Università di Milano
IL RUOLO DEL GIUDICE NELLA
COSTRUZIONE
Nello studio delle possibili forme di organizzazione
dell’ordinamento statale, tema di grande attualità concreta per il nostro Paese
e di rilevante interesse scientifico, il riferimento ed il raffronto con
l’ordinamento comunitario sembrano imporsi con assoluta evidenza non tanto per
la ormai nota valenza orizzontale del diritto comunitario, che concorre ormai a
disciplinare moltissimi settori della vita giuridica, sociale ed economica, ma
soprattutto per l’interesse che la struttura di tale ordinamento presenta e gli
insegnamenti che si possono trarre dal confronto tra questa esperienza, ormai
quasi cinquantennale, e l’esperienza nazionale. Anche perché lo studio degli
aspetti positivi e di quelli negativi del modello europeo può fornire elementi
utili nella ricerca di soluzioni sul piano interno, che permettano di trarre
vantaggio dai primi e di evitare, per quanto possibile, i secondi.
Dell’ordinamento comunitario è opportuno porre in
evidenza innanzitutto alcuni aspetti generali ben noti, che paiono utili al
fine di procedere al raffronto menzionato in relazione all’esercizio della
funzione giurisdizionale e, in particolare, al fine di illustrare i caratteri
fondamentali di tale funzione nell’ordinamento comunitario, alla luce delle più
recenti pronunzie della Corte di giustizia.
Il primo aspetto, che acquista rilievo
particolare nella prospettiva odierna, ma che di per sé solo non presenta
alcuna novità o carattere speciale nel quadro dell’ordinamento internazionale,
è costituito dalla natura volontaria e non spontanea dell’ordinamento
comunitario: al pari di tutte le organizzazioni internazionali, infatti, le
Comunità europee prima, e l’Unione europea oggi, non traggono origine dalla
formazione spontanea di norme giuridiche in un raggruppamento sociale che si
organizza istituzionalmente, bensì dalla manifestazione di volontà di Stati
sovrani che si esplica nella stipulazione del Trattato istitutivo.
L’ordinamento comunitario è, dunque, più di altri un ordinamento “artificiale”,
senza voler nulla togliere, con questa espressione, alla sua effettività o
efficacia o efficienza, né esprimere alcun giudizio di valore in proposito: un
ordinamento artificiale costruito ed imposto, dettato da noti motivi di carattere
politico ed economico, voluto dai promotori e dai loro continuatori talvolta
anche contro le istanze nazionali e che spesso, proprio sul piano domestico, è
servito come alibi per far passare normative difficilmente attuabili a livello
interno per l’opposizione parlamentare o dell’opinione pubblica (gli esempi,
soprattutto con riguardo all’Italia, sono numerosi).
Il carattere artificiale dell’ordinamento
comunitario ha diverse manifestazioni o conseguenze, tra le quali pare
rilevante ai presenti fini, l’artificiosa ed obbligata convergenza delle
diversità nazionali in quasi tutti i settori: mentre le diversità giuridiche ed
economiche sono in via di assorbimento in molti campi (ad esse ha dato uno
scossone il mercato unico nel 1993 e comunque gli operatori economici già da
tempo si sono resi conto della necessità della cooperazione e dell’unificazione
per far fronte alle sfide della globalizzazione dei mercati), le diversità
politiche non sono ancora superate, né è detto che debbano essere superate.
Questo aspetto merita però di essere menzionato perché costituisce un punto di
contatto o di analogia con la situazione politica oggi sotto i nostri occhi e
il conseguente dibattito: l’ordinamento comunitario sembra essere sulla via di
riuscire a coniugare un discreto grado di unità e di uniformità sul piano
giuridico ed economico di entità statali separate e distinte - anche
nell’attività di orientamento generale, di elaborazione di aspetti pur così sensibili
della sovranità nazionale come le politiche economiche e monetarie e di
controllo, con pari considerazione per le situazioni di svantaggio e difficoltà
- con la minima integrazione politica. L’atteggiamento scettico e, talvolta,
decisamente centrifugo di diversi Stati in vari momenti della loro storia politica
nel corso di questi anni ha portato all’elaborazione e all’applicazione, quasi
funambolica in alcune occasioni, di modelli di comportamento e di decisione
alquanto complessi che possono forse insegnare qualcosa. Se da questo si può
pensare di trarre, per lo meno, un’indicazione di metodo utile al fine di
affrontare i problemi nazionali, mi sembra che si possa riassumere nella
disponibilità a cercare di superare le difficoltà attraverso il perseguimento
di soluzioni empiriche e pragmatiche, accompagnata da una solida ed univoca
volontà in tal senso.
Una conseguenza pratica negativa del
carattere artificiale – nei termini indicati – dell’ordinamento comunitario e
del suo veloce sviluppo normativo per l’ampliamento delle competenze e dei
settori di attività è costituita, purtroppo, dall’aumento esponenziale della
produzione normativa, molto evidente soprattutto negli ultimi dieci anni,
dall’entrata in vigore dell’Atto unico, che ha imposto un’accelerazione al
mercato unico a partire dal 1° gennaio 1993. E’ un problema molto sentito che si aggrava con il tempo e con l’aumento
delle competenze comunitarie, tanto che le istituzioni hanno adottato alcune
misure per la codificazione del diritto in vigore al fine di agevolare la
navigazione nell’ormai ampio mare della normativa vigente.
Dall’altro lato, e giungo così alla funzione
giurisdizionale, a fianco della codificazione operata dagli uffici attraverso
il consolidamento del testi, il loro accorpamento e la loro classificazione, un
aspetto interessante, tipico dell’ordinamento comunitario, è costituito dal
fatto che nelle più recenti modifiche dei Trattati, in modo particolare l’Atto
unico e il Trattato di Maastricht, sono state introdotte numerose disposizioni
che trascrivono i risultati dell’attività interpretativa svolta dalla Corte di
giustizia, che nel risolvere i dubbi esegetici che le sono stati via via
presentati ha fatto avanzare l’ordinamento ben al di là di quanto si
aspettavano, forse, i promotori delle Comunità. La Corte, infatti, come
rilevato da molti, è certamente l’istituzione che ha dato il contributo
maggiore allo sviluppo del diritto comunitario attraverso quasi cinquant’anni
di attività: sebbene non sempre ben accolte negli Stati membri, in special modo
in alcuni tra essi, le pronunzie della Corte hanno supplito alle imperfezioni e
alle lacune causate dalla “giovinezza” dell’ordinamento comunitario,
dall’intenzionale imprecisione di alcune espressioni e nozioni utilizzate,
difetto comune a molti trattati internazionali, e dalla mancanza in molti casi
di parametri di riferimento uniformi negli Stati contraenti.
In alcuni settori, anzi, la giurisprudenza della
Corte, in assenza di regolamenti o altri atti normativi di attuazione del
Trattato, costituisce l’unica forma di controllo della legittimità
dell’attività della Commissione e delle istituzioni in generale e, di
conseguenza, un elemento fondamentale della disciplina di un dato settore: si
pensi, ad esempio, all’importante ed oggi attualissimo campo degli aiuti di
Stato alle imprese, regolato da poche norme di carattere alquanto generale
contenute nel Trattato CE agli articoli 92 e 93, mentre la quasi totalità della
disciplina concreta della materia deriva dalla prassi della Commissione, che
opera mediante decisioni, comunicazioni ed altri atti atipici, e dalla
giurisprudenza della Corte, la quale nel corso degli anni ha contribuito alla
determinazione del contenuto delle regole applicate e ha stabilito una serie di
limiti all’attività della Commissione stessa attraverso numerose decisioni. Si
tratta dunque di un settore a tutt’oggi non “codificato”, che attende la
definitiva approvazione dei regolamenti di attuazione da adottare a norma
dell’art. 94 del Trattato che hanno solo di recente raggiunto lo stadio di
proposta[1].
Se, dunque, le Comunità europee hanno conosciuto la
fortuna che hanno avuto e hanno potuto svilupparsi fino alla forma attuale gran
parte del merito va attribuito proprio alla Corte di giustizia. La sua giurisprudenza
concorre a formare l’acquis communautaire, che tutti i nuovi aderenti
devono rispettare come parte integrante del testo dei Trattati al momento
dell’ingresso nell’Unione europea e nelle Comunità. Anzi, in alcuni casi il
rispetto delle decisioni della Corte è stato imposto anche a Stati terzi: mi
riferisco in particolare alla dichiarazione resa dai rappresentanti dei Governi
degli Stati membri dell’Associazione europea di libero scambio al momento della
firma della convenzione di Lugano del 16 settembre 1988 sulla giurisdizione e
l’esecuzione delle sentenze, in base alla quale tali Stati hanno dichiarato di
“considerare appropriato che i loro organi giurisdizionali, nell’interpretare
la convenzione di Lugano – che è basata quasi interamente sulla convenzione di
Bruxelles del 1968 – tengano debitamente conto dei principi contenuti nella
giurisprudenza della Corte di giustizia delle Comunità europee … relativa alle
disposizioni della convenzione di Bruxelles la cui sostanza sia recepita nella
convenzione di Lugano”. A sua volta, questa dichiarazione si fonda su un’altra dichiarazione
allegata alla stessa convenzione nella quale tutti gli Stati contraenti (membri
della CE e dell’EFTA) richiamano le decisioni pronunciate dalla Corte
nell’interpretazione della convenzione di Bruxelles in quanto elementi
interpretativi fondamentali di questa, così rafforzando il riferimento alla
giurisprudenza comunitaria che, di per sé, non sarebbe altrimenti vincolante
per i Paesi dell’EFTA. Ma non è l’unico esempio: l’acquis communautaire è
stato imposto anche nella stipulazione dell’accordo per lo Spazio economico
europeo, un’esperienza oggi di minore rilievo rispetto al momento della sua
stipulazione nel 1992 visto che tra gli Stati membri dell’EFTA sono rimasti a
farne parte solo la Norvegia, l’Islanda e il Liechtenstein (v. la recente sentenza
del Tribunale di primo grado, 22 gennaio 1997 in causa T-115/94, Opel
Austria[2]).
Nell’esercizio della competenza attribuitale
dai Trattati, la Corte di giustizia ha vigilato sulla corretta applicazione del
diritto tutelando sia l’ordinamento nel suo complesso, in relazione ai rapporti
tra le istituzioni, tra Stati membri e tra Stati membri e istituzioni, sia i
destinatari ultimi delle norme, cioè i privati soggetti agli Stati membri o
operanti nel sistema, nei loro rapporti con le istituzioni, con gli Stati
membri e in parte tra i singoli stessi. Veniamo così al secondo, importante e
notissimo carattere del sistema comunitario: un ordinamento creato da soggetti
del diritto internazionale non ha per destinatari unicamente tali soggetti, ma
anche gli individui al loro interno, che sono toccati direttamente nella loro
sfera giuridica soggettiva dai comportamenti e dagli atti delle istituzioni e
che possono pretendere il rispetto dei diritti così acquisiti davanti ai giudici
nazionali. Per questo motivo tale sistema presenta caratteri di specificità sul
piano della tutela giurisdizionale rispetto ad altri sistemi organizzati
istituzionalmente dagli Stati: il meccanismo creato è particolare perché
particolare ed unico è il rapporto tra l’ordinamento ed i suoi soggetti, per
il fatto che ne sono soggetti diretti i singoli ed alla loro tutela il
meccanismo stesso è in gran parte preordinato. Sebbene alcuni sviluppi e
conseguenze di questa impostazione al momento della stipulazione dei Trattati
non fossero prevedibili né immaginabili, certamente è così al momento attuale,
in cui sempre più spesso la Corte di giustizia imposta le proprie decisioni in
funzione della necessità di garantire in modo efficace ed effettivo i diritti
dei singoli.
Su di un piano generale, la giurisprudenza della
Corte, alternando alcune fasi di stasi ad altre di particolare accelerazione
dello sviluppo dell’ordinamento, ma perseguendo con notevole coerenza un
disegno che si è via via precisato e si sta tuttora precisando nei diversi
settori, ha così contribuito nel corso degli anni all’enunciazione precisa e
alla individuazione dei diritti e degli obblighi di tutti i “contendenti” nei
reciproci rapporti. Nelle pieghe del sistema, nelle sue ombre, la Corte ha trovato gli elementi necessari anche per
la creazione, ove necessario, degli strumenti per l’effettivo godimento di tali
diritti e l’adempimento di tali obblighi. E’ utile esaminare alcuni esempi
concreti, che illustrano con maggiore chiarezza le affermazioni fin qui
svolte e che permettono più di altri di
apprezzare il ruolo centrale svolto dalla Corte di giustizia.
Sotto il profilo della tutela dell’ordinamento e del
suo funzionamento in generale, pensiamo all’affermazione del principio
dell’equilibrio istituzionale, frutto dell’elaborazione della Corte, secondo
il quale ogni istituzione esercita le proprie competenze nel rispetto di quelle
delle altre istituzioni: su di esso la Corte ha fondato una serie di decisioni
che hanno lentamente legittimato le azioni del Parlamento europeo a pretendere
il rispetto delle proprie prerogative da parte delle altre istituzioni. Non
prevista nei Tratti istitutivi e dapprima negata dalla stessa Corte, da ultimo
nella sentenza “comitologia” (27 settembre 1988 in causa 302/87[3]),
la legittimazione a proporre il ricorso per annullamento contro un atto del
Consiglio o della Commissione è stata poi chiaramente affermata ove il ricorso
sia volto al fine di tutelare le prerogative del Parlamento e si fondi
unicamente su motivi dedotti dalla violazione di queste (sentenza 22 maggio
1990 in causa C-70/88, “Cernobyl”[4]).
Parallelamente, sempre nel silenzio del Trattato, la Corte ha anche affermato
la possibilità di ricorrere contro atti del Parlamento europeo destinati a
produrre effetti giuridici nei confronti dei terzi (sentenza 23 aprile 1986 in
causa 294/83, Parti écologiste “les Verts”[5]).
Entrambe queste conclusioni sono state poi inserite nel Trattato CE all’art.
173, rispettivamente al terzo e al primo comma, con il Trattato di Maastricht:
è questo uno dei casi di quella “codificazione” del sistema mediante il
recepimento delle pronunzie della Corte in occasione di modifiche dei Trattati
alla quale abbiamo fatto inizialmente riferimento.
Di fondamentale importanza è anche il principio di
cooperazione tra Stati membri e istituzioni, contenuto all’art. 5 del Trattato
CE, in base al quale gli Stati membri adottano tutte le misure di carattere
generale e particolare atte ad assicurare l’esecuzione degli obblighi derivanti
dal Trattato o determinati dagli atti delle istituzioni. Ritenendolo un principio fondamentale che disciplina le
relazioni tra Stati membri ed istituzioni nella comunità di diritto costituita
dalla Comunità europea, la Corte l’ha interpretato anche nella direzione
opposta, affermando che esso impone anche alle istituzioni comunitarie obblighi
reciproci di leale collaborazione con gli Stati membri, come, ad esempio, l’obbligo
di prestare assistenza ai giudici nazionali comunicando loro documenti e
autorizzando i propri dipendenti a deporre come testi in un procedimento
nazionale (ordinanza 13 luglio 1990 in causa C-2/88, Zwartveld[6]).
Amplissimo è stato poi l’impegno della Corte
nella difesa dei diritti dei cittadini nei confronti delle istituzioni e in
particolare della Commissione. Si è già menzionato il settore degli aiuti
pubblici alle imprese nel quale la Corte è intervenuta quale unico garante
della legittimità del comportamento e degli atti della Commissione in assenza
di norme di attuazione da parte del Consiglio; ma anche in altri settori nei
quali la Commissione esercita funzioni normative, di esecuzione e di controllo
dell’attività dei privati con poteri amplissimi e competenze di carattere quasi
amministrativo – si pensi alla politica di concorrenza - la Corte di giustizia
ha adottato numerose decisioni che, nel silenzio dei Trattati, hanno lentamente
introdotto una serie di garanzie a tutela dei diritti fondamentali.
Come è noto, è solo con il Trattato di
Maastricht (art. F) che i diritti dell’uomo quali sono garantiti dalla
convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà
fondamentali del 1950 hanno fatto la loro apparizione formale in quanto
principi generali del diritto comunitario. Fino ad allora il loro rispetto era
assicurato solo su base giurisprudenziale, tanto da giustificare l’affermazione
del mantenimento di una competenza di controllo da parte della Corte
Costituzionale italiana e del Bundesverfassungsgericht tedesco. E’ solo di
recente che le istituzioni e gli organi comunitari hanno adottato dei codici di
condotta relativi all’accesso del pubblico ai documenti e alle informazioni di
cui dispongono.
Ancora, è alla Corte di giustizia che si deve
un’efficace difesa dei diritti dei cittadini nei confronti degli Stati membri.
Troppo nota per meritare di soffermarvisi in questa sede e ormai risalente è la
giurisprudenza che ha affermato la diretta applicabilità del diritto
comunitario, dando un impulso decisivo al rispetto ed all’applicazione dei
Trattati e del diritto comunitario derivato, con implicazioni particolari
soprattutto con riferimento alle direttive. Un limite dell’attività della Corte
in proposito si può forse individuare nella mancata affermazione, accanto
all’efficacia verticale propria di questi atti (cioè la possibilità per il
singolo di pretenderne l’applicazione nei propri confronti da parte dello
Stato), anche della loro efficacia orizzontale, che inizialmente sembrava
implicita in alcune pronunzie, ma è stata recentemente negata in modo esplicito
ed alquanto ampio: la Corte, infatti, ha escluso qualsiasi possibilità di far
valere davanti ai giudici nazionali l’efficacia delle direttive inattuate alla
scadenza prevista nei confronti dei singoli in generale, indipendentemente
dalla natura del soggetto che agisce in giudizio, sia cioè con riguardo ad
azioni proposte da altri individui, con una compressione, oggetto di critiche,
dei diritti che la diretta applicabilità mirerebbe invece proprio a garantire
(sentenza 14 luglio 1994 in causa C-91/92, Faccini Dori[7]),
sia con riguardo ad azioni proposte da un’amministrazione pubblica (sentenza
26 settembre 1996 in causa C-168/95, Arcaro[8]).
In anni vicini, inoltre, con una giurisprudenza che
sta ancora precisando ed affinando i contorni e i contenuti della disciplina
perseguita, la tutela dei cittadini nei confronti degli Stati membri ha
conosciuto sviluppi un tempo non prevedibili e non previsti nei Trattati. Mi
riferisco all’affermazione secondo la quale dall’efficacia verticale del
diritto comunitario in generale e delle direttive in particolare discende il
diritto al risarcimento del danno provocato ai singoli, che è stato via via
precisato con successive decisioni a partire dal caso Francovich. Come è
noto, la Corte ha individuato, sulla base della propria giurisprudenza in tema
di responsabilità extracontrattuale della Comunità, ormai consolidata, tre
presupposti dell’obbligo di uno Stato membro di risarcire i danni causati ai singoli,
cioè che “la norma giuridica violata sia preordinata a conferire diritti ai singoli,
che la violazione sia grave e manifesta e che ricorra un nesso di causalità diretto
tra la violazione dell’obbligo incombente allo Stato e il danno subito dai
soggetti lesi. Il diritto al risarcimento, che deve essere adeguato al danno
subito, cioè tale da garantire una tutela effettiva dei diritti dei singoli,
trova dunque il proprio fondamento nel diritto comunitario, mentre è nelle
norme nazionali sulla responsabilità che lo Stato è tenuto a riparare le
conseguenze del danno provocato, purché le condizioni stabilite dal diritto
interno in materia di risarcimento dei danni non siano meno favorevoli di
quelle riguardanti analoghi reclami di natura interna o siano congegnate in
modo tale da rendere praticamente impossibile o eccessivamente difficile ottenere
il risarcimento” (sentenze 19 novembre 1991 nelle cause C-6/90 e C-9/90, Francovich;[9]
5 marzo 1996 nelle cause C-46/93 e C-48/93, Brasserie du pêcheur e Factortame[10];
26 marzo 1996 in causa C-392/93, British Telecom[11];
23 maggio 1996 in causa C-5/94, Hedley Lomas[12];
8 ottobre 1996 nelle cause C-178/94, C-188/94, C-189/94, C-190/94, Dillenkofer[13];
22 aprile 1997 in causa C-66/95, Sutton[14]).
Inoltre, secondo la Corte, dato che un’applicazione
retroattiva, regolare e completa delle misure di attuazione della direttiva potrebbe
non garantire pienamente in tutti i casi il risarcimento, i beneficiari possono
dimostrare l’esistenza di danni ulteriori eventualmente subiti per non aver
potuto fruire a suo tempo dei vantaggi pecuniari garantiti dalla direttiva, che
dovrebbero anch’essi essere risarciti (sentenze 10 luglio 1997 nelle cause
C-94/95 e C-95/95, Bonifaci e Berto[15],
e 10 luglio 1997 in causa C-373/95, Maso[16]).
Infine, ed è questo, per ora, il più recente
sviluppo in questa materia, la Corte per rispondere al quesito proposto dal
giudica a quo ha dovuto entrare più nei dettagli affermando che per
l’azione di risarcimento può essere corretta, e dunque sufficiente, in
astratto, l’imposizione di un termine di decadenza di un anno dalla trasposizione
della direttiva in quanto la fissazione di termini di ricorso ragionevoli
risponde sia al principio dell’effettività del diritto comunitario, sia al
principio della certezza del diritto, ma che il giudice nazionale deve anche valutare
se tale condizione sia conforme al principio dell’equivalenza rispetto alle
condizioni che riguardano reclami analoghi di natura interna. In proposito, la
Corte ha lasciato al giudice nazionale, nella specie quello italiano, il
compito di valutare se un’azione di risarcimento dei danni intentata da un
singolo ai sensi dell’art. 2043 cod. civ. - ed è la prima volta che il
riferimento alla nostra norma generale sulla responsabilità civile viene fatto
in modo esplicito - possa essere diretta contro pubblici poteri per
un’omissione o per un atto illecito loro eventualmente imputabile
nell’esercizio della potestà di imperio. Ha peraltro precisato che, ove tale
norma non possa applicarsi ed il giudice interno non possa dunque stabilire
l’equivalenza tra il termine controverso e le condizioni relative a reclami di
natura interna, detto termine di un anno potrebbe considerarsi congruo (sentenza
10 luglio 1997 in causa C-261/95, Palmisani[17]).
La Corte di giustizia ha dunque elaborato una nuova
ipotesi di responsabilità dello Stato nei confronti dei singoli, che si
affianca a quelle eventualmente previste negli ordinamenti degli Stati membri e
che prescinde da qualsiasi classificazione delle situazioni giuridiche
soggettive note al diritto interno, quale la distinzione tra interesse
legittimo e diritto soggettivo propria dell’ordinamento italiano.
In questo processo di “costruzione” dell’ordinamento
comunitario, la Corte di giustizia è stata utilmente e proficuamente affiancata
dai giudici nazionali, ai quali vanno riconosciuti non pochi meriti. Ad essi il
Trattato affida l’importante compito dell’applicazione concreta,
dell’attuazione del diritto comunitario: l’effettiva tutela dei diritti dei
singoli nei confronti dell’ordinamento comunitario e di quelli nazionali è lasciata,
infatti, ai giudici interni poiché in generale il godimento delle libertà
previste dal Trattato passa attraverso l’ordinamento interno e le autorità
nazionali. L’importanza del ruolo delle giurisdizioni nazionali e la necessità
di garantire un’interpretazione uniforme nello svolgimento di tale ruolo, pur
nel rispetto delle prerogative dei giudici, sono ben presenti alle istituzioni
comunitarie ed in particolare alla Commissione ed alla Corte di giustizia. A
questo fine la prima ha emanato due comunicazioni in un settore-chiave per il
funzionamento del mercato comune, la politica di concorrenza, relative alla
cooperazione tra i giudici nazionali e la Commissione nell’applicazione degli
articoli 85 e 86 del Trattato e in materia di aiuti di Stato, nelle quali sono
date ampie spiegazioni ai giudici nazionali al fine di migliorare il
collegamento tra essi e la Commissione ed evitare l’emanazione di pronunce contrastanti
nei settori ove è possibile una sovrapposizione anche parziale di competenza[18]
La seconda ha predisposto e diffuso una nota informativa breve ma completa
sulla proposizione di domande di pronuncia pregiudiziale da parte dei giudici
nazionali, nella quale sono riassunti gli aspetti fondamentali del procedimento
ex art. 177 del Trattato CE quali risultano dalle decisioni interpretative
della Corte[19].
Non si può non ricordare, senza peraltro
soffermarvisi a lungo, il ruolo centrale svolto dall’art. 177 al fine del
funzionamento del sistema comunitario: è certamente una norma fondamentale che
disciplina il rapporto tra giudici nazionali e Corte di giustizia ed è stato
oggetto di studi amplissimi ed approfonditi fin dalla stipulazione del
Trattato. E’ sufficiente ricordare, ai nostri fini, che era stato predisposto
proprio per garantire l’uniformità di applicazione del diritto ed è stato
utilizzato ampiamente dai giudici nazionali, talvolta in modo improprio, ma
certamente anche al di là delle previsioni. Anzi, proprio i quesiti
interpretativi posti dai giudici nazionali hanno dato l’occasione, e quasi il
destro, alla Corte di giustizia di esplorare nuove strade al fine di garantire
la maggiore tutela dei singoli, come si è visto, ad esempio, in relazione alla
responsabilità dello Stato per danni ai singoli.
Oltre agli esempi già illustrati, molti dei quali
traggono origine proprio da domande di interpretazione pregiudiziale, è
interessante menzionare un caso recente, che comporta secondo molti
commentatori una distorsione nell’applicazione dell’art. 177 e che va al di
là della valutazione della compatibilità del diritto interno con il diritto
comunitario, proseguendo su un cammino imboccato tra molte critiche dalla Corte
di giustizia nel 1990 In alcune decisioni la Corte aveva ritenuto che potesse
essere oggetto di una pronunzia pregiudiziale una questione relativa ad una
fattispecie regolata dal diritto nazionale il quale rinviasse a norme comunitarie
per determinare il contenuto di norme interne (sentenze 18 ottobre 1990 nelle
cause C-297/88 e C-197/89, Dzodzi[20],
e 8 novembre 1990 in causa C-231/89, Gmurzynska-Bscher[21])
ovvero riproducesse quasi letteralmente il testo di una norma comunitaria
(sentenza 12 novembre 1992 in causa C-73/89, Fournier[22]).
Più di recente, la Corte ha affermato la propria
competenza anche qualora il diritto comunitario non disciplini direttamente la
situazione di cui è causa, ma il legislatore nazionale abbia deciso, all’atto
della trasposizione in diritto nazionale delle disposizioni di una direttiva,
di applicare lo stesso trattamento alle situazioni puramente interne e a quelle
disciplinate dalla direttiva, modellando così la normativa nazionale sul
diritto comunitario. Secondo la Corte, in contrasto sul punto con l’avvocato
generale Jacobs, “quando una normativa nazionale si conforma, per le soluzioni
che essa apporta a situazioni puramente interne, a quelle adottate nel diritto
comunitario, al fine in particolare di evitare che vi siano discriminazioni nei
confronti dei cittadini nazionali o, come nella fattispecie di cui al processo a
quo, eventuali distorsioni di concorrenza, esiste un interesse comunitario
certo a che, per evitare future divergenze d’interpretazione, le disposizioni o
le nozioni riprese dal diritto comunitario ricevano un’interpretazione
uniforme, a prescindere dalle condizioni in cui verranno applicate. … [I]n tal
caso … spetta solo al giudice nazionale valutare la portata esatta del rinvio
al diritto comunitario, in quanto la competenza della Corte è limitata
unicamente al vaglio delle disposizioni di tale diritto. Infatti, la presa in
considerazione dei limiti fissati dal legislatore nazionale all’applicazione
del diritto comunitario a situazioni puramente interne rientra nel diritto
nazionale e, di conseguenza, nella competenza esclusiva dei giudici dello Stato
membro” (sentenza 17 luglio 1997 in causa C-28/95, Leur-Bloem[23];
v. anche la sentenza di pari data in causa C-130/95, Giloy[24]).
Tra tutti gli organi giurisdizionali nazionali sono
stati soprattutto i giudici di merito, i piccoli giudici, come li chiama
Tesauro, che hanno individuato gli spazi nei quali fare breccia ed hanno
interrogato la Corte, mentre le giurisdizioni superiori si sono rivolte ad essa
alquanto raramente, in particolare quelle italiane. Infatti, la Corte di
Cassazione e il Consiglio di Stato propongono ricorsi in casi del tutto
eccezionali, mentre la Corte Costituzionale non ritiene di costituire una
“giurisdizione nazionale” ai sensi dell’art. 177 del Trattato CE (ordinanza 29
dicembre 1995 n. 536). Va rilevato che con questa affermazione la Corte Costituzionale
ha invaso le attribuzioni della Corte di giustizia, la quale sola è competente
ad interpretare il Trattato, e dunque anche la nozione di “giurisdizione nazionale”
di cui all’art. 177. Nell’esercizio di tale competenza la Corte di Lussemburgo
ha interpretato questa nozione in modo autonomo, ritenendola una questione sottoposta
unicamente al diritto comunitario, che va risolta in base a criteri uniformi e
obbligatori per tutti gli Stati membri. Il diritto interno può essere preso in
considerazione solo al fine di individuare le caratteristiche rilevanti degli
organi giurisdizionali considerati, cioè la loro struttura ed il loro modo di
operare.
A questo proposito, la Corte di giustizia ha
recentemente accolto una domanda di interpretazione pregiudiziale proposta
dalla Commissione federale per la sorveglianza delle aggiudicazioni istituita
dallo Haushaltsgrundsätzegesetz tedesco (legge sui principi di
bilancio), ritenendo che tale organo abbia un’origine legale, carattere
permanente, carattere di giurisdizione obbligatoria, applichi norme giuridiche,
istituisca un procedimento nel quale vengono sentite tutte la parti, e sia
composta da membri indipendenti ed imparziali, e risponda dunque a tutte le
condizioni evidenziate dalla precedente giurisprudenza come caratteristiche
della nozione di “giurisdizione nazionale” ai sensi dell’art. 177 (sentenza 17
settembre 1997 in causa C-54/96, Dorsch Consult[25]).
Il rapporto di stretta cooperazione e fiducia
reciproca tra la Corte di giustizia ed i giudici nazionali, nella prospettiva
di fornire le maggiori garanzie ai singoli, ha lentamente portato la prima, con
una giurisprudenza sviluppatasi lungo un arco di diversi anni, a permettere ai
secondi di adottare misure provvisorie nei confronti di un atto amministrativo
nazionale adottato in esecuzione di un atto comunitario del quale sia contestata
la validità, in attesa della pronuncia pregiudiziale delle stessa Corte di
giustizia. A partire dalla notissima sentenza Factortame (19 giugno 1990
in causa C-213/89[26]),
passando per la sentenza Zuckerfabrik
(21 febbraio 1991 nelle cause C-143/88 e C-92/89[27])
e per la successiva decisione Atlanta (9 novembre 1995 in causa C-465/93[28]),
la Corte ha precisato i limiti del potere riconosciuto ai giudici nazionali, e
cioè che egli nutra gravi riserve sulla validità dell’atto comunitario e
provveda direttamente ad effettuare il rinvio pregiudiziale; che ricorrano gli
estremi dell’urgenza, nel senso che i provvedimenti provvisori siano necessari
per evitare che la parte che li richiede subisca un danno grave e irreparabile;
che il giudice tenga pienamente conto dell’interesse della Comunità; e che
rispetti le pronunce della Corte e del Tribunale di primo grado sulla legittimità
del regolamento o un’ordinanza in sede di procedimento sommario diretta alla
concessione, sul piano comunitario, di provvedimenti provvisori analoghi.
Quali conclusioni di carattere generale possiamo
trarre da questa breve rassegna degli aspetti più recenti della giurisprudenza
della Corte di giustizia nell’esercizio delle proprie competenze per quanto
concerne il modello che informa l’esercizio della funzione giurisdizionale
nell’ordinamento comunitario? Il tratto saliente, già posto in evidenza da
alcuni, è costituito dal fatto che tale funzione viene svolta secondo modalità
e con finalità diverse da quelle alle quali è abituato il giurista di civil
law, che la pongono molto vicino, piuttosto, a quella propria dei sistemi
giuridici di common law: la giurisprudenza della Corte si è affermata,
infatti, come fonte di produzione giuridica propria dell’ordinamento
comunitario, come sembra dimostrato dal fatto che accanto al valore, non codificato
ma ammesso nella prassi e nella dottrina, del precedente, e quindi alla produzione
di effetti erga omnes anche per le pronunzie pregiudiziali - che dovrebbero
piuttosto avere effetti limitati al caso di specie poiché sono emanate
nell’ambito di un incidente del procedimento pendente davanti al giudice nazionale
- è diventato indispensabile se non prevalente il riferimento alle pronunce
della Corte nell’analisi dei più diversi aspetti dell’ordinamento.
In secondo luogo, la collaborazione tra giurisdizioni nazionali e giurisdizione comunitaria va ben al di là di qualsiasi modello esistente sul piano internazionale. Essa produce un effetto di compenetrazione e di partecipazione dell’organo centrale, che esercita la funzione del controllo di legittimità e di compatibilità degli atti con il “sistema” ed i suoi principi informatori, in due direzioni inscindibilmente collegate: in senso orizzontale, nello stesso ordinamento comunitario del quale la Corte è parte, e in senso verticale, tra ordinamenti nazionali e ordinamento comunitario.
[1] COM(97) 396 def., in Gazzetta
ufficiale delle comunità europee, Comunicazioni e informazioni, n. C 262
del 28 agosto 1997, 6, e COM(98) 73 def., non ancora pubblicata.
[2] Raccolta della
giurisprudenza della Corte di giustizia e del Tribunale di primo grado,
1997, II-39.
[3] Raccolta della
giurisprudenza della Corte di giustizia, 1988, 5615.
[4] Raccolta della giurisprudenza
della Corte di giustizia e del Tribunale di primo grado, 1990, I-2067.
[5] Raccolta della
giurisprudenza della Corte di giustizia, 1986, 1339.
[6] Raccolta della
giurisprudenza della Corte di giustizia e del Tribunale di primo grado, 1990,
I-3365.
[7] Raccolta della
giurisprudenza della Corte di giustizia e del Tribunale di primo grado,
1994, I-3325.
[8] Raccolta della
giurisprudenza della Corte di giustizia e del Tribunale di primo grado,
1996, I-4705.
[9] Raccolta della
giurisprudenza della Corte di giustizia e del Tribunale di primo grado,
1991, I-5357.
[10] Raccolta della
giurisprudenza della Corte di giustizia e del Tribunale di primo grado,
1996, I-1029.
[11] Raccolta della
giurisprudenza della Corte di giustizia e del Tribunale di primo grado,
1996, I-1631.
[12] Raccolta della
giurisprudenza della Corte di giustizia e del Tribunale di primo grado,
1996, I-2553.
[13] Raccolta della
giurisprudenza della Corte di giustizia e del Tribunale di primo grado,
1996, I-4845.
[14] Raccolta della giurisprudenza
della Corte di giustizia e del Tribunale di primo grado, 1997, I-2163.
[15] Raccolta della
giurisprudenza della Corte di giustizia e del Tribunale di primo grado,
1997, I-3969.
[16]Raccolta della
giurisprudenza della Corte di giustizia e del Tribunale di primo grado, 1997, I-4051.
[17] Raccolta della
giurisprudenza della Corte di giustizia e del Tribunale di primo grado,
1997, I-4025.
[18] rispettivamente n. 93/C
39/05, in Gazzetta ufficiale delle comunità europee, Comunicazioni ed
informazioni., C 39 del 13 febbraio 1993, 6 e n. 95/C 312/07, in Gazzetta
ufficiale delle comunità europee, Comunicazioni ed informazioni., C 312 del
23 novembre 1995, 8.
[19] in Attività della Corte
di giustizia e del Tribunale di primo grado delle Comunità europee, n.
34/96.
[20] Raccolta della
giurisprudenza della Corte di giustizia e del Tribunale di primo grado,
1990, I-3763.
[21] Raccolta della
giurisprudenza della Corte di giustizia e del Tribunale di primo grado,
1990, I-4003.
[22] Raccolta della giurisprudenza
della Corte di giustizia e del Tribunale di primo grado, 1992, I-5651.
[23] Raccolta della
giurisprudenza della Corte di giustizia e del Tribunale di primo grado,
1997, I-4161.
[24]Raccolta della giurisprudenza
della Corte di giustizia e del Tribunale di primo grado, 1997, I-4291.
[25]Raccolta della
giurisprudenza della Corte di giustizia e del Tribunale di primo grado, 1997, I-4961.
[26] Raccolta della
giurisprudenza della Corte di giustizia e del Tribunale di primo grado,
1990, I-2433.
[27]Raccolta della
giurisprudenza della Corte di giustizia e del Tribunale di primo grado, 1991, I-415.
[28] Raccolta della
giurisprudenza della Corte di giustizia e del Tribunale di primo grado,
1995, I-3761.