare il giorno successivo per ricevere una risposta scritta da portare al
senato.
Nella nota scritta Perseo affermava
che il trattato concluso con il padre non lo riguardava affatto, che egli
stesso lo aveva rinnovato poiché era appena salito al trono, e che se Roma
aveva intenzione di fare un nuovo trattato con lui, bisognava discuterne le
condizioni. Gli ambasciatori romani procedettero allora alla denuncia
dell'amicizia ed alleanza, e per tutta risposta il re intimò loro di uscire
entro tre giorni dai confini del regno[52].
Inutile dire che, scoppiata la guerra, la storia si concluse con la sconfitta
di Perseo e la scomparsa del regno di Macedonia.
A mio avviso la vicenda di Perseo
rappresenta un esempio assai significativo dei rapporti che si erano venuti
creando fra Roma ed i re soci ed alleati nel II sec. a.C.
Non credo si possa dubitare che si trattava
di rapporti internazionali, e di rapporti giuridici
internazionali: basti pensare ai richiami ai trattati e al ius
foederis, basti pensare alla scrupolosa osservanza delle forme, da parte
di ambedue - Roma e Perseo - anche nel momento di maggior tensione. Nel
contempo però emerge chiara la volontà di Roma di imprimere a tali rapporti un
contenuto che sancisse la sua posizione di supremazia. Se vi riusciva era la
pace, se non vi riusciva era la guerra, ma una guerra sempre motivata, anzi, si
può quasi dire, sempre resa inevitabile dal comportamento contra
ius della controparte.
[1]
Vedi M.R. Cimma, Reges socii et amici populi Romani,
Milano 1976, 33 ss. Per la letteratura più recente vedi A.N. Sherwin-White, Roman Foreing Policy in the East 168 B.C. to A.D. 1, Londra 1984,
18 ss.; J. Bleicken, Geschichte der römischen Republik,
Monaco 1988, 43 ss.; 138 ss.; D.J. Mattingly,
Dialogues of Power and Experience in the
Roman Empire, in Dialogues in Roman
Imperialism. Power, Discurse, and Discrepant Experience in the
Roman Empire, Portsmouth,
Rhode Island 1997, 7 ss.
[3] Cfr. D. Nörr,
Aspekte des römischen
Völkerrechts.
Die Bronzetafel von Alcántara,
Monaco 1989, 12 ss. (lett. ivi)
[4] Cfr. W. Preiser, Völkerrechtsgeschichte, I, in K. Strupp-H.-J.Schlochauer, Wörterbuch des Völkerrechts, III, Berlino 1962, 681 ss. Vedi anche, sia pure in una prospettiva particolare, L. Loreto, Prime riflessioni a partire da Carl Schmitt sul problema storico della formazione del Völkerrecht nel mondo antico, in Nozione formazione e interpretazione del diritto dall'età romana alle esperienze moderne. Ricerche dedicate al professor Filippo Gallo, I, Napoli 1997, 489 ss.
[5] Th. Mommsen, Das römische Gastrecht und die römische Clientel, in Römische Forschungen, I, Berlino 1864-1869, 326 ss.; Römisches Staatsrecht, III,1, Lipsia 1887, 590 sg.; la posizione più radicale viene espressa in Disegno del diritto pubblico romano (tr. P. Bonfante), Roma 1973, 91.
[6]
Il Grundvertrag di cui parla in
particolare il Täubler, Imperium Romanum. Studien
zur Entwicklungsgeschichte des römischen Reiches, I, Die
Staatsverträge und Vertragsverhätnisse, Lipsia 1913, 4 ss.
[7] Vedi per tutti F. Sini, Bellum nefandum. Virgilio e il problema del “diritto internazionale antico”, Sassari 1991, 33 ss. (lett. ivi). Diversamente L. Loreto, op. cit., 505.
[8] Vedi, fra gli ultimi, D. Nörr,
Die Fides im römischen Völkerrecht, Heidelberg
1989, 28 ss.; Id. Aspekte des römischen Völkerrechts, cit., 87 ss.
[9] Intendo fare riferimento in particolare al problema della sovranità e della sua originarietà, nonché al problema della reciproca indipendenza e parità dei soggetti: sulla questione vedi in particolare B. Paradisi, Il problema storico del diritto nternazionale, Firenze 1944, 100 ss.
[12] Vedi particolarmente H. Triepel, Völkerrecht und Landrecht, Lipsia 1899 e D. Anzilotti, Teoria generale della responsabilità dello Stato nel diritto internazionale, I, Firenze 1902
[13]
H. Kelsen, Teoria generale del diritto e dello stato (tr. S. Cotta-G. Treves), Milano 1952, 116 ss.; Principles of International Law, New
York 1966, 420 ss.
[14] Vedi M.Giuliano-T.Scovazzi-T.Treves, Diritto internazionale. Parte generale, Milano 1991, 47 ss. Sul principio di effettività e le sue concrete applicazioni nella moderna comunità internazionale vedi C. De Visscher, Les effectivités du droit international public, Parigi 1967; W.H. Balekjian, Die Effektivität und die Stellung nichtannerkanten Staaten im Völkerrecht, L’Aia 1970.
[15] Relazioni a loro volta regolate da norme internazionali: vedi P. Klose, Die völkerrechtlische Ordnung der hellenistischen Staatenwelt in der Zeit vom 280-168 v. Chr. Ein Beitrag zur Geschichte des Völkerrechts, Monaco 1972; V. Ilari, Guerra e diritto nel mondo antico, I: Guerra e diritto nel mondo greco-ellenistico fino al III secolo, Milano 1980.
[16]
Dal punto di vista politico, facendo proprio il tema della libertà delle città
ellenistiche (cfr. J.-L. Ferrary, Philhellénisme et impérialisme. Aspects
idéologiques de la conquête romaine du monde hellénistique, Parigi 1988) e
dal punto di vista giuridico, adottando nelle relazioni con gli stati
ellenistici modelli e schemi ivi già operanti: vedi E.S. Gruen, The Hellenistic Word and the Coming of Rome, Berkeley-Los
Angeles-Londra 1984, sul quale E. Gabba,
in Athenaeum 75 (1987), 205 ss. E N.G.L. Hammond,
in N.G.L. Hammond-F.W. Walbank, A History of Macedonia, III: 336-167 B.C., Oxford 1988, 601 ss.
[17] Vedi per tutti F. Sini, op. cit., 24 s. e 91 ss.; A. Watson, International Law in Archaic Rome: War and Relgion, Baltimora-Londra 1993, 1 ss. (lett. ivi).
[18] Le fonti, tuttavia, sono discordi nell’attribuzione all’uno o all’altro re: vedi A. Watson, op. cit., 1 ss.
[19] C.Saulnier, Le rôle des prêtres fétiaux et l’application du “ius fetiale” à Rome, in RHDFE 58 (1980), 171 ss. L’opinione dell’A. a quanto mi risulta ha avuto scarso seguito: vedi T. Wiedemann, The Fetiales: a Reconsideration, in Classical Quarterly 36 (1986), 478 ss. V. Ilari, in ED 44 (1992), 1337, s.v. Trattato internazionale (diritto romano).
[20] Mi rifersco in particolare all’attvità dei pontefici nell’età più antica, come illustrata in particolare da C.A. Cannata, Per una storia della scienza giuridica europea, I, Dalle origini all’opera di Labeone, Torino 1997, 18 ss.
[22] Liv. 1,32,6-8.: Legatus ubi ad fines eorum venit unde res repetuntur, capite velato filo - lanae velamen est - "Audi, Iuppiter," inquit; "audite, fines" - cuiuscumque gentis sunt, nominat; - "audiat fas. Ego sum publicus nuntius populi Romani; iuste pieque legatus venio, verbisque meis fides sit". Peragit deinde postulata. Inde Iovem testem facit: "Si ego iniuste impieque illos homines illasque res dedier mihi exposco, tum patriae compotem me numquan siris esse". Haec cum fines suprascandit, haec quicunque ei primus vir obvius fuerit, haec portam ingrediens, haec forum ingressus, paucis verbis carminis concipiendique iuris iurandi mutatis, peragit.
[23] Secondo Liv. 1,32,9 (cit. nt. 23) e Serv. ad Aen. 9,52 i dies sollemnes erano 33, secondo Liv. 1,22,5 e Dion. Hal. 2,72,8 erano 30: sulla questione vedi E. Samter, in PW V,2 (1909), col. 2263 s.v. Fetiales; F. De Martino, Storia della costituzione romana, II, Napoli 1973, 51 e nt. 100; A. Watson, op.cit., 24.
[24] Liv. 1,32,9-10: Si
non deduntur quos exposcit diebus tribus et triginta - tot enim sollemnes sunt
- peractis bellum ita indicit: "Audi, Iuppiter, et tu, Iane Quirine, dique
omnes caelestes vosque, terrestres, vosque, inferni, audite. Ego vos testor
populum illum" - quicumque est nominat - “iniustum esse neque ius
persolvere. Sed de istis rebus in patria maiores natu consulemus quo pacto ius
nostrum adipiscamur". Tum nuntius Romam ad consulendum redit.
[26] Liv. 1,32,12-13: Fieri
solitum ut fetialis hastam ferratam aut praeustam sanguineam ad fines eorum
ferret et non minus tribus puberibus praesentibus diceret: "Quod populi
Priscorum Latinorum hominesque Prisci Latini adversus populum Romanum Quiritium
fecerunt, deliquerunt, quod populus Romanus Quiritium bellum cum Priscis
Latinis iussit esse senatusque populi Romani Quiritium censuit, consensit,
conscivit, ut bellum cum Priscis Latinis fieret, ob eam rem ego populusque
Romanus populis Priscorum Latinorum hominibusque Priscis Latinis bellum indico
facioque". Id ubi dixisset, hastam in fines eorum emittebat. Cfr. Aul. Gell., n.A.
16,4.
[27] Liv. 1,24,4-9: Fetialis regem Tullium ita rogavit: "Iubesne me, rex, cum patre patrato populi Albani foedus ferire?" Iubente rege "Sagmina," inquit, "te, rex, posco". Rex ait: "Puram tollito". Fetialis ex arce graminis herbam puram attulit. Postea regem ita rogavit: "Rex, facisne me tu regium nuntium populi Romani Quiritium, vasa comitesque meos?" Rex respondit: "Quod sine fraude mea populique Romani Quiritium fiat, facio". Fetialis erat M. Valerius; is patrem patratum Sp. Fusium fecit verbena caput capillosque tangens. Pater patratus ad ius iurandum patrandum, id est sanciendum fit foedus; multisque id verbis, quae longo effata carmine non operae est referre, peragit. Legibus deinde recitatis "Audi," inquit, "Iuppiter, audi, pater patrate populi Albani, audi tu, populus Albanus. Ut illa palam prima postrema ex illis tabulis cerave recitata sunt sine dolo malo utique ea hic hodie rectissime intellecta sunt, illis legibus populus Romanus prius non deficiet. Si prior defexit publico consilio dolo malo, tum tu ille Diespiter populum Romanum ferito ut ego porcum hic hodie feriam; tantoque magis ferito quanto magis potes pollesque". Id ubi dixit, porcum saxo silice percussit.
[28] Così V. Ilari, s.v. Trattato internazionale (diritto romano), cit., 1338. Per il dibattito del 137 (si tratta dell’episodio di Ostilio Mancino, il quale, sconfitto dai Numantini, aveva concluso una pace che il senato non voleva accettare) vedi G. Pugliese, Appunti sulla “deditio” dell’accusato di illeciti internazionali, in RISG 18 (1974), 26 ss.; D. Nörr, Aspekte des römischen Völkerrechts, cit., 76 ss.; V. Ilari, loc. cit., 1341 ss. (fonti e lett. ivi).
[29]
Liv. 1,38,1-2: Deditosque Collatinos ita accipio
eamque deditionis formulam esse; rex interrogavit: “Estisne vos legati
oratoresque missi a populo Collatino, ut vos populumque Collatinum dederetis?”
“Sumus.” “Estne populus Collatinus in sua potestate?” “Est.” “Deditisne vos
populumque Collatinum, urbem, agros, aquam, terminos, delubra, utensilia,
divina humanaque omnia, in meam populique Romani dicionem?” “Dedimus.”
“At ego recipio”.
[31] Cfr. Liv. 9,10,7: Praegressi
fetiales ubi ad portam venere, vestem detrahi pacis sponsorobus iubent, manus
post tergum vinciri. Cum apparitor verecundia maiestatis Postumi laxe vinciret,
“quin tu” inquit “adduces lorum, ut iusta fiat deditio?”
[32] Liv. 9,10,9. L’episodio è quello della deditio di Postumio dopo la pax Caudina, sull’attendibilità del quale esistono in dottrina pareri discordanti. Il primo problema è quello della cronologia della I guerra sannitica e dell’episodio delle forche Caudine, collocato da Livio nel 321 a.C.: sulla questione vedi M. Sordi, Roma e i Sanniti nel IV sec. a.C., Bologna 1969, 17 ss. Altro problema è quello della natura dell’accordo stretto fra Romani e Sanniti a Caudio: si discute se si trattasse di una sponsio oppure di un foedus. Livio (9,5,1-5) esplicitamente nega che si potesse trattare di un foedus, mentre in altre fonti si parla appunto di foedus, di pax, di pactio, con gli equivalenti greci (vedi H.H. Schmitt, Die Staatsverträge des Altertums. III: Die Verträge der griechisch-römischen Welt von 338 bis 200 v. Chr., Monaco 1969, 28 ss.). Anche la dottrina moderna è divisa, e secondo la tesi estrema, sostenuta da ultimo da Ilari (s.v. Trattato internazionale (diritto romano), cit., 1340) la sponsio internazionale nemmeno sarebbe un istituto, ma “un argomento - quasi un cavillo - escogitato all’epoca del foedus di Mancino con Numanzia (137 a.C.)”, allo scopo di legittimare la tesi che gli impegni assunti dai comandanti militari senza l’autorizzazione dei comizi e del senato, e senza l’espletamento del rito feziale, non vincolavano lo stato romano. Per la letteratura sulla questione (e per posizioni diverse da quelle sostenute da Ilari) vedi, oltre agli Autori citati dallo stesso Ilari, D. Nörr, Aspekte des römischen Völkerrechts, cit., 76 s., nt. 31; A. Guarino, “Pax Caudina”, in Pagine di diritto romano, III, Napoli 1994, 299 ss. (già in ANA 97 (1986), 153 ss.); L. Loreto, Per una “Quellenforschung” della ‘pax Caudina’, in BIDR 31 (1989), 654 ss.
[33] Sul punto vedi F. De Martino, Storia della costituzione romana, II, cit., 39 ss. e G. Pugliese, op. cit., 35 ss.; D. Nörr, Aspekte des römischen Völkerrechts, cit., 76 s.
[34] E quindi di diritto genuinamente romano: cfr. V. Ilari, s.v. Trattato internazionale (diritto romano), cit., 1336 s. Vedi anche, dello stesso Autore, L’interpretazione storica del diritto di guerra romano fra tradizione romanistica e giusnaturalismo, Milano 1981, 8 ss.
[37] Liv. 30,43,9. Vedi tuttavia le osservazioni del
Broughton, Mistreatment of Foreing
Legates and the Fetial Priests: three Roman Cases, in Phoenix 41 (1987), 61.
[38] Serv. ad Aen.
9,52: Denique cum Pyrrhi temporibus
adversum transmarinum hostem bellum Romani gesturi essent nec invenirent locum,
ubi hanc sollemnitatem per fetiales indicendi belli celebrarent, dederunt
operam, ut unus de Pyrrhi militibus caperetur, quem fecerunt in circo Flaminio
locum emere, ut quasi in hostili loco ius belli indicendi implerent. Denique in eo loco ante aedem Bellonae
consecrata est columna.
Cfr. Festus, s.v. Bellona (p. 24 L.): Bellona dicebatur dea bellorum, ante cuius templum erat columella, quae bellica vocabatur, super quam hastam iaciebant, cum bellum indicebatur.
[45] Römisches
Staatsrecht, II.1, Lipsia 1887, 112 s. cfr. Römisches Strafrecht, Lipsia 1899, 55 s.
e nt. 1.
[47] Sulla questione vedi L. Loreto, E’ scoppiata la guerra coi Romani, in BIDR 33-34 (1991-1992), 255 ss., il quale - contrariamente all’opinione dominante - tende ad anticipare il declino dell’istituzione alla fine del V sec. a.C. (lett. ivi).
[49] Liv. 40.58.8: Perseus potitus regno interfici Antigonum iussit; et dum firmaret res, legatos Romam ad amicitiam paternam renovandam petendumque ut rex ab senatu appellaretur misit.
[50] Liv. 42.25.1: Sub idem tempus Cn. Servilius Caepio Ap. Claudius Cento T. Annius Luscus legati ad res repetendas in Macedoniam renuntiandamque amicitiam regi missi redierunt.
[51] Liv. 42.25.4-6: Suae orationis summa fuisse: foedus cum Philipo ictum esse, cum ipso eo post mortem patris renovatum, in quo diserte prohiberi eum extra fines arma efferre, prohiberi socios populi Romani lacessere bello. Exposita deinde ab se ordine, quae ipsi nuper in senatu Eumenen vera omnia et conpertam referentem audissent. Samothracae praeterea per multos dies occultum consilium cum legationibus civitatium Asiae regem habuisse. Pro his iniuriis satisfieri senatum aequum censere, reddique sibi res sociisque suis, quas contra ius foederis habeat.
[52]
Liv. 42.25.10-12: Tum ita sibi scriptum
traditum esse: foedus cum patre ictum ad se nihil pertinere; id se renovari,
non quia probaret sed quia in nova possessione regni patienda omnia essent,
passum. Novum foedus si secum facere vellent, convenire prius de condicionibus
debere; si in animum inducerent, ut ex aequo foedus fieret, et se visurum quid
sibi faciundum esset, et illos credere e re publica consulturos. Atque ita se
proripuisse et summoveri e regia omnes coeptos. Tum se amicitiam et societatem
renuntiasse. Qua voce eum accensum restitisse atque voce clara denuntiasse sibi
ut triduo regni sui decederent finibus.