N. 3 – Maggio 2004 – Lavori in corso – Contributi

 

 

l'oggettività della buona fede nellA ESECUZIONE del contrattO

 

Giovanni maria Uda

Università di Sassari

 

 

 

Si pubblica il capitolo I della monografia di Giovanni Maria Uda: La buona fede nell’esecuzione del contratto, in corso di stampa nella collana "Studi di diritto privato" curata da F.D. Busnelli, V. Scalisi, S. Patti, P. Zatti, edita da G. Giappichelli Editore-Torino. Di seguito anche l’Indice-sommario del volume: Capitolo I: l'oggettività della buona fede nella esecuzione del contratto. – Capitolo II: Il processo di oggettivazione della buona fede. – Capitolo III: La buona fede come fonte di integrazione del contratto. – Capitolo IV: L'obbligo giuridico di buona fede. – Capitolo V: La violazione dell'obbligo di buona fede. – Capitolo VI: Il controllo giudiziale della clausola di buona fede

 

 

 

 

Sommario: 1. La figura generale di buona fede. – 2. Natura descrittiva della buona fede soggettiva: la fattispecie di buona fede. – 3. Caratteri identificativi della buona fede soggettiva. – 4. Buona fede soggettiva come fatto impeditivo: esclusione. – 5. Caratteri distintivi tra buona fede soggettiva e buona fede oggettiva. – 6. Etica come dato comune tra buona fede soggettiva e buona fede oggettiva: esclusione. – 7. Correttezza come dato unificante tra buona fede soggettiva e buona fede oggettiva: esclusione.

1. – La figura generale di buona fede

 

La locuzione «buona fede» è richiamata frequentemente nel codice civile con riferimento a differenti fenomeni giuridici[1].

Uno dei problemi principali, onde si possa procedere all'esame della buona fede nell'esecuzione del contratto (art. 1375 c.c.), consiste pertanto nel verificare se la «buona fede», così come indistintamente richiamata nel codice civile, costituisce una figura giuridica unica e generale, la quale comprenda in sé tutte le diverse ipotesi presenti nella normativa codicistica. In altri termini, si tratta di stabilire se, pur in presenza di evidenti differenze normative e disciplinari che emergono a seconda del fenomeno giuridico in cui la buona fede è chiamata ad operare, essa mantenga un carattere unico e sviluppi un unico modello funzionale, o, al contrario, se si debbano distinguere più figure giuridiche che vanno sotto il nome di «buona fede»[2].

Nell'esame della buona fede nell'esecuzione del contratto - che costituisce oggetto della presente indagine - l'accertamento della unicità o meno del concetto di buona fede, assume un rilievo primario. In caso positivo, infatti, la buona fede ex art. 1375 c.c., presentandosi quale species di un più ampio genus, dovrebbe ricadere nell'ambito della figura generale, rifacendosi ad essa sia sotto il profilo strutturale che funzionale.

In caso negativo, al contrario, la buona fede in executivis assumerebbe una propria autonomia giuridica, sia nell'enucleazione del concetto giuridico in sé che nell'individuazione delle sue capacità funzionali.

La questione sulla unicità concettuale della buona fede, pertanto, si pone in termini pregiudiziali rispetto all'esame delle singole ipotesi previste da specifiche norme di legge, giacché in relazione alla soluzione di tale problema si svilupperà differentemente l'esame delle singole figure previste nella normativa codicistica.

Una prima risposta al quesito è data pacificamente dalla dottrina e dalla giurisprudenza, le quali operano una fondamentale bipartizione nell'ambito della buona fede, distinguendo tra buona fede soggettiva e buona fede oggettiva[3].

Queste due categorie, secondo tale visione, non costituiscono due sottospecie di una medesima categoria giuridica, bensì due distinti concetti, aventi un differente ambito di applicazione e rispondenti a modelli operativi diversi.

Pur se indicate con un'unica espressione semantica, quindi, la buona fede soggettiva e la buona fede oggettiva si pongono e operano su diversi piani. Nell'ambito di questa bipartizione la buona fede nell'esecuzione contrattuale, prevista nell'art. 1375 c.c., si qualifica come buona fede oggettiva.

 

 

2. – Natura descrittiva della buona fede soggettiva: la fattispecie di buona fede

 

Come si è visto, si tende generalmente ad escludere l'unicità concettuale della buona fede come categoria ricomprendente tutte le ipotesi legislativamente previste[4]. Al contrario, è pacificamente accolta la bipartizione tra buona fede soggettiva e buona fede oggettiva. Questi due concetti, come si è detto, esprimono figure giuridiche ontologicamente differenti, aventi altresì una diversa funzionalità giuridica.

Dall'esame delle due figure emergono una molteplicità di elementi distintivi che si riducono, in sostanza, alla differente natura e al differente modus operandi delle stesse.

La buona fede soggettiva indica uno stato intellettivo del soggetto[5] identificato talvolta nell'ignoranza e talvolta nell'errore[6].

Con riguardo a quest'ultimo, la buona fede soggettiva si prospetta come un erroneo convincimento di comportarsi secondo il diritto[7], ovvero di non ledere le altrui posizioni giuridiche soggettive[8]. Lo stato intellettivo di ignoranza, invece, si concretizza nell'ignoranza, per l'appunto, di ledere l'altrui diritto soggettivo, o comunque l'altrui posizione giuridica tutelata[9].

La buona fede soggettiva è richiamata espressamente più volte nel codice civile[10]. Si devono però fare rientrare nel novero delle fattispecie ove rileva la buona fede soggettiva, anche le norme che fanno riferimento - pur senza utilizzare il sintagma « buona fede » - a stati di ignoranza, conoscenza e mala fede[11], facendo altresì dipendere da questi stati intellettivi dei precisi effetti giuridici[12].

Da quanto sopra esposto si può giungere a due conclusioni di fondo, una attinente alla figura della buona fede soggettiva in sé e per sé, cioè alla sua intrinsecità giuridica; una seconda che riguarda, invece, l'operatività della stessa.

Considerando il primo argomento, si può ritenere che la buona fede soggettiva intesa come categoria legislativa, abbia una intrinseca natura «descrittiva», nel senso che descrive nell'ambito della fattispecie legale uno stato intellettivo o, più precisamente, «gnoseologico» del soggetto, attinente alla sfera della conoscenza del singolo individuo. In altri termini, l'espressione «buona fede» esprime uno stato intellettivo che costituisce parte integrante di una fattispecie prevista e disciplinata dalla legge.

Da questa conclusione emerge l'operatività della buona fede soggettiva, si manifestano così le sue linee funzionali. Infatti, sulla scorta di quanto detto, qualora essa venisse intesa quale fenomeno giuridico isolato, avulsa dalla fattispecie determinata nell'ambito della quale è richiamata, sarebbe destinata a rimanere priva di efficacia, mentre proprio la sua natura descrittiva ne denuncia la funzione, che è quella di concorrere a determinare una fattispecie (normativamente prevista), ponendosi quale elemento costitutivo della medesima, e consentendo così la produzione di specifici effetti giuridici[13].

Non è la buona fede soggettiva in sé, quindi, a produrre degli effetti giuridici, bensì è la legge che, soddisfatti nel caso concreto gli estremi della fattispecie legale - e quindi anche la presenza di uno stato intellettivo corrispondente alla buona fede soggettiva - ne fa conseguire specifici effetti giuridici.

Si può quindi concludere, in prima approssimazione, che la buona fede soggettiva svolge la sua funzione nel concorso alla determinazione della fattispecie astratta, conferendo rilevanza, rispetto alla fattispecie concreta, allo stato intellettivo del soggetto. È la legge stessa a far discendere dall'intera fattispecie, e non solo dalla buona fede, degli effetti giuridici.

La buona fede soggettiva, in ultima analisi, descrive in termini astratti lo stato intellettivo, riconducendolo nel novero degli elementi costitutivi della fattispecie astratta. Con riguardo al caso concreto, pertanto, lo stato gnoseologico di ignoranza di lesione dell'altrui diritto, sostanziandosi nel concetto di buona fede legalmente previsto, consente la sussunzione dello stesso nella fattispecie astratta.

L'effetto giuridico conseguente, che viene talora indicato come effetto della buona fede, è un effetto legale.

La particolarità della buona fede soggettiva consiste nel fatto che essa svolge la sua funzione descrittiva di uno stato intellettivo, e costitutiva della fattispecie, nell'ottica di un modello antinomico, in quanto essa funge da elemento discriminante tra fattispecie per il resto identiche.

Infatti, dalla presenza o dalla mancanza della buona fede soggettiva la norma di legge individua due distinte fattispecie, produttrici di effetti giuridici differenti[14].

Tramite la buona fede soggettiva, quindi, lo stato di conoscenza, di ignoranza e di errore[15] assumono rilevanza giuridica nell'ambito di una norma di legge a fattispecie determinata. Tale fattispecie, però, varia a seconda di quale stato gnoseologico e intellettivo sussista, cioè se sussista o meno lo stato di buona fede[16].

In ultima analisi, si può ritenere che, esaminata sotto il profilo della fattispecie, la buona fede soggettiva non appare idonea di per sé ad identificarsi in una fattispecie, non è, cioè, idonea a soddisfare il requisito di completezza « normativa » di una fattispecie legale.

Al contrario, essa, da un lato è elemento costitutivo che concorre alla formazione di una fattispecie legale, e dall'altro lato, dato discriminante tra due distinte fattispecie di legge, identiche in ogni altro elemento costitutivo, e differenziatesi esclusivamente in ordine alla sussistenza o meno della buona fede[17].

Se alla buona fede soggettiva si può imputare una funzione « costitutiva » della fattispecie, diretta a concorrere alla costruzione della medesima, essa assume uno specifico rilievo anche sotto il profilo degli effetti. È infatti la buona fede che, costituendo il dato scriminante tra più fattispecie per il resto identiche, e con ciò distinguendole sotto il profilo strutturale, determina la produzione di specifici effetti.

La buona fede soggettiva, quindi, gioca un ruolo determinante oltre che sotto il profilo della fattispecie, anche sotto quello degli effetti. Anche in tal caso, però, essa non agisce isolatamente, ma sempre all'interno di un più vasto fenomeno giuridico e normativo che peraltro, come si è detto, contribuisce a creare.

Si può così affermare che la buona fede soggettiva, esaminata sia con riguardo alla fattispecie, sia con riguardo agli effetti, non si pone come figura giuridica strutturalmente e funzionalmente autonoma, operando, al contrario, nell'ambito di un fenomeno giuridico, anche normativamente individuato, nel quale essa assume una sua precisa connotazione astratta[18], dato che concorre alla determinazione della stessa fattispecie normativa e assume, all'interno di questa, una specifica funzione.

La buona fede soggettiva, quindi, agisce nell'ambito della fattispecie, così come in quello degli effetti. Con riguardo alla fattispecie, essa ne costituisce un elemento « strutturale »; con riguardo agli effetti, come già si è detto, caratterizza l'efficacia della stessa fattispecie[19] conformemente al diffuso intendimento del concetto di fattispecie quale « insieme di tutti gli elementi necessari e sufficienti al prodursi di un determinato effetto giuridico »[20].

Di conseguenza la fattispecie di buona fede e di mala fede possono essere qualificate come fattispecie complesse, cioè fattispecie che si determinano mediante il concorso di più fatti giuridici; lo stato intellettivo, relativo a un fenomeno socialmente ed economicamente rilevante, e che sempre relativamente a questo assume una connotazione non meramente interna al soggetto, è qualificabile come fatto giuridico che concorre alla determinazione della fattispecie complessa[21].

 

 

3. – Caratteri identificativi della buona fede soggettiva

 

Pur partendo dal presupposto della inidoneità della buona fede soggettiva a produrre effetti giuridici isolatamente e della necessità che essa operi nell'ambito di un più vasto fenomeno giuridico, si possono trarre, da quanto sopra esposto, i suoi caratteri identificativi.

La buona fede soggettiva assume una natura « descrittiva », essa svolge, in termini normativi, la funzione di conferire ad uno stato psicologico, inteso come evento fenomenico e storicamente individuabile[22], una rilevanza giuridica. La buona fede soggettiva, in altre parole, descrive uno stato psicologico nella sua esplicazione storico-oggettiva, nella prospettiva della produzione di specifici effetti giuridici, diretti a realizzare il disegno che il legislatore, conferendo rilevanza alla buona fede, si era proposto[23].

Essa pertanto postula un « giudizio descrittivo » avente ad oggetto, con riferimento al caso concreto, un fatto storico verificatosi.

La buona fede soggettiva richiede, nel procedimento logico che le consente di esplicare la propria efficacia giuridica, un momento « ricognitivo », cioè di esame del dato storico, al fine di ricondurlo, secondo il sistema della sussunzione, alla previsione generale, normativamente posta[24].

Su un piano strettamente dogmatico, la buona fede soggettiva si può considerare come una categoria che esprime descrittivamente uno stato intellettivo il quale è di per sé privo di un'autonoma rilevanza giuridica.

Sul piano applicativo, invece, la buona fede soggettiva, descrivendo una situazione storica, concorre alla determinazione della fattispecie astratta produttiva di specifici effetti giuridici. La particolarità di questa previsione normativa, d'altro canto, sta proprio nella presenza della buona fede. Questa agisce come dato scriminante tra due fattispecie - talvolta previste nella stessa norma di legge[25] - che, per il resto identiche strutturalmente, si differenziano per la presenza o meno della buona fede soggettiva.

La differenza tra queste due fattispecie va oltre il dato strettamente strutturale, interessando anche la sfera degli effetti. È la buona fede, infatti, che, distinguendo le fattispecie in virtù della sua presenza o della sua assenza, conduce tali fattispecie alla produzione di effetti giuridici tra loro diversi e antitetici.

Non è quindi la buona fede soggettiva in sé considerata - giova precisare - a produrre gli effetti giuridici, bensì la più ampia fattispecie della quale la buona fede è solo uno degli elementi costitutivi.

Alla differenza strutturale tra la fattispecie di buona fede e quella di mala fede (che così denominiamo almeno per comodità espositiva), si accompagna quindi una dicotomia «effettuale», ossia una contrapposizione delle conseguenze giuridiche discendenti dalle diverse fattispecie.

Da una prima scorsa al rapporto dicotomico tra le fattispecie di buona fede e di mala fede si può ritenere che, sotto il profilo dell’efficacia, la fattispecie di buona fede sia produttiva talvolta di effetti costitutivi (contrariamente alla fattispecie di mala fede, che sarebbe priva di una siffatta efficacia), e talaltra di effetti impeditivi (giacché «impedirebbe» la produzione degli effetti propri della fattispecie di mala fede).

Ora, se ci sembra esatto affermare che la fattispecie di buona fede possa produrre effetti costitutivi, non altrettanto può dirsi con riguardo agli effetti impeditivi; questi ultimi sono da intendersi in senso atecnico, posto che - come meglio vedremo entro breve[26] - la fattispecie di buona fede non è qualificabile come fatto impeditivo.

Si tratta a questo punto di stabilire in cosa consista il rapporto dicotomico, sul piano degli effetti, tra le fattispecie di buona fede e di mala fede.

Si prendano in considerazione, anzitutto gli effetti costituivi della fattispecie di buona fede. Questi effetti caratterizzano la fattispecie di buona fede, distinguendola, sotto il profilo degli effetti, da quella di mala fede, nel senso che, a fronte della sussistenza di determinati elementi di fatto, concorrendo lo stato di buona fede soggettiva, la fattispecie così determinata costituisce, per l’appunto, delle situazioni giuridiche soggettive, le quali non sono viceversa costituite dalla fattispecie di mala fede[27], che eventualmente ne produrrà di diverse[28].

Con riguardo agli «effetti impeditivi», emerge con maggior chiarezza l'antiteticità tra gli effetti delle due fattispecie. La buona fede, infatti, impedisce la produzione degli effetti propri dell'altra fattispecie[29], sicché la fattispecie di buona fede si caratterizza per la mancata produzione di tali effetti.

Possiamo quindi affermare che le due fattispecie legali parallele, che si distinguono per la presenza o la mancanza della buona fede soggettiva, sono parzialmente sovrapposte per quanto attiene alla struttura, mentre rispondono ad un sistema dicotomico con riguardo agli effetti.

 

 

4. – Buona fede soggettiva come fatto impeditivo: esclusione

 

La necessaria sussistenza di due fattispecie opposte rispetto alle quali la buona fede funge da elemento di discriminazione, è un problema di ordine strettamente dogmatico che, data l'economia del presente lavoro, non è possibile trattare compiutamente.

Ci si limita al proposito a mettere in evidenza come la buona fede intesa quale «fatto impeditivo» non sembra attagliarsi alla tesi della duplice fattispecie contrapposta.

Il «fatto impeditivo» in senso proprio, infatti, è efficace quale fatto autonomo. Esso si pone, cioè, come un fatto giuridico strutturalmente e funzionalmente autonomo, produttivo di effetti impeditivi, ossia idoneo a impedire la produzione degli effetti di una distinta fattispecie giuridica. Ad opera del fatto impeditivo, in altri termini, viene inibita la produzione di effetti giuridici di una differente fattispecie[30]. Esso quindi agisce come un dato incidente sulle conseguenze giuridiche della fattispecie esistente, impedendone l'efficacia.

Il fatto impeditivo è quindi esterno alla fattispecie giuridica produttiva (cioè del fatto costitutivo), la quale, dal canto suo, è perfetta senza l'intervento (o la presenza) del fatto impeditivo. Il rapporto tra fatto costitutivo e fatto impeditivo si caratterizza per la concorrenza delle fattispecie[31]. Entrambe, infatti, si perfezionano e coesistono.

Sotto il profilo degli effetti, il fatto impeditivo produce l'unico effetto di impedire, per l'appunto, la produzione degli effetti propri del fatto costitutivo. Non è invece deputato alla produzione di effetti costitutivi[32].

Diversa la posizione della buona fede soggettiva. Essa contribuisce a perfezionare la fattispecie legale di buona fede[33], la quale si contrappone alla fattispecie « di mala fede ». Queste fattispecie, per loro natura, non possono coesistere, e il loro rapporto è caratterizzato dalla alternatività dell'una rispetto all'altra[34].

Per quanto attiene agli effetti, infine, entrambe le fattispecie - di buona e di mala fede - sono produttive di effetti[35], assumendo entrambe la qualità di fatto costitutivo.

Il rapporto tra fatto costitutivo e fatto impeditivo, pertanto, non è assimilabile al rapporto tra la fattispecie di buona fede e quella di mala fede. Mentre il primo si fonda sul principio di concorrenza tra il fatto costitutivo e quello impeditivo, il secondo si fonda su un principio di alternatività tra fattispecie di buona fede e fattispecie di mala fede; mentre il primo rapporto postula la necessaria coesistenza tra fattispecie costituiva e impeditiva, il secondo postula l'assoluta incompatibilità tra fattispecie di buona fede e mala fede.

Quanto esposto appare chiaramente dal seguente esempio: l'art. 2033 c.c. disciplina l'ipotesi dell'indebito oggettivo, in cui un soggetto, ritenendosi erroneamente debitore nei confronti di altri, effettua il pagamento. La norma di legge prevede in tal caso la nascita di un'obbligazione restitutoria in capo al falso creditore, ponendo però una distinzione: se l'accipiens era in buona fede[36], l'obbligazione restitutoria è limitata alla prestazione indebitamente pagata[37]; qualora invece il falso creditore fosse in mala fede, l'obbligazione avrà ad oggetto anche il pagamento degli interessi e la corresponsione dei frutti[38].

Potrebbe apparire, a prima vista, che la buona fede operi come fatto impeditivo dell'obbligazione di pagamento dei frutti e degli interessi o, meglio, che il fatto impeditivo sia costituito dalla fattispecie di buona fede nella sua interezza.

Ora, volendo qualificare la buona fede come fatto impeditivo dell'obbligazione al pagamento degli interessi e dei frutti, dovremmo ammettere che la tale obbligazione sia comunque sorta, cioè si sia perfezionato il fatto costitutivo. Ma il fatto costitutivo altro non è se non la fattispecie di mala fede, cioè quella fattispecie che la mala fede concorre a perfezionare e che si pone in termini di assoluta contrapposizione strutturale con la fattispecie di buona fede.

Seguendo le linee funzionali del rapporto tra fatto costitutivo e fatto impeditivo si dovrebbe ammettere la concorrenza della fattispecie di buona fede con quella di mala fede, la qual cosa appare immediatamente nella sua palese assurdità.

La fattispecie di buona fede, pertanto, non sembra configurabile come fatto impeditivo, né a maggior ragione la buona fede soggettiva in sé, che della fattispecie ne è solo elemento costitutivo, seppur caratterizzante.

Il rapporto tra fattispecie di buona fede e fattispecie di mala fede si regge quindi su un principio di alternatività (o se vogliamo, di incompatibilità), per cui è da escludere la qualificabilità della prima come fatto impeditivo nel senso proprio dell'espressione.

In altre parole, il fatto impeditivo, avendo una propria autonomia strutturale rispetto al fatto costitutivo, coesiste con questo[39], operando con riferimento ai suoi soli effetti, senza modificare la struttura della stessa fattispecie e, soprattutto, senza richiedere la inesistenza dello stesso fatto costitutivo. Anzi, in mancanza del fatto costitutivo, il fatto impeditivo non avrebbe alcuna ragione di esistere, né alcuna efficacia.

La fattispecie quale fatto costitutivo, pertanto, non viene ad essere minimamente modificata nella propria struttura, né ne viene richiesta l'insussistenza; essa viene semplicemente privata della propria efficacia[40].

Quindi, se la buona fede soggettiva fosse qualificabile quale fatto impeditivo in senso stretto, essa agirebbe puramente e semplicemente sugli effetti della fattispecie «di mala fede», inibendoli. La fattispecie di mala fede, però, intesa quale «fatto costitutivo», sarebbe esistente, dovendosi ritenere perfezionate congiuntamente sia la fattispecie di mala fede che quella di buona fede, la qual cosa è evidentemente inammissibile.

La buona fede soggettiva, di conseguenza, non ci sembra rispondere alle caratteristiche proprie del «fatto impeditivo» in senso stretto. Essa, infatti, si pone quale alternativa ad un diverso stato intellettivo, definibile di mala fede, o quanto meno di «conoscenza»[41], ed è diretta non tanto a impedire la produzione di effetti propri della fattispecie caratterizzata dallo stato intellettivo contrario, quanto a determinare una (parzialmente) diversa fattispecie avente effetti antinomici rispetto a quella[42].

Lo stato gnoseologico di buona fede, cioè, caratterizza la fattispecie, contrapponendola a quella di mala fede (ove sussiste uno stato psicologico o gnoseologico contrario), di modo che si crea una situazione di incompatibilità tra le due fattispecie. Sotto il profilo degli effetti, la sussistenza dell'una fattispecie piuttosto che dell'altra - in base all'uno o all'altro stato intellettivo - si traduce nella produzione di effetti tra loro differenti[43].

La fattispecie di buona fede, in definitiva, non appare diretta a privare di effetti quella di mala fede, ma a distinguere da essa un'altra situazione di fatto, facendo ad essa discendere effetti differenti, con caratteristiche opposte a quegli effetti propri dell'altra fattispecie avente, anch'essa, caratteri opposti a quella di buona fede.

La fattispecie di buona fede, essendo produttiva di effetti pur differenti da quelli prodotti dalla fattispecie di mala fede, è essa stessa fatto costitutivo e non fatto impeditivo. Il rapporto con la fattispecie di mala fede consiste nel verificare se in un determinato caso sussista lo stato intellettivo di buona fede o di mala fede. In base alla sussistenza dell'uno o dell'altro stato intellettivo, sorgerà l'una o l'altra fattispecie, cioè l'uno o l'altro fatto costitutivo.

In conclusione, possiamo affermare che la buona fede soggettiva, ben lungi dal costituire una categoria giuridica fornita di una propria autonomia funzionale, ovverosia di un proprio ambito di applicazione generale, è al contrario legata a più fattispecie legali, delle quali essa stessa entra a far parte concorrendo a determinarle e influenzandone in senso decisivo gli effetti.

Sotto il profilo strutturale la buona fede soggettiva opera nell'ambito della fattispecie come un elemento costitutivo della stessa. Essa ne costituisce un estremo in certo senso «qualificante», giacché funge da elemento distintivo con la fattispecie di mala fede, per il resto identica alla prima.

La presenza o meno dello stato intellettivo di buona fede comporta il ricadere di un fatto concreto nell'una o nell'altra ipotesi legale, aventi una differente (e per certi versi antinomica) efficacia.

La buona fede soggettiva, quindi, produce i propri effetti nell'ambito di una specifica fattispecie legale, partecipando alla sua stessa strutturazione e con riferimento al fenomeno giuridico disciplinato. Effetti che sono idonei a dare una risposta giuridica ad un fatto storico-sociale caratterizzato dal diverso stato intellettivo del soggetto agente. Il legislatore, in considerazione della differente valenza sociale dello stato intellettivo di buona fede e di quello di mala fede, ha voluto conferire a questi un rilevo di ordine normativo, prevedendo detti stati intellettivi quali estremi di distinte fattispecie legali, produttivi di specifici effetti giuridici. Conformemente si è privata la buona fede di una rilevanza generale[44], sia in quanto, sotto il profilo della fattispecie astratta essa è, come si è più volte detto, un estremo della stessa, sia perché, con riguardo al caso concreto lo stato di buona fede si risolve in una situazione storica, seppur di carattere soggettivo[45], meritevole di esame specifico e comunque legata ad un dato concreto.

In tal senso la buona fede soggettiva è da considerare come una figura giuridica avente una natura « descrittiva »[46], mirante cioè alla descrizione di un fatto storico (lo stato intellettivo di errore o ignoranza), diretta a disciplinare situazioni sociali differenti, ritenute meritevoli di un diverso trattamento normativo, ma pur sempre riconducibile ad un medesimo fenomeno giuridico.

 

 

5. – Caratteri distintivi tra buona fede soggettiva e buona fede oggettiva

 

Differenti sono i caratteri propri della buona fede oggettiva, la quale, come si vedrà più precisamente in seguito, opera in un ambito e con modalità completamente diversi da quelli propri della buona fede soggettiva.

È differente, d'altro canto, anche la natura, così come la funzione. Da un lato la buona fede soggettiva fa riferimento ad uno stato intellettivo, cioè ad una situazione storica, conferendole rilevanza ex post, ossia successivamente al suo verificarsi fenomenico, svolgendo una funzione descrittiva dello stato intellettivo medesimo. Di conseguenza viene richiesta all'interprete un'attività ricognitiva per verificare la corrispondenza dello stato intellettivo del soggetto nel caso concreto, con la buona fede soggettiva prevista nella norma di legge.

Dall'altro lato, la buona fede oggettiva fa riferimento ad un «modello sociale di comportamento», ricavabile da valutazioni di ordine giuridico[47], economico e sociale, al quale il soggetto si deve attenere.

La funzione della buona fede oggettiva, quindi, è di ordine «precettivo», ponendo un obbligo di buona fede, cioè un obbligo di comportarsi secondo buona fede[48]. La buona fede oggettiva, in quest'ottica, si concretizza in uno specifico obbligo giuridico mediante un processo di oggettivazione.

Si può quindi affermare, con riguardo alla distinzione tra buona fede soggettiva e oggettiva, che la buona fede soggettiva ha una natura «descrittiva» di una situazione storica, mentre la buona fede oggettiva presenta una natura «precettiva», ponendo l'obbligo di comportarsi secondo un modello socialmente apprezzabile.

La buona fede soggettiva, pertanto, è uno strumento giuridico diretto all'esame di un dato di fatto storicamente esistente, cioè di un «fatto» storicamente identificabile. La buona fede oggettiva, viceversa, si fonda su un «dovere» giuridicamente identificabile, configurandosi quale obbligo giuridico, atto dovuto, comportamento giuridicamente obbligatorio, diretto al perseguimento di specifici effetti.

Mentre la buona fede soggettiva ha come proprio referente una situazione storica preesistente, la buona fede oggettiva ha come referente un modello di condotta socialmente apprezzabile, che essa stessa mira a far rispettare conferendogli un carattere obbligatorio.

Se da un lato, cioè, la buona fede soggettiva postula un'attività ricognitiva del proprio referente, il modello di comportamento costituisce il contenuto dell'obbligo di buona fede oggettiva, determinandone altresì la concretizzazione[49].

Sotto il profilo strutturale, mentre la buona fede soggettiva agisce nell'ordinamento giuridico in quanto parte integrante di una fattispecie normativa, e all'interno della medesima, la buona fede oggettiva si pone quale vera e propria clausola generale[50], cioè come dato normativo fondante un dovere giuridico di natura generale[51] ma idoneo a concretizzarsi in relazione al caso concreto in cui si pone.

 

 

6. – Etica come dato comune tra buona fede soggettiva e buona fede oggettiva: esclusione.

 

Gli iniziali accenni alle caratteristiche giuridiche della buona fede oggettiva, hanno messo in evidenza la fondamentale differenza che sussiste tra questa e la buona fede soggettiva.

Le due figure hanno una diversa natura giuridica, operano in un ambito giuridico diverso, riguardando altresì differenti fenomeni giuridici e producendo diversi effetti. Emerge, in sostanza, una totale differenza tra le due figure che mantengono un «contatto» solo di tipo terminologico[52].

L'identità del nome ha comunque spinto la dottrina a verificare la sussistenza o meno di elementi comuni tra le due categorie, al fine di stabilire se la buona fede soggettiva ed oggettiva abbiano una comune matrice.

Se sotto il profilo storico esse sembrano svilupparsi autonomamente[53], ciò che maggiormente rileva ai fini della presente ricerca è la eventuale identità, o connessione, di elementi propri dell'una e dell'altra figura, tali da influire sulla loro struttura ed efficacia.

Un primo problema sull'eventuale identità o «vicinanza» delle due figure di buona fede nasce con riferimento alla rilevanza dell'etica.

Si è sostenuto più volte che la buona fede, sia nella sua accezione oggettiva che in quella soggettiva, abbia un fondamento etico[54]. L'argomento non è di poco conto se, in considerazione di ciò, si voglia individuare una generale figura di buona fede all'interno della quale si muovono le due (eventuali) sottocategorie della buona fede soggettiva e buona fede oggettiva[55].

Si tratta, quindi, di verificare non tanto se il dato etico possa avere influito sulle origini dell'uno o dell'altro tipo di buona fede o di entrambi, bensì se l'etica agisca come elemento necessario nella struttura o nel sistema funzionale delle due figure di buona fede.

In altri termini, l'indagine sulla rilevanza dell'etica nella buona fede, sia oggettiva che soggettiva, non deve riguardare l'eventuale influenza che essa ha avuto nell'origine di queste figure, quanto la rilevanza che essa ha nella struttura e nel funzionamento delle stesse.

Si consideri, a questo punto, la buona fede soggettiva. Come si è detto essa configura uno stato intellettivo, ossia uno stato gnoseologico di mancata conoscenza della lesione del diritto altrui, al quale il legislatore ha ritenuto di conferire rilevanza ai fini della produzione di determinati effetti giuridici.

Non v'è dubbio che nella «scelta» del legislatore vi sia stata una valutazione anche del sentire comune e dei principi sociali[56], non ci sembrano però estranee a queste disposizioni legislative esigenze di ordine strettamente economico, di tutela di circolazione dei beni[57] e delle ricchezze[58]; attribuendo rilevanza giuridica alla buona fede soggettiva si tende in genere a non paralizzare l'attività economica a seguito del timore dell'eventuale illiceità del comportamento.

La ratio della buona fede soggettiva, in tutte le sue esplicazioni normative, pertanto, consiste generalmente nella ricerca di un adeguato assetto di interessi, conferendo rilevanza anche a quei comportamenti sociali influenzati dalla normale fallibilità umana, ma che mantengono una propria utilità di ordine socio-economico, tali da essere meritevoli di tutela giuridica[59]. Non sussiste, quindi, in termini effettivi, una partecipazione dell'etica in quanto tale, né alla struttura né al funzionamento della buona fede soggettiva. La ratio della buona fede soggettiva consiste, quindi, proprio nella ricerca di un assetto di interessi sociali che consideri anche quelli sottesi a comportamenti i quali, seppure di per sé non immediatamente rispondenti al diritto, non siano diretti alla violazione dell'ordinamento e, producendo una propria utilità, sono meritevoli di riconoscimento e di tutela giuridica.

Vi è altresì da rilevare come sia improprio, a nostro avviso, parlare di una ratio (unica) della buona fede soggettiva. Infatti, come si è visto, la buona fede soggettiva, intesa quale stato intellettivo o gnoseologico, assume una propria rilevanza giuridica in quanto richiamata nell'ambito di precise norme di diritto positivo le quali, dal canto loro, sono dirette a disciplinare uno o più specifici fenomeni sociali e giuridici. All'interno di questo fenomeno si inserisce una situazione ove rileva lo stato intellettivo di buona fede del soggetto, tale da determinare specifici effetti giuridici[60].

Ciò significa che a fianco a una ratio di ordine generale, che fa riferimento alla figura della buona fede soggettiva, diretta - come più volte sostenuto - a riconoscere una tutela giuridica a comportamenti influenzati da uno stato di errore, e agli interessi connessi, sussistono anche più rationes delle diverse norme di buona fede. Rationes certamente legate più strettamente ai fenomeni giuridici specifici che esse disciplinano, e che trovano negli interessi collegati a detti fenomeni la propria ragione[61].

Ci pare, a questo punto, come emerga la posizione più che marginale dell'etica rispetto alla buona fede soggettiva; una posizione tutto sommato «esterna» sia allo stesso concetto che ai fenomeni in cui essa si pone, priva di una rilevanza operativa e costruttiva[62].

Un ultimo punto ci sembra meritevole di essere trattato al fine di confutare la rilevanza dell'etica con riguardo alla buona fede soggettiva. S'è detto più volte che questa costituisce un elemento costitutivo di una più ampia fattispecie legale. Si è detto altresì che tale fattispecie è da considerare come «fattispecie determinata»[63] ove la buona fede - che, per l'appunto, ne è un elemento costitutivo - assume una funzione di ordine descrittivo, nel senso che descrive una situazione fenomenica, di ordine soggettivo (lo stato intellettivo del soggetto), necessaria per il perfezionarsi del meccanismo di sussunzione.

La buona fede soggettiva quindi, sul piano applicativo, si risolve essenzialmente in un giudizio descrittivo sullo stato intellettivo di errore o ignoranza del soggetto agente, onde si renda applicabile al caso concreto, secondo il metodo della sussunzione[64], la norma di legge.

Al contrario, l'etica richiama un giudizio di valore[65], cioè un fenomeno valutativo socialmente reiterato, e quindi rilevante nell'ambito dell'organizzazione sociale[66].

Quest'ultimo punto introduce un'ulteriore osservazione. L'etica, data la sua generalità è inidonea ad essere ricondotta nell'ambito di una o più norme di legge a fattispecie determinata. Essa, qualora le si voglia riconoscere una efficacia giuridica, trova una (eventuale) adeguata rispondenza sotto il profilo sistematico nella figura del principio generale o, eventualmente, della clausola generale. Ciò non significa, si badi bene, che l'etica assuma la natura e la funzione di principio generale o di clausola generale, si vuole semplicemente porre in risalto come, pur nell'ipotesi di una eventuale rilevanza ed efficacia diretta dell'etica nel mondo giuridico, essa assumerebbe, data la sua natura e struttura, la figura di principio generale piuttosto che quella di norma a fattispecie determinata o di elemento costitutivo di questa.

In conclusione, ci sembra di poter affermare come non sussista rapporto alcuno, sotto il profilo giuridico, tra la buona fede soggettiva e l'etica, categorie concettuali che, al contrario, operano in ambiti, e secondo criteri, completamente diversi. La prima riguarda strettamente la realtà giuridica, agisce nell'ambito di fenomeni giuridici che contribuisce a determinare, e vi svolge una determinata funzione.

La seconda opera in una sfera diversa, di ordine metagiuridico, non assumendo, almeno con riferimento all'argomento in esame, alcuna funzione di natura giuridica.

La diversa natura e funzionalità delle due figure sul piano ontologico consentono di ribadire che mentre la buona fede soggettiva richiama un giudizio descrittivo (pur in funzione prescrittiva), l'etica si sostanzia in un giudizio di valore, giuridicamente irrilevante.

Ritornando così al problema di fondo se l'etica possa costituire un dato accomunante la buona fede soggettiva e la buona fede oggettiva, ci sembra inevitabile una risposta negativa al quesito: l’etica, secondo quanto sostenuto, completamente avulsa dal fenomeno e dalla categoria della buona fede soggettiva, si pone al di fuori della problematica della ricerca di identità tra le due figure di buona fede[67].

 

 

7. – Correttezza come dato unificante tra buona fede soggettiva e buona fede oggettiva: esclusione.

 

La concezione unitaria della buona fede è stata sostenuta in dottrina, individuando come elemento unificante tra le figure di buona fede soggettiva e buona fede oggettiva, l’agire leale e onesto. Nel senso che, sia il soggetto che agisce secondo buona fede (cioè conformemente ad un modello di comportamento sociale apprezzabile), sia quello che agisce in buona fede (cioè ritenendo di comportarsi secondo i dettami del diritto, o ignorando di ledere i medesimi), manifestano un comportamento improntato ai dettami della lealtà e dell’onestà[68].

Questa tesi, che sembra richiamare come dato unitario il concetto di correttezza[69], non ha trovato accoglimento nel nostro ordinamento né in giurisprudenza, ove la distinzione tra buona fede soggettiva e buona fede oggettiva non appare posta in discussione[70], né nella dottrina che, per lo più, si è indirizzata verso una netta distinzione tra le due figure[71].

Il rilievo secondo cui la buona fede soggettiva e la buona fede oggettiva abbiano un carattere di unicità con riferimento alla correttezza - quale espressione giuridica della lealtà e dell’onestà - richiederebbe una specifica trattazione su quest'ultima categoria giuridica. Possiamo comunque rilevare che se questa figura richiama l'« onesto e il leale agire », essa non sembra attagliarsi alla buona fede soggettiva, ove il dato giuridicamente rilevante non consiste nella valutazione del comportamento onesto e leale, bensì nella individuazione dello stato intellettivo dell'agente, inteso come fatto fenomenico giuridicamente rilevante. La buona fede soggettiva - in altri termini - non sostanziandosi in un criterio di valutazione sociale o giuridica del comportamento del consociato, bensì in uno stato intellettivo di ignoranza o di erroneo convincimento, richiamato da apposite norme di diritto positivo e dal quale si fanno dipendere specifici effetti giuridici[72], è estranea a un giudizio di correttezza dell’agire che si riconduce a un dovere - e alla relativa vicenda dinamica del dovere[73] - e non all’essere, qual è la buona fede soggettiva come fatto fenomenico di tipo gnoseologico.

La differenza tra buona fede soggettiva e la correttezza che nell'ottica della tesi prospettata dovrebbe fungere da tramite con la buona fede oggettiva, non si discosta quindi dalla differenza tra buona fede soggettiva ed oggettiva esaminata nel paragrafo precedente. Questa sostanziale identità dei criteri di distinzione è, d'altro canto, indice di una vicinanza concettuale tra buona fede oggettiva e correttezza.

La mancanza di un fondamento comune tra buona fede soggettiva e correttezza, emerge anche da ciò: come è stato più volte ripetuto, la buona fede soggettiva si presenta nel nostro ordinamento come un fatto storico, che in tanto è giuridicamente rilevante in quanto è enunciato in termini di diritto positivo, quale elemento costitutivo di fattispecie astratte legalmente previste. Ora, se la buona fede soggettiva costituisce uno degli estremi di una fattispecie astratta, non altrettanto può dirsi per la correttezza.

In primo luogo la correttezza è qualificabile - come anche la buona fede oggettiva - come clausola generale[74], quindi non adatta ad essere ricondotta nell'ambito di norme a fattispecie determinata. Tant'è vero che nessuna disposizione di legge richiama la correttezza come elemento costitutivo di una fattispecie determinata, idonea ad essere oggetto di un enunciato descrittivo, a livello di fattispecie astratta, e di un giudizio cognitivo relativamente alla fattispecie concreta, così come una siffatta idoneità difetta al concetto di correttezza isolatamente considerata.

In secondo luogo v'è da aggiungere come la correttezza, parimenti alla buona fede oggettiva, prescinda da una valutazione dello stato psicologico del soggetto, e incentri la propria attenzione sulla corrispondenza o meno della condotta del singolo ad un modello socialmente e giuridicamente apprezzabile, facendone discendere la liceità o la illiceità di tale condotta.

Si vede, quindi, come la correttezza, differisce in termini pressoché assoluti dalla buona fede soggettiva[75], mentre manifesta una notevole affinità con la buona fede oggettiva[76]. Non sembra quindi possibile sotto il profilo logico, secondo la presente ricostruzione, che essa correttezza assuma una funzione di collegamento tra le due figure di buona fede.

 

 

 

 

 



 

[1] In epoca non più recente, rilevava Salv. Romano, voce Buona fede, in Enc. dir., V, Milano, 1959, 677, che la buona fede, unitamente alla mala fede, era richiamata nel codice civile per circa settanta volte; oggi si hanno settantacinque richiami alla sola buona fede, e altri venti alla mala fede.

 

[2] Una prima distinzione circa la diversa struttura e funzione è prospettata da Salv. Romano, voce Buona fede, cit., 677 s.

 

[3] Per questa bipartizione, riconoscendo il carattere oggettivo della buona fede nell'esecuzione del contratto, Sacco, La buona fede nella teoria dei fatti giuridici di diritto privato, Torino, 1949, 6 ss., espressamente l’A. pone in evidenza come in alcuni casi «la buona fede non è addirittura riducibile a fatto giuridico psichico: soprattutto nei casi degli art. 1337, 13492, 1358, 1366, 1375, 14602, c.c.» (14), sino a giungere alla conclusione che «nelle nostre leggi si parla di buona e mala fede come fatti giuridici psicologici, oppure come criteri di comportamento, o come criteri relativi ai nessi tra i fatti giuridici e le loro conseguenze» (17); Id., Cos'è la buona fede oggettiva?, in Il principio di buona fede (Atti della giornata di studio, Pisa 14 giugno 1985), Milano, 1987, 46; Giampiccolo, La buona fede in senso soggettivo nel sistema del diritto privato, in Riv. dir. comm., 1965, I, 335 ss., spec. 340 s., ora in Studi sulla buona fede, Milano, 1975, 77 s., spec. 79; Salv. Romano, voce Buona fede, cit., 678 s.; Natoli, L'attuazione del rapporto obbligatorio, I, in Tratt. dir. civ. comm. diretto da Cicu e Messineo, Milano, 1974, 35 ss.; Carusi, voce Correttezza (Obblighi di), in Enc. dir., X, Milano, 1962, 709 ss.; Cataudella, Sul contenuto del contratto, Milano, 1966, 254 e nota 57; Di Majo, L'esecuzione del contratto, Milano, 1967, 365 ss.; Id., Delle obbligazioni in generale, in Comm. cod. civ. Scialoja e Branca, a cura di Galgano, Bologna - Roma, 1988, 290 ss.; Breccia, Diligenza e buona fede nell'attuazione del rapporto obbligatorio, Milano, 1968, 3 ss.; Rodotà, Le fonti di integrazione del contratto, Milano, 1969, 132 ss.; Corradini, Il criterio della buona fede e la scienza del diritto privato, Milano, 1970, 137 ss., 274, 470 ss.; Alpa, Pretese del creditore e normativa di correttezza, in Riv. dir. comm., 1971, II, 286; Busnelli, Buona fede in senso soggettivo e responsabilità per fatto "ingiusto", ora in Studi sulla buona fede, Milano, 1975, 569, 572; Bianca, La nozione di buona fede quale regola di comportamento contrattuale, in Riv. dir. civ., 1983, I, 205; Fornaciari, Il controllo in cassazione della clausola di buona fede, in Il principio di buona fede, loc. cit., 466; Lenzi, La buona fede soggettiva in diritto internazionale privato (spunti per un superamento del principio "ignorantia legis non excusat"), ivi, 192 ss.; Bessone - D'Angelo, voce Buona fede, in Enc. giur. Treccani, V, Roma, 1988, 1; Id., La tipizzazione giurisprudenziale della buona fede contrattuale, in Contr. e impr., 1990, 702 s.; Galgano, Diritto civile e commerciale, II, 1, Padova, 1999, 547 s.; Maiorca, Il contratto, Torino, 1996, 311; recentemente Talamanca, La bona fides nei giuristi romani: «Leerformeln» e valori dell’ordinamento, in Il ruolo della buona fede oggettiva nell’esperienza giuridica storica e contemporanea (Atti del Convegno internazionale di studi in onore di Alberto Burdese, Padova-Venezia-Treviso, 14-15-16 giugno 2001), IV, Padova, 2003, 7 ss.

Più articolata la distinzione di Betti, Teoria generale delle obbligazioni, I, Prolegomeni: funzione economico-sociale dei rapporti d’obbligazione, Milano, 1953, 65 ss., che opera una quadripartizione all’interno della figura della buona fede (69 ss., 72 ss., 80 ss., 89 ss.), isolando comunque una delle categorie concettuali risultanti dalla quadripartizione, rispetto alle altre tre, e più precisamente «il profilo della buona fede, tanto come criterio ermeneutico alla stregua del quale deve essere interpretato il contratto, quanto come criterio di condotta, alla stregua del quale debbono essere adempiute le obbligazioni poste in essere».

In un'ottica storicistica cfr. Talamanca, op. loc. cit., spec. 16 s., il quale pone in rilievo come la distinzione tra la bona fides in senso soggettivo e oggettivo fosse già presente nel diritto romano, e che in taluni casi «il sintagma bona fides viene… adoperato, nel medesimo passo, con riferimento sia a quella che sarebbe ‘operatività della buona fede in senso soggettivo sia a quella che ne sarebbe, invece, la valenza oggettiva»; v. inoltre Senn, voce Buona fede nel diritto romano, in Dig. civ., II, Torino, 1988, 130 s.; Massetto, voce Buona fede nel diritto medievale e moderno, in Dig. civ., II, Torino, 1988, 135 ss., secondo il quale, mentre la buona fede soggettiva è da intendere come attitudine intellettiva (spec. 138 ss.), la buona fede oggettiva è invece una attitudine attiva (spec. 147 ss.).

Individua una «dimensione comune» Bigliazzi Geri, La buona fede nel diritto privato (spunti ricostruttivi), in Il principio di buona fede, loc. cit., 54 s., 58, 62 s., pur nell'ottica di una distinzione ontologica e funzionale (Id., voce Buona fede nel diritto civile, in Dig. civ., II, Torino, 1988 , 159, 188).

Per una sostanziale unicità del concetto di buona fede cfr. Montel, voce Buona fede, in Noviss. dig. it., II, Torino, 1958, 600 .

 

[4] Bigliazzi Geri, voce Buona fede nel diritto civile, cit., 157 ss., 188 ss., nega l'esistenza di una categoria di buona fede onnicomprensiva. V. anche gli autori di cui alla nota precedente.

 

[5] O, meglio, uno stato gnoseologico: Sacco, La presunzione di buona fede, in Riv. dir. civ., 1959, 9. Secondo Bigliazzi Geri, voce Buona fede nel diritto civile, cit., 159, si tratterebbe di uno «stato intellettivo, non volitivo: agire in buona fede non significa voler far bene, ma essere convinti della bontà della propria condotta»; afferma Natoli, Il possesso, Milano, 1992, 130, con specifico riguardo alla buona fede nel possesso, di cui all'art. 1147 c.c., che «la buona fede appare così quale espressione di uno stato di ignoranza della effettiva condizione giuridica del bene oggetto del possesso e, conseguentemente, della convinzione - più o meno affiorata a livello di coscienza - di agire secundum legem e di non fare con la propria attività alcun danno ad altri». Relativamente al possesso v., specificamente, Busnelli-Vallini, La buona fede nel possesso (alla luce della giurisprudenza), Pisa, 1971. Per un’ampia casistica giurisprudenziale della buona fede nel possesso v. Scioli, Il possesso, Torino, 2003, 63 ss.

 

[6] Per uno specifico esame della assimilazione della buona fede all'errore o all'ignoranza, o eventualmente ad altri stati gnoseologici cfr. Sacco, La presunzione di buona fede, cit., 9 ss.; Bigliazzi Geri, voce Buona fede nel diritto civile, cit., 162 rileva la «sostanziale coincidenza tra convinzione implicita (dipendente da ignoranza) e convinzione esplicita (dipendente da errore) di comportarsi secondo diritto»; l'A. peraltro, conformemente al disposto dell'art. 1147, 2° comma, c.c., limita la buona fede soggettiva alle ipotesi di errore inescusabile. Infatti, se si dovesse identificare indiscriminatamente la buona fede soggettiva con la figura dell'errore, o con lo stato di errore in cui versa il soggetto, si dovrebbe ritenere sussistente la buona fede anche nell'ipotesi di errore colpevole. In tal modo, però, la stessa colpa, essendo a fondamento dell'errore, e quindi dello stato di buona fede, determinerebbe un vantaggio del soggetto a cui è imputabile la condotta colposa, rispetto a chi si è comportato in maniera più diligente. Sull’evoluzione del concetto di buona fede soggettiva nel possesso dei beni mobili, sino al suo recepimento nel vigente art. 1147 c.c., cfr. Argiroffi, Del possesso di buona fede di beni mobili, in Comm. cod. civ. diretto da Schlesinger, Milano, 1988, 80 ss., spec. 84 s.

Sulla scusabilità dell'errore v. anche Natoli, Il possesso, cit., 130 s., il quale rileva come la giurisprudenza intenda il limite della scusabilità nella eccessiva trascuratezza o persino nel non intelligere quod omnes intelligunt, sino a giungere ai confini del dolo e quindi della mala fede.

 

[7] Cioè nella «positiva convinzione di comportarsi jure» (ancora Bigliazzi Geri, voce Buona fede nel diritto civile, cit., 159); ritiene qualificarsi come buona fede «l’intenzione conforme al diritto, nonostante l’evento contrario», Gentile, Il possesso nel diritto civile, Napoli, 1956, p 217.

 

[8] Può essere considerata come la proiezione del convincimento di comportarsi iure ex art. 1147 c.c., l'erroneo convincimento di non ledere l'interesse di altri (del possessore). Di fondo, infatti, sembra sussistere un'unica falsa rappresentazione della realtà, che abbraccia sia lo stato dei fatti che gli effetti giuridici. In tal senso sembra esprimersi Natoli, Il possesso, cit., 130.

Sotto l’egida le codice civile del 1865, e sulla scorta del testo letterale dell’art. 701, si riteneva che la buona fede dovesse «poggiare sopra un titolo, perché senza titolo non è possibile possesso di buona fede, ma devono ad un tempo essere ignorati del titolo i vizi, poiché chi li conosce non potrebbe legittimamente credere che il suo acquisto non sia lesivo del dritto altrui»: De Ruggiero, Diritto civile, II, Messina - Milano, 1934, 463; per ulteriori chiarimenti sul punto cfr. Lomonaco, Della distinzione dei beni e del possesso, in Il diritto civile italiano a cura di Fiore, Napoli - Torino, 1914, 513 ss.

Rilevano Sacco - Caterina, Possesso, in Tratt. dir. civ. comm. già diretto da Cicu e Messineo, continuato da Mengoni, Milano, 2000, 453, che secondo il disposto dell’art. 1147 c.c., difformemente dalla disciplina codicistica previgente, lo stato psicologico di buona fede non deve appoggiarsi a un titolo, ponendo in evidenza che il «titolo di cui si conclama la superfluità è… il titolo di proprietà», rimanendo salva la necessità di «un titolo di possesso (consegna, occupazione di cosa non posseduta da altri)» giacché «fuori di un possesso fondato su una consegna o un’occupazione, possiamo trovare solo un possesso fondato sullo spoglio. Ed esso non potrà essere, in via di principio, possesso di buona fede».

Sulla sussistenza del possesso di buona fede, anche quando lo stato intellettivo sia disgiunto dal titolo abile a trasferire il dominio, v. espressamente Montel, Acquisto «a domino» e possesso di buona fede, ora in Nuovi scritti in materia di possesso, Torino, 1958, 73 ss., ove si dà atto delle passate oscillazioni giurisprudenziali in materia, pur sotto la vigenza del codice civile del 1942.

 

[9] Il problema si pone in termini parzialmente identici a quanto riportato nella nota precedente: se l'erroneo convincimento di comportarsi iure determini l'ignoranza di ledere l'altrui diritto.

Viene fatto rilevare da Sacco, La presunzione di buona fede, cit., 9, come il legislatore usi promiscuamente i termini «errore» e «ignoranza».

 

[10] Cfr., tra gli altri, artt. 1147, 1148, 1189, 1415, 1445 c.c.

 

[11] Così Sacco, La presunzione di buona fede, cit., 18 s.; di conseguenza v., tra gli altri, gli artt. 1150, 1161, 1338, 1394, 2036, 2038, 2210 c.c.

 

[12] Gli effetti giuridici dipendenti dalla sussistenza dello stato intellettivo di buona fede sono molteplici. Più precisamente, gli effetti giuridici in questione vengono prodotti non dalla buona fede soggettiva isolatamente considerata - la quale di per sé è inidonea a produrre effetti giuridici - ma da una più vasta fattispecie, la quale, mantenendo fermi gli altri propri elementi costitutivi, può assumere due distinte connotazioni a seconda che ad essa partecipi o meno la buona fede soggettiva (questi altri elementi sono stati definiti fatti concomitanti da Sacco, La presunzione di buona fede, cit., 12, in quanto concorrenti con la buona o mala fede a costituire una fattispecie).

Si tratterebbe, in buona sostanza, di due distinte fattispecie, parzialmente coincidenti che fanno riferimento a un'unica norma di legge a cui si riferiscono, e che trovano il loro elemento distintivo, come di è detto, nella buona o mala fede.

La distinzione tra le fattispecie giustifica la produzione di effetti differenti e talvolta «contrastanti» (v. ad esempio l'effetto produttivo dell'obbligazione restitutoria degli interessi e delle spese nel caso di indebito ex art. 2033 c.c.).

Con riferimento al possesso, il riferimento alla mala fede porta a dedurre un trattamento a contrario del possessore di mala fede rispetto a quello di buona fede (Natoli, Il possesso, cit., 131 s.).

 

[13] Così Mengoni, Gli acquisti «a non domino», Milano, 1968, 303 ss. relativamente alla fattispecie di acquisto a non domino.

 

[14] La fattispecie di buona fede, pertanto, non è da qualificare come fatto impeditivo, né la norma che la prevede, come norma impeditiva: in tal senso Sacco, La presunzione di buona fede, cit., 3 ss.

 

[15] Sembra rimanere al di fuori della categoria della buona fede soggettiva l'ipotesi del «dubbio», rilevandosi al proposito delle difficoltà di ordine sostanziale e metodologico nell'inserire questo stato intellettivo nel modello operativo della buona fede: in argomento cfr. Sacco, La presunzione di buona fede, cit., 9; Giampiccolo, La buona fede in senso soggettivo nel sistema del diritto privato, cit., 353 ss.; Bigliazzi Geri, voce Buona fede nel diritto civile, cit., 160.

 

[16] Generalmente, come è già emerso dal testo, si tende a identificare la buona fede come stato di ignoranza o errore e la mala fede come quello di conoscenza. Cfr. anche supra, nota 12.

 

[17] Si prenda ad esempio l'art. 1147 c.c., il quale prevede una fattispecie di fondo unica. Essa però è incompleta senza il concorso dell'elemento soggettivo della buona fede o della mala fede, per cui non è idonea ad essere produttiva di effetti giuridici. In questo caso la fattispecie diviene «completa» ed efficace nel momento in cui al possesso (fatto «concomitante», secondo l'espressione di Sacco, La presunzione di buona fede, cit., 13 s.) si aggiunga la buona fede o, eventualmente, la mala fede, divenendo in tal modo produttiva di diversi effetti a seconda che ci si riferisca a un possesso di buona fede o a un possesso di mala fede.

Sul concetto di fattispecie, con riguardo agli effetti, v. Cataudella, Note sul concetto di fattispecie giuridica, ora in Scritti giuridici, Padova, 1991, 3 ss.; Id., Fattispecie, ivi, 33 ss.; Id., voce Fattispecie, in Enc. dir., XVI, Milano, 1967, 926 ss.; Monateri, voce Fattispecie, in Dig. civ., VIII, Torino, 1992, 223 ss.; in termini più generali, e con particolare riguardo alla differenza tra «fatto» e «fattispecie» v. recentemente G. Levi, Fatto e diritto, Milano, 20002, 34 ss.

 

[18] La buona fede soggettiva intesa semplicemente come stato di ignoranza o di errore è giuridicamente irrilevante, limitandosi a descrivere uno stato intellettivo che di per sé solo non costituisce ipotesi fenomenica e sociale in cui si manifestino e prendano corpo interessi rilevanti nella sfera patrimoniale o personale del singolo soggetto. Vista in quest'ottica, pertanto, la buona fede risulterebbe irrilevante anche sotto il profilo normativo e precettivo, stante la carenza di giuridicità del fatto (stato intellettivo) ad esso riconducibile, nel senso che non sarebbe qualificabile come fatto giuridico in quanto ad essa non è collegato alcun effetto giuridico, o comunque non ha rilevanza per l'ordinamento giuridico; pone in evidenza Maiorca, voce Fatto giuridico - Fattispecie, in Noviss. Dig. it., VII, Torino, 1961, 112, come «nella sua accezione originaria più generale il fatto giuridico è qualunque circostanza a cui l'ordinamento riconnette conseguenze giuridiche». Per il concetto di fatto giuridico nelle sue diverse accezioni, oltre l'A. sopra citato, v. la trattazione di Falzea, voce Fatto giuridico, in Enc. dir., XVI, Milano, 1967, 941 ss.

 

[19] V. supra, note 12 e 18.

 

[20] Monateri, voce Fattispecie, cit., 224). Sul rapporto tra i concetti di fattispecie e effetti v. ancora Cataudella, Fattispecie, cit., spec. 35 ss.

 

[21] Cfr. Sacco, La buona fede nella teoria dei fatti giuridici di diritto privato, cit., 12 ss., il quale qualifica la buona fede come fatto giuridico. Carcaterra, Intorno ai bonae fidei iudicia, Napoli, 1964, 210 ss, distinguendo tra buona fede presupposta e buona fede imposta (che lo stesso A. nega, comunque, possano essere omologate, rispettivamente, alla buona fede soggettiva e oggettiva: 215), e riferendosi alla prima figura, ritiene che «il concetto di buona fede non si identifica con nessuno degli elementi della fattispecie (azione, illecito, errore)» bensì «solo con l’insieme degli elementi sopra indicati ed è un “modo di essere” di una condotta…, cioè, appunto, una condotta, presupposta, però, come mero fatto… che il diritto, in talune esplicite ipotesi, configura come un atto illecito-dannoso compiuto per errore».

 

[22] Il dato psicologico, e quindi definito come «soggettivo» in relazione alla riferibilità ad un preciso soggetto, in tanto assume una propria rilevanza giuridica in quanto rilevi nella realtà sociale. Lo stato psicologico in sé, pertanto, deve manifestarsi socialmente tramite l'oggettivazione degli elementi che lo manifestano.

 

[23] La buona fede soggettiva funge da elemento discriminante tra situazioni «oggettivamente» identiche, nelle quali lo stato soggettivo di ignoranza o errore da parte di un soggetto interessato al fenomeno, amplia la sfera del comportamento socialmente meritevole di tutela.

 

[24] La «ricognizione» è quindi azione strumentale all'applicazione della buona fede soggettiva nel caso concreto. La ricognizione del fatto storico, d'altro canto, attiene al comune modo di operare del giudice il quale, dapprima ricostruisce (cioè accerta) il fatto storico e quindi vi applica il diritto.

Come si vedrà nel proseguo del lavoro, il fenomeno «ricognitivo» non è di per sé da considerare come elemento discriminante tra buona fede soggettiva e buona fede oggettiva, in quanto anche in quest'ultimo caso è necessaria una attività di cognizione del fatto storico. La differenza sta, invece, nell'oggetto della ricognizione: con riferimento alla buona fede soggettiva l'oggetto consiste in un dato storico che sostanzia la buona fede (lo stato intellettivo); nella buona fede oggettiva, invece, in una serie di dati storici necessari al fine di stabilire criteri e limiti necessari per individuare il relativo obbligo (cioè gli elementi identificanti il rapporto economico sottostante al contratto).

La ricognizione dei fatti rientra, più precisamente, a livello processuale nel concetto di «cognizione», ovvero di quella attività svolta dal giudice mediante la quale questo, accertata la fattispecie concreta, trae delle regole concrete di diritto sostanziale: sull'argomento v. per tutti la fondamentale impostazione del Chiovenda, Istituzioni di diritto processuale civile, I, Roma, 1935, 15; più recentemente, in termini differenti, Montesano, La tutela giurisdizionale dei diritti, in Tratt. dir. civ. diretto da Vassalli, XIV, 4, Torino, 1994, 3, in generale sul processo di cognizione 101 ss.

 

[25] Cfr. ad esempio L'art. 2033 c.c. Le due fattispecie non si distinguono per una espressa duplice previsione legislativa - cioè su un piano strettamente formale - che come si è visto può anche mancare, ma per la loro duplice potenziale effettività giuridica. La stessa norma, in altri termini, crea due distinti sistemi giuridici alternativi, produttivi di effetti giuridici difformi. La produzione degli uni effetti, piuttosto che degli altri, con riferimento al caso concreto dipende dalla rispondenza del caso di specie all'una o all'altra fattispecie astratta, le quali fattispecie, dal canto loro, data la presenza (o l'assenza) della buona fede soggettiva, sono tra di loro differenti sotto il profilo strutturale e antinomiche sotto quello degli effetti.

 

[26] Infra, par. 4.

 

[27] La fattispecie di buona fede, in altre parole, è produttiva di posizioni giuridiche estranee alla fattispecie di mala fede: ad esempio, il diritto di percepire i frutti è un effetto della fattispecie di buona fede (possesso di buona fede) ma non di quella di mala fede (possesso di mala fede), secondo il disposto di cui agli artt. 1147 e 1148 c.c.).

 

[28] Riprendendo l’esempio della nota precedente, se il possessore di buona fede ha recato dei miglioramenti alla cosa, una tale fattispecie di buona fede (strutturalmente composta dal possesso, dalla buona fede soggettiva e dalla esecuzione dei miglioramenti) è produttiva di effetti costitutivi, in quanto costituisce in favore dello stesso possessore di buona fede un credito indennitario pari al «valore conseguito dalla cosa per effetto dei miglioramenti» (art. 1150, comma 3, c.c.).

Se gli stessi miglioramenti sono stati apportati dal possessore di mala fede, questa fattispecie - che differisce dalla prima per il solo stato gnoselogico - è produttiva di un’obbligazione indennitaria oggettivamente diversa, poiché la prestazione è commisurata alla «minor somma tra l’importo della spesa e l’aumento di valore» (v. ancora art. 1150, comma 3, c.c.).

 

[29] Ad esempio, nel caso di indebito oggettivo (art. 2033 c.c.) l'obbligazione di restituzione dei frutti (per il carattere restitutorio di tale tutela, cfr. Di Majo, La tutela civile dei diritti, Milano, 2003, 322, secondo il quale, qualora «il rimedio sia relativo a spostamenti patrimoniali ingiustificati, esso potrà avere per oggetto non solo la restituzione di quello specifico bene… ma anche il valore di esso») e di pagamento degli interessi, unitamente al capitale, è prodotta solo dalla fattispecie di mala fede, e non anche da quella di buona fede, che produce un’obbligazione avente ad oggetto solo la prestazione di restituzione del capitale.

Ben si vede, come si è anticipato nel testo, che l’affermazione secondo cui la buona fede «impedisce» l’insorgenza dell'obbligazione di corresponsione degli interessi e dei frutti relativi al pagamento indebito può avere una valenza esclusivamente descrittiva, configurando la fattispecie di buona fede, anche in questo caso, un fatto costituivo e non un fatto impeditivo.

 

[30] Sulla definizione del fatto impeditivo v. per tutti G. A. Micheli, L’onere della prova, (ristampa) Padova, 1966, 321 ss.; recentemente Mandrioli, Diritto processuale civile, II, Torino, 2002, 132 ss. e, in precedenza, Senofonte, Il fatto impeditivo, in Riv. trim. dir. proc. civ., 1978, 1525 ss.

 

[31] Ma v. quanto riportato infra, alla nota 35, riguardo alla condizione sospensiva, riconducibile, sotto il profilo della struttura del fatto, alla unitarietà della dichiarazione negoziale.

Senza entrare nel merito di un argomento di particolare ampiezza, e anche partendo dal presupposto (comunque non incontestabile) che la previsione contrattuale dell’evento condizionante sia un fatto impeditivo, si può rilevare che l’unitarietà è data dalla natura stessa della fonte (negoziale) delle conseguenza giuridiche tra loro alternative, la cui alternatività discende dalla previsione di un’operazione economica unica, che non può non tradursi, su piano della manifestazione, se non in un’unica dichiarazione.

Il fatto impeditivo quale previsto dalla legge, si configura, invece, in un fatto autonomo che, a fronte di un fatto già di per sé potenzialmente produttivo di effetti, la legge stessa ritiene giustifichi la mancata produzione. Così, ad esempio, assumendo come fatto impeditivo il dolo ex art. 1439 c.c. (sui vizi della volontà come fatto impeditivo cfr. Proto Pisani, Lezioni di Diritto Processale civile, Napoli, 1999, 472; in tal caso, trattandosi di annullabilità, l’impedimento dell’effetto segue lo schema della retroattività dell’annullamento): il fatto decettivo, considerato nei suoi estremi soggettivi ed oggettivi, è fatto autonomo e distinto dalla dichiarazione negoziale.

A ciò si aggiunga, che il fatto impeditivo ha quale unico effetto quello di impedire, per l’appunto, la produzione di effetti ad opera di un fatto potenzialmente idoneo a produrli (infra, ancora nota 35), mentre la mancanza di buona fede soggettiva, almeno in alcune sue esplicazioni (quali quelle previste dagli artt. 1148 c.c. e 2033 c.c.), conduce pur sempre, quale effetto finale, alla costituzione di obbligazioni, benché diverse da quelle che sarebbero sorte in presenza della buona fede, e non solo a impedire gli effetti di questa.

 

[32] Ad esempio, la condizione sospensiva che impedisce la produzione degli effetti contrattuali non è produttiva di effetti propri e differenti da quello impeditivo.

 

[33] Con riguardo al possesso di buona fede v. Pugliese, La prescrizione acquisitiva, Torino, 1924, 649, nota 1, che qualifica la buona fede (soggettiva) come elemento costitutivo della fattispecie; in questo senso anche D’Avanzo, Il possesso, Milano, 1939, 58 ss.

 

[34] Diversamente Montel, Il possesso di buona fede, Padova, 1935, 42, il quale critica la tesi secondo cui la buona fede sarebbe un elemento costituivo della fattispecie, affermando che detta tesi «parte dalla premessa erronea che gli elementi costitutivi esauriscano la categoria degli elementi essenziali e che quelli impeditivi non ne facciano quindi parte. In realtà, invece, gli elementi impeditivi presi positivamente sono elementi essenziali della fattispecie al pari degli elementi costitutivi», in questa linea sembra anche Bignardi, Brevi considerazioni sulla funzione della buona fede nell’usucapio, in particolare nel pensiero di Paolo, in Il ruolo della buona fede oggettiva nell’esperienza giuridica storica e contemporanea (Atti del Convegno internazionale di studi in onore di Alberto Burdese, Padova-Venezia-Treviso, 14-15-16 giugno 2001), I, Padova, 2003, 215.

Sul punto ci sembra si possa osservare che se è vero che la figura giuridica spesso richiamata quale esempio di fatto impeditivo, cioè la condizione sospensiva, è strutturalmente riconducibile all’interno della medesima fattispecie (contrattuale), ci sembra altrettanto vero che in tal caso la efficacia giuridica dell’evento condizionante rimane all’interno della sfera degli effetti propri della fattispecie, determinando l’efficacia o l’inefficacia di quest’ultima, ma non è idonea a produrre effetti giuridici autonomi (questa ci sembra l’idea seguita da Falzea, La condizione e gli elementi dell’atto giuridico, Milano, 1941, spec. 219 s.; della quale già si trovano tracce in Chironi - Abello, Trattato di diritto civile italiano, I, Torino, 1904, 432 s.: «Chi costituisce un negozio condizionato non fa una doppia dichiarazione, l’una pura e semplice e l’altra condizionata, ma una sola ed unica in cui è inclusa pure la condizione, che n’è parte essenziale… il dichiarante tenne presente quell’avvenimento futuro ed incerto che come condizione ha fatto accedere alla dichiarazione», dal che gli AA. ricavano il carattere di indivisibilità della dichiarazione, precisando che «la… caratteristica speciale [della dichiarazione] è di affievolire l’intensità, la forza che altrimenti la volontà avrebbe avuto, e che ha efficacia solo pel concorso della determinata circostanza ch’essa comprende; ond’è, che il nesso di tal modalità o determinazione con la dichiarazione principale di volontà è un nesso organico così da potersi considerare come consostanziale alla dichiarazione stessa», sugli effetti della condizione sospensiva v. 444 ss.; recentemente, sulla valenza della condizione con riguardo agli effetti piuttosto che alla fattispecie, Ugas, Il negozio giuridico come fonte di qualificazione e disciplina di fatti, Torino, 2002, 235 ss.) come invece avviene per la fattispecie di buona fede, che pure produce delle obbligazioni restitutorie, benché diverse per contenuto alle obbligazioni prodotte dalla fattispecie di mala fede (cfr. note 26 e 29).

 

[35] O quantomeno idonee alla produzione di effetti. Ad esempio, il possesso di un bene, sia di buona fede che di mala fede, qualora non vi siano stati percepimento di frutti, spese, riparazioni ecc., non è produttivo di effetti, pur essendo potenzialmente idoneo.

 

[36] Sulla buona fede dell’accipiens correlato alla conoscenza del vizio dell’atto negoziale in esecuzione del quale è posto in essere il pagamento, distinguendo le ipotesi in cui il difetto della causa debendi è originario, da quelle in cui è sopravvento, v. Breccia, La ripetizione dell’indebito, Milano, 1974, 262 ss.

 

[37] Fatto salvo il pagamento degli interessi e la corresponsione dei frutti dal momento della domanda; per ulteriori conseguenze dello stato di buona fede v. Sacco, La buona fede nella teoria dei fatti giuridici di diritto privato, cit., 143. Sull’argomento Nicolussi, Appunti sulla buona fede soggettiva con particolare riferimento all'indebito, in Riv. crit. dir. priv., 1995, 265 ss.

 

[38] In argomento v. Breccia, La buona fede nel pagamento dell’indebito, in Studi sulla buona fede, Milano, 1975, 461 ss.; Id., Il pagamento dell'indebito, in Tratt. dir. priv. diretto da Rescigno, IX, Torino, 1986, 755 ss.; Moscati, Del pagamento dell'indebito, in Comm. cod. civ. a cura di Scialoja e Branca, Bologna - Roma, 1981, 61 ss.

 

[39] L'onere della prova, infatti, grava su chi allega il fatto: in argomento S. Patti, Prove - Disposizioni generali, in Comm. cod. civ. a cura di Scialoja e Branca, Bologna - Roma, 1987, 5 ss.

 

[40] V. quanto riportato supra alla nota 38.

 

[41] L'alternativa tra buona fede e mala fede, posto che tali stati intellettivi concorrono al perfezionamento delle relative fattispecie unitamente agli altri elementi costitutivi (supra nota 38) si traduce nell'alternatività tra le due fattispecie

 

[42] Nel già citato esempio dell'indebito oggettivo, previsto dall'art. 2033 c.c., l'obbligazione di pagamento degli interessi e restituzione dei frutti è prodotta in base alla sussistenza di tutti gli estremi del fatto costitutivo, ivi compresa la mala fede dell'accipiens.

 

[43] Con riferimento all'esempio riportato nella nota precedente, vediamo che il rapporto obbligatorio previsto nell'ipotesi di buona fede è diverso da quello previsto per l'ipotesi di mala fede, in quanto nel primo non è prevista la corresponsione dei frutti e il pagamento degli interessi.

In tal senso gli effetti possono essere definiti antinomici in quanto contrastanti (sul trattamento giuridico a contrario, con riguardo al possesso, si è detto supra, nota 12).

 

[44] Nel senso che la buona fede soggettiva non configura una clausola generale, la quale - come si vedrà con riferimento alla buona fede oggettiva - pur non riconducendosi a una fattispecie determinata, assume una rilevanza normativa autonoma. Essa rimane, come più volte si è detto, un elemento costitutivo di una specifica fattispecie.

 

[45] Lo stato intellettivo, infatti, nonostante la sua natura soggettiva, rileva per l'ordinamento giuridico nel momento in cui si oggettivizza, cioè si manifesta verso l'esterno (ponendosi nell'ambito di una fattispecie) non rimane uno stato psicologico interiore.

 

[46] Difatti nei confronti dello stato intellettivo o gnoseologico di buona o mala fede viene svolto un giudizio ricognitivo diretto a verificare la sussistenza nel caso concreto di tale stato psicologico, quale descritto nella norma di legge.

 

[47] Ci si riferisce al rapporto funzionale tra principi generali e clausola generale di buona fede.

 

[48] Da ciò sorge il problema se la buona fede oggettiva sia fonte di integrazione del contratto.

 

[49] L'obbligo di buona fede, discendente dall'art. 1375 c.c., si concretizza nell'ambito del contratto, partecipando alla vicenda contrattuale. Il problema della concretizzazione dell'obbligo di buona fede assomma in sé la problematica della oggettivazione della clausola generale di buona fede e della determinazione dell'oggetto dell'obbligo.

 

[50] Sulla qualificazione della buona fede oggettiva come clausola generale cfr. Bianca, La nozione di buona fede quale regola di comportamento contrattuale, cit., 206; Cattaneo, Buona fede obiettiva e abuso del diritto, in Riv. trim. dir. proc. civ., 1977, 616; Rescigno, L'abuso del diritto, in Riv. dir. civ., 1965, 232.

 

[51] La clausola generale è diretta a operare nell'ambito di un singolo settore dell'ordinamento, caratterizzato da interessi, per così dire, «tipici»; ed è proprio per questo motivo che la buona fede oggettiva, operando nell'ambito delle vicende contrattuali ove gli interessi tutelati sono quelli riconducibili al contratto, è da qualificare come clausola generale e non come principio generale il quale, invece, è diretto a operare nell'ambito dell'intero ordinamento giuridico, non solo nel settore privatistico e non solo, a maggior ragione, con riguardo alla figura contrattuale.

 

[52] Sullo sviluppo storico della categoria di buona fede cfr. Senn, voce Buona fede nel diritto romano, cit., 133, il quale rileva come non si sia ancora giunti alla conoscenza del motivo per cui due categorie così diverse, come la buona fede oggettiva e quella soggettiva, abbiano mantenuto (o siano pervenute) all'identità del nome.

 

[53] V. ancora Senn, voce Buona fede nel diritto romano, cit., 130 ss.; tale sviluppo autonomo si ebbe altresì nel diritto intermedio: Massetto, voce Buona fede nel diritto medievale e moderno, cit., 136, 138 ss., 147 ss.

 

[54] Cfr. espressamente sul punto Bigliazzi Geri, voce Buona fede nel diritto civile, cit., 157 ss.

Rilievo, seppur non decisivo, all'elemento etico e morale nell'individuazione della categoria di buona fede è dato, tra gli altri, da Trabucchi, Il nuovo diritto onorario, in Riv. dir. civ., 1959, I, 499; Stolfi, Il principio di buona fede, in Riv. dir. comm., 1964, I, 171; Cattaneo, Buona fede obiettiva e abuso del diritto, cit., affianca alla morale anche la tutela delle esigenze dei traffici commerciali; così anche Di Majo, L'esecuzione del contratto, cit., 411; con particolare riferimento alla buona fede oggettiva, ma con un ragionamento estensibile anche alla buona fede soggettiva, viene fatto notare da Bianca, Diritto civile, I, la norma giuridica - le persone, Milano, 2002, 15, come la buona fede attiene a una norma giuridica (avente il carattere di eteronomia) distinguendosi quindi dalla norma morale; per Breccia, Diligenza e buona fede nell'attuazione del rapporto obbligatorio, cit., 6, la nozione di buona fede «implica certamente una valutazione di natura etico-sociale, anche se non sarebbe esatto affermare che si risolva in essa».

 

[55] Decisamente contrario a questa tesi è Mengoni, Gli acquisti «a non domino», cit., , 306 ss., il quale chiarisce, rispetto alla buona fede soggettiva, che «la c.d. concezione psicologica non nega la componente etica, ma ne esaurisce la portata sul piano metagiuridico del processo di motivazione della norma che alla buona fede, intesa come fatto psicologico, conferisce rilevanza giuridica»

 

[56] Senza voler entrare specificamente in argomento dobbiamo evidenziare come l'etica - almeno secondo un orientamento - è lo strumento di analisi razionale dei concetti valutativi, diretti a distinguere, generalmente, ciò che è bene e ciò che non lo è. È di tutta evidenza come le norme giuridiche che prevedono e disciplinano la buona fede soggettiva, considerino come meritevoli di tutela giuridica anche quei comportamenti sociali influenzati dalla normale fallibilità dell'uomo, ma che comunque trovano una loro giustificazione e ragione di ordine socio-economico. Comportamenti, questi, che già nella fase metagiuridica (e comunque prelegislativa) vengono socialmente considerati accettabili e giustificabili, e quindi non come un «male».

Contrasta l’idea che la buona fede (intesa nel suo significato oggettivo) trovi la propria origine, o comunque abbia un fondamento nell’etica, Carcaterra, Intorno ai bonae fidei iudicia, cit., 158 ss., per una particolare osservazione, che sgancia - anche sotto il profilo applicativo - la buona fede dall’etica, v. 216.

 

[57] Tra questi si pone chiaramente l'art. 1551 diretto a garantire un pacifico possesso dei beni, salvo accertamento giudiziale di un diverso e altrui diritto, eliminando eventuali inibizioni e timori da parte dei consociati di vedersi sanzionati per un atto socialmente utile e non riprovevole, suscettibili di avere una efficacia «frenante» per l'economia. In questo stesso senso opera anche l'art. 1153 c.c.

 

[58] L'art. 2033 c.c. sul pagamento dell'indebito ha la funzione, almeno sotto questo profilo, di non rendere eccessivamente macchinoso l'adempimento dell'obbligazione ricorrendo ad accertamenti e formalismi.

 

[59] Non va sottovalutato il pericolo che, in tal modo, vengano ad essere qualificati come legittimi una serie di atti i quali di per sé portano alla violazione di interessi altrui, facendo sì che comportamenti determinati sì da ignoranza o errore, ma accompagnati da negligenza, siano appaganti; mentre la scarsa ponderatezza, la negligenza, o comunque l'imputabilità dell'ignoranza o del dolo (cioè la buona fede colpevole) dovrebbero essere sanzionati dall'ordinamento giuridico. Sul problema cfr. Bigliazzi Geri, voce Buona fede nel diritto civile, cit., 162 e supra, nota 7.

 

[60] Ciò in base al fatto che la buona fede soggettiva è elemento costitutivo di una più vasta fattispecie normativa idonea a produrre determinati effetti, difformi dagli effetti eventualmente prodotti dalla medesima fattispecie integrata non dalla buona ma dalla mala fede (v. ancora supra, nota 12).

 

[61] V. al proposito quanto riportato supra, alle note 61 e 62.

 

[62] V. A. Costanzo, L’argomentazione giuridica, Milano, 2003, 63: «un valore etico veicolato da norme giuridiche – e accompagnato dalla forza coercitiva che è loro propria – è una entità diversa da quella originaria ». Una approfondita ricerca sui rapporti tra l’etica e il diritto privato è svolta da Palazzo, Interessi permanenti nel diritto privato ed etica antica e moderna, in Palazzo-Ferranti, Etica del diritto privato, I, Padova, 2002, 1 ss., il quale rileva altresì l’originario rapporto tra la fides e fides bona con l’etica (15, ove ulteriore bibliografia).

 

[63] La «norma a fattispecie determinata» è da intendersi come un precetto legislativo strutturantesi nella previsione specifica di un dato fenomeno. Sotto il profilo applicativo essa richiede la sussistenza di una fattispecie concreta conforme, tale che tutti gli elementi costitutivi di quest'ultima si sovrappongano a quelli della fattispecie astratta. L'applicazione della norma in esame, pertanto, avviene quando la fattispecie astratta trova un omologo nella realtà fenomenica.

Gli elementi della fattispecie astratta, quindi, svolgono una funzione eminentemente descrittiva. Tra questi la buona fede soggettiva, la quale, come viene esplicato nel testo, descrive uno stato intellettivo di errore o ignoranza che deve poi sussistere nel caso concreto.

 

[64] Cfr. al proposito quanto riportato supra alla nota 25.

 

[65] Nonostante non vi sia nella dottrina filosofica una identità di vedute sul concetto di «giudizio di valore», possiamo ritenere che, almeno sotto il profilo giuridico-privatistico, per «giudizio di valore» si debba intendere una valutazione secondo il comune sentire, al di là di qualsiasi previsione normativa. Se la nozione di buona fede soggettiva non involge un giudizio di valore, altrettanto si può dire, secondo la nostra ricostruzione, per la buona fede oggettiva.

 

[66] Talune figure regolamentatrici del vivere comune possono avere un'origine etica (cfr. Betti, Teoria generale delle obbligazioni, I, Prolegomeni: funzione economico-sociale dei rapporti d’obbligazione, cit., 66 s.), tra queste possiamo annoverare i modelli comportamentali riconducibili alla buona fede oggettiva. Anche questi, comunque, non si identificano nell'etica, determinandosi - come vedremo diffusamente nel capitolo seguente - secondo altri indici più strettamente giuridici e collegati alla singola fattispecie contrattuale.

 

[67] Come si vedrà oltre, anche la buona fede oggettiva, oltre quella soggettiva, non presenta una relazione giuridicamente rilevante con l'etica.

 

[68] Montel, voce Buona fede, cit., 601, che, criticando la contrapposizione tra la concezione etica e la concezione morale della buona fede, afferma: «agisce in buona fede, secondo i comuni apprezzamenti, chi dice il vero, chi tiene la parola data, chi esegue le prestazioni pattuite, chi non trae altri in inganno…, in genere chi non lede scientemente e volontariamente il diritto altrui», se da tale concetto generico di buona fede si vuole giungere al «contenuto specifico… non [si] può prescindere dall’oggetto al quale nelle varie ipotesi si riferisce», con la conseguenza che «poiché il galantuomo non lede coscientemente il diritto altrui, è chiaro che…, per quanto concerne l’acquisto del possesso, la buona fede deve di necessità implicare che il soggetto ignori di porre in essere con la adprehensio una lesione», dal che la conclusione per cui «la buona fede implica necessariamente uno stato psicologico del soggetto»; per una espressa critica a questa impostazione Giampiccolo, La buona fede in senso soggettivo nel sistema del diritto privato, cit., 337 s.

L' «intersecazione» della buona fede oggettiva con la buona fede soggettiva, ossia del loro ambito operativo,  non appare una particolarità dell'esperienza giuridica italiana, v. ad esempio l'opera di De Los Mozos, El principio de la buena fe, Barcelona, 1965, passim, spec. 125, 186 ss.

 

[69] Il Montel, op. cit., 603, si richiama, infatti, alla citata quadripartizione del Betti (supra, nota 3) il quale vede la buona fede soggettiva collegata all’obbligo dell’agente di comportarsi secondo correttezza, benché quest’ultimo A. distingua gli obblighi discendenti dalla correttezza con quelli discendenti dalla buona fede (Betti, Teoria generale delle obbligazioni, I, Prolegomeni: funzione economico-sociale dei rapporti d’obbligazione, cit., 68, 71).

 

[70] A livello giurisprudenziale, in realtà, tale distinzione è data per scontata tanto che non si ravvisano, almeno negli ultimi decenni, sentenze in cui tale distinzione sia emersa, con finalità sillogistiche, nella motivazione.

 

[71] V. gli autori riportati nella nota 3.

 

[72] Giampiccolo, La buona fede in senso soggettivo nel sistema del diritto privato, cit., 337 s.  Sempre in considerazione, comunque, del fatto che la buona fede (o la mala fede) concorre a perfezionare una più ampia fattispecie la quale è essa stessa fatto costitutivo.

 

[73] Cioè all’adempimento o all’inadempimento.

 

[74] Difatti si tende ad identificare la buona fede oggettiva con la correttezza: Sacco, La buona fede nella teoria dei fatti giuridici di diritto privato, cit., 14, nota 15; Mengoni, Obbligazioni "di risultato" e obbligazioni "di mezzi", in Riv. dir. comm., 1954, I, 368, 393, 396; Moscati, Osservazioni in tema di buona fede oggettiva nel diritto privato italiano, in Gli allievi romani in memoria di Francesco Calasso, Roma, 1967, 255; Montel, voce Buona fede, cit., 603; Natoli, Note preliminari ad una teoria dell'abuso del diritto nell'ordinamento giuridico italiano, in Riv. trim. dir. proc. civ., 1958, 28 s.; Id., L'attuazione del rapporto obbligatorio, cit., 6 ss.; Salv. Romano, voce Buona fede, cit., 877; Stolfi, Il principio di buona fede, cit., 169 ss.; Di Majo, L'esecuzione del contratto, cit., 371 s.; Id., Delle obbligazioni in generale cit., 284 ss.; Rodotà, Le fonti di integrazione del contratto, cit., 137 ss.; Breccia, Diligenza e buona fede nell'attuazione del rapporto obbligatorio, cit., 42 s.; Dell'Aquila, La correttezza nel diritto privato, Milano, 1980, 2, nota 4 e 11, nota 26; Bianca, Diritto civile, III, il contratto, Milano, 2000, 500; Criscuoli, Buona fede e ragionevolezza, in Riv. dir. civ., 1984, I, 709 ss.; Id., Il contratto, Padova, 1992, 477.

 

[75] V. per tutti Giampiccolo, La buona fede in senso soggettivo nel sistema del diritto privato, cit., 337.

 

[76] Uno dei problemi di fondo sta nel verificare quali effetti vengono prodotti dalla buona fede oggettiva e, pur con le dovute differenze di natura operativa, dalla correttezza. In particolar modo viene da chiedersi se esse siano produttive di effetti obbligatori in senso stretto, cioè produttiva di obbligazioni o, diversamente, di obblighi giuridici.