N. 3 – Maggio 2004 – Memorie

 

Maria Rosa Cimma

Università di Sassari

 

 

 

 

Reges socii et amici

 

 

 

 

            Parlare di reges socii et amici, di re soci ed amici del popolo Romano, significa affrontare il tema dei rapporti fra Roma ed il mondo extra-italico a partire almeno dagli inizi III sec.a.C., quando Roma, forte della potenza acquisita grazie al controllo diretto o indiretto del territorio italico, incominciò a sviluppare una politica di inserimento nel quadro delle potenze che controllavano in particolare il Mediterraneo orientale.

            Per quanto l'interesse di Roma per il Mediterraneo orientale risulti documentato già per il IV sec., è infatti nel III che Roma iniziò ad intessere una serie di rapporti con le grandi potenze ellenistiche, l'Egitto, la Macedonia, la Siria ed il regno di Pergamo, nel quadro di una politica che la portava ad instaurare una serie di relazioni anche con numerose città libere della Grecia e dell'Asia, e con potenti leghe, quale quella degli Etoli.

            Allo stesso secolo inoltre risalgono i primi rapporti con potenze minori, come il regno illirico, mentre la guerra contro Cartagine comportava l'instaurazione di rapporti di alleanza con Gerone di Siracusa e con il regno africano di Numidia[1].

            Gli strumenti di cui Roma si servì per inserirsi nel gioco delle potenze che controllavano il Mediterraneo, e per legare ai propri interessi i diversi Stati con cui essa venne a contatto o in contrasto, furono essenzialmente l'amicitia e la societas: si pone quindi il problema di studiare la struttura e la funzione, dal punto di vita giuridico, dei rapporti così definiti dalle fonti, ed in primo luogo il problema di determinare se essi fossero rapporti giuridici, e se fossero rapporti giuridici di diritto internazionale[2].

            Al proposito è appena il caso di ricordare come la maggior parte della moderna dottrina positiva tenda ad escludere la possibilità che si possa parlare di diritto internazionale per i rapporti fra entità politiche diverse nell'antichità e durante il Medio Evo, dato che essa concepisce la comunità internazionale come comunità universale di Stati sovrani, la cui vita giuridica è regolamentata da norme distinte e diverse da quelle che regolano la vita interna di ogni singolo Stato.

            Alcuni storici del diritto, accettando tali affermazioni, tendono ad escludere l’esistenza di un diritto internazionale nel mondo romano, ma la dottrina prevalente oggi sembra indirizzata in senso contrario[3]: in particolare il problema della universalità viene superato ammettendo la possibilità della formazione del diritto internazionale per ambienti particolari[4].

            E’ noto come, per molto tempo, ogni tentativo di ricostruzione dei rapporti internazionali nel mondo antico sia stato condizionato dalla teoria dell’ostilità naturale fra i popoli, elaborata con riferimento a Roma dal Mommsen, nei termini di “ostilità” o “indifferenza” fra comunità non appartenenti alla stessa stirpe[5]: la stessa possibilità di instaurare rapporti giuridici fra comunità di stirpe diversa veniva subordinata alla conclusione di un trattato volto a porre fine all’ostilità naturale[6].

            La teoria del Mommsen risulta ormai completamente abbandonata dalla storiografia moderna[7], che tenta di risolvere su altre basi sia il problema del fondamento della giuridicità delle norme di diritto internazionale nel mondo antico[8], sia il problema della identificazione dei requisiti la cui presenza viene considerata essenziale per l'esistenza di un diritto internazionale[9].

            Per quanto mi concerne ho già espresso l’opinione[10] che la teoria istituzionalista, con i correttivi proposti dall’Orestano[11], consenta meglio di altre di tentare una ricostruzione quanto più possibile aderente alla realtà, del complesso di norme che regolavano i rapporti internazionali nel mondo antico.

            D’altro canto la maggior parte degli studiosi del moderno diritto internazionale sembra ormai aver abbandonato sia le impostazioni del positivismo statalistico, che riscontrava nella imperatività e nella coercibilità gli elementi caratterizzanti del fenomeno giuridico, individuando il fondamento della giuridicità delle norme internazionali nella cosiddetta “volontà collettiva degli stati”[12], sia le impostazioni del positivismo critico, che non sembra aver avuto grande seguito in campo internazionalista, nonostante la rilevanza attribuita dal Kelsen al pricipio di effettività proprio con riferimento al diritto internazionale e ai rapporti fra ordinamento internazionale e ordinamenti nazionali[13].

            Nella dottrina contemporanea di gran lunga prevalente, infatti, il ruolo essenziale viene giocato proprio dal principio di effettività: ribadita la socialità di ogni fenomeno giuridico, l’ordinamento giuridico internazionale viene concepito come l’insieme delle norme che si constatano esistenti nella vita di relazione di una determinata comunità di stati[14]. In questo contesto assume particolare rilevanza la consuetudine, considerata fonte del diritto internazionale generale, cui si contrappone il diritto internazionale particolare, di origine pattizia. Le norme consuetudinarie, a loro volta, si ritengono esistere ed essere norme giuridiche quando si constati che i membri della comunità uniformano ad esse i propri comportamenti, manifestando in concreto di ritenerle regole di osservanza obbligatoria.

            Se pertanto, d’accordo con la dottrina oggi prevalente, il diritto internazionale è dato dalle norme che si constatano vigenti ed osservate come obbligatorie dai componenti di una determinata comunità internazionale, siano esse di origine consuetudinaria o pattizia, mi sembra difficile negare l’esistenza di un diritto internazionale che regolamentava i rapporti fra Roma e le entità politiche con cui essa venne a contatto durante la sua espansione nel mondo mediterraneo. Non vi è dubbio infatti che i Romani, nel momento di intraprendere una politica diretta ad inserire Roma nel gioco delle potenze che controllavano il Mediterraneo orientale, percepivano l'esistenza di entità politiche diverse da Roma stessa, con le quali il senato intratteneva rapporti necessariamente di carattere internazionale, dato che le condizioni di uguale - e forse talvolta superiore - potenza politica non avrebbero consentito altra possibilità. E di ciò la classe dirigente romana aveva piena e precisa percezione.

            Si trattava per Roma di inserirsi nel quadro articolato e complesso delle relazioni fra le monarchie ellenistiche, le città e le leghe[15], e ciò essa fece da un lato, almeno in parte, uniformandosi a quella vita di relazione[16], dall’altro portando con se - e via via imponendo con il crescere della sua potenza - concetti e modelli suoi propri, frutto di un’elaborazione svoltasi durante l’espansione nel Lazio ed in Italia.

            Come è noto sin dai tempi più antichi (stando alle fonti sin dall’età della monarchia latino-sabina) esisteva in Roma un collegio sacerdotale, quello dei feziali, la cui attività veniva richiesta nei momenti più significativi  dei rapporti con altre comunità. La letteratura sull’origine del collegio dei feziali, sulla loro attività e sulla natura di tale attività, nonchè sul complesso di riti e di norme denominato ius fetiale, è relativamente ampia[17], e le questioni sollevate sono molteplici. In questa sede sembra opportuno limitarsi ad alcune brevi considerazioni su questioni per altro non semplici, quali quelle della risalenza del collegio, della natura - squisitamente religiosa, oppure anche laica - della loro attività, per giungere al problema che più direttamente ci interessa, quello della natura del ius fetiale e delle relazioni instaurate da Roma con le comunità con essa venne via via in contatto.

            Per quanto attiene alla risalenza del collegio dei feziali ritengo sia da seguire l’opinione della dottrina dominante, che colloca la sua origine all’età monarchica[18], mentre mi sembra inaccettabile il parere della Saulnier, la quale ha recentemente sostenuto, con argomentazioni a mio avviso del tutto insufficienti, che il collegio dei feziali venne organizzato in modo stabile solo all’epoca della restaurazione augustea[19]. Secondo l’A. durante l’età monarchica il re, e poi il senato, designavano di volta in volta il o i feziali, i quali avevano un compito essenzialmente religioso, quello di intermediari fra gli dei ed il mondo degli uomini e di vittima designata in caso di rottura della fides.

            Questa accentuazione del ruolo religioso dei feziali, piuttosto diffusa in dottrina insieme alla convinzione che i feziali svolgessero un ruolo meramente “esecutivo” di una volontà politica altrui (del re, del senato), non ha consentito, a mio avviso, di cogliere un aspetto assai rilevante della loro attività, e cioè il fatto che le formule ed i riti del ius fetiale testimoniano un’elaborazione giuridica raffinata, per certi aspetti paragonabile a quella dei pontefici nel campo del diritto privato[20]. In altre parole, se è fuor di dubbio che l’attività dei feziali aveva dei contenuti religiosi ritenuti dagli stessi Romani di importanza essenziale per la vita della comunità, ed è fuor di dubbio anche che non erano certo i feziali a prendere le decisioni di politica estera, è tuttavia altrettanto vero che le formule utilizzate nella rerum repetitio, nella dichiarazione di guerra, nella conclusione formale di un foedus, nella deditio internazionale, testimoniano una riflessione dai contenuti squisitamente giuridici.

            Nella rerum repetitio[21] il feziale, nel momento in cui varcava il confine della comunità presso cui si stava recando, e prima di esporre i postulata del popolo romano, chiedeva di essere ascoltato da Giove, dai confini del popolo in questione, dal fas, chiarendo la propria posizione di publicus nuntius del popolo romano, inviato iuste pieque: vi è la consapevolezza di varcare un confine, di entrare in un territorio straniero, e la necessità di esporre i motivi di un’azione che in sé potrebbe essere illegittima. Informati gli dei, la stessa dichiarazione veniva poi ripetuta più volte, onde essere certi che la comunità tutta era stata informata della legittimità della presenza del feziale romano nel suo territorio e delle richieste di cui egli stesso era portatore[22]. Trascorsi i dies sollemnes[23] senza che avvenisse la riparazione richiesta, il feziale faceva constatare agli dei il comportamento ingiusto della controparte, e rendeva noto che sarebbe tornato a Roma, dove si sarebbe deciso il da farsi[24]. A Roma il re convocava il senato e chiedeva ad ogni senatore il suo parere, con una formula che, se dobbiamo credere alle parole di Livio, si presenta sorprendentemente tecnica, dal punto di vista giuridico, sia nella domanda che nella risposta:

 

“Quarum rerum, litium, causarum condixit pater patratus populi Romani Quiritium patri patrato Priscorum Latinorum hominibusque Priscis Latinis, quas res nec dederunt nec solverunt nec fecerunt, quas res dari, solvi, fieri oportuit, dic”, inquit ei quem primum sententiam rgabat, “quid censes?” Tum ille: “Puro pioque duello quaerendas censeo itaque consentio consciscoque”[25].

 

Alla delibera del senato seguiva l’invio del feziale per la formale dichiarazione di guerra, che avveniva attraverso il lancio dell’asta in territorio nemico e la pronuncia di una formula alla presenza di almeno tre uomini puberi appartenenti alla comunità nemica[26]: mi sembra interessante sottolineare che secondo il racconto liviano il momento religioso si esaurisce nella fase della rerum repetitio, mentre nelle fasi successive, la delibera del senato e il lancio dell’asta, l’accento viene posto sulla illegittimità del comportamento della comunità nemica e sul riferimento della decisione della guerra agli organi della comunità romana, senza più alcun riferimento alla divinità.

            Interessante è anche la procedura descritta da Livio per la conclusione di quello che, secondo la storico, è stato il più antico dei trattati conclusi da Roma[27]: in particolare vanno sottolineate, a mio avviso, da un lato le parole pronunciate dal feziale durante il giuramento esecratorio, laddove si invoca la punizione divina sul popolo romano se Roma per prima verrà meno al trattato “publico consilio dolo malo”, dall’altro la formale richiesta rivolta dal feziale al re di essere nominato regium nuntium populi Romani, e la risposta del re "Quod sine fraude mea populique Romani Quiritium fiat, facio".

            Naturalmente molti dubbi possono essere avanzati, e lo sono stati, sulla credibilità storica dell'episodio narrato da Livio, ma anche in questo caso mi sembra difficile negare la risalenza delle formule, a meno di non aderire, con riferimento alla richiesta del feziale di essere nominato regium nuntium populi Romani, alla tesi di coloro credono che proprio questa parte del rito sia stata elaborata più tardi, in relazione al dibattito sviluppatosi nel 137, quando si discusse se un impegno contratto dal comandante, senza iussum del senato e del popolo,  potesse impegnare lo stato romano[28]. A queste affermazioni io ritengo si possa rispondere richiamando la formula e la procedura della deditio, nell'ambito della quale il comandante romano (nel primo esempio tramandato da Livio, il rex) chiede al rappresentante dell'altra comunità se la stessa sia in sua potestate, e validamente rapppresentata dal rispondente.

            La formula più antica secondo Livio prevedeva una serie di domande e risposte, ciascuna delle quali ha un contenuto giuridico preciso: esse erano dirette ad accertare l'investitura di chi compiva la deditio da parte della propria comunità, nonchè l'essere questa in sua potestate, e quindi capace di decidere autonomamente della propria sorte. Inoltre veniva elencato dettagliatamente ciò che si intendeva ricompreso nella deditio, onde non lasciare margine ad incertezze e a possibili future contese[29].

            Naturalmente anche in questo caso si può dubitare dell'episodio tramandato dallo storico, ma è più difficile dubitare dell'attendibilità della formula, che sembra essersi mantenuta nel tempo, pur con ovvie modificazioni, come ritengo abbia efficacemente provato il Nörr nella sua ricerca sul bronzo di Alcàntara, databile al 104 a.C.[30].

            Orbene, tanto nel formulario della deditio, quanto in quello di nomina del feziale per la conclusione di un trattato, emerge la riflessione sulla alterità della entità politica con cui Roma tratta, e la consapevolezza del fatto che si vanno ad instaurare rapporti fra comunità, e non fra individui, per cui è necessario che chi tratta abbia ricevuto un'investitura formale, onde poter validamente rappresentare la propria comunità. ááá

            Lo stesso tipo di riflessione sottostà alla deditio di un comandante che avesse promesso al nemico, senza l'assenso del senato e del popolo, la conlusione un trattato, mentre Roma non intendeva onorare la promessa.

            La deditio doveva essere iusta, e cioè i colpevoli dovevano essere consegnati nudi e con le mani legate dietro alla schiena[31]. La formula pronunciata dal feziale secondo Livio era la seguente:

 

"Quondoque hisce homines iniussu populi Romani Quiritium foedus ictum iri spoponderunt atque ob eam rem noxam nocuerunt, ob eam rem quo populus Romanus scelere impio sit solutus hosce homines vobis dedo"[32].

 

            Le implicazioni religiose e giuridiche sono evidenti: la promessa è stata fatta da un comndante romano, e quindi Roma ne è comunque coinvolta. Non onorarla rappresenta un scelus impium, dal quale Roma si libera consegnando colui che ha promesso, e ciò può fare in quanto lo stesso comandante, avendo promesso iniussu populi Romani, non aveva alcun potere di impegnare Roma[33]. E tutto ciò espresso in termini assolutamente chiari e sintetici, che suggeriscono una riflessione sugli aspetti appunto giuridici e religiosi dell'atto, ed uno studio attento della capacità di ogni singola parola di esprimere il concetto voluto.

            Le fonti sin qui citate, dunque, a mio avviso testimoniano un'attenta riflessione e la conseguente elaborazione in termini giuridici dei rapporti fra Roma e le comunità straniere, nonchè lo sforzo di elaborare formulari che esprimessero con efficacia, chiarezza e completezza gli aspetti giuridicamente rilevanti, fra i quali rientra - ed anzi assume in determinati contesti un’importanza essenziale - il momento religioso: tutto ciò, tuttavia, senza risolvere in riti esclusivamente religiosi le situazioni ritenute rilevanti dal punto di vista giuridico. 

            Non si vuole con questo sostenere che i feziali, con riferimento a quanto sin qui descritto, avessero elaborato norme di diritto internazionale: si trattava  piuttosto, se vogliamo esprimerci con terminologia moderna, di "diritto pubblico esterno"[34]. Ciò che mi sembra importante sottolineare è che un collegio sacerdotale rifletteva in termini giuridici sui rapporti con comunità straniere, elaborando formule e riti con una tecnica che non mi sembra azzardato paragonare a quella utilizzata dai pontefici, “tecnici del sacro e del profano insieme”[35], nell’isolare il dato rilevante dal punto di vista giuridico, e nell’escogitare le parole ed i gesti che andavano rispettivamente pronunciate e compiuti per raggiungere il risultato voluto[36].

            Sappiamo che i feziali furono operanti durante tutta la fase dell'espansione romana in territorio italico, mentre il loro intervento diretto in territorio trasmarino è documentato solo per la conclusione del trattato con Cartagine del 201 a.C.[37]. Tuttavia essi non scomparvero, e soprattutto non cessarono di adattare il ius fetiale alle nuove esigenze, fornendo pareri su come affrontare correttamente, dal punto di vista giuridico, situazioni nuove.

            Significativo è l'episodio narrato da Servio in relazione alla dichiarazione di guerra contro Pirro: non potendosi procedere all'indictio belli secondo il rito, poichè i confini del regno epirota si trovavano al di là del mare, un soldato di Pirro venne catturato e costretto ad acquistare un appezzamento di terra vicino al Circo Flaminio, ut quasi in hostili loco ius belli indicendi implerent. Successivamente, continua Servio, in quel luogo, davanti al tempio di Bellona, venne consacrata una colonna, dalla quale veniva lanciata l'asta nel territorio considerato nemico[38].

            Anche in questo caso sono stati sollevati dubbi intorno alla credibilità del racconto serviano[39], ma giustamente, a mio avviso, il Watson sottolinea come la soluzione escogitata nella circostanza in questione mostri l'utilizzo di una tecnica interpretativa non diversa da quella utilizzata dai pontefici ad esempio per la mancipatio familiae o per la vindicatio in libertatem, tecnica interpretativa tesa a raggiungere il risultato voluto utilizzando le forme a disposizione, e modificandole -  pur senza stravolgerle - anche se questa operazione richiedeva una certa spregiudicatezza e costringeva ad abbandonare la logica più stretta[40].

            Nel caso descritto i feziali, se possiamo credere a Servio, costruirono un modello modificato ma efficace di indictio belli, un modello che consentiva di completare le formalità richieste per la proclamazione di un bellum iustum pur in assenza delle circostanze di fatto per le quali le stesse formalità erano state elaborate.

            L'attività rispondente del collegio dei feziali è attestata per il 200 a.C., quando si trattava di dichiarare la guerra a Filippo V di Macedonia. Secondo Livio i feziali vennero consultati dal console, e risposero con un decreto:

 

Liv. 31.8.3: ... consultique fetiales ab consule Sulpicio, bellum quod indiceretur regi Philippo, utrum ipsi utique nuntiari iuberent, an satis esset in finibus regni quod proximum praesidium esset, eo nuntiari. Fetiales decreverunt, utrum eorum fecisset recte facturum.

 

            Ancora il parere dei feziali venne richiesto in occasione della dichiarazione di guerra contro Antioco III e gli Etoli:

 

Liv. 36,3,7-12: Consul deinde M. Acilius ex senatus consulto ad collegium fetialium rettulit, ipsine utique regi Antiocho indiceretur bellum, an satis esset ad praesidium aliquod eius nuntiari, et num Aetolis quoque separatim indici iuberent bellum, et num prius societas et amicitia eis renuntianda esset quam bellum indicendum. Fetiales responderunt iam ante sese, cum de Philippo consulerentur, decrevisse nihil referre, ipsi coram an ad praesidium nuntiaretur; amicitiam renuntiatam videri, cum legati totiens repetentibus res nec reddi nec satisfieri aequum censuissent; Aetolos ultro sibi bellum indixisse, cum Demetriadem, sociorum urbem, per vim occupassent, Chalcidem terra marique oppugnatum issent, regem Antiocum in Europam ad bellum populo Romano inferendum traduxissent.

 

            Questo secondo parere dei feziali mi sembra particolarmente interessante poichè rivela come la riflessione del collegio non fosse rivolta solo a determinare in quale modo si dovesse comportare Roma nei rapporti con altre entità politiche - elaborando norme che, abbiamo detto, potrebbero essere definite di diritto pubblico esterno - ma fosse rivolta anche a valutare il comportamento dell'altra comunità, per stabilire se tale comportamento costituisse o meno una violazione di impegni assunti, e trarne conseguenze in ordine a quale dovesse essere la condotta di Roma. La decisione politica veniva presa in altra sede, ma la valutazione dal punto di vista giuridico veniva richiesta ai feziali, in un contesto che mi sembra non possa essere definito che internazionale.

            D'altra parte una competenza dei feziali in questioni che ritengo possano essere definite propriamente di diritto internazionale emerge in particolare quando si trattava di decidere se un cittadino romano avesse violato una norma universalmente riconosciuta, quella della sacrosanctitas degli ambasciatori. Nei casi concretamente attestati dalle fonti risulta che ai feziali veniva affidato - dal senato o dal supremo magistrato in carica[41] - si l’incarico di consegnare il colpevole alla comunità offesa[42]. Che il loro compito, almeno originariamente, non fosse però esclusivamente quello di dare esecuzione agli ordini del senato o del magistrato, emerge da alcune fonti che, in riferimento all’ipotesi di violazione di legati, attribuiscono ai feziali la funzione di giudici. Particolarmente esplicito è Varrone (De vita p.R. 3,111, in Nonius 529, s.v. Fetiales):

 

Si autem legati violati essent, qui id fecissent, quamvis nobiles essent, uti dederetur civitati, statuerunt; fetialesque viginti, qui de his rebus cognoscerent, iudicarent et statuerent, constituerunt.

 

            Più laconico è Dionigi, il quale si limita a dire che i feziali giudicavano te per… toÝj presbeut¦j ¢dik»mata[43], mentre in Cic. De leg. 2,21 si legge:

 

Foederum, pacis belli, induciarum oratorum fetiales iudices non sunto: bella disceptanto.

 

            Questa affermazione, che da alcuni editori viene corretta in iudices nontii sunto[44], è comunque significativa, poichè attesta per lo meno l’esistenza del problema.

            Sulla base di queste fonti il Mommsen[45] ha avanzato l’ipotesi, ripresa recentemente dal Broughton[46], che i feziali agissero come consilium del magistrato incaricato di giudicare della condotta di chi fosse stato accusato di violazione della sacrosanctitas di ambasciatori stranieri. L’ipotesi mi sembra da condividere, poichè sicuramente non si può ritenere che i feziali avessero una funzione giurisdizionale in senso proprio, ma non si può d’altro canto negare a priori ogni credibilità alle fonti: ne risulta la conferma del fatto che i feziali formavano un collegio cui era demandato il compito di esaminare dal punto di vista giuridico i problemi che potevano sorgere nei rapporti con comunità straniere, in sostanza un collegio di esperti di diritto internazionale.

            Secondo l’opinione dominante in dottrina nel corso dell’espansione romana nel mediterraneo i feziali persero rapidamente di importanza, poiché i compiti che essi avevano svolto durante l’espansione in territorio italico furono affidati ad altri[47]. Abbiamo già visto, tuttavia, come agli inizi del II sec. essi fossero ancora operanti nel fornire pareri sulla condotta da tenere in situazioni dubbie. Questo fatto, a mio avviso, riveste una duplice importanza. Da un lato esso attesta la vitalità del collegio, dall’altro evidenzia come la competenza dei feziali rappresentasse nella concezione romana un patrimonio di conoscenze irrinunciabili proprio nel momento di maggiore spinta espansionistica.

            Il II sec. a.C. vide, come è noto, l’imposizione dell’egemonia romana sull’intero bacino del Mediterraneo, e la conseguente imposizione ai rapporti fra Roma e gli stati mediterranei - rapporti retti a mio avviso da norme di carattere internazionale[48] - di modelli funzionali agli interessi della potenza egemone. E ciò avvenne, naturalmente, sulla base dell’esperienza che Roma aveva maturato nei secoli precedenti, grazie anche alle riflessioni e alle elaborazioni dei feziali. Ne sono prova, fra l’altro, la cura che sempre il senato mise nel rispettare le forme nei rapporti internazionali, ottenendo il risultato di determinare unilateralmente il contenuto dei rapporti instaurati con gli stati amici ed alleati, senza per questo intaccare, almeno dal punto di vista formale, la sovranità dell’altro contraente.

            Un esempio concreto sarà utile ad illustrare le mie affermazioni. Perseo di Macedonia nel 179 a.C. era succeduto al trono del padre, Filippo II, il quale l'anno precedente aveva fatto uccidere l'altro proprio figlio, Demetrio, candidato romano alla successione. Appena salito al trono Perseo aveva chiesto al senato il riconoscimento della propria posizione di re ed il rinnovo dell'amicitia con Roma[49]. Ben resto però Perseo cominciò ad avvertire come troppo pesanti le condizioni che erano state imposte al padre, e che risultavano imposte anche a lui in virtù del rinnovo, e nel giro di pochi anni divenne chiaro che la Macedonia si preparava alla guerra, con grande preoccupazione, è evidente, non solo di Roma, ma anche - e vorrei dire soprattutto - degli alleati di Roma in Grecia e in Asia.

            Alla rottura si giunse nel 172, quando ambasciatori romani vennero mandati in Macedonia per denunciare l'amicizia con Perseo e compiere la formale dichiarazione di guerra, la rerum repetitio[50]. Ammessi alla presenza del sovrano dopo lunghi giorni di attesa, i legati romani gli contestarono l'inosservanza delle clausole del trattato sottoscritto da Filippo e da lui stesso rinnovato, in base alle quali era fatto divieto al re di uscire in armi dai propri confini, ed era fatto divieto altresì di portare guerra ai soci del popolo romano. Il senato gli chiedeva quindi soddisfazione per questi comportamenti contrari al diritto (iniuriae è il termine usato da Livio), e gli chiedeva di restituire a Roma ed ai suoi soci le cose trattenute contra ius foederis[51]. Il re allora, dopo aver manifestata la propria ira per la pretesa di Roma di immischiarsi a proprio piacimento con le cose del suo regno, impose loro di tornare il giorno successivo per ricevere una risposta scritta da portare al senato.

            Nella nota scritta Perseo affermava che il trattato concluso con il padre non lo riguardava affatto, che egli stesso lo aveva rinnovato poiché era appena salito al trono, e che se Roma aveva intenzione di fare un nuovo trattato con lui, bisognava discuterne le condizioni. Gli ambasciatori romani procedettero allora alla denuncia dell'amicizia ed alleanza, e per tutta risposta il re intimò loro di uscire entro tre giorni dai confini del regno[52]. Inutile dire che, scoppiata la guerra, la storia si concluse con la sconfitta di Perseo e la scomparsa del regno di Macedonia.

            A mio avviso la vicenda di Perseo rappresenta un esempio assai significativo dei rapporti che si erano venuti creando fra Roma ed i re soci ed alleati nel II sec. a.C.

            Non credo si possa dubitare che si trattava di rapporti internazionali, e di rapporti giuridici internazionali: basti pensare ai richiami ai trattati e al ius foederis, basti pensare alla scrupolosa osservanza delle forme, da parte di ambedue - Roma e Perseo - anche nel momento di maggior tensione. Nel contempo però emerge chiara la volontà di Roma di imprimere a tali rapporti un contenuto che sancisse la sua posizione di supremazia. Se vi riusciva era la pace, se non vi riusciva era la guerra, ma una guerra sempre motivata, anzi, si può quasi dire, sempre resa inevitabile dal comportamento contra ius della controparte.

 

 

 



 

[1] Vedi M.R. Cimma, Reges socii et amici populi Romani, Milano 1976, 33 ss. Per la letteratura più recente vedi A.N. Sherwin-White, Roman Foreing Policy in the East 168 B.C. to A.D. 1, Londra 1984, 18 ss.; J. Bleicken, Geschichte der römischen Republik, Monaco 1988, 43 ss.; 138 ss.; D.J. Mattingly, Dialogues of Power and Experience in the Roman Empire, in Dialogues in Roman Imperialism. Power, Discurse, and Discrepant Experience in the Roman Empire, Portsmouth, Rhode Island 1997, 7 ss.

 

[2] Sulla questione vedi M.R. Cimma, op. cit., 80 ss.

 

[3] Cfr. D. Nörr, Aspekte des römischen Völkerrechts. Die Bronzetafel von Alcántara, Monaco 1989, 12 ss. (lett. ivi)

 

[4] Cfr. W. Preiser, Völkerrechtsgeschichte, I, in K. Strupp-H.-J.Schlochauer, Wörterbuch des Völkerrechts, III, Berlino 1962, 681 ss. Vedi anche, sia pure in una prospettiva particolare, L. Loreto, Prime riflessioni a partire da Carl Schmitt sul problema storico della formazione del Völkerrecht nel mondo antico, in Nozione formazione e interpretazione del diritto dall'età romana alle esperienze moderne. Ricerche dedicate al professor Filippo Gallo, I, Napoli 1997, 489 ss.

 

[5] Th. Mommsen, Das römische Gastrecht und die römische Clientel, in Römische Forschungen, I, Berlino 1864-1869, 326 ss.; Römisches Staatsrecht, III,1, Lipsia 1887, 590 sg.; la posizione più radicale viene espressa in Disegno del diritto pubblico romano (tr. P. Bonfante), Roma 1973, 91.

 

[6] Il Grundvertrag di cui parla in particolare il Täubler, Imperium Romanum. Studien zur Entwicklungsgeschichte des römischen Reiches, I, Die Staatsverträge und Vertragsverhätnisse, Lipsia 1913, 4 ss.

 

[7] Vedi per tutti F. Sini, Bellum nefandum. Virgilio e il problema del “diritto internazionale antico”, Sassari 1991, 33 ss. (lett. ivi). Diversamente L. Loreto, op. cit., 505.

 

[8] Vedi, fra gli ultimi, D. Nörr, Die Fides im römischen Völkerrecht, Heidelberg 1989, 28 ss.; Id. Aspekte des römischen Völkerrechts, cit., 87 ss.

 

[9] Intendo fare riferimento in particolare al problema della sovranità e della sua originarietà, nonché al problema della reciproca indipendenza e parità dei soggetti: sulla questione vedi in particolare B. Paradisi, Il problema storico del diritto nternazionale, Firenze 1944, 100 ss.

 

[10] Op.cit., 11 ss.

 

[11] I fatti di normazione nell’esperienza romana arcaica, Torino 1967, 15 ss.

 

[12] Vedi particolarmente H. Triepel, Völkerrecht und Landrecht, Lipsia 1899 e D. Anzilotti, Teoria generale della responsabilità dello Stato nel diritto internazionale, I, Firenze 1902

 

[13] H. Kelsen, Teoria generale del diritto e dello stato (tr. S. Cotta-G. Treves), Milano 1952, 116 ss.; Principles of International Law, New York 1966, 420 ss.

 

[14] Vedi M.Giuliano-T.Scovazzi-T.Treves, Diritto internazionale. Parte generale, Milano 1991, 47 ss. Sul principio di effettività e le sue concrete applicazioni nella moderna comunità internazionale vedi C. De Visscher, Les effectivités du droit international public, Parigi 1967; W.H. Balekjian, Die Effektivität und die Stellung nichtannerkanten Staaten im Völkerrecht, L’Aia 1970.

 

[15] Relazioni a loro volta regolate da norme internazionali: vedi P. Klose, Die völkerrechtlische Ordnung der hellenistischen Staatenwelt in der Zeit vom 280-168 v. Chr. Ein Beitrag zur Geschichte des Völkerrechts, Monaco 1972; V. Ilari, Guerra e diritto nel mondo antico, I: Guerra e diritto nel mondo greco-ellenistico fino al III secolo, Milano 1980.

 

[16] Dal punto di vista politico, facendo proprio il tema della libertà delle città ellenistiche (cfr. J.-L. Ferrary, Philhellénisme et impérialisme. Aspects idéologiques de la conquête romaine du monde hellénistique, Parigi 1988) e dal punto di vista giuridico, adottando nelle relazioni con gli stati ellenistici modelli e schemi ivi già operanti: vedi E.S. Gruen, The Hellenistic Word and the Coming of Rome, Berkeley-Los Angeles-Londra 1984, sul quale E. Gabba, in Athenaeum 75 (1987), 205 ss. E N.G.L. Hammond, in N.G.L. Hammond-F.W. Walbank, A History of Macedonia, III: 336-167 B.C., Oxford 1988, 601 ss.

 

[17] Vedi per tutti F. Sini, op. cit., 24 s. e 91 ss.; A. Watson, International Law in Archaic Rome: War and Relgion, Baltimora-Londra 1993, 1 ss. (lett. ivi).

 

[18] Le fonti, tuttavia, sono discordi nell’attribuzione all’uno o all’altro re: vedi A. Watson, op. cit., 1 ss.

 

[19] C.Saulnier, Le rôle des prêtres fétiaux et l’application du “ius fetiale” à Rome, in RHDFE 58 (1980), 171 ss. L’opinione dell’A. a quanto mi risulta ha avuto scarso seguito: vedi T. Wiedemann, The Fetiales: a Reconsideration, in Classical Quarterly 36 (1986), 478 ss. V. Ilari, in ED 44 (1992), 1337, s.v. Trattato internazionale (diritto romano).

 

[20] Mi rifersco in particolare all’attvità dei pontefici nell’età più antica, come illustrata in particolare da C.A. Cannata, Per una storia della scienza giuridica europea, I, Dalle origini all’opera di Labeone, Torino 1997, 18 ss.

 

[21] Per l’autenticità delle formule riferite da Livio vedi F. Sini, op. cit., 91 ss.

 

[22] Liv. 1,32,6-8.: Legatus ubi ad fines eorum venit unde res repetuntur, capite velato filo - lanae velamen est - "Audi, Iuppiter," inquit; "audite, fines" - cuiuscumque gentis sunt, nominat; - "audiat fas. Ego sum publicus nuntius populi Romani; iuste pieque legatus venio, verbisque meis fides sit". Peragit deinde postulata. Inde Iovem testem facit: "Si ego iniuste impieque illos homines illasque res dedier mihi exposco, tum patriae compotem me numquan siris esse". Haec cum fines suprascandit, haec quicunque ei primus vir obvius fuerit, haec portam ingrediens, haec forum ingressus, paucis verbis carminis concipiendique iuris iurandi mutatis, peragit.

 

[23] Secondo Liv. 1,32,9 (cit. nt. 23) e Serv. ad Aen. 9,52 i dies sollemnes erano 33, secondo Liv. 1,22,5 e Dion. Hal. 2,72,8 erano 30: sulla questione vedi E. Samter, in PW V,2 (1909), col. 2263 s.v. Fetiales; F. De Martino, Storia della costituzione romana, II, Napoli 1973, 51 e nt. 100; A. Watson, op.cit., 24.

 

[24] Liv. 1,32,9-10: Si non deduntur quos exposcit diebus tribus et triginta - tot enim sollemnes sunt - peractis bellum ita indicit: "Audi, Iuppiter, et tu, Iane Quirine, dique omnes caelestes vosque, terrestres, vosque, inferni, audite. Ego vos testor populum illum" - quicumque est nominat - “iniustum esse neque ius persolvere. Sed de istis rebus in patria maiores natu consulemus quo pacto ius nostrum adipiscamur". Tum nuntius Romam ad consulendum redit.

 

[25] Liv. 1,32,11-12.

 

[26] Liv. 1,32,12-13: Fieri solitum ut fetialis hastam ferratam aut praeustam sanguineam ad fines eorum ferret et non minus tribus puberibus praesentibus diceret: "Quod populi Priscorum Latinorum hominesque Prisci Latini adversus populum Romanum Quiritium fecerunt, deliquerunt, quod populus Romanus Quiritium bellum cum Priscis Latinis iussit esse senatusque populi Romani Quiritium censuit, consensit, conscivit, ut bellum cum Priscis Latinis fieret, ob eam rem ego populusque Romanus populis Priscorum Latinorum hominibusque Priscis Latinis bellum indico facioque". Id ubi dixisset, hastam in fines eorum emittebat. Cfr. Aul. Gell., n.A. 16,4.

 

[27] Liv. 1,24,4-9: Fetialis regem Tullium ita rogavit: "Iubesne me, rex, cum patre patrato populi Albani foedus ferire?" Iubente rege "Sagmina," inquit, "te, rex, posco". Rex ait: "Puram tollito". Fetialis ex arce graminis herbam puram attulit. Postea regem ita rogavit: "Rex, facisne me tu regium nuntium populi Romani Quiritium, vasa comitesque meos?" Rex respondit: "Quod sine fraude mea populique Romani Quiritium fiat, facio". Fetialis erat M. Valerius; is patrem patratum Sp. Fusium fecit verbena caput capillosque tangens. Pater patratus ad ius iurandum patrandum, id est sanciendum fit foedus; multisque id verbis, quae longo effata carmine non operae est referre, peragit. Legibus deinde recitatis "Audi," inquit, "Iuppiter, audi, pater patrate populi Albani, audi tu, populus Albanus. Ut illa palam prima postrema ex illis tabulis cerave recitata sunt sine dolo malo utique ea hic hodie rectissime intellecta sunt, illis legibus populus Romanus prius non deficiet. Si prior defexit publico consilio dolo malo, tum tu ille Diespiter populum Romanum ferito ut ego porcum hic hodie feriam; tantoque magis ferito quanto magis potes pollesque". Id ubi dixit, porcum saxo silice percussit.

 

[28] Così V. Ilari, s.v. Trattato internazionale (diritto romano), cit., 1338. Per il dibattito del 137 (si tratta dell’episodio di Ostilio Mancino, il quale, sconfitto dai Numantini, aveva concluso una pace che il senato non voleva accettare) vedi G. Pugliese, Appunti sulla “deditio” dell’accusato di illeciti internazionali, in RISG 18 (1974), 26 ss.; D. Nörr, Aspekte des römischen Völkerrechts, cit., 76 ss.; V. Ilari, loc. cit., 1341 ss. (fonti e lett. ivi).

 

[29] Liv. 1,38,1-2: Deditosque Collatinos ita accipio eamque deditionis formulam esse; rex interrogavit: “Estisne vos legati oratoresque missi a populo Collatino, ut vos populumque Collatinum dederetis?” “Sumus.” “Estne populus Collatinus in sua potestate?” “Est.” “Deditisne vos populumque Collatinum, urbem, agros, aquam, terminos, delubra, utensilia, divina humanaque omnia, in meam populique Romani dicionem?” “Dedimus.” “At ego recipio”.

 

[30] D. Nörr, Aspekte des römischen Völkerrechts, cit., 28 ss.

 

[31] Cfr. Liv. 9,10,7: Praegressi fetiales ubi ad portam venere, vestem detrahi pacis sponsorobus iubent, manus post tergum vinciri. Cum apparitor verecundia maiestatis Postumi laxe vinciret, “quin tu” inquit “adduces lorum, ut iusta fiat deditio?”

 

[32] Liv. 9,10,9. L’episodio è quello della deditio di Postumio dopo la pax Caudina, sull’attendibilità del quale esistono in dottrina pareri discordanti. Il primo problema è quello della cronologia della I guerra sannitica e dell’episodio delle forche Caudine, collocato da Livio nel  321 a.C.: sulla questione vedi M. Sordi, Roma e i Sanniti nel IV sec. a.C., Bologna 1969, 17 ss. Altro problema è quello della natura dell’accordo stretto fra Romani e Sanniti a Caudio: si discute se si trattasse di una sponsio oppure di un foedus. Livio (9,5,1-5) esplicitamente nega che si potesse trattare di un foedus, mentre in altre fonti si parla appunto di foedus, di pax, di pactio, con gli equivalenti greci (vedi H.H. Schmitt, Die Staatsverträge des Altertums. III: Die Verträge der griechisch-römischen Welt von 338 bis 200 v. Chr., Monaco 1969, 28 ss.). Anche la dottrina moderna è divisa, e secondo la tesi estrema, sostenuta da ultimo da Ilari (s.v. Trattato internazionale (diritto romano), cit., 1340) la sponsio internazionale nemmeno sarebbe un istituto, ma “un argomento - quasi un cavillo - escogitato all’epoca del foedus di Mancino con Numanzia (137 a.C.)”, allo scopo di legittimare la tesi che gli impegni assunti dai comandanti militari senza l’autorizzazione dei comizi e del senato, e senza l’espletamento del rito feziale, non vincolavano lo stato romano. Per la letteratura sulla questione (e per posizioni diverse da quelle sostenute da Ilari) vedi, oltre agli Autori citati dallo stesso Ilari, D. Nörr, Aspekte des römischen Völkerrechts, cit., 76 s., nt. 31; A. Guarino, “Pax Caudina”, in Pagine di diritto romano, III, Napoli 1994, 299 ss. (già in ANA 97 (1986), 153 ss.); L. Loreto, Per una “Quellenforschung” della ‘pax Caudina’, in BIDR 31 (1989), 654 ss.

 

[33] Sul punto vedi F. De Martino, Storia della costituzione romana, II, cit., 39 ss. e G. Pugliese, op. cit., 35 ss.; D. Nörr, Aspekte des römischen Völkerrechts, cit., 76 s.

 

[34] E quindi di diritto genuinamente romano: cfr. V. Ilari, s.v. Trattato internazionale (diritto romano), cit., 1336 s. Vedi anche, dello stesso Autore, L’interpretazione storica del diritto di guerra romano fra tradizione romanistica e giusnaturalismo, Milano 1981, 8 ss.

 

[35] L’espressione è del Cannata, op. cit., 20.

 

[36] Cfr. C.A. Cannata, op. cit., 20 ss.

 

[37] Liv. 30,43,9. Vedi tuttavia le osservazioni del Broughton, Mistreatment of Foreing Legates and the Fetial Priests: three Roman Cases, in Phoenix 41 (1987), 61.

 

[38] Serv. ad Aen. 9,52: Denique cum Pyrrhi temporibus adversum transmarinum hostem bellum Romani gesturi essent nec invenirent locum, ubi hanc sollemnitatem per fetiales indicendi belli celebrarent, dederunt operam, ut unus de Pyrrhi militibus caperetur, quem fecerunt in circo Flaminio locum emere, ut quasi in hostili loco ius belli indicendi implerent. Denique in eo loco ante aedem Bellonae consecrata est columna.

Cfr. Festus, s.v. Bellona (p. 24 L.): Bellona dicebatur dea bellorum, ante cuius templum erat columella, quae bellica vocabatur, super quam hastam iaciebant, cum bellum indicebatur.

 

[39] Vedi particolarmente T. Wiedemann, op.cit., 480 ss.

 

[40] A. Watson, op.cit., 56 s.

 

[41] Sulla questione vedi T.R.S. Broughton, op.cit., 52.

 

[42] T.R.S. Broughton, op.cit., 51 ss. (lett. e fonti ivi).

 

[43] Dion. Hal. 2.72.5.

 

[44] Vedi T.R.S. Broughton, op. cit., 57, nt. 22.

 

[45] Römisches Staatsrecht, II.1, Lipsia 1887, 112 s. cfr. Römisches Strafrecht, Lipsia 1899, 55 s. e nt. 1.

 

[46] Op. cit., 50 ss.

 

[47] Sulla questione vedi L. Loreto, E’ scoppiata la guerra coi Romani, in BIDR 33-34 (1991-1992), 255 ss., il quale - contrariamente all’opinione dominante - tende ad anticipare il declino dell’istituzione alla fine del V sec. a.C. (lett. ivi).

 

[48] M.R. Cimma, op.cit., 168 ss.

 

[49] Liv. 40.58.8: Perseus potitus regno interfici Antigonum iussit; et dum firmaret res, legatos Romam ad amicitiam paternam renovandam petendumque ut rex ab senatu appellaretur misit.

 

[50] Liv. 42.25.1: Sub idem tempus Cn. Servilius Caepio Ap. Claudius Cento T. Annius Luscus legati ad res repetendas in Macedoniam renuntiandamque amicitiam regi missi redierunt.

 

[51] Liv. 42.25.4-6: Suae orationis summa fuisse: foedus cum Philipo ictum esse, cum ipso eo post mortem patris renovatum, in quo diserte prohiberi eum extra fines arma efferre, prohiberi socios populi Romani lacessere bello. Exposita deinde ab se ordine, quae ipsi nuper in senatu Eumenen vera omnia et conpertam referentem audissent. Samothracae praeterea per multos dies occultum consilium cum legationibus civitatium Asiae regem habuisse. Pro his iniuriis satisfieri senatum aequum censere, reddique sibi res sociisque suis, quas contra ius foederis habeat.

 

[52] Liv. 42.25.10-12: Tum ita sibi scriptum traditum esse: foedus cum patre ictum ad se nihil pertinere; id se renovari, non quia probaret sed quia in nova possessione regni patienda omnia essent, passum. Novum foedus si secum facere vellent, convenire prius de condicionibus debere; si in animum inducerent, ut ex aequo foedus fieret, et se visurum quid sibi faciundum esset, et illos credere e re publica consulturos. Atque ita se proripuisse et summoveri e regia omnes coeptos. Tum se amicitiam et societatem renuntiasse. Qua voce eum accensum restitisse atque voce clara denuntiasse sibi ut triduo regni sui decederent finibus.