ds_gen N. 3 – Maggio 2004 – Memorie

 

 

Mario Ascheri

Università di Siena

 

 

 

Questioni storiografiche relative ai Comuni basso-medievali

 

 

 

 

 

 

 

1. Sono stato molto lieto di questo invito, non solo perché mi consente di rinnovare i contatti con vecchi amici, ma perché mi permette anche di presentare alcuni problemi, entro un pubblico sensibile ma per così dire non afflitto dai preconcetti che certi specialismi finiscono per creare.

E allora dirò subito che paradossalmente la mia relazione tutto sommato cerca di dare una motivazione dell’errore di stampa (se pur di errore si tratta, ma il risultato non cambia!) presente nel titolo della mia relazione quale compare dal programma, laddove ‘comune’ è stato scritto – volutamente o meno – in minuscolo, allineandosi così peraltro, allo stile di molti dotti e meno dotti medievisti – che talora sono anche quelli stessi che poi usano regolarmente il maiuscolo per singoli uffici dello stesso Comune.

In realtà, la minuscola ha la sua ratio se si pensa che nella nostra cultura storiografica c’è una larga avversione . e non solo sessantottina – già per tutto quello che attiene allo Stato (anch’esso spesso minuscolo), spesso implicitamente ritenuto  la roccaforte di quei cattivi che usano il potere contro la società dei buoni, della povera gente etc.; ebbene, si tratta di un’avversione più o meno cosciente che talora tra noi viene ancora amplificata quando c’è da parlare dei Comuni basso-medievali, specie se di quelli dominanti, sfruttatori sistematici del territorio e dei suoi contadini. Per un verso o  per un altro i nostri Comuni basso-medievali sono stati negli ultimi decenni oggetto di attacchi plurimi e variegati ma concentrici a livello storiografico, col risultato che a mio avviso ne è stata falsata anche fortemente la rappresentazione storica. Non pretendo di fare qui un inventario completo di quel che si è potuto leggere, ma vorrei almeno ricordare gli aspetti più rilevanti per il nostro discorso attuale.

– Questione dello spessore sociale del Comune. E’ noto che su questo piano l’attacco più insidioso si deve a Philip Jones, che si è giovato della diffusissima Storia d’Italia Einaudi per motivare brillantemente e dottamente l’idea che la consistenza ‘borghese’ dei Comuni fosse semplicemente un mito, e che viceversa si trattasse piuttosto di società con larghissime persistenze e caratteristiche nobiliari – che non a caso, d’altro canto, sono state anche il cavallo di battaglia d’uno storico tedesco che ha ripreso il tema delle origini comunali con riferimento specifico alle grandi vicende lombarde, ossia Hagen Keller.

– Questione della consistenza istituzionale. Partendo dalle rappresentazioni dello Stato tipiche della dottrina giuspubblicistica ottocentesca, su cui si basa la dogmatica pubblicistica attuale – in sostanza dello Stato-persona nazionale, detentore d’un assoluto potere legislativo e quindi presentato come autosufficiente e autoreferenziale – si è finito per negare l’esistenza dello Stato nel Medioevo e pertanto a fortiori anche la configurabilità dei Comuni basso-medievali come città-Stato. Supervalutando l'ideologia e taluni dati culturali rispetto alla realtà materiale, si è sopravvalutato in vario modo e in varie sedi l'ideologia universalistica medievale, di Papato e Impero, trascurandosi – proprio in forza del dogma tardo-ottocentesco – che le loro aspirazioni più o meno legittime e storicamente fondate potevano benissimo coesistere con concrete realtà statuali locali non sempre o comunque non del tutto contraddittorie con quelle. Oppure, sempre per proseguire su questo livello, si è preferito mettere tra parentesi quello che la cultura delle città ha prodotto sul piano istituzionale. Per cui ad esempio si sono lette le pagine di Jacques Le Goff sull'immaginario politico[1], in cui un po' paradossalmente, dato che egli stesso ricorda che erano piuttosto le città ad essere sentite come sedi del potere, il noto storico francese finisce tuttavia per concentrarsi sull'esame del solo potere monarchico, di re e di papi, non a caso ricordati – almeno i primi – costantemente nelle profezie millenaristiche come coloro che salveranno l’umanità in vista del giudizio finale.

– Questione del rilievo per così dire cronologico. Si è detto in sostanza che queste realtà cittadine sono state sì per qualche tempo tanto forti da mettere in crisi imperatori e signori di ogni genere, ma che si è trattato in definitiva di un exploit dei tutto effimero. Il Comune basso-medievale come- cercò dí darsi una più robusta consistenza interna, una più robusta strutturazione, aì anche in crisi e cambiò natura, passandosi assai presto, già nello stesso Duecento quanto all'area comunale più precoce. a 1^Orme di Signoria che costituirono la negazione della realtà politico-istituzionale del tipico Comune. Tutto sommato, il Comune non aveva ancora assunto una chiara fisionomia che già era superato da forme monocratiche- di governo che ne erano la negazione. Di qui la scolastica successione di Comune-Signoria- Principato, che ha il risultato negativo opavissimo di confinare il Comune e quindi il rilievo della storia dell’organizzazione urbana in un arco cronologico limitatissimo, chiudendolo al imbuto.

– Questione più specificamente politica. Il Comune viene dipinto come sede tipica del governo se non sempre di una aristocrazia fondiaria e del denaro, quanto meno dell'oligarchia - il termine che viene in modo ricorrente utilizzato per indicare anche in realtà diversissime che il ceto dirigente del Comune fu sempre retto da un vertice politico assai ristretto, al di là delle forme assembleari talora apparentemente trionfanti, al punto che – in particolare da parte di Sergio Bertelli – si sono coniate vere e proprie regole che dovrebbero guidare, come seguendo un manuale, nella decrittazione del caos apparentemente vivace e 'democratico' del Comune.

Conclusione? L'idea tradizionale, tante volte sostenuta in passato, di una diversità sostanziale, qualitativa, delle realtà urbane tardomedievali italiane rispetto alle altre europee, sarebbe stata ingenua, espressione di un mito per definizione senza base reale, e andrebbe ora sostituita con la convinzione di una fondamentale analogia tra i processi di costruzione statuale sviluppatisi nelle varie realtà europee, almeno per quanto riguarda la fine del Medioevo: questo mi sembra il presupposto da cui si è mosso ad esempio uno specialista indiscusso a livello europeo come Wirn Blockmans, nel chiudere un recente convegno dedicato ai Principi e città alla fine del Medioevo[2].

Ma è proprio vero che i Comuni italiani non segnarono un fatto peculiare della stona europea e che almeno intorno al 1500 sarebbe venuta meno la specificità italiana?

 

2. Si sarà capito che le tesi sopra esposte, ancorché ampiamente diffuse e ben motivate, non mi trovano tra i loro sostenitori, per cui sono ora in obbligo di ricordare (rinviando per le motivazioni specifiche) almeno alcuni dei profili che possono suscitare delle perplessità circa quelle tesi e di converso riportare a sostenere l'eccezionalità dell'esperienza comunale italiana basso-medievale limitatamente – beninteso – a taluni aspetti.

Il primo e più facile punto da sostenere riguarda la realtà statuale di taluni Comuni e in talune fasi storiche, ovviamente precisato a mo' di premessa che sotto lo stesso nomen 'Comune' esistono realtà diversissime dal punto di vista politico-istituzionale, per cui continua a chiamarsi Comune l'ente già indipendente e poi sottomesso, così come si chiama Comune anche quello che ha conquistato non solo il proprio comitato storico, storico, ma anche altro Comuni già liberi, a loro volta già titolari di un contado. Dove non c'è un termine antico bisogna usare senza scrupoli termini moderni per capirci. per cui così come ci si sente autorizzati a parlare di “autonomia” medievale ancorché inesistente nelle fonti del tempo non vedo perché non sì possa parlare dì 'Stato' con riferimento ai Comuni che erano signori dei territorio, della pace e della guerra, della giustizia e dei tributi, anche se il termine Stato nel senso attuale, come designazione della persona giuridica pubblica, comincia a far capolino nel corso del Due-Trecento solo eccezionalmente[3]  – perché è ben noto che 'status' nelle fonti del tempo è piuttosto usato nel senso di 'condizione', come quando si parla di 'pacifico stato' etc. Si parli comunque senza riserve di 'Stato' e di città- Stato, come non ha incertezze a fare la meno dottrinale e più realistica storiografia anglo-americana, a partire dal classico volumetto dello Waley. Sembra questione puramente lessicale, e invece è un fatto che nasconde questioni assai più corpose.

La più evidente è che bisogna abituarsi a considerare il Comune come persona giuridica ben prima che si formi la parola “Stato” e la dottrina della persona giuridica. Il Comune opera ed è titolare di diritti pubblici e privati ben prima che nel Duecento si teorizzi la persona fícta. E' un po' quanto avviene anche per altre nozioni fondamentali del diritto pubblico – penso ad esempio a 'ufficium' –, che sono rimaste nel lessico politico-.giuridico-istituzionale attraverso i secoli e che vengono soltanto più tardi illustrate in tutte le loro implicazioni possibili.

Ma c'è un'altra conseguenza negativa di quell'impostazione che si deve chiarire, ossia l’idea sotto sotto spesso presente del progresso unilineare nella costruzione dello Stato. Il Comune in armi del 1100 sarebbe una associazione giurata, che poi nel 1200, ad esempio, rafforza il suo potere fiscale, che nel 1300 supera la natura corporativa grazie ai Signore e comincia a farsi 'territoriale' (ma com'era prima?), che nel 1400 comincia a ritenersi sovrano e a farsi `regionale` etc. etc. Se invece noi riconosciamo una formazione statale comunale sia pure elementare già nel 1100, o comunque al tempo dell'eversiva sollevazione anti-imperiale, siamo non solo in grado di seguire, meglio nelle sue scansioni il diverso atteggiarsi della statualità comunale nel tempo – più che i vari momenti di accelerazione o di sosta o di regresso rispetto ad una statualità 'ontologica' ritenuta 'moderna' (che tra l'altro oggi è sempre più difficilmente definibile) –, ma anche il diverso configurarsi del rapporto con l'Impero e con la Chiesa, queste realtà ‘internazionali’, superstatuali, che vengono viste più concretamente e realisticamente nei loro variamente atteggiati tentativi di mettersi a capo – o al centro – di 'confederazioni' o 'federazioni'; altri termini estranei al lessico dell’epoca per questo contesto, eppure molto espressivi per noi oggi di quelle realtà complesse a tutti gli effetti. Che poi il rapporto dei Comuni/città-Stato con 1’Impero e con la Chiesa potesse assestarsi in certe situazioni e per un certo tempo, o che potesse dar vita a privilegi generali o specifici – tipo vicariato – che erano riconoscimenti più o meno espressi d'una loro pretesa superiorità non può essere argomento contro quella statualità, perché questa si riconosce non già in base a fatti formali - come l'esistenza o meno dì un riconoscimento di una qualche superiorità esterna, che può essere un fatto di pura opportunità politica -, ma in base al principio dell'efffettività del governo. Forse che 1’Inghilterra cessò di essere uno Stato quando e perché il re prestò giuramento di fedeltà al papa? E poi, la realtà attuale non ci ha insegnato che possono coesistere forme di sovranità limitate e concorrenti sullo stesso territorio?

Del resto, i limiti che ha incontrato – se e quando li ha incontrati – la legislazione comunale - l'unico effettivo fu in sostanza quello segnato dai principi che venivano ricondotti sotto la categoria della libertas Ecclesiae, perché il Papato ne fu in genere un custode 'effettivo' (appunto) - non discesero certo né dall’Impero né dal diritto comune! I Comuni ci hanno offerto la prima, più variegata e pervasiva legislazione nella storia europea, capace di penetrare con statuti e provvisioni nei più diversi momenti della vita sociale, con una capacità di invadere sistematicamente campi – come quello fiscale – che in altre realtà politiche si poterono raggiungere solo secoli dopo e che invece da noi introdusse una cultura statalistica e dirigistica che è rimasta una costante per lo più negletta della nostra storia.

 

3. Questo tema introduce a un'altra questione che non è stata esplicitata sopra, ma che è molto rilevante in questa sede, attenta alle strutture degli ordinamenti. E' il problema del costituzionalismo medievale e in particolare comunale. Anche qui la tendenza è a staccare nettamente l'esperienza medievale da quella moderna e contemporanea in particolare. La costituzione scritta – e non parliamo poi di quella garantita da una Corte costituzionale –  farebbe fare, come si dice da parte di molti, un salto qualitativo all'ordinamento. Segnerebbe una netta cesura con le esperienze del passato.

Senza entrare nel merito specifico di queste forme di ideologia, basterà per quanto ci riguarda qui segnalare che così come negli ordinamenti principeschi (o almeno in taluni di loro, con i c.d. 'patti/contratti di signoria') furono precoci i momenti di normativa 'costituzionale', ossia attinente alle articolazioni fondamentali del potere pubblico e ai rapporti interni tra i poteri nonché ai loro rapporti con i sudditi, anche nell'esperienza comunale è riconoscibile un'esperienza costituzionale vivacissima, anche se più negletta vuoi per la sua complessità ed estrema variabilità, -vuoi per la sua differenziazione e frammentazione locale, vuoi ancora perché i Comuni sono stati degli sconfitti storicamente per cui non godono di grande rispetto storiografico. Andrà perciò ricordato che i patti costituenti e costituzionali sono addirittura spesso in senso formale all'origine dei Comune, e che comunque furono proprio gli strati di norme statutarie più resistenti, gli “statuta precisa” – sottratti alla normale legislazione o addirittura alla revisione tout court – a essere del tutto normali nella vicenda normativa dei nostri Comuni. Ma c'è di più perché i Comuni hanno anche operato costantemente nell'ideologia del principio di legalità, che ha condotto già allora a quell' ipertrofia normativa che è rimasta caratteristica, com'è noto, della nostra esperienza pubblicistica. La stessa idea dei 'governo politico', quello caratterizzato appunto dall'esercizio di pratiche di governo nel rispetto delle regole dei diritto, si deve essenzialmente ai nostri teorici, che a partire dal Duecento sollecitati dalle prassi correnti furono indotti a fondere diverse tradizioni culturali – in particolare ciceroniane e aristoteliche – che valorizzavano le realtà repubblicane del tempo. Del resto, l'idea assai diffusa che lo statuto fosse un patto specifico locale su cui si reggeva l’universitas comunale, da un lato favoriva l'ideologia della legalità e dall'altro spiega perché esso compendiasse per così dire la 'libertà' e costituzione del Comune stesso. Non a caso, i nuovi 'regimi' non appena insediati rivedevano gli statuti già vigenti e la città divenuta dominante in un territorio, com'è ampiamente noto, assumeva tra i primi compiti specifici quello di adeguare ai propri ordinamenti gli statuti delle comunità assoggettate. Ma le sezioni pubblicistiche degli statuti meritano a pieno titolo di entrare nelle storie costituzionali, anche se è difficile studiarle per la loro dispersione, mutevolezza e molteplicità. Certo è facile parlare dì esperienze costituzionali e parlamentari negli ordinamenti monarchici (e in particolare per l'Inghilterra, che può giustamente vantare le proprie radici medievali e una larga continuità costituzionale rispetto ad esse), ma non a prezzo di dimenticare i parlamenti e i consigli come fondamento della legittimità e della vita comunale, e di obliterare le loro pratiche assembleari con il precoce trionfo del principio maggioritario, dei pesi e contrappesi tra organi costituzionali, dell'autonomia della magistratura, dei controlli di legalità, delle leggi elettorali, del ricambio negli uffici, delle incompatibilità e cosi via.

 

4. Quest'idea di universitas favorisce non solo la configurazione dell'ente con una sua propria fisionomia distinta dai singoli membri - e quindi l'idea della persona giuridica, già pienamente operante peraltro da tempo e ora anche raffigurata in affreschi ufficiali ad esempio -, ma anche l'idea dalla partecipazione paritaria e orizzontale alla sua gestione. Quello che si dimentica facilmente e che l'abuso continuo della categoria di oligarchia favorisce, è la messa tra parentesi del fatto più significativo affermato dall'esperienza comunale. Ossia l'idea della fondazione dal basso, popolare, del potere e quindi l'idea di un bonum commune superiore a quello dei singoli che deve essere curato dalla stessa universitas attraverso i propri rappresentanti. A fronte di un'Europa per lo più ormai strutturantesi in un modo feudale, gerarchico, verticale, funzionale ai governi monocratici di papi e imperatori, re e principi, le realtà urbane italiane rompendo quegli schemi fanno scandalo e contro ogni pratica e teoria della società tripartita indicano la possibilità concreta dell'alternativa repubblicana di cui parlavano le fonti romane – giuridiche e non –, che comportava che ceti non chiamati tradizionalmente al governo della cosa pubblica potessero dimostrarsi anche più efficienti e capaci degli altri. Se non si sottolinea con forza questo fatto, non si può apprezzare il rilievo dell'evento comunale nella storia del repubblicanesimo mondiale. Questo è invece un altro elemento dì continuità culturale e politico- istituzionale di straordinaria importanza, che ogni raffigurazione riduttiva dell'esperienza comunale ovviamente finisce per obliterare. Siamo arrivati al punto che questo profilo ha dovuto essere recuperato da un brillante studioso neozelandese, che appunto ha valorizzato Machiavelli come momento teorico terminale d'una grande esperienza repubblicana poi trasferita in Paesi più vivaci (tra l'altro) sul piano politico-istituzionale. Inutile dire del rilievo delle esperienze repubblicane inglesi, americane e francesi, perché preferisco sottolineare piuttosto come la nostra cultura abbia sempre sostanzialmente ignorato - più ancora che trascurato -, e direi anche colpevolmente ignorato probabilmente per rispondere piuttosto alle richieste ‘nazionali' (e per tanto tempo monarchiche) della Politica, le fondamentali vicende repubblicane svizzere e nederlandesi, ritenute una trascurabile alternativa rispetto alle grandi esperienze monarchiche nazionali prese a modello, a partire da quella francese.

La degenerazione aristocratica del potere a livello locale di età moderna, soprattutto, con la sua denunciata (ad esempio da un Montesquieu) sclerosi settecentesca, ha contribuito ad annebbiare il rilievo eccezionale di un'esperienza che è tanto più difficilmente conoscibile oggi in quanto è stata compressa e alterata in ogni modo rispetto ai suoi termini originari. Uno dei modi ormai tradizionali ad esempio è quello di ricordare ossessivamente che l’ egualitarismo interno corrispondeva alla sistematica oppressione dei territorio fuori delle mura. Sì vuole con ciò sottolineare come l'esperienza comunale si consumasse sostanzialmente entro un'isola privilegiata, fondata e prosperante sull'esclusione degli esterni ad essa. Verissimo. Ma questa contraddizione non è anche propria degli ordinamenti più o meno democratici attuali che non perdono perciò il loro significato, legittimazione   e dignità? L'egualitarismo e il progressismo occidentale non si fondano da sempre anche sull'esclusione e non si difendono più o meno crudamente e programmaticamente nei confronti degli esclusi? Lo specialismo medievistico produce analisi raffinatissime, esaurienti e di un realismo vivissimo nel suo approccio al passato, ma nelle valutazioni, inevitabili e per lo più implicite, non finisce talora condizionato dagli schemi di un modello di organizzazione politico-sociale puramente ideale, del tutto astratto, frutto d'un razionalismo illuministico che non ha possibili riscontri neppure oggi, pur con tutte le possibilità tecniche ed economiche incomparabilmente piú ricche di quelle delle società antiche?

 

5. L'altro punto che merita una revisione prioritaria, collegato ai precedenti per il suo rilievo nella storia del repubblicanesimo mondiale, è quello della durata dell'esperienza comunale. E' stato un fatto decisivo nella storia culturale, pur se l'alternativa verticale e monarchica ebbe tanti più cantori. Ciò è stato possibile perché i Comuni, realtà di lunga durata, non furono affatto soppressi dalle esperienze signorili due-trecentesche. E ciò non già nel senso soltanto della sopravvivenza delle organizzazioni a livello cittadino per la cura dei problemi locali, che ovviamente continuarono; ma nel senso ben più incisivo della loro sopravvivenza come centri di potere e di coordinazione del territorio con una ben definita identità. Se c'è un dato che la ricerca medievistica più recente ha messo in luce molto adeguatamente, è proprio la sopravvivenza nel tempo del modello di soluzione dato dai Comuni al problema del rapporto città-contado. Si possono certo definire varie aree, delle varianti regionali o anche infraregionali - come è stato fatto egregiamente da Paolo Cammarosano e da Gian Maria Maranini in varie sedi e come è emerso ancora recentemente durante un convegno spagnolo cui hanno partecipato per l' Italia Chittolini e la Ginatempo -, ma è ormai chiaro che c'è una fondamentale continuità su questo punto tra periodo comunale in senso stretto e periodo signorile-principesco. La città continua a rimanere il fulcro della storia italiana e i governi per così dire centrali, anche signorili-principeschi sono forti per lo più nella misura in cui accettano il primato cittadino, lo interpretano e lo esaltano,

La città, quindi, come era stato ben chiaro a Cattaneo nel secolo scorso, deve di nuovo essere rivista come principio della storia italiana - e del resto anche importanti ricerche recenti sulla Sicilia, da Epstein a Corrao, lo hanno dimostrato chiaramente anche per un'area lontana da quella che abbiamo considerato. E ciò, sia chiaro, ad evitare facili entusiasmi, vale come ho avuto occasione di ricordare recentemente nel bene e nel male, nel senso che quell'esperienza ha potuto affermare e difendere valori repubblicani ed egualitari poi divenuti patrimonio o aspirazione mondiale, ma sia chiaro senza - al tempo stesso - rinnegare il privilegio, la chiusura localistica e l’esclusione del territorio, con i risultati che si sono visti tra Quattro e Cinquecento e nei secoli successivi, e che tutto sommato abbiamo ancora oggi sotto gli occhi per quanto attiene alla questione 'nazionale' e all'incapacità diffusa – al di là dei colore politico, proprio perché affonda nella nostra storia più remota – di andare al di là delle pretese settoriali, di corpi e di categorie, alla realizzazione di quel ‘bonum commune' di cui pure siamo stati i primi teorici in Occidente!

 

 

 



 

[1] L'immaginario medievale, in Lo spazio letterario del Medioevo, I: Il Medioevo latino, IV: L’attualizzazione del testo, Salerno, Roma, 1997, pp. 11-42 (a 37 s.),

 

[2] Gli atti, a cura di S. Gensini, sono stati editi dal Centro di studi sulla civiltà del tardo Medioevo di San Miniato, Pisa 1996 (Pubbl. degli Archivi, di Stato, Saggi 41).

 

[3] Ho già indicato fonti senesi, ma ci sono anche fonti dottrinali importanti sulle quali spero di intrattenermi presto.