Università di Siena
1. Sono stato molto lieto di questo invito, non solo perché mi consente di rinnovare i contatti con vecchi amici, ma perché mi permette anche di presentare alcuni problemi, entro un pubblico sensibile ma per così dire non afflitto dai preconcetti che certi specialismi finiscono per creare.
E allora dirò subito che paradossalmente la mia relazione tutto sommato cerca di dare una motivazione dell’errore di stampa (se pur di errore si tratta, ma il risultato non cambia!) presente nel titolo della mia relazione quale compare dal programma, laddove ‘comune’ è stato scritto – volutamente o meno – in minuscolo, allineandosi così peraltro, allo stile di molti dotti e meno dotti medievisti – che talora sono anche quelli stessi che poi usano regolarmente il maiuscolo per singoli uffici dello stesso Comune.
In realtà, la minuscola ha
la sua ratio se si pensa che nella nostra cultura storiografica c’è una larga
avversione . e non solo sessantottina – già per tutto quello che attiene allo
Stato (anch’esso spesso minuscolo), spesso implicitamente ritenuto la roccaforte di quei cattivi che usano il
potere contro la società dei buoni, della povera gente etc.; ebbene, si tratta
di un’avversione più o meno cosciente che talora tra noi viene ancora
amplificata quando c’è da parlare dei Comuni basso-medievali, specie se di
quelli dominanti, sfruttatori sistematici del territorio e dei suoi contadini.
Per un verso o per un altro i nostri
Comuni basso-medievali sono stati negli ultimi decenni oggetto di attacchi
plurimi e variegati ma concentrici a livello storiografico, col risultato che a
mio avviso ne è stata falsata anche fortemente la rappresentazione storica. Non
pretendo di fare qui un inventario completo di quel che si è potuto leggere, ma
vorrei almeno ricordare gli aspetti più rilevanti per il nostro discorso
attuale.
– Questione dello spessore
sociale del Comune. E’ noto che su questo piano l’attacco più insidioso si deve
a Philip Jones, che si è giovato della diffusissima Storia d’Italia Einaudi per motivare brillantemente e dottamente
l’idea che la consistenza ‘borghese’ dei Comuni fosse semplicemente un mito, e
che viceversa si trattasse piuttosto di società con larghissime persistenze e
caratteristiche nobiliari – che non a caso, d’altro canto, sono state anche il
cavallo di battaglia d’uno storico tedesco che ha ripreso il tema delle origini
comunali con riferimento specifico alle grandi vicende lombarde, ossia Hagen
Keller.
– Questione della
consistenza istituzionale. Partendo dalle rappresentazioni dello Stato tipiche
della dottrina giuspubblicistica ottocentesca, su cui si basa la dogmatica
pubblicistica attuale – in sostanza dello Stato-persona nazionale, detentore
d’un assoluto potere legislativo e quindi presentato come autosufficiente e
autoreferenziale – si è finito per negare l’esistenza dello Stato nel Medioevo
e pertanto a fortiori anche la
configurabilità dei Comuni basso-medievali come città-Stato. Supervalutando
l'ideologia e taluni dati culturali rispetto alla realtà materiale, si è
sopravvalutato in vario modo e in varie sedi l'ideologia universalistica
medievale, di Papato e Impero, trascurandosi – proprio in forza del dogma
tardo-ottocentesco – che le loro aspirazioni più o meno legittime e
storicamente fondate potevano benissimo coesistere con concrete realtà statuali
locali non sempre o comunque non del tutto contraddittorie con quelle. Oppure,
sempre per proseguire su questo livello, si è preferito mettere tra parentesi
quello che la cultura delle città ha prodotto sul piano istituzionale. Per cui
ad esempio si sono lette le pagine di Jacques Le Goff sull'immaginario politico[1],
in cui un po' paradossalmente, dato che egli stesso ricorda che erano piuttosto
le città ad essere sentite come sedi del potere, il noto storico francese
finisce tuttavia per concentrarsi sull'esame del solo potere monarchico, di re
e di papi, non a caso ricordati – almeno i primi – costantemente nelle profezie
millenaristiche come coloro che salveranno l’umanità in vista del giudizio
finale.
– Questione del rilievo per
così dire cronologico. Si è detto in sostanza che queste realtà cittadine sono
state sì per qualche tempo tanto forti da mettere in crisi imperatori e signori
di ogni genere, ma che si è trattato in definitiva di un exploit dei tutto effimero. Il Comune basso-medievale come- cercò
dí darsi una più robusta consistenza interna, una più robusta strutturazione,
aì anche in crisi e cambiò natura, passandosi assai presto, già nello stesso
Duecento quanto all'area comunale più precoce. a 1^Orme di Signoria che
costituirono la negazione della realtà politico-istituzionale del tipico
Comune. Tutto sommato, il Comune non aveva ancora assunto una chiara fisionomia
che già era superato da forme monocratiche- di governo che ne erano la
negazione. Di qui la scolastica successione di Comune-Signoria- Principato, che
ha il risultato negativo opavissimo di confinare il Comune e quindi il rilievo
della storia dell’organizzazione urbana in un arco cronologico limitatissimo,
chiudendolo al imbuto.
– Questione più
specificamente politica. Il Comune viene dipinto come sede tipica del governo
se non sempre di una aristocrazia fondiaria e del denaro, quanto meno
dell'oligarchia - il termine che viene in modo ricorrente utilizzato per
indicare anche in realtà diversissime che il ceto dirigente del Comune fu
sempre retto da un vertice politico assai ristretto, al di là delle forme
assembleari talora apparentemente trionfanti, al punto che – in particolare da
parte di Sergio Bertelli – si sono coniate vere e proprie regole che dovrebbero
guidare, come seguendo un manuale, nella decrittazione del caos apparentemente
vivace e 'democratico' del Comune.
Conclusione? L'idea
tradizionale, tante volte sostenuta in passato, di una diversità sostanziale,
qualitativa, delle realtà urbane tardomedievali italiane rispetto alle altre
europee, sarebbe stata ingenua, espressione di un mito per definizione senza
base reale, e andrebbe ora sostituita con la convinzione di una fondamentale
analogia tra i processi di costruzione statuale sviluppatisi nelle varie realtà
europee, almeno per quanto riguarda la fine del Medioevo: questo mi sembra il
presupposto da cui si è mosso ad esempio uno specialista indiscusso a livello
europeo come Wirn Blockmans, nel chiudere un recente convegno dedicato ai
Principi e città alla fine del Medioevo[2].
Ma è proprio vero che i
Comuni italiani non segnarono un fatto peculiare della stona europea e che
almeno intorno al 1500 sarebbe venuta meno la specificità italiana?
2. Si sarà capito che le
tesi sopra esposte, ancorché ampiamente diffuse e ben motivate, non mi trovano
tra i loro sostenitori, per cui sono ora in obbligo di ricordare (rinviando per
le motivazioni specifiche) almeno alcuni dei profili che possono suscitare
delle perplessità circa quelle tesi e di converso riportare a sostenere
l'eccezionalità dell'esperienza comunale italiana basso-medievale limitatamente
– beninteso – a taluni aspetti.
Il primo e più facile punto da sostenere riguarda la
realtà statuale di taluni Comuni e in talune fasi storiche, ovviamente
precisato a mo' di premessa che sotto lo stesso nomen 'Comune' esistono realtà diversissime dal punto di vista
politico-istituzionale, per cui continua a chiamarsi Comune l'ente già
indipendente e poi sottomesso, così come si chiama Comune anche quello che ha
conquistato non solo il proprio comitato storico, storico, ma anche altro
Comuni già liberi, a loro volta già titolari di un contado. Dove non c'è un
termine antico bisogna usare senza scrupoli termini moderni per capirci. per
cui così come ci si sente autorizzati a parlare di “autonomia” medievale
ancorché inesistente nelle fonti del tempo non vedo perché non sì possa parlare
dì 'Stato' con riferimento ai Comuni che erano signori dei territorio, della
pace e della guerra, della giustizia e dei tributi, anche se il termine Stato
nel senso attuale, come designazione della persona giuridica pubblica, comincia
a far capolino nel corso del Due-Trecento solo eccezionalmente[3] – perché è ben noto che 'status' nelle fonti del tempo è piuttosto usato nel senso di
'condizione', come quando si parla di 'pacifico stato' etc. Si parli comunque
senza riserve di 'Stato' e di città- Stato, come non ha incertezze a fare la
meno dottrinale e più realistica storiografia anglo-americana, a partire dal
classico volumetto dello Waley. Sembra questione puramente lessicale, e invece
è un fatto che nasconde questioni assai più corpose.
La più evidente è che
bisogna abituarsi a considerare il Comune come persona giuridica ben prima che
si formi la parola “Stato” e la dottrina della persona giuridica. Il Comune
opera ed è titolare di diritti pubblici e privati ben prima che nel Duecento si
teorizzi la persona fícta. E' un po'
quanto avviene anche per altre nozioni fondamentali del diritto pubblico –
penso ad esempio a 'ufficium' –, che
sono rimaste nel lessico politico-.giuridico-istituzionale attraverso i secoli
e che vengono soltanto più tardi illustrate in tutte le loro implicazioni possibili.
Ma c'è un'altra conseguenza
negativa di quell'impostazione che si deve chiarire, ossia l’idea sotto sotto
spesso presente del progresso unilineare nella costruzione dello Stato. Il
Comune in armi del 1100 sarebbe una associazione giurata, che poi nel 1200, ad
esempio, rafforza il suo potere fiscale, che nel 1300 supera la natura
corporativa grazie ai Signore e comincia a farsi 'territoriale' (ma com'era
prima?), che nel 1400 comincia a ritenersi sovrano e a farsi `regionale` etc.
etc. Se invece noi riconosciamo una formazione statale comunale sia pure
elementare già nel 1100, o comunque al tempo dell'eversiva sollevazione
anti-imperiale, siamo non solo in grado di seguire, meglio nelle sue scansioni
il diverso atteggiarsi della statualità comunale nel tempo – più che i vari
momenti di accelerazione o di sosta o di regresso rispetto ad una statualità
'ontologica' ritenuta 'moderna' (che tra l'altro oggi è sempre più
difficilmente definibile) –, ma anche il diverso configurarsi del rapporto con
l'Impero e con la Chiesa, queste realtà ‘internazionali’, superstatuali, che
vengono viste più concretamente e realisticamente nei loro variamente
atteggiati tentativi di mettersi a capo – o al centro – di 'confederazioni' o
'federazioni'; altri termini estranei al lessico dell’epoca per questo
contesto, eppure molto espressivi per noi oggi di quelle realtà complesse a
tutti gli effetti. Che poi il rapporto dei Comuni/città-Stato con 1’Impero e
con la Chiesa potesse assestarsi in certe situazioni e per un certo tempo, o
che potesse dar vita a privilegi generali o specifici – tipo vicariato – che
erano riconoscimenti più o meno espressi d'una loro pretesa superiorità non può
essere argomento contro quella statualità, perché questa si riconosce non già
in base a fatti formali - come l'esistenza o meno dì un riconoscimento di una
qualche superiorità esterna, che può essere un fatto di pura opportunità
politica -, ma in base al principio dell'efffettività del governo. Forse che
1’Inghilterra cessò di essere uno Stato quando e perché il re prestò giuramento
di fedeltà al papa? E poi, la realtà attuale non ci ha insegnato che possono
coesistere forme di sovranità limitate e concorrenti sullo stesso territorio?
Del resto, i limiti che ha
incontrato – se e quando li ha incontrati – la legislazione comunale - l'unico
effettivo fu in sostanza quello segnato dai principi che venivano ricondotti
sotto la categoria della libertas
Ecclesiae, perché il Papato ne fu in genere un custode 'effettivo'
(appunto) - non discesero certo né dall’Impero né dal diritto comune! I Comuni
ci hanno offerto la prima, più variegata e pervasiva legislazione nella storia
europea, capace di penetrare con statuti e provvisioni nei più diversi momenti
della vita sociale, con una capacità di invadere sistematicamente campi – come
quello fiscale – che in altre realtà politiche si poterono raggiungere solo
secoli dopo e che invece da noi introdusse una cultura statalistica e
dirigistica che è rimasta una costante per lo più negletta della nostra storia.
3. Questo tema introduce a
un'altra questione che non è stata esplicitata sopra, ma che è molto rilevante
in questa sede, attenta alle strutture degli ordinamenti. E' il problema del
costituzionalismo medievale e in particolare comunale. Anche qui la tendenza è
a staccare nettamente l'esperienza medievale da quella moderna e contemporanea
in particolare. La costituzione scritta – e non parliamo poi di quella
garantita da una Corte costituzionale –
farebbe fare, come si dice da parte di molti, un salto qualitativo
all'ordinamento. Segnerebbe una netta cesura con le esperienze del passato.
Senza entrare nel merito
specifico di queste forme di ideologia, basterà per quanto ci riguarda qui
segnalare che così come negli ordinamenti principeschi (o almeno in taluni di
loro, con i c.d. 'patti/contratti di signoria') furono precoci i momenti di
normativa 'costituzionale', ossia attinente alle articolazioni fondamentali del
potere pubblico e ai rapporti interni tra i poteri nonché ai loro rapporti con
i sudditi, anche nell'esperienza comunale è riconoscibile un'esperienza
costituzionale vivacissima, anche se più negletta vuoi per la sua complessità
ed estrema variabilità, -vuoi per la sua differenziazione e frammentazione
locale, vuoi ancora perché i Comuni sono stati degli sconfitti storicamente per
cui non godono di grande rispetto storiografico. Andrà perciò ricordato che i
patti costituenti e costituzionali sono addirittura spesso in senso formale
all'origine dei Comune, e che comunque furono proprio gli strati di norme
statutarie più resistenti, gli “statuta precisa” – sottratti alla normale
legislazione o addirittura alla revisione tout
court – a essere del tutto normali nella vicenda normativa dei nostri
Comuni. Ma c'è di più perché i Comuni hanno anche operato costantemente
nell'ideologia del principio di legalità,
che ha condotto già allora a quell' ipertrofia normativa che è rimasta
caratteristica, com'è noto, della nostra esperienza pubblicistica. La stessa
idea dei 'governo politico', quello caratterizzato appunto dall'esercizio di
pratiche di governo nel rispetto delle regole dei diritto, si deve
essenzialmente ai nostri teorici, che a partire dal Duecento sollecitati dalle
prassi correnti furono indotti a fondere diverse tradizioni culturali – in
particolare ciceroniane e aristoteliche – che valorizzavano le realtà
repubblicane del tempo. Del resto, l'idea assai diffusa che lo statuto fosse un patto specifico locale su cui si
reggeva l’universitas comunale, da un
lato favoriva l'ideologia della legalità e dall'altro spiega perché esso
compendiasse per così dire la 'libertà' e costituzione del Comune stesso. Non a
caso, i nuovi 'regimi' non appena insediati rivedevano gli statuti già vigenti
e la città divenuta dominante in un territorio, com'è ampiamente noto, assumeva
tra i primi compiti specifici quello di adeguare ai propri ordinamenti gli
statuti delle comunità assoggettate. Ma le sezioni pubblicistiche degli statuti
meritano a pieno titolo di entrare nelle storie costituzionali, anche se è
difficile studiarle per la loro dispersione, mutevolezza e molteplicità. Certo
è facile parlare dì esperienze costituzionali e parlamentari negli ordinamenti
monarchici (e in particolare per l'Inghilterra, che può giustamente vantare le
proprie radici medievali e una larga continuità costituzionale rispetto ad
esse), ma non a prezzo di dimenticare i parlamenti e i consigli come fondamento
della legittimità e della vita comunale, e di obliterare le loro pratiche
assembleari con il precoce trionfo del principio maggioritario, dei pesi e
contrappesi tra organi costituzionali, dell'autonomia della magistratura, dei
controlli di legalità, delle leggi elettorali, del ricambio negli uffici, delle
incompatibilità e cosi via.
4. Quest'idea di universitas favorisce non solo la
configurazione dell'ente con una sua propria fisionomia distinta dai singoli
membri - e quindi l'idea della persona giuridica, già pienamente operante peraltro da tempo e ora anche raffigurata
in affreschi ufficiali ad esempio -, ma anche l'idea dalla partecipazione
paritaria e orizzontale alla sua gestione. Quello che si dimentica facilmente e
che l'abuso continuo della categoria di oligarchia favorisce, è la messa tra
parentesi del fatto più significativo affermato dall'esperienza comunale. Ossia
l'idea della fondazione dal basso, popolare, del potere e quindi l'idea di un bonum commune superiore a quello dei
singoli che deve essere curato dalla stessa universitas
attraverso i propri rappresentanti. A fronte di un'Europa per lo più ormai
strutturantesi in un modo feudale, gerarchico, verticale, funzionale ai governi
monocratici di papi e imperatori, re e principi, le realtà urbane italiane
rompendo quegli schemi fanno scandalo e contro ogni pratica e teoria della
società tripartita indicano la possibilità concreta dell'alternativa
repubblicana di cui parlavano le fonti romane – giuridiche e non –, che
comportava che ceti non chiamati tradizionalmente al governo della cosa
pubblica potessero dimostrarsi anche più efficienti e capaci degli altri. Se
non si sottolinea con forza questo fatto, non si può apprezzare il rilievo
dell'evento comunale nella storia del repubblicanesimo mondiale. Questo è
invece un altro elemento dì continuità culturale e politico- istituzionale di
straordinaria importanza, che ogni raffigurazione riduttiva dell'esperienza
comunale ovviamente finisce per obliterare. Siamo arrivati al punto che questo
profilo ha dovuto essere recuperato da un brillante studioso neozelandese, che
appunto ha valorizzato Machiavelli come momento teorico terminale d'una grande
esperienza repubblicana poi trasferita in Paesi più vivaci (tra l'altro) sul
piano politico-istituzionale. Inutile dire del rilievo delle esperienze
repubblicane inglesi, americane e francesi, perché preferisco sottolineare
piuttosto come la nostra cultura abbia sempre sostanzialmente ignorato - più
ancora che trascurato -, e direi anche colpevolmente ignorato probabilmente per
rispondere piuttosto alle richieste ‘nazionali' (e per tanto tempo monarchiche)
della Politica, le fondamentali vicende repubblicane svizzere e nederlandesi,
ritenute una trascurabile alternativa rispetto alle grandi esperienze
monarchiche nazionali prese a modello, a partire da quella francese.
La degenerazione
aristocratica del potere a livello locale di età moderna, soprattutto, con la
sua denunciata (ad esempio da un Montesquieu)
sclerosi settecentesca, ha contribuito ad annebbiare il rilievo eccezionale di
un'esperienza che è tanto più difficilmente conoscibile oggi in quanto è stata
compressa e alterata in ogni modo rispetto ai suoi termini originari. Uno dei
modi ormai tradizionali ad esempio è quello di ricordare ossessivamente che l’
egualitarismo interno corrispondeva alla sistematica oppressione dei territorio
fuori delle mura. Sì vuole con ciò sottolineare come l'esperienza comunale si
consumasse sostanzialmente entro un'isola privilegiata, fondata e prosperante sull'esclusione degli esterni ad essa.
Verissimo. Ma questa contraddizione non è anche propria degli ordinamenti più o
meno democratici attuali che non perdono perciò il loro significato,
legittimazione e dignità?
L'egualitarismo e il progressismo occidentale non si fondano da sempre anche
sull'esclusione e non si difendono più o meno crudamente e programmaticamente nei
confronti degli esclusi? Lo specialismo medievistico produce analisi
raffinatissime, esaurienti e di un realismo vivissimo nel suo approccio al
passato, ma nelle valutazioni, inevitabili e per lo più implicite, non finisce
talora condizionato dagli schemi di un modello di organizzazione politico-sociale
puramente ideale, del tutto astratto, frutto d'un razionalismo illuministico
che non ha possibili riscontri neppure oggi, pur con tutte le possibilità
tecniche ed economiche incomparabilmente piú ricche di quelle delle società
antiche?
5. L'altro punto che merita
una revisione prioritaria, collegato ai precedenti per il suo rilievo nella
storia del repubblicanesimo mondiale, è quello della durata dell'esperienza
comunale. E' stato un fatto decisivo nella storia culturale, pur se
l'alternativa verticale e monarchica ebbe tanti più cantori. Ciò è stato
possibile perché i Comuni, realtà di lunga durata, non furono affatto soppressi
dalle esperienze signorili due-trecentesche. E ciò non già nel senso soltanto
della sopravvivenza delle organizzazioni a livello cittadino per la cura dei
problemi locali, che ovviamente continuarono; ma nel senso ben più incisivo
della loro sopravvivenza come centri di potere e di coordinazione del
territorio con una ben definita identità. Se c'è un dato che la ricerca medievistica
più recente ha messo in luce molto adeguatamente, è proprio la sopravvivenza
nel tempo del modello di soluzione dato dai Comuni al problema del rapporto
città-contado. Si possono certo definire varie aree, delle varianti regionali o
anche infraregionali - come è stato fatto egregiamente da Paolo Cammarosano e
da Gian Maria Maranini in varie sedi e come è emerso ancora recentemente
durante un convegno spagnolo cui hanno partecipato per l' Italia Chittolini e
la Ginatempo -, ma è ormai chiaro che c'è una fondamentale continuità su questo
punto tra periodo comunale in senso stretto e periodo signorile-principesco. La
città continua a rimanere il fulcro della storia italiana e i governi per così
dire centrali, anche signorili-principeschi sono forti per lo più nella misura
in cui accettano il primato cittadino, lo interpretano e lo esaltano,
La città, quindi, come era
stato ben chiaro a Cattaneo nel secolo scorso, deve di nuovo essere rivista
come principio della storia italiana - e del resto anche importanti ricerche
recenti sulla Sicilia, da Epstein a Corrao, lo hanno dimostrato chiaramente
anche per un'area lontana da quella che abbiamo considerato. E ciò, sia chiaro,
ad evitare facili entusiasmi, vale come ho avuto occasione di ricordare recentemente
nel bene e nel male, nel senso che quell'esperienza ha potuto affermare e
difendere valori repubblicani ed egualitari poi divenuti patrimonio o
aspirazione mondiale, ma sia chiaro senza - al tempo stesso - rinnegare il
privilegio, la chiusura localistica e l’esclusione del territorio, con i
risultati che si sono visti tra Quattro e Cinquecento e nei secoli successivi,
e che tutto sommato abbiamo ancora oggi sotto gli occhi per quanto attiene alla
questione 'nazionale' e all'incapacità diffusa – al di là dei colore politico,
proprio perché affonda nella nostra storia più remota – di andare al di là
delle pretese settoriali, di corpi e di categorie, alla realizzazione di quel ‘bonum commune' di cui pure siamo stati i
primi teorici in Occidente!
[1] L'immaginario medievale, in
Lo spazio letterario del Medioevo, I: Il Medioevo latino, IV: L’attualizzazione
del testo, Salerno, Roma, 1997, pp. 11-42 (a 37 s.),
[2] Gli atti, a cura di S. Gensini, sono stati editi dal Centro di studi
sulla civiltà del tardo Medioevo di San Miniato, Pisa 1996 (Pubbl. degli
Archivi, di Stato, Saggi 41).
[3] Ho già indicato fonti
senesi, ma ci sono anche fonti dottrinali importanti sulle quali spero di intrattenermi presto.