N. 3 – Maggio 2004 – Lavori in corso – Contributi

 

 

Un letrado sassarese al servizio della Monarchia ispanica. Appunti per una biografia di Francisco Ángel Vico y Artea*

 

 

Francesco Manconi

Università di Sassari

 

 

Sommario: 1. L’ascesa nella burocrazia del regno di Sardegna. – 2. A Madrid, nel Consiglio d’Aragona. – 3. Il plenipotenziario del conte-duca di Olivares. – 4. I memoriales d’accusa contro il regente Vico. – 5. Il caso politico della pubblicazione della Historia general. – 6. La caduta del conte-duca e il declino del regente sardo.

 

 

 

1. – L’ascesa nella burocrazia del regno di Sardegna

 

Sul declinare della sua esistenza il regente sardo del Supremo Consiglio d’Aragona Francisco Ángel Vico y Artea indirizza al re Filippo IV una súplica nella quale ricapitola i momenti salienti della sua biografia di fedele servitore della Monarchia[1]. La carriera di letrado era cominciata nel 1606 a Sassari, sua città natale, come giudice della Real Governación del Cabo di Logudoro; dopo tre anni era stato promosso a giudice della sala criminal della Real Audiencia di Sardegna ed aveva operato in quella plaza di grande prestigio e responsabilità fino al 1627, «governando aquel Reyno de Regente en todas las ocasiones de las ausencias y vacantes de los que le tenían en propiedad»[2]. Da questi primi cenni autobiografici, scritti forse nel 1645, risulta chiaro come Vico avesse assunto un ruolo politico d’assoluto rilievo già prima dell’esperienza di governo a Madrid. Nel 1626, in un momento politicamente molto delicato per il regno di Sardegna e per l’intera Monarchia ispanica, surroga il regente la Cancillería del regno di Sardegna don Francisco Pacheco; copre la seconda carica del regno fino al maggio 1627, allorché lascia l’isola per occupare la plaza di regente sardo nel Consiglio d’Aragona a Madrid[3].

La sua inarrestabile ascesa era stata costruita con grande accortezza politica. Nelle cortes del 1614 aveva sostenuto il viceré duca di Gandía[4], «assistiendole sin faltarle un punto - afferma nella sua súplica - siguiendo en todo sus órdenes y con su autoridad y mano se confirmó el servicio de los 125 mil escudos de los Parlamentos passados y se aumentó hasta 150 mil en beneficio del Patrimonio de Vuestra Magestad. Y en las que celebró Don Juan Vivas el año 1623 passó el suplicante los trabajos que son notorios en oposición de los que contradecían que no se formasse en aquel reyno la esquadra de Galeras y se sirviesse a Vuestra Magestad con la panática y manjativo, y con una protesta que hizo en la Junta a los que se opponían a este servicio se reducieron algunos con los quales fueron los votos superiores a los que lo contradecían y se consiguió el servicio de Vuestra Magestad con las capitulaciones que se refieren en la conclusión de las Cortes sirviendo en ambos Parlamentos de juez de greuges, tratador y habilitador»[5].

È una sintesi puntuale sui meriti politici che il nostro letrado può vantare, in virtù di un’assoluta disponibilità a servire il re in nome del superiore valore della fidelidad[6]. Nelle poche occasioni in cui si manifestano in Sardegna spinte contrarie agli indirizzi centralistici della Monarchia Vico si pone sempre dalla parte del viceré di turno. Sono tempi in cui vanno facendosi sempre più decise le sollecitazioni assolutistiche del centro sulla periferia. Opportunità nuove si presentano allora per i letrados che intendono fare il salto di qualità nell’apparato amministrativo della Monarchia. Una prima ghiotta occasione si presenta col varo del progetto di riforma fiscale e di potenziamento della difesa mediterranea. Il letrado sassarese è sicuramente della partita e le sue chances crescono quando si pone a disposizione del viceré di Sardegna Carlos Borja de Gandía. Il grande signore valenziano è feudatario di vasti estados in Sardegna e rappresenta un importante elemento di raccordo politico fra il centro madrileno e la provincia sarda. Prebende e vantaggi di carriera sono la contropartita sicura per chi si impegna a sostenere il governo di Madrid nella fase di gestazione del regime del conte-duca di Olivares. Negli anni del viceregno Borja don Francisco Vico viene promosso «por los caminos que aquí se usan» da fiscal della Governación di Sassari a ministro della reale Audiencia come giudice criminal. Per il figlio di «un boticario» è un avanzamento straordinario, tanto inconsueto nel cursus honorum dei letrados di provincia da far scrivere al polemico inquisitore Gámiz che Vico è «el verdadero virrey» di Sardegna[7].

In verità Vico aveva già da prima manifestato tutte le sue capacità manovriere per ingraziarsi il viceré in carica ed entrare nella cerchia dei fiduciari governativi. Nel 1608 il viceré Pedro Sánchez de Calatayud, conde del Real, riceve dal re l’ordine di recarsi a Sassari con tutto il Consiglio vicereale per amministrarvi giustizia[8]. La prolungata residenza a Sassari della Audiencia allarma i giudici cagliaritani che paventano un pregiudizio alla status di capitale di fatto della loro città. La frattura porta i giudici filocagliaritani (il regente Mur e i dottori Masons e Dalp) a screditare lo stesso viceré accusandolo d’essersi accordato con i sassaresi (attraverso il conseller en cap della città don Francisco Scano Castelví)  per convincere la corte della convenienza di trasferire a Sassari la sede del governo vicereale e della Audiencia al fine di celebrarvi i parlamenti. Secondo le accuse di Mur, sarebbero stati i giudici sassaresi Jagaracho e Vico ad indurre a questo passo il conte del Real, che al momento del suo arrivo aveva ricevuto dal consiglio civico di Sassari un’offerta di mille ducados e una fornitura gratuita di grano ed orzo. Basta la propensione benevola manifestata verso Sassari per far cadere sul viceré l’accusa d’essersi fatto corrompere e di violare la tradizione puntando nei fatti al trasferimento della capitale a Sassari[9]. In effetti i timori dei cagliaritani non sono del tutto destituiti di fondamento perché in quei giorni i consellers di Sassari ed i nobili del Capo di sopra compiono l’ennesimo tentativo di porre la candidatura della loro città come sede del parlamento attraverso un’ambasciata a Madrid del loro síndico don Estevan Manca de Cedrelles[10]. Ma il Consiglio d’Aragona dispone che viceré e Audiencia rientrino a Cagliari e a quel punto il conde del Real deve fare fronte all’ostilità del clero e dell’establishment municipale e nobiliare cagliaritano. Quando nel 1611 la visita di don Martin Carrillo porta alla luce certe responsabilità amministrative dei vertici del governo sardo, soltanto la minoranza filosassarese della Audiencia si schiera a sostegno di Sánchez de Calatayud. La contiguità di Vico con l’inquisito (a cui parrebbe legato addirittura da vincoli di parentela) è così stretta che il visitador finisce per coinvolgerlo nell’inchiesta come falso testimone e come manutengolo del viceré[11].

Ma Vico non è persona da farsi impaniare nelle disgrazie giudiziarie e politiche a cui sovente vanno soggetti i viceré invisi ai gruppi dirigenti locali. Mentre pendono su di lui i cargos del visitador, don Francisco viene inserito dal nuovo viceré duca di Gandía nella terna degli aspiranti a ricoprire una plaza della sala civil della Audiencia sarda. La lotta che si accende fra Cagliari, Barcellona e Madrid per scegliere il nuovo giudice è aspra e senza esclusione di colpi. Come patrons dei candidati scendono in campo da un lato il visitador Carrillo (che sostiene l’advogado fiscal della visita) e dall’altro il viceré duca di Gandía e l’arcivescovo di Cagliari Francisco de Esquivel che sostengono Vico[12]. Il peso politico dei due padrini è tale che il vicecancelliere d’Aragona non può prescegliere un altro candidato[13]. Benché sia sotto processo per «delictos en el offissio», Vico viene promosso a giudice delle due salas. Dalla nuova solida posizione, che talvolta gli assicura anche la supplenza nella regencia della cancillería del regno, può agevolmente risolvere le pendenze giudiziarie e proporsi per ulteriori promozioni. Il 27 giugno 1615 il Supremo Consiglio d’Aragona lo manda assolto dalle imputazioni della visita Carrillo e quasi contestualmente Filippo III emana da Aranjuez un privilegio di cavalierato a suo favore[14].

Ma le gratificazioni del letrado sassarese non si fermano qui. Due anni dopo, nel 1617, allo spirare del viceregno Gandía, sfrutta le ultime opportunità della protezione di Carlos Borja per postulare nuove mercedes. Come riconoscimento dei meriti acquisiti presso la Corona per aver istruito la difesa del conde del Real durante la visita Carrillo e per aver coadiuvato il viceré Gandía nel governo del regno richiede al Consiglio d’Aragona una saca di quattromila starelli di grano sardo ed un titolo di nobiltà[15]. La sua abilità nel profittare dei vantaggi del patronage è fuori del comune. Ma ormai il rapporto col signore valenziano è destinato ad allentarsi e così cominciano ad assottigliarsi anche i favori del Consiglio d’Aragona. Sono battute d’arresto quasi inevitabili, ma che non frenano i suoi propositi d’ascesa sociale. Nel 1619, rinnova, ma invano, la richiesta di nobilitazione[16].

Non sappiamo se in quel periodo abbia già attivato a corte nuovi rapporti clientelari e se possa contare su un suo personale credito politico. Certo è che a più riprese dalla Sardegna fornisce al Consiglio d’Aragona consulenze di carattere giuridico-amministrativo, propone arbitrios (ossia personali soluzioni) in questioni politiche del regno, avanza a corte varie súplicas per sé e per i propri congiunti e sodali. Cresce la sua autorevolezza e in pari tempo si consolida lo spazio di potere personale a tutto vantaggio della sua famiglia e della rete clientelare sassarese. Nel 1621, come advogado fiscal e oydor «más antiguo» della Audiencia sarda, chiede per il figlio Pedro Vico, ecclesiastico «licenciado en artes» e studente di teologia e di diritto, la merced dell’abbazia di San Nicolás nella diocesi d’Oristano. Motiva la súplica al re ponendo sul piatto della bilancia i venticinque anni del suo onorato servizio, «mirando por el aumento de su Real Patrimonio y conservación de su Real jurisdicción en ocasiones de competencias, acudiendo también con su hazienda en ocasión de precisas necessidades de su real servicio, prestando a la real caxa sin interés ninguno millares de ducados empeñando su hazienda y la de sus hijos por servir a Vuestra Magestad, acompañando los Virreyes en muchas visitas del Reyno a su costa y perdiendo los gajes de la audiencia»[17].

Al di là di qualche esagerazione, i meriti vantati paiono reali e pare completamente mutata la posizione sociale ed economica del letrado sassarese. Dopo poco più d’un decennio dall’ingresso nei quadri della burocrazia regia Francisco Vico è in grado di vantare un ruolo qualificato nel governo del regno e può anche permettersi ingenti anticipazioni finanziarie a favore della Corona. Quanto sia cresciuta la sua influenza politica lo dimostra un piccolo ma significativo episodio che riguarda i rapporti di potere nella sua città d’origine. Quando il governatore del capo di Sassari don Enrique de Sena chiede a Madrid che il figlio don Francisco Ramón venga designato come suo coadiutore (l’intento è quello di stabilire una continuità familiare nell’esercizio della carica) Vico segnala l’inopportunità di quella nomina[18]. È un passo politico molto significativo, un azzardo che un parvenu come Vico nel milieu nobiliare sassarese non avrebbe compiuto contro una casa aristocratica d’antico lignaggio come i Sena se non avesse già alle spalle una rete di potere consolidata ed un forte credito politico negli ambienti di corte.

Per i letrados più accorti – e Vico è persona oltremodo accorta – i lavori parlamentari costituiscono sempre un’occasione propizia per ottenere dalla Monarchia favori politici e ricompense economiche. Dopo la fruttuosa esperienza col duca di Gandía è il viceré Juan Vivas de Canyamàs ad offrire al nostro una nuova opportunità di autopromozione. A metà degli anni venti il viceré è protagonista d’un burrascoso braccio di ferro parlamentare con una buona parte del notabilato cagliaritano. Il sostegno dei rappresentanti sassaresi e della grande feudalità sardo-ispanica diviene decisiva per far passare in parlamento, con l’avallo del Consiglio d’Aragona, la linea autoritaria del viceré contro la volontà della nobiltà e del Consiglio civico di Cagliari[19]. Vico è parte dello schieramento favorevole al viceré e come abilitador e jutge de greuges si adopera per spostare voti a favore della causa vicereale[20]. La sua mediazione servirà a molti nobili logudoresi abilitati (talvolta, «muchachos de linea bastarda») per strappare a Vivas la promessa di cavalleratos, noblezas, hábitos[21]. Insomma, grazie ai buoni uffici del giudice togato, gli interessi personali e di fazione dei sassaresi collimano con gli interessi governativi. È a quel punto che a Sassari e nel Logudoro comincia a coagularsi intorno a Vico una rete di patronage ampia, che coinvolge nobili e borghesi e che mira a sostituirsi ai cagliaritani nel rapporto privilegiato con la Monarchia e con i suoi ministri provinciali.

In Sardegna il periodo politico si caratterizza non soltanto per la stretta fiscale e centralistica imposta dai viceré di turno ma anche per la virulenza del conflitto municipalistico fra Cagliari e Sassari. L’insanabile spaccatura fra le due principali città del regno emerge a più riprese nel dibattito parlamentare e vi è un momento in cui la feudalità sassarese sembra in grado d’ottenere pari condizioni con quella cagliaritana e pare concretarsi persino la possibilità d’autoconvocazione dello “stamento” militare. Ormai il rapporto fra le classi dirigenti di Cagliari e Sassari è completamente lacerato e l’oggetto del contendere va ben oltre l’antico e ingarbugliato problema del primato ecclesiastico[22]. Le lacerazioni interne alle élites sarde e le lotte di fazione che ne scaturiscono assumono carattere trasversale e non solo toccano i rapporti fra città ed istituzioni laiche ed ecclesiastiche ma condizionano il funzionamento degli organi di governo periferici.

Il blocco di potere che in questi anni si è costituito intorno al viceré comincia a perseguire obiettivi più ambiziosi dei contingenti tatticismi parlamentari proprio per l’operato di Francisco Ángel Vico. Il rafforzamento personale del giudice sassarese all’ombra del viceré Vivas si ripercuote sugli equilibri interni della Audiencia con l’emarginazione di giudici di primo piano come Francisco Corts e Nicolás Scarxoni[23]. Le sue relazioni privilegiate finiscono per risultare determinanti non solo nelle lotte sotterranee fra i giudici della Audiencia ma anche nei conflitti delle fazioni cittadine. Durante il viceregno del marchese di Baiona Vico otterrà il ridimensionamento dei suoi avversari che, nella fattispecie sassarese, sono le case nobiliari, i giudici e i funzionari della Governación di Sassari a lui ostili[24].

Vico è ormai il letrado di maggiore spicco politico e forse è anche in quel momento il giudice togato di più alto sapere giuridico. Ma è, soprattutto, il più leale ministro della Monarchia, sempre allineato senza tentennamenti sulle posizioni del governo centrale. Il sostegno dato al viceré Vivas durante le aspre vertenze parlamentari sarde era stato decisivo per maturare una merced importante, commisurata all’importanza del servicio prestato. Quando nel 1624 il viceré accede alla richiesta parlamentare di designare un sardo alla regencia degli affari di Sardegna in Consiglio d’Aragona, la prestigiosa carica pare fatta su misura per il giudice togato che ha servito meglio il re[25].

La designazione formale di Vico alla plaza di regente provincial non fa registrare opposizioni evidenti, forse perché in quel momento un generale sentimento d’appagamento prevale sulle lotte di fazione e sulle divisioni dei sardi. Finalmente si concretizza l’antica e diffusa aspirazione d’essere rappresentati a Madrid, in Consiglio d’Aragona, da un natural sardo deputato a tutelare gli interessi politici e giuridici del regno insulare. L’istanza dei sudditi sardi risaliva addirittura ai tempi dell’imperatore Carlo V[26] ed era stata riaffacciata più volte, da ultimo nel parlamento Gandía. Ma soltanto nel parlamento Vivas era stata formalizzata in un capítulo de corte che traduce anche nel contesto politico sardo le aspirazioni diffuse in tutti i regni della Corona d’Aragona di dare concretezza al rivendicazionismo autonomistico di marca corporativa[27]. Nel mettere in evidenza l’importanza crescente del ruolo dei letrados nell’amministrazione centrale e periferica della Monarchia, il “capitolo” sosteneva la necessità d’un regente “natural” del regno, «lo qual axibé per la despedició de les causes del Supremo [Consiglio], com per lo informar les coses del estat del Regne (pragmàtiques, consuetuts, y lleis municipals dell) sería de gran servey de sa Magestat, profit y utilitat del Regne»[28]. La richiesta degli “stamenti” d’istituire una plaza per un sardo viene accolta dal re «por vía de favor y no de obligación», a condizione che sia il Regno a pagarne lo stipendio ordinario e a conferire ogni anno seimila reali per i diritti dovuti per sentenze e provisions del regente e per le spese a corte di casa de aposento, propinas de fiestas de toros y luminarias[29].

Ma l’abilità politica di Vico non si manifesta soltanto nella rincorsa di prestigiose e sostanziose mercedes. Egli esce miracolosamente indenne dalla bufera che si abbatte su coloro che avevano sostenuto il viceré Vivas. L’inchiesta del visitador Amador, promossa per accertare la correttezza dei comportamenti del viceré e degli ufficiali reali, coinvolge direttamente alcuni giudici della Audiencia responsabili sul piano giuridico delle decisioni arbitrarie, quando non illecite, assunte dal viceré Vivas in Sardegna[30]. Nell’occhio del ciclone finisce il regente la  real cancillería Francisco Pacheco, che viene inquisito da Amador e che paradossalmente sarà surrogato fra il 1626 e il 1627 proprio da Francisco Vico, il quale non meno degli altri giudici si era reso responsabile della linea di governo tenuta negli anni 1624-25.

Gli strascichi politico-amministrativi che seguono la celebrazione delle cortes finiscono per ritardare la chiamata del letrado sassarese a Madrid. Il trasferimento verrà ulteriormente rinviato quando i superiori interessi della Monarchia impongono che Vico assolva ad un incarico di grande importanza politica in Sardegna. Quando Madrid decide di coinvolgere i catalano-aragonesi nel progetto olivarista della Unión de armas i regentes del Consiglio d’Aragona vengono inviati in periferia per sensibilizzare e mobilitare i ceti dirigenti dei diversi regni. Don Luis Blasco, il regente che sino ad allora aveva istruito in Consiglio gli affari della secretaría de Cerdeña, è comandato a mobilitare i sudditi maiorchini e sardi.

In Sardegna, al pari degli altri regni della Corona d’Aragona, il consenso si deve conquistare nelle cortes. E chi meglio di Vico può assolvere ad un compito così delicato come è quello d’aggregare ed orientare i parlamentari, di manipolare il consenso, di promuovere insomma un pronunciamento favorevole del parlamento sardo? Vico, advogado fiscal della Audiencia, collabora col fiduciario di Olivares per orchestrare la convocazione degli “stamenti”, fintanto che non sopraggiunge il nuovo viceré Pimentel, marchese di Baiona. Quando Pimentel assume la presidenza del parlamento, il letrado sassarese è al suo fianco in qualità di membro togato della commissione per le abilitazioni parlamentari. Vico avrebbe più che altro la funzione di consulente giuridico: ma in realtà, come era avvenuto nelle cortes precedenti, finisce per assumere un ruolo attivo d’orchestratore del consenso[31]. Lo fa – è evidente - per interposta persona, attraverso suo figlio, quel Pedro Vico che si è affacciato alla ribalta politica appena cinque anni prima come studente e postulante di mercedes. Nel 1626, don Pedro, ormai dottore in utroque, prende parte al parlamento come vicario della diocesi di Oristano, decano della cattedrale di Cagliari e “señor de Gerrey”. Nella società privilegiata del regno è un bel passo in avanti, che consente al giovane ecclesiastico di raccogliere deleghe e di rappresentare persino alcuni nobili sassaresi[32]. La condotta del giovane Vico non diverge dalla linea seguita dal padre in tutte le circostanze parlamentari: si dà da fare per sostenere l’azione di don Luis Blasco e del viceré Pimentel in modo da maturare crediti politici che, alla conclusione del parlamento, immancabilmente gli assicurino ricompense e nuove promozioni nella carriera ecclesiastica.

Ma torniamo brevemente all’azione propagandistica di Blasco. Nella fase preliminare del parlamento l’inviato di Madrid si rivolge alle personalità più eminenti degli “stamenti” sardi con un documento a stampa, una proposición che nella sostanza ricalca il progetto del conte-duca sulla Unión de armas[33]: «si hazemos un mismo cuerpo – scrive Blasco – […] la ofensa de qualquiera de las partes dél, la ha de reparar y castigar esta unión». Il regente sa anche toccare la corda dei sentimenti evocando le antiche origini catalane, aragonesi e valenziane delle principali casate sarde e sollecitando sottilmente sensibilità unionistiche mai del tutto sopite nella nobiltà del regno. Il resto lo fanno le promesse di adeguate mercedes e di un impiego militare per coloro che saranno capaci di distinguersi nel servicio alla Monarchia.

Il progetto olivarista fa registrare nel regno di Sardegna un largo consenso, che stride con l’accesa conflittualità delle corts catalane del 1626 ed anche con le più attenuate resistenze delle cortes d’Aragona e Valencia[34]. È un primo vistoso segnale della divaricazione, nel Seicento, delle attitudini politiche dei ceti dirigenti sardi da quelli catalani. I secoli di “conformidad” culturale, sociale e giuridica fra Sardegna e Catalogna[35] vanno ormai dissolvendosi di fronte alla forza centralistica ed omologatrice dello Stato assoluto. Nel parlamento straordinario di Pimentel il servicio viene votato nemine discrepante e negli anni a venire l’adesione alla politica del conte-duca si tradurrà in continui conferimenti di uomini e di sostanze.

Il clima politico decisamente favorevole alla causa castigliana è ben delineato nel memoriale di Vico a cui abbiamo fatto già riferimento. A proposito dell’operazione politica connessa alla Unión de armas scriverà Vico intorno al 1645: «Llegó a Cerdeña Don Luis Blasco deste Supremo Consejo en el año 1626 con orden de Vuestra Magestad para representar al reyno las necessidades de la Monarchía y lo que necessitava ser socorrida con alguna leva de soldados sustentados por algunos años. Y reparando el reyno en sus necessidades representó el Regente [Francisco Vico] a los estamentos que para acudir a este servicio de Vuestra Magestad cedía el drecho que tenía en el salario que se le devía por la plaça de Regente deste Supremo Consejo. Y juzgando el reyno que para su mayor beneficio tenía por más necessaria su presencia en este Consejo no lo aceptó. Antes vino bien servir a Vuestra Magestad con 80 mil escudos por cinco años que después se ha prorrogado por diez más, y para este effecto offreció el Regente y ha pagado todos los años ducientos escudos, 150 por él y 50 por el Dean [Pedro Vico] su hijo en el dicho año de 1626. Le hizo Vuestra Magestad merced de la regencia de este Supremo Consejo donde acudió al año siguiente de 1627 para servir a Vuestra Magestad dejando su Casa en Cerdeña»[36].

L’intesa fra la corte e la provincia sarda pare perfetta. Lo dimostrano non tanto le scontate mercedes a favore di Vico quanto le numerose concessioni agli altri parlamentari su indicazione del viceré marchese di Baiona. Don Jerónimo Pimentel segnala a Madrid l’opportunità politica di premiare la fedeltà (ossia l’acquiescenza) dei sardi che avevano votato un consistente donativo senza sollevare problemi, accontentandosi di modeste ricompense in titoli nobiliari, cavalierati ed abiti di ordini militari[37]. L’assoluta assenza di richieste di portata generale a favore del regno è dunque compensata dall’elargizione a piene mani della gracia real ai particulares che agli occhi del sovrano avevano ben meritato in parlamento. È così che il patronazgo real apre sempre più le porte agli appetiti di nobilitazione dei ceti intermedi del regno. Nelle cortes straordinarie del 1626 sono amministratori di feudi, uomini della milicia, letrados, consiglieri civici a postulare hábitos, titoli di nobiltà e cavalierati. Ne ottengono talmente tanti che il numero non è di molto inferiore a tutte le nobilitazioni concesse dagli Austria “maggiori” nel Cinquecento[38].

 

 

2. – A Madrid, nel Consiglio d’Aragona

 

Quando sul finire di maggio del 1627 Francisco Vico lascia la Sardegna per Madrid, il marchese di Baiona gli rilascia credenziali a dir poco entusiastiche: «de [sus] méritos pudiera hacer larga relación por ser muchos y su integridad y limpieça de servir increhíble […] en un año que ha servido el officio de Regente ha sido con tanta alabança y acierto que por mucho que lo quiera encarecer quedaré corto»[39].

Il credito personale che don Francisco può vantare a corte induce il Consiglio d’Aragona a favorirlo fino al punto da deliberare alcune consultas quanto meno paradossali. Vico era stato solo sfiorato dall’inchiesta a tutto campo sugli ufficiali reali sardi compiuta anni prima da Baltasar Amador, il quale lo aveva posto in una posizione giudiziaria perlomeno “sospechosa”. Dopo la morte di Amador la visita di Sardegna languiva per le lentezze burocratiche madrilene ed anche perché non si trovava nelle Audiencias d’Aragona, Catalogna e Valencia un giudice disposto a trasferirsi nell’isola per concludere l’inchiesta. Nel settembre del 1627 il Consiglio d’Aragona pensa d’affidare quell’incarico proprio a Vico che è appena giunto a Madrid. È un’idea perlomeno bizzarra, perché a quel punto il regente sardo  sarebbe passato dalla posizione di “quasi” imputato al ruolo di visitador degli altri ufficiali reali di Sardegna. I regentes madrileni motivano la loro decisione sostenendo che Vico ha già maturato in Sardegna una solida esperienza amministrativa e che può quindi cumulare le cariche di visitador e di regente la cancillería e consentire così risparmi consistenti alle finanze reali perché «solo gozará del salario de Regente deste Consejo el qual le ha de pagar aquel Reyno»[40]. Ammettono, i consiglieri madrileni, che contro una tale scelta, dettata principalmente da esigenze di risparmio, militano sostanziali motivi politici, quali l’inopportunità d’attribuire la plaza di regente la cancillería a un natural del regno che si sarebbe sicuramente rilevato indulgente verso parenti ed amici e facilmente influenzabile nell’amministrare la giustizia. Ma le qualità del ministro sardo («sujeto de muy buenas letras, mucha virtud y prudencia, y de gran noticia de las cosas y negocios de Cerdeña») fanno propendere il Consiglio per il conferimento dell’incarico. Alla fine non se ne farà niente, la consulta rimarrà inapplicata e Vico non tornerà in Sardegna nel 1627.

Ma l’episodio lascia intendere come il favore della corte, maturato dopo la cooptazione in Consiglio, fosse decisivo per costruire – o ricostruire - la reputazione politica di un ministro reale provinciale. Come è buona regola, la considerazione riservata al letrado sassarese si traduce in gratificazioni pecuniarie. Una merced straordinaria di duemila ducados, corrisposta dal tesorero general marchese di Montesclaros per metà in tratas di legumi e per l’altra metà in due cavalierati, tende ad alleviare le difficoltà finanziarie che Vico deve affrontare a Madrid per la mancata corresponsione del suo salario di regente[41]. Si apre a quel punto una vertenza che durerà a lungo, perché i sardi vengono meno all’impegno formale assunto in parlamento di sostenere le spese dell’ufficio del regente sardo e il Consiglio d’Aragona non intende in alcun modo surrogare il regno[42]. Ma la morosità dei sardi non è soltanto la conseguenza dei soliti traccheggi nel pagamento dei “donativi” fiscali e delle altre contribuzioni dovute alla corona. In questo caso si vuole penalizzare Vico, nei cui confronti è cresciuta l’ostilità a Cagliari. Un fronte politico compatto, formato dall’arcivescovo, dal jurado en cabo del municipio e dal marchese di Villasor con altri títulos (in pratica l’intero schieramento parlamentare cagliaritano), ignora le sollecitazioni di Madrid e si rifiuta di pagare lo stipendio al regente sardo[43].

Le frizioni fra Vico e i cagliaritani emergono platealmente nel 1628. Il mancato gradimento di una parte dei connazionali crea imbarazzo a Madrid, ma non mina la fiducia nel nuovo regente. Già ai primi del 1629 si prospettano per Vico compiti politici di primo piano nel quadro della Unión de armas. Si  pensa d’inviarlo in Sardegna «por negocios graves del Real servicio». La Sardegna è tenuta al pari degli altri regni a dare il suo contributo alla guerre della Monarchia. Bisogna soccorrere urgentemente con denaro fresco il governatore di Milano don Gonzalo de Cordova, impegnato nel confronto aperto con la Francia per la questione del Monferrato; il viceré Baiona viene comandato a reperire nell’isola duecentomila ducados per la campagna d’Italia e a sovvenire con venticinque o trentamila ducados una non precisata jornada in Catalogna[44]. Anche l’esercito delle Fiandre ha necessità d’essere soccorso con centomila ducados[45].

Reperire in tempi ragionevoli in un regno che versa in gravi difficoltà finanziarie somme così ingenti è impresa quasi disperata per il viceré. La dismissione già progettata della grande proprietà demaniale della Planargia di Bosa non basterà a coprire le richieste della corona. Bisogna trovare altri espedienti finanziari, bisogna trasformare i feudi sardi in beni allodiali al fine di ricavare quanto più danaro è possibile dai títulos e dai baroni titolari delle concessioni; bisogna porre all’asta il peso reale di Cagliari, di Oristano e della encontrada di Parte Ocier real; bisogna vendere la laguna di Ollastra e le peschiere di Santa Giusta, nonché – se necessario - quelle del capo di Neapoli, di Sasso, di Sastral[46]. Sono questi gli arbitrios suggeriti da Madrid. L’operazione finanziaria per alienare una parte così consistente del patrimonio reale non andrà in porto per mancanza di compratori e il marchese di Baiona si limiterà ad inviare a don Gonzalo de Córboba  45 mila escudos, frutto di un prestito che egli dice aver raccolto per “milagros”[47].

Anche in Sardegna, dunque, la strada obbligata è ormai quella degli asientos del grano, ossia dei contratti d’appalto sui diritti d’esportazione, previe anticipazioni finanziarie alla Corona. In tal modo, fra gli anni venti del secolo ed il 1643 il mercato sardo viene di fatto monopolizzato da un cartello di hombres de negocio (sono genovesi per lo più, ma vengono coinvolti anche valenziani, maiorchini e sardi) che impone forti vincoli al commercio del grano, con riflessi negativi sui delicati meccanismi della produzione e della commercializzazione[48]. I gravi pregiudizi che ne derivano per l’economia sarda nel suo insieme finiscono per ripercuotersi anche sulle precarie finanze della Monarchia. Il 1629, l’anno di stipula del secondo asiento del grano, è proprio il momento in cui si acutizzano i segnali del malessere. L’inappagabile bisogno di liquidità suggerisce al conte-duca di Olivares di fare ricorso a Vico come plenipotenziario per tentare la complessa quanto disperata operazione finanziaria di cui si diceva prima. A Madrid Vico pare la persona più adatta a tradurre in concreto quei disegni, ma a Cagliari l’insofferenza verso la pratica degli asientos ed ancor più i risentimenti diffusi nei confronti del regente dicono il contrario. Quando vengono informati della prossima venuta del ministro sassarese i cagliaritani «se alborotan», protestano vivacemente col viceré perché «no quieren que a su costa [Vico] gane gracias»[49]. L’animosa opposizione dei cagliaritani non è ingiustificata. I ceti dirigenti della capitale del regno non sono lontani dalla verità quando affermano che il ministro sardo a Madrid sostiene i programmi della Monarchia soltanto per ricavarne cospicui vantaggi per sé e per la sua città. I torbidi si esauriscono subito perché il viaggio di Vico in Sardegna viene prudentemente annullato.

I cagliaritani lamentano che il Consiglio d’Aragona sia sempre più impegnato ad esaudire le richieste di mercedes dei sassaresi al di fuori delle consuete procedure parlamentari, mentre è più raro che a beneficiare della gracia real siano i cittadini di Cagliari. Nei mesi a cavallo fra il 1628 e il 1629 il Consiglio d’Aragona, riunito a Barcellona, accoglie una lunga serie di mercedes a favore di Sassari. Il postulante sassarese è il síndico don Juan Pilo, jurado en cabo di Sassari; il patrocinante è il regente Vico[50]. È un esempio significativo della scoperta faziosità del regente, destinata ad acuire i contrasti fra le due città rivali. Don Francisco, per quanto lontano dall’isola, prende parte con grande impegno alla contesa fra Cagliari e Sassari, tanto da rappresentare il punto di riferimento più forte ed autorevole della fazione sassarese. Per questo viene accusato di non rappresentare in Consiglio d’Aragona gli interessi dei sardi del capo di Cagliari e per questo nel 1630 gli viene negato ancora una volta il pagamento del salario e delle propinas di regente. La questione viene posta all’ordine del giorno del Supremo d’Aragona a metà del 1630 ed ancora nel 1633, quando Madrid tenta invano d’imporre anche per il regente sardo la gestione contabile accentrata (come avviene per gli altri regentes) da parte della tesoreria del Consiglio[51].

Ma nel 1633 si presenta ai cagliaritani una nuova e più sostanziale occasione per tentare di delegittimare il regente sardo. Una consulta del Consiglio d’Aragona di febbraio aveva approvato la recopilación di leggi, prammatiche, capitoli ed atti di corte del regno di Sardegna che Vico aveva appena compiuto e sottoposto al vaglio dei colleghi. L’incarico di raccogliere ed ordinare le leggi vigenti in Sardegna, che risultavano «divididas en diversos papeles manuscritos», gli era stato affidato quasi vent’anni prima dal viceré duca di Gandía, quando era ancora giudice della Audiencia sarda; secondo le disposizioni, avrebbe dovuto individuare, mettere insieme e sistemare le norme vigenti, nonché «reformar, mudar y corregir las viejas»[52]. Il pluralismo giuridico e l’incertezza normativa dovuta alla vigenza di molte leggi e regole spesso contrastanti o cadute in desuetudine o difficilmente applicabili avevano convinto nel 1614 il parlamento Gandía della necessità di promuovere una raccolta coerente e sistematica delle leggi del regno[53]. Dopo un lavoro di lunga lena Vico presenta in Consiglio d’Aragona la raccolta legislativa ritenuta indispensabile dalla corte per il buon governo e per il corretto funzionamento degli organi istituzionali della provincia sarda. Intende ottenere l’esecutività dal Consiglio, che ai primi di marzo del 1633 con un decreto di Filippo IV autorizza la stampa dell’opera[54]. Non sappiamo perché trascorrano ancora tre anni prima che la raccolta venga portata a conoscenza delle istituzioni del regno. Si può pensare che i ritardi siano dovuti ai difficili rapporti che in quel tempo intercorrono fra il regente e le élites sarde. Soltanto nel 1636, quando si sta approssimando la scadenza della sua tormentata missione nell’isola, Vico sottopone il suo “libro de pragmáticas” direttamente all’attenzione del viceré e della Audiencia che lo accolgono con molto favore[55]. Di diverso avviso sono i consellers di Cagliari che lamentano di non essere stati informati nelle dovute forme di un progetto di codificazione che lede gli interessi della città perché contiene molte norme che «se encuentran con privilegios que los predecessores de Vuestra Magestad han otorgado a esta Ciudad por sus inumerables servissios hechos en tantos siglos como también se encuentran con Capítulos de Corte y Leyes deste Reyno pactionadas»[56]. Si mobilitano le rappresentanze parlamentari della città e una junta delle prime “voci” degli stamenti (l’arcivescovo di Cagliari, il marchese di Laconi e il jurado en cabo) pretende d’esaminare le prammatiche, «para que vistas aquellas que se encuentran con privilegios y Capítulos de Corte pudieran recorrer a Vuestra Magestad e instar el reparo o desagravio pues no siendo el dicho Regente persona muy affecta y que en quanto ha podido ha procurado las menguas de las preheminéncias, honras, y privilegios desta fidelíssima Ciudad siendo enemigo della declarado»[57]. Le recriminazioni degli stamenti vengono accolte senza difficoltà in Consiglio d’Aragona, anche se il viceré di Sardegna viene invitato a fare presto, a comunicare in tempi brevi le osservazioni e le rettifiche proposte dai cagliaritani onde procedere alla stampa della raccolta legislativa[58]. Sono sollecitazioni, quelle del Consiglio, che lasciano il tempo che trovano. Gli ambienti politici sardi sono scossi da forti tensioni politiche che l’ingombrante presenza di Vico non contribuisce certo ad attenuare.

La notizia che Vico si accinge a pubblicare a Barcellona la Historia general de la Isla y Reyno de Sardeña fa sollevare come un sol uomo i cagliaritani, che invocano il controllo preventivo del libro ritenuto «una obra contra la Ciudad de Cáller»[59]. È probabile che il provvedimento di censura sollecitato per il libro di storia  pregiudichi anche la pubblicazione delle Leyes y pragmáticas. Una prima edizione della compilazione giuridica vedrà la luce nella stamperia reale di Napoli soltanto nel 1640 e le spese saranno sopportate dall’autore e non dagli “stamenti” militare e reale, come aveva deliberato il parlamento Gandía[60]. Probabilmente la prima edizione è priva dei crismi dell’ufficialità e comunque non è condivisa ed applicata nel regno. Per questo nel 1646 il Consiglio d’Aragona deve invitare il viceré di Sardegna duca di Montalto a sottoporre nuovamente il testo all’esame della Audiencia[61]. Nuovi solleciti di Madrid del 6 febbraio e del 3 giugno 1647 restano lettera morta. L’anno dopo, nel 1648, altre pastoie burocratiche, che forse celano resistenze politiche più sostanziali, consigliano la corte di fare pressioni su Montalto perché «se gane tiempo», perché si chiuda la verifica della compilazione delle prammatiche, «pues como sabéis – scrive il vicecancelliere Bayetolá – es mucho el que ha que se os embiaron y no menor la falta que hacen acá para cosas de mi servicio»[62]. L’ultimo perentorio sollecito al viceré è del febbraio 1649 quando Vico è ormai defunto[63]. Nel frattempo, quando le Leyes y pragmáticas di Sardegna non hanno ancora ottenuto la piena esecutività, l’arcivescovo di Cagliari Bernardo de la Cabra invia a Roma alla Congregazione dell’indice i due tomi chiedendo che vengano posti nell’indice dei libri proibiti, «por motivo que en ellas y en su comento se avía dispuesto sobre materias concernientes a las immunidades del estado ecclesiástico»[64]. Il forte conflitto giurisdizionale che ne deriva coinvolge direttamente le curie di Roma e di Madrid. L’ultima proibizione romana è del 1651, a cui fa seguito l’immediato ordine del Consiglio d’Aragona ai ministri sardi di non applicarla in Sardegna[65]. Insomma le resistenze contro la riforma legislativa sono molteplici e tutte congiurano contro Vico che non ha la soddisfazione di vedere il definitivo coronamento del suo lungo lavoro di giurisperito.

L’ostilità dei cagliaritani nei confronti di don Francisco si manifesta a tutto campo e si ripercuote sulla cerchia dei suoi clienti, in primo luogo sui suoi familiari. Senza grandi risultati, però, se il suo ambiziosissimo figlio, don Pedro, può compiere una carriera a dir poco folgorante. Sfruttando protezioni politiche ai massimi livelli che giungono fino alla persona del re, nel 1634 don Pedro Vico viene designato a coadiutore del vescovo di Oristano con la formale promessa della futura successione nella carica. La designazione del giovane prelato costituisce di fatto una morbida esautorazione dell’arcivescovo assenteista don Gavino Mallano. Quando costui si oppone al provvedimento reale ed ottiene la sospensione della ratifica papale, Vico padre dà prova della sua capacità di pressione politica provocando l’intervento diretto di Filippo IV sul cardinale Barberini e sull’ambasciatore spagnolo a Roma marchese di Castelrodrigo per sollecitare l’emanazione della bolla di nomina[66]. Il 10 gennaio 1635 giunge la nomina papale, ma al coadiutore viene negata la pensione annuale di dieci mila reales connessa all’esercizio delle funzioni della mitra, delle visite e della cura d’anime da lungo tempo trascurate nella diocesi. Lo spiacevole intoppo viene prontamente rimosso da Madrid con pressanti solleciti presso il papa tramite l’ambasciatore spagnolo a Roma[67]. Lo straordinario credito di don Francisco presso la corte madrilena ricade beneficamente sul figlio don Pedro, destinato a promozioni rapide quanto inconsuete per un ecclesistico sardo. L’arcivescovado di Oristano prima e quello di Cagliari dopo (carica riservata abitualmente a prelati non naturales del regno per via delle pingui prebende che vi sono connesse) consentiranno negli anni a venire a don Pedro Vico d’esercitare un ruolo di primissimo piano nelle vicende politiche del regno come orchestratore dei deliberati assunti nei parlamenti presieduti dai viceré Lemos e Camarasa[68]. Costante sarà l’aspirazione del potente prelato a ripercorrere le orme del padre e ad esercitare un ruolo di mediazione fra gli interessi della Corona e quelli dei ceti dirigenti sardi.

 

 

3. – Il plenipotenziario del conte-duca di Olivares

 

Il 1635 è  un  anno cruciale nella storia della Monarchia ispanica ed anche nella biografia di don Francisco. Nel maggio, quando riprendono le ostilità con la Francia, si  fa pressante la domanda di uomini e di denaro da inviare in Italia e soprattutto in Catalogna, diventata una zona strategicamente importante per la vicinanza della Francia. È opportuno perciò che gli altri regni della Corona d’Aragona sostengano il principato con apporti militari e finanziari consistenti. I servicios di vettovaglie e di denaro delle provincie catalano-aragonesi sono tanto più necessari quanto più difficile si fa, dopo il cattivo raccolto di quell’anno, l’approvvigionamento dell’esercito di stanza in quella provincia[69]. Per trattare con i sempre riluttanti sudditi catalano-aragonesi vengono mobilitati i regentes del Consiglio d’Aragona: don Matías de Bayetolá andrà in Catalogna, don Melchor Sisternes a Valencia, lo stesso sovrano conta d’intervenire in Aragona, don Francisco Vico opererà in Sardegna.

Le istruzioni date al regente sardo nel luglio 1635 e le disposizioni per il viceré di Sardegna dell’ottobre si susseguono in un concitato affastellamento di ordini talvolta contrastanti, ma disegnano alla fine un piano di richieste articolato ed oneroso ma anche ottimisticamente possibilista. In quella fase bellica le necessità del fronte italiano sono in cima alle preoccupazioni del governo di Madrid. È a Milano, dove si accinge ad operare il consigliere don Francisco de Melo, che la Sardegna dovrebbe inviare i fondi del servicio ordinario e straordinario relativo all’anno 1634[70]. In pari tempo avrebbe dovuto rimettere centomila fanegas di grano ed un altro non precisato contributo in denaro come antecipazione degli ottantamila escudos del donativo straordinario promesso dai sardi per l’anno 1636. La fornitura di grano è talmente urgente che Vico viene autorizzato a fare ricorso alla libera negoziazione sul mercato scavalcando i monopolisti delle tratas del grano sardo. Nel caso che i titolari degli asientos si opponessero alla trattativa privata, Vico dovrebbe tentare di coinvolgerli nell’operazione o addirittura potrebbe passare loro la mano. A Genova ed ai genovesi, precisamente al principe Doria, dovrebbero fare capo sia don Francisco de Melo che don Francisco Vico per l’armamento nell’isola di una squadra di galeras. Inoltre Vico dovrebbe farsi propagandista del disegno militare della Monarchia e coadiuvare il viceré di Sardegna, marchese di Almonacir, nel reclutamento di un contingente di fanti sardi da destinare al fronte d’Italia; dovrebbe anche convincere i sardi a sostenere con un ulteriore donativo straordinario il re che si accinge a scendere personalmente in campo.

Si tratta, come è evidente, di richieste esose e di arbitrios assolutamente irrealistici. Le esigenze della guerra e le scelte errate nella politica economica degli asientos hanno aperto una vera e propria voragine finanziaria che rende impossibile ogni ulteriore prelievo fiscale. Per questo urge procedere a vendite di uffici e assottigliare ancora il patrimonio reale in Sardegna. Al marchese di Villasor viene ceduto per venticinquemila escudos l’arrendamiento delle tonnare sarde; per ottomila escudos è assegnato per la durata di due vite l’officio di governador del Goceano a don Jorge de Castelví e alla contessa de Almayno; a Joan Bauptista Asquer e ad Agustín Martín è stato venduto per ottantamila reali castigliani l’asiento delle sacas dei legumi; l’arrendamiento della neve nella città di Cagliari è in vendita per mille o millecinquecento escudos; vengono messi in vendita nell’isola dieci titoli di cavalierato e dieci di nobiltà al prezzo di diecimila escudos. Il ricavato della liquidazione dei beni e dei diritti reali deve essere inviato “a prisa”, in fretta, parte a Barcellona e parte in Italia. Ma, tutto sommato, sono dismissioni di poco conto che non bastano per fare fronte agli impegni finanziari della Monarchia. Vico dovrebbe perciò convincere i titolari degli asientos ad aumentare il valore delle tratas di quindicimila escudos da versare nelle mani del receptor del Consiglio d’Aragona; invece le vettovaglie destinate alla armadilla in via d’allestimento a Barcellona (5.400 starelli di grano, 336 quintali di formaggio, 168 quintali di tonno, 168 quintali di pancetta, 600 fanegas di fave e ceci) devono essere appoggiate a don Ramon Caldés i Ferran, regente la Tesoreria di Catalogna[71].

La rassegna delle istruzioni è volutamente dettagliata per evidenziare come le esigenze della guerra rendano incalzanti ed eccezionalmente minute le richieste di denaro e di vettovaglie. Ma un conto sono i disegni della corte ed un altro è la dura realtà dei fatti con cui Vico deve misurarsi. Persino il suo viaggio verso la Sardegna si rivela carico di rischi. Ai primi d’ottobre, sulla rotta da Genova a Cagliari, il convoglio viene assalito dai corsari barbareschi: la barca del regente scampa alla cattura, ma gli occupanti dell’altra barca (a bordo viaggiano il futuro procuratore reale don Jaime Artal de Castelví, un capitano, alcuni marinai e i criados di Vico) vengono fatti prigionieri e privati dei loro beni[72].

A Cagliari Vico assume una carica politica e burocratica eminente (ha l’interim della regencia della cancillería sarda) per condurre le trattative da una posizione di forza[73]. Emergono subito le difficoltà, a cominciare dal rifiuto degli asentistas d’anticipare trentamila escudos dal quarto asiento delle sacas di grano[74]. Non trovano accoglimento presso gli asentistas neppure le più miti pretese di corrispondere una tantum al Consiglio d’Aragona 3.000 ducados per la paga di duecento soldati e di conferire 5.500 fanegas di grano e le altre vettovaglie che Caldés attende per l’approvvigionamento delle truppe a Barcellona. I dinieghi più o meno espliciti vengono dai genovesi e da altri privati, ma specialmente dai consellers della città di Cagliari. Pressato dalle urgenze, Vico è costretto a fare ricorso alle proprie sostanze per gli acquisti di grano, formaggio e legumi da mandare in Catalogna[75].

La renitenza dei sardi va fatta risalire alla solita attitudine speculativa degli incettatori di grano ed alla loro diffidenza nei confronti della corona ritenuta un cliente poco affidabile. Ma le difficoltà incontrate da Vico non sono imputabili solo agli asentistas sardo-genovesi: risalgono, più in generale, all’estrema povertà del regno, alla ridottissima liquidità monetaria, alla cronica morosità dei pecheros sardi. Non è facile porre rimedio alle disfunzioni del sistema fiscale: «al patrimonio [real] me dizen se deben muchas cantidades de muchas maneras – lamenta Vico - y sino hay persona que cuide de averiguarlas se perderán»[76]. La riscossione degli ottantamila escudos del donativo, su cui Madrid fa molto affidamento, è in grave ritardo per il palleggiarsi delle responsabilità fra il viceré, l’arcivescovo di Cagliari ed i giudici della Audiencia. Analoghe difficoltà si presentano per la leva dei soldati, per il pagamento dell’arrendamiento delle tonnare, per il servicio volontario dei privati, per la vendita dei titoli nobiliari.

È un compito veramente ingrato quello che la corte ha affidato al ministro sassarese. Le difficoltà economiche costringono Vico a concertare col viceré nuovi arbitrios che non sono altro che ulteriori dismissioni di titoli nobiliari, di uffici e di beni immobili per ricavare denaro in contante o moneta pregiata più facilmente esitabile sul mercato della guerra. Bisogna sollecitare gli appetiti di nobili, burocrati e mercanti che in Sardegna possono ancora investire nella terra e negli onori. Il pezzo forte delle nuove alienazioni è la vendita della encontrada di Parte Ocier Real, effettuata senza i vincoli della carta de gracia, e del salto di Soleminis arricchito del titolo di marchese per il compratore (sarà questo un ghiotto boccone per lo stesso regente). Al governatore del capo di Cagliari don Diego de Aragall viene proposto l’acquisto dell’oficio di veguer d’Oristano e delle oficialías dei tre Campidani per la somma di 30 mila reales in plata doble pagabili a corte; dietro rimessa di duemila ducados a Madrid, viene conferita ai ministri patrimoniali del regno (procuratore reale, maestro razionale e tesoriere) la potestà di designare le terne delle cariche giudiziarie e delle dignità ecclesiastiche del regno; per 15 mila reales in plata doble pagabili a Madrid viene ceduta a don Antiogo Sanjust la oficialía di Quart con la capitanía delle marine. Ma è necessario altro denaro fresco e per questo il regente e il viceré di Sardegna guardano con fiducia alle trattative (non molte, per la verità) intraprese con coloro che aspirano ad acquistare titoli nobiliari[77].

L’obiettivo principale resta, in ogni caso, la provvista del grano. Per comprarlo sul libero mercato Vico pare disposto ad ingaggiare un vero e proprio braccio di ferro con gli asentistas, che avevano già accaparrato il raccolto del 1635 e che divengono per forza di cose gli unici possibili interlocutori. In mancanza di garanzie finanziarie costoro si rifiutano di venire incontro alle richieste di anticipazioni del ministro del re, al punto che Vico è costretto ad impiegare anche le sostanze personali e quelle del genero Sebastián de la Zonza per effettuare gli acquisti strettamente indispensabili[78]. In verità l’invio delle vettovaglie in Catalogna è reso possibile soprattutto per la compiacente disponibilità di Benedetto Nater e dell’agente di Nicolás de Amico, due fra i maggiori mercanti che operano sulla piazza sarda e che si erano impegnati a prestare tremila ducados e fornire il grano per la Catalogna nel caso di un rifiuto degli altri hombres de  negocio. Nel novembre 1635 Caldés scrive da Barcellona a don Gerónimo de Villanueva per accusare ricevuta del grano, che a suo dire «es del mejor que ha venido muchos anyos ha de aquel Reyno»[79].

Il successo di Vico è solo momentaneo. Il cartello degli asentistas è destinato a ricompattarsi quasi subito, grazie anche ad un fronte di notabili recalcitranti che comprende mercanti, esponenti della nobiltà terriera e della burocrazia reale. Sarebbe eccessivo vedere nell’opposizione all’operato di Vico qualcosa di più della semplice tutela di interessi economici. Di sicuro non è possibile ravvisarvi una resistenza politica alle pretese di marca assolutistica della Monarchia. Non esistono in Sardegna le condizioni politiche della Catalogna e l’accondiscendenza dei sardi verso il programma della Unión de armas non conosce incrinature in nessun momento. Sono discussi, semmai, i comportamenti personali del regente sardo che rinfocolano inimicizie antiche ed acrimonie che risalgono ai tempi della sua folgorante ascesa politica. Vico è costretto a segnalare a Madrid le difficoltà che incontra quotidianamente ed a denunciare l’appoggio occulto in danno del real patrimonio che il dottor Francisco Corts, abogado fiscal della Audiencia sarda, dà alla conventicola dei mercanti capeggiata dal conte di Torralba Gerónimo Comprat. «El conde y sus camaradas – scrive a Villanueva - se ban aprovechando de la hazienda de Su Magestad por todos caminos, a quienes favorece declaradamente el Doctor Corts que entra en los tratados destas materias y en los demás arrendamientos del patrimonio por el interés que tiene, según lo assiguran y afirman hombres de verdad, y assí con este padrastro mal puede conseguirse el servicio de Su Magestad»[80]. Corts deve essere rimosso ed allontanato dal regno, secondo Vico, magari con una promozione a juez de corte in Catalogna, se si vuole porre termine alle dilazioni e portare a compimento il programma del governo. Riemergono così le vecchie ruggini dei  tempi burrascosi del viceré Vivas, quando Vico aveva provocato l’arresto del giudice Corts e il suo trasferimento coatto a Sassari, legato mani e piedi e montato su un ronzino, per essere gettato in carcere e processato. Corts era stato poi prosciolto in seguito alla visita di Amador, ma il contrasto fra i due giudici togati era continuato all’interno della Audiencia senza esclusione di colpi e si riproponeva nel 1635 con tutta l’antica animosità[81].

Nella primavera dell’anno 1636 Madrid avanza nuove gravose richieste. Vico è comandato ad approvvigionare diecimila fanegas di grano per la armada real, oltre la quantità che devono fornire per contratto gli asentistas. Ma la produzione è quella che è: le scorte  sono ormai esigue, sul mercato sono disponibili solo le partite di grano in possesso degli asentistas. È su quelle provviste che Vico punta l’attenzione, le vuole ad ogni costo ed in tempi brevi, con le buone e con le cattive maniere. Quando i mercanti hanno ormai acconsentito alla vendita si scopre che le finanze del regno  non dispongono di denaro liquido, per cui non si può perfezionare il contratto se non dopo la riscossione del donativo di 80.000 escudos del 1636. È come dire che il pagamento è rinviato sine die, perché tutti sono consapevoli delle insormontabili difficoltà di riscuotere in tempi brevi il donativo.

Dopo un tentativo fallimentare d’incettare grano nelle principali piazze sarde, l’unica via d’uscita per approvvigionare gli eserciti di Catalogna e d’Italia è il ricorso alle maniere forti. Per non deludere le aspettative di Madrid Vico esercita pressioni sui ministri reali sardi (viceré e consigli di giustizia e di patrimonio) che sono orientati verso soluzioni più morbide e possibiliste[82]. Alla resa dei conti Caldés riceverà a Barcellona «la  cantidad que ha sido posible», soltanto diecimila starelli, ben poca cosa rispetto ai centomila richiesti[83]. La prospettiva di un fallimento dei programmi governativi si fa sempre più realistica per le reali difficoltà economiche che il regno attraversa («la Tesorería deste Reyno está tan acabada que no hay para pagar el salario del Virrey y Juezes del Audiencia») e per i malumori che la politica del conte-duca comincia a suscitare («lo que más es de sentir que ha mandado Su Magestad que todas las rentas corridas hasta el año 1635 se le embíen a Madrid»)[84]. È in difficoltà, il plenipotenziario di Olivares, perché la crisi finanziaria del regno non consente alcuna fruttuosa trattativa commerciale e perché la realizzazione del programma governativo segna il passo. Ad esempio, la formazione della squadra di galere per conto della Corona è ancora soltanto un’intenzione.

Quando si approssima la scadenza della missione, prevista per l’ottobre del 1636, l’insoddisfazione di Vico per non aver potuto portare a compimento il mandato di Olivares è resa ancora più bruciante dalla mancata soluzione dei suoi problemi personali. Viene lasciata praticamente cadere l’opportunità di rinegoziare l’annosa questione del suo salario di regente che il regno si ostinava a non pagargli[85]. Non è chiaro se la clamorosa inadempienza sia dovuta a dolo o a colpevole lassismo dei ministri reali: certo è che Vico accusa un grave danno economico che, a suo dire, rende precaria la sopravvivenza a corte della sua casa[86]. Ci sono ancora tante cose per lui da sistemare in Sardegna. A quel punto non gli resta che chiedere al Consiglio d’Aragona la proroga d’un anno della licenza[87]. Ma quando ha già ottenuto l’autorizzazione a restare, avverte che la lontananza da Madrid potrebbe risultargli pregiudizievole perché i suoi avversari sardi potrebbero accampare il pretesto del mancato esercizio dell’oficio di regente provincial per negargli ancora lo stipendio[88]. Il repentino ripensamento di Vico viene accolto dal Consiglio d’Aragona: «los rezelos que causa el ser natural en aquellos vasallos, aunque sea sin culpa suia, parece que obliga a que pues él mismo pide licencia para bolver a servir su plaza en este Consejo Su Magestad tenga por bien de permitirselo»[89].

 

 

4. – I memoriales d’accusa contro il regente Vico.

 

Ma non è solo l’annosa questione del salario non corrisposto a consigliare un ritorno immediato di Vico a Madrid. Il rinfocolarsi dell’antico dissidio col fiscal della Audiencia Francisco Corts ha prodotto conseguenze politiche preoccupanti. Corts ha presentato al Consiglio d’Aragona una denuncia molto articolata sugli illeciti commessi da Vico a partire dagli anni del suo avanzamento all’ombra del duca di Gandía[90]. Il memorial di Corts è, in pratica, una dettagliata biografia in negativo del regente sardo. Accuse circostanziate e “verità” incontrovertibili si alternano ad insinuazioni di dubbia attendibilità: tutto è mirato a screditare Vico e a ridimensionarne il ruolo politico a corte. È evidente che il giudice Corts non agisce da solo, ma è informato, consigliato e sostenuto dai molti nemici che Vico annovera nella capitale sarda. Il memoriale è interessante non tanto per l’attendibilità, sempre dubbia, delle accuse quanto per la capacità di mettere a nudo la personalità del ministro e di disegnare la sua condotta pubblica e privata. Insomma il memoriale consente d’apprezzare il contesto politico in cui il regente opera e i vantaggi che gli derivano dalla posizione di vertice che ricopre. In pari tempo fa capire come le difficoltà di rapporti con le reti di potere cagliaritane crescano man mano che si consolida la sua preminenza politica a Madrid e che si allarga il suo distacco fisico dall’isola. Vico è ritenuto il responsabile dei “bandos” che imperversano nell’isola, delle “parcialidades” che si accentuano da quando egli è l’abile orchestratore di un complesso giuoco di rapporti di patronage e di controllo di reti clientelari. Per questo, secondo Corts, i sardi (i cagliaritani, più precisamente) hanno di lui una cattiva opinione e nutrono notoriamente nei suoi confronti un odio profondo o un timore reverenziale[91].

La contro-biografia di Francisco Corts prende le mosse dal periodo dell’ascesa politica del letrado sassarese. Negli anni venti, durante la celebrazione delle cortes, con grande opportunismo Vico aveva sfruttato le divisioni interne dei parlamentari ed aveva costruito maggioranze utili alla causa monarchica allo scopo d’ottenere riconoscimenti e ricompense per sé e per le sue clientele. In sostanza il giudice togato sassarese viene rappresentato – forse sopravvalutandone il ruolo - come l’arbitro della politica parlamentare: «teniendo él más mano con los que bençen y éstos recelosos que no bençan los otros los humilla para que con esto pueda alcançar sus botos y fabores para salir con lo que pretende y que se den oficios a las personas de su bando y a los que tiene reducidos a su obediencia». L’intesa con  il viceré duca di Gandía, costruita abilmente durante i lavori parlamentari, gli aveva aperto la strada per l’oficio di juez de corte, un incarico che - secondo Corts -Vico aveva ricoperto e ricopriva  indegnamente per i limiti della sua cultura giuridica e per la corruttibilità dimostrata in ogni circostanza. L’opinione corrente fra i sardi – continua Corts - è che fosse un “publico mercader y negociante”, disponibile ad accordare favori in cambio di denaro. Quando finisce nelle maglie dell’inchiesta del visitador Martin Carrillo, Vico è capace d’uscirne indenne per l’intervento di patroni influenti come l’arcivescovo di Cagliari Francisco de Esquivel. Sono le alte protezioni a garantirgli l’impunità: non solo non viene sospeso dal suo oficio, ma il processo a suo carico viene insabbiato a Cagliari ed inviato a Madrid molto più tardi, quando è mutata la composizione del Consiglio d’Aragona e si è persa ormai la memoria storica degli avvenimenti.

Corts passa poi a denunciare il rapido ed illecito arricchimento del letrado sassarese, realizzato mediante la vendita di prebende ecclesiastiche e la manipolazione delle cause da lui giudicate. «Ha sido – afferma Corts con un’efficace metafora - esponja de las bolsas y haciendas de los que acudían a pedille justicia, porque jamás la ha administrada sino bendiéndola a puro dinero; y no ha podido ningún mercader negociar en cosas del patrimonio que él no haya tenido su participación, en particular en quantos partidos de sacas se hicieron en el gobierno de don Juan Vivas […] y sin esto ha tenido participación en los arrendamientos de las almadrabas y es tan publico y notorio que se han visto y leydo en las quentas de los administradores asentadas todas las partidas que cada uno le dava por su participación».

Quando nel 1627 (l’anno della promozione a regente del Consiglio d’Aragona) si trasferisce a Madrid, Vico dispone già d’una fortuna eccezionale che gli consente di sovvenire con larghezza figli e nipoti, di fare una consistente donazione alla Compagnia di Gesù, di finanziare personaggi a lui prossimi in Sardegna, di sopportare nel periodo di residenza a corte spese per 30.000 ducados, di comprare in un fallimento la villa di Gesturi per 65.000 lire a nome del figlio sedicenne, di pagare 10.000 escudos per la partita di grano destinata alle truppe di Barcellona, di consegnare al marchese di Montesclaros 3.000 escudos per comprare un titolo di marchese per suo figlio, d’essere in procinto di costruire una casa a Cagliari del valore di 10.000 escudos, di sostenere le gravose spese per l’elezione a vescovo di suo figlio Pedro. Insomma - conclude Corts maliziosamente - o Vico possiede una miniera nel Potosí o ha approfittato in Sardegna delle cariche che ha ricoperto. La pratica di concussore – secondo Corts - continua a corte, dove pretende somme considerevoli dai sardi che si presentano per chiedere favori o per sostenere i loro interessi in sede giudiziaria. Dal marchese di Villasor esige 17.000 reales en plata doble per il pleito sostenuto col conte di Torralba per l‘appalto delle tonnare sarde; 3.000 escudos gli dà il dottor Bonfant per la concessione delle plazas che questi ricopre in Sardegna; da don Francisco Sogio ha preteso «una gran cantidad» per le molte mercedes (un titolo di cavalierato e nobiltà, la carica di veguer del governador, pagador de las torres del cabo di Cagliari) concesse inspiegabilmente a «un hombre de las villas»; il dottor Domingo Brunengo gli ha consegnato 3.000 ducados a Barcellona per ottenere una plaza nella Audiencia[92].

Sono attendibili le accuse a valanga del giudice Corts? Sono in qualche misura verosimili, visto che in pochi anni don Francisco costituisce un patrimonio immobiliare di tutto rispetto ed accumula denaro liquido in quantità considerevoli. È inesorabile, Corts, nel suo intento di demolire l’immagine politica del regente. Insinua persino che don Francisco, per nascondere le sue umili origini, abbia cambiato cognome posponendo quello paterno, Artea (il padre era «un pobre hombre que andava vendiendo agujetas por las villas»), a quello più titolato della madre, Isabella Vico («un hermano della era cura de una Iglesia y le ayudó en los estudios»). La singolare denuncia non è verificabile perché di Francisco Ángel Vico mancano dati anagrafici certi; ma non pare destituita di fondamento, se si considera che a quel tempo non era inconsueto assumere il cognome materno come patronimico[93].

L’interminabile rosario di accuse occupa pagine e pagine del memorial. Screditare il regente provincial di Sardegna e provocare una visita che ponga fine alla sua carriera è l’intento dichiarato dell’accusatore. Tuttavia in Consiglio d’Aragona è d’obbligo un atteggiamento di prudenza di fronte a denunce che provengono da nemici dichiarati dell’accusato. Il dottor Corts viene invitato a firmare e a riconoscere come proprio il memorial, a depositare una cauzione di quattromila escudos a garanzia della fondatezza delle accuse. Alla resa dei conti sembra prevalere, fra i colleghi di Vico, un sentimento di difesa corporativa ed in qualche misura di giustificazionismo psicologico. È opinione unanime che i comportamenti dell’accusato siano per lo più legittimi e rientrino nel normale esercizio delle funzioni di un alto ministro del re. Un regente provincial di un consiglio territoriale, che ha compiti di raccordo fra la corte e la periferia, deve necessariamente coordinare una rete di potere complessa ed ha l’obbligo di gratificare un gran numero di fedeli. Per questo deve garantirsi la possibilità non solo di promuovere i suoi clienti e sollecitare per loro ricompense onorifiche ma anche di dispensare in proprio prebende e gratificazioni materiali.

L’iniziativa di Corts non risulta granché incisiva, ma a corte un qualche effetto forse lo produce. Quando si approssima la scadenza dell’anno di missione nell’isola, alla regencia della cancillería viene designato Fernando Azcón, un giudice appena destinato alla Audiencia sarda[94]. La sostituzione nella prima carica amministrativa del regno prelude ad una svolta nell’atteggiamento di Vico, il quale comincia a prendere le distanze dagli affari di governo e a manifestare il proposito di lasciare l’isola[95]. Il momento è molto incerto sotto il profilo politico. All’atto del trasferimento nell’isola il giudice Azcón era stato incaricato d’investigare sullo stato patrimoniale del regno. La sua prima impressione è che il real patrimonio di Sardegna sia «muy exhausto», per «la falta de justicia que hay, y los grandes fraudes que a Su Magestad se le hazen en sus reales rentas»[96]. Azcón basa il suo giudizio specialmente su un memoriale anonimo che individua il principale responsabile del dissesto finanziario in Antonio Ornano de Basteliga, un sassarese di origine corsa fedele a Vico e per questo promosso alla carica di tesoriere del regno[97]. Anche in questo caso il Consiglio d’Aragona procede con i piedi di piombo: «la natural inclinación de los de aquel Reyno – si legge nella consulta provocata dal primo rapporto di Azcón - es fácil en quejarse y poner en descrédito a los ministros, y esto obliga a proceder con particular tiento por su reputación y más quando se llega a ablar de quien ocupa tan preheminente puesto en este Consejo como el Regente don Francisco Vico»[98]. Tra il vedere e il non vedere, però, il Consiglio d’Aragona dà mandato ad Azcón di “visitare” il tesoriere e gli altri ministri patrimoniali del regno ed in pari tempo d’assumere informazioni sulle accuse che vengono mosse a Vico «extrajudicialmente», «en el secreto y decoro que se deve a tal persona»[99].

L’attacco del giudice Corts non è l’unico che il regente sardo deve subire in quei giorni. Scendono in campo anche i consellers della città di Cagliari per chiedere al viceré che Vico si astenga finalmente dall’esercitare la funzione di regente la cancillería, dato che è spirato l’anno del suo mandato. A quel punto uno scatto d’orgoglio spinge don Francisco a far valere davanti alla Audiencia il provvedimento di proroga emanato da Madrid. Il viceré è costretto ad interpellare in proposito il Consiglio d’Aragona che in una consulta del 11 gennaio 1637 dichiara in forma sibillina che «Su Magestad tiene en esto tomada resolución»[100]; ma nel frattempo invita Vico a tornare a corte «a servir su plaza»[101].

Il passo dei giurati cagliaritani presso il viceré segue di poco l’iniziativa d’inviare a Madrid il conseller en cap  Francisco de Ravaneda per tutelare gli interessi della città conculcati da Vico[102]. Ormai il conflitto fra Sassari, la città del regente, e Cagliari, la cabeza del regno, ha raggiunto livelli che mai si erano toccati in precedenza. Appena Sassari ha notizia della missione a corte di Ravaneda, nomina a sua volta un proprio síndico, il dottor Antonio Nuseo, allo scopo di neutralizzare l’azione dei cagliaritani e di rivendicare a Madrid una serie di privilegi e di reparos amministrativi a vantaggio della città[103]. La missione di Nuseo, vicario generale della Chiesa turritana, è avallata da un giudice Azcón sempre più preoccupato della piega che hanno preso i contrasti municipalistici. Azcón consiglia Madrid d’impedire interferenze di lobbies locali e di ministri reali nella causa romana sul primato ecclesiastico, onde evitare «infinitas parcialidades que son peores que las de Nyerros y Cadeles»[104]. I dissidi sardi non sono paragonabili, se non con una evidente iperbole, alle vicende catalane del primo Seicento, quando le bande dei nyerros e dei cadells, divise da insanabili lotte di fazione, si combattevano senza tregua in molti luoghi della Catalogna[105]. Tuttavia alcuni fatti clamorosi che si verificano fra Cagliari e Sassari in quel periodo denotano che la disputa è ormai degenerata fino a configurarsi veramente come una guerra fra bandos.

Per i cagliaritani lo schieramento sassarese ha la punta di diamante nel regente del Supremo d’Aragona. Neutralizzare ad ogni costo lo strapotere di Vico è indispensabile per ripristinare un rapporto politico equilibrato nel regno e a corte. Col nuovo memorial presentato da Ravaneda i cagliaritani puntano dunque a rimuovere il ministro sassarese[106]. L’accusa più bruciante per il regente, anche perché largamente infondata, è quella d’aver violato l’obbligo di lealtà verso il sovrano. Più volte Vico sarebbe venuto meno al dovere fondamentale per un regente natural di una provincia della Monarchia. È stato sleale una prima volta quando, incaricato di vendere in Sardegna encontradas, villas e lugares appartenenti al patrimonio reale, ha svalutato la encontrada di Parte Ocier Real per acquistarla in proprio per circa la metà del giusto prezzo; lo è stato una seconda volta, quando ha affermato che copriva la regencia del Consiglio supremo senza emolumenti ed invece otteneva ayudas de costa a Madrid ed incassava in Sardegna il salario del regno tramite il suo procuratore, il dottor Domingo Brunengo; una terza volta sleale è stato quando ha dichiarato d’aver comprato a proprie spese il grano da inviare in Catalogna sapendo di mentire perché il grano lo ha avuto in prestito dai mercanti Nater, Martín, Ordà e Malonda a cui lo va pagando dai fondi del donativo annuale del regno.

È solo un primo assaggio della miriade di accuse, fondate e no, dei cagliaritani. Ravaneda imputa a Vico anche l’appropriazione indebita di beni contesi in cause legali da lui giudicate nella Audiencia; la concessione in cambio di denaro di favori e di titoli a persone indegne; la concussione di alcuni sardi che postulavano pubblici oficios e di altri che intrattenevano rapporti economici con la Corona. In particolare gli viene rimproverato d’aver ricavato un utile personale dalle varie operazioni di arrendamiento dei beni patrimoniali della Corona e d’aver avuto una «participación» nell’affitto delle tonnare e nelle molte sacas di grano al tempo del viceré Vivas. Solo dal mercante Antonio Polero ha riscosso ben diecimila ducados. Ricalcando poi le accuse del giudice Corts, Ravaneda soggiunge che «es tan público y notorio que han visto y leído en las cuentas de los administradores assentados las partidas que cada uno le dava por su participación, y es fuerça que de estas negociaciones haya hecho la hazienda tan grande que tiene, aver sustentado su casa con tanto luzimiento, aver dado excessivas dotes a sus hijos y nietas, aver cargado muchos censos, y tener mucho dinero de contado, pues de sus Padres no ha tenido hazienda alguna por ser muy pobres». Ma la responsabilità più grave per i cagliaritani è quella d’aver fomentato le “inquietudes” e le “parcialidades” che dilaniano la società sarda. I “bandos” e le “enemistades” esistenti fra cagliaritani e sassaresi sono il risultato delle sue trame per mantenere un’assoluta preminenza sui gruppi di potere che operano nelle città sarde e all’interno delle istituzioni del regno. Il regente è ormai sottoposto ad un attacco concentrico degli avversari che di continuo vogliono metterne in discussione l’egemonia politica: «en la Audiencia no sólo hay conformidad, pero bandos y enquentros, formados pues en el pleyto de la Primacía de las Iglesias de Sáçer y Cáller en las  provisiones que se haçen por la Real Audiencia con el Arçobispo de Sáçer excluyen al Regente porque es desta Ciudad de Sáçer, y él se lo permite pudiéndolo resistir, en que le culpan pareçe que devía remediarlo, pero los demás Juezes se oponen contra dél por ser opuestos a él y lo más de la Ciudad y Cabo de Cáller; sin estos enquentros hay otros bandos entre ellos que no tocan a los que tan publicados están con el dr. Corts sino de otra especie, y más modernos, que miran al fraude que se haçe a la hacienda real, a lo menos ellos entre sí unos contra otros assí lo publican»[107].

L’animosità dei cagliaritani si carica di nuove motivazioni proprio agli inizi del 1637 quando viene diffusa la notizia della  prossima pubblicazione della Historia general de la Isla y Reyno de Sardeña. Si tratta, dicono gli informatori occulti, di un libro di storia dai contenuti ferocemente anticagliaritani firmato da Vico. Subito viene posta in essere una campagna di stampa diffamatoria nei confronti dell’autore e vengono invocati a corte provvedimenti di censura preventiva dell’opera in corso di stampa presso un tipografo barcellonese. Il libro di un seminatore di zizzania come Vico deve essere, per Ravaneda, sequestrato e purgato e la condotta del suo autore censurata in Consiglio d’Aragona. Tutta la polemica trae origine dalla contesa sul primato ecclesiastico che si combatte senza esclusione di colpi a Roma, a Madrid e in ogni sede civile e religiosa della Sardegna. È appena il caso di dire che la questione non è circoscritta a problemi relativi all’ordinamento ecclesiale ma investe interessi politici più generali. Vico è accusato d’aver scritto «una obra contra la Ciudad de Cáller», concertata col gesuita Jaime (o Diego) Pinto, «su amigo intrínseco», professore di Sacra Scrittura nell'università di Sassari. Nell’opera Christus crucifixus, pubblicata a Lione fra il 1624 e il 1644, Pinto aveva affrontato incidentalmente il tema del primato ecclesiastico di Sardegna, esaltando i martiri turritani e le antichità della sua città d'origine, ed aveva fatto riferimento ad un libro di Vico che circolava evidentemente in una versione manoscritta. Questo basta ai cagliaritani per contrapporre alla storia di Vico un libro dal titolo Triunfo de los Santos de Cerdeña in cui il dottor Dionisio Bonfant, membro del Consiglio generale di Cagliari, esalta i santi cagliaritani[108]. La polemica a mezzo stampa non si ferma qui. Dopo le iniziative cagliaritane, «luego se ha sentido Sásser - scrive Ravaneda nel suo memorial - y ha hecho sátiras contra Cáller, y visto esto Cáller ha hecho otras contra Sásser, de que ha crecido esta enemistad, y ha sido de manera que el Virrey y Real Audiencia con pregones han puesto penas contra lo que han intentado y intentan las sátiras»[109].

Come era avvenuto in occasione del caso Corts, di fronte alle denunce del memorial Ravaneda il Consiglio Supremo d’Aragona adotta tutta la prudenza che un caso così delicato raccomanda. A luglio il giudice Fernando Azcón è incaricato d’indagare in via informale e riservata riguardo alle accuse mosse a Vico[110]. L’accertamento della verità è tutt’altro che facile perché tutte le persone interrogate - ministri reali, mercanti, ufficiali ed amministratori pubblici –  non sono in grado di confermare le accuse o scagionano Vico senza tentennamenti[111]. L’inquirente si trova di fronte anche a clamorosi silenzi, ad atteggiamenti omertosi che probabilmente sono conseguenza di intimidazioni a cui le carte dell’inchiesta fanno appena cenno. Il fatto è che persino Francisco Corts, l’antico accusatore che ha fiancheggiato i giurati municipali di Cagliari, risulta essere alla fine un testimone reticente[112]. Gli unici cargos, tutti di poco conto, che si possono muovere con qualche fondamento all’inquisito sono la trattativa per l’acquisto di un censo gravante sul real patrimonio e la protezione accordata al tesoriere Basteliga, il quale ha compiuto per suo conto transazioni commerciali (come l’acquisto diretto di crediti pubblici) in danno della hazienda real[113].

Quando Vico comunica a Madrid la sua intenzione di rimanere ancora in Sardegna nell’isola il clima politico non è destinato di certo a rasserenarsi. A restare lo costringe la morte del figlio Diego che ha lasciato alle sue cure un nipote di appena diciotto mesi. Gli impediscono d’allontanarsi dall’isola anche altre ragioni, non ultima l’impossibilità di riscuotere il salario di regente. Ma in realtà Vico non vuole andare via perché intende neutralizzare le accuse dei cagliaritani e, nei limiti del possibile, controllare l’inchiesta a suo carico. Quando Madrid gli rinnova perentoriamente l’invito a tornare a corte, Vico deve chinare il capo, «con lo que – scrive in tono polemico – quedarán gustosos los que dessean gozar de sus libertades»[114].

È a quel momento che lo scontro politico si sposta dalla Sardegna sulla penisola iberica[115]. I consellers di Cagliari tentano d’impedire che l’accusato rientri a corte e rinnovano l’istanza di residenza coatta fuori della capitale. Temono, i cagliaritani, che egli possa condizionare l’inchiesta e effettuare ritorsioni contro la città: «sabiendo que está governando en el Supremo – sostengono - nadie querrá aquí testificar ni dar cosa contra dél […] porque nos han certificado se va tan enconado contra esta Ciudad y los della que les hará todos los tiros que podrá»[116]. Ma Vico non è soggetto a visita, come pensano i cagliaritani. L’inchiesta informale di Azcón è ormai conclusa, per cui il regente può riprendere il suo posto in Consiglio: «no parece – recita la consulta del Consiglio - que de lo verificado hasta aora se colija culpa en el Regente que vaste a poner nota en su persona visitándole publicamente y impidiéndole el entrar en la corte a servir su plaça pues no halla el Consejo tales fundamentos que vasten a condenarle»[117]. Ma i cagliaritani sono tenaci e presentano nuovi cargos, su cui il Consiglio ritiene opportuno fare chiarezza. Vico e suo figlio Pedro sarebbero gli autori di abusi edilizi nel castello di Cagliari a danno del palazzo reale, della sicurezza militare della mura cittadine e di un monastero delle monache di S. Lucia. Il viceré di Sardegna è incaricato di verificare se la costruzione del palazzo di Vico pregiudichi la difesa della città ed il regente Azcón, «extrajudicialmente y con secreto», viene di nuovo investito dell’inchiesta[118].

A quel punto il Consiglio d’Aragona sarebbe tenuto a riconsiderare l’istanza dei cagliaritani e comminare a Vico la residenza coatta fuori Madrid. Ma l’allontanamento dalla corte sarebbe una misura umiliante per un ministro del re, tanto che i consiglieri d’Aragona pensano di simulare una missione del loro collega ad Alicante per “visitare” gli ufficiali reali deputati alla vigilanza delle coste[119]. È una soluzione comunque inaccettabile per Vico, il quale chiede la revoca della delibera segnalando orgogliosamente i suoi meriti e ad un tempo denunciando i demeriti degli avversari (primo fra tutti di Ravaneda, che nella sua qualità di veguer di Cagliari era stato punito per abusi amministrativi proprio dal regente). Sostiene Vico che durante la recente missione in Sardegna gli ostacoli frapposti dalle reti di potere cagliaritane erano stati innumerevoli e continui. Le conventicole locali avevano mirato soltanto a screditarlo e a farlo allontanare dall’isola per non sottostare alla giusta preminenza reale e riacquistare libertà d’azione. Giudica poi pretestuosa l’istanza d’allontanamento dalla corte durante la nuova inchiesta di Azcón a suo carico: l’indagine ha luogo in Sardegna e non a Madrid, dove non esiste alcuna possibilità d’alterare le prove. L’età avanzata, le spese ingenti e le scomodità che i recenti viaggi hanno comportato non gli permettono – sostiene - d’affrontare nuove fatiche, se non a rischio della vita[120]. Quando Vico sembra disposto ad accettare il compromesso di risiedere nei dintorni di Madrid, a Vallecas o a Valdemoro, ottiene la revoca temporanea del divieto d’entrare a corte[121].

Sono momenti di grande amarezza quelli vissuti alla fine del 1637. Ma sono largamente compensati dai sensibili avanzamenti della sua casata nella società privilegiata. Dopo l’invasione francese d’Oristano del 1637, un’occasione sapientemente sfruttata per strappare mercedes  a vantaggio delle élites locali[122], viene “supplicato” un titolo di conte per il giovane nipote, su cui Vico esercita la patria potestà dopo la morte del figlio Diego e la rottura con la nuora Catalina Çetrillas risposatasi con don Francisco Sanjust[123]. Negli stessi giorni, quando viene ravvisata l’urgenza d’effettuare a Cagliari, Castel Aragonés ed Alghero nuove opere di fortificazione, che avrebbero comportato costi ingenti e quindi nuove dismissioni di beni del patrimonio reale, don Francisco si dichiara disponibile ad anticipare la somma necessaria (8.000 escudos) in cambio della cessione con patto di riscatto del feudo di Soleminis e della relativa carta de gracia[124]. Il riscatto non verrà mai esercitato della Corona, così che Vico può accrescere il suo patrimonio ed acquisire il titolo di marchese di Soleminis. Finalmente il regente corona il sogno d’entrare a pieno titolo nella élite della nobiltà di Sardegna.

Anche l’orizzonte politico madrileno pare rischiararsi nei primi mesi del 1638. Da Cagliari giungono buone notizie sugli sviluppi dell’inchiesta a suo carico. La maggioranza della giunta municipale si dichiara contraria a continuare l’azione legale contro Vico dopo aver constatato che ben sedici capítulos dell’atto d’accusa non risultano lesivi degli interessi collettivi della città e che l’inchiesta Azcón ha ridimensionato tutti i cargos, fino a negare ogni responsabilità dell’accusato[125]. Poco dopo una consulta del Supremo d’Aragona chiude definitivamente il caso: non esistono prove a carico del regente, il quale non ha «faltado en ningún tiempo a las obligaciones de buen ministro». Vico viene scagionato e reintegrato nella sua plaza, mentre il síndico Ravaneda è condannato alla confisca dei duemila ducados di cauzione[126].

 

 

5. – Il caso politico della pubblicazione della Historia general

 

Don Francisco ha appena il tempo d’assaporare la vittoria che il conflitto con i cagliaritani si riaccende con grande vigore. Oggetto del contendere è ancora la sua Historia general de la Isla y Reyno de Sardeña. Francisco de Ravaneda ne aveva chiesto il sequestro al Consiglio d’Aragona perché nel libro, «compuesto por el Regente don Francisco de Vico de historia de aquel Reyno», «hay muchas cosas que saliendo a luz el dicho libro serán de muy grande ocasión para renovar los dichos encuentros y parcialidades». Il Consiglio, sempre più preoccupato della frattura politica in atto fra le due città sarde ma anche propenso a non urtare la suscettibilità del suo regente («podría ser que el dicho Regente las haya escrito por relación de papeles de algunos que en esta parte no tienen buena intención»), dispone che il viceré di Catalogna faccia sospendere a Barcellona la stampa del libro e gli rimetta il manoscritto per sottoporlo al vaglio di esperti[127]. Il tentativo d’interdizione dei cagliaritani ha poco successo perché il libro di Vico, sottoposto al benevolo controllo del Consiglio di Stato, vede la luce l’anno dopo.

Il tentativo d’impedire la pubblicazione del libro di storia s’inquadra nell’interminabile contesa delle due comunità urbane per affermare il proprio primato. Un anno prima erano stati i sassaresi a chiedere al Consiglio d’Aragona, tramite il loro síndico Nuseo, la revoca di un provvedimento della Audiencia di Sardegna che imponeva la censura preventiva degli stampati della tipografia di Sassari. Nella capitale era diffuso il convincimento che dai torchi della tipografia degli Scano Castelví uscissero i libelli anonimi anticagliaritani diffusi in tutta l’isola e nelle corti di Roma e di Madrid. Ai sassaresi, invece, quella decisione dei giudici della Audiencia, ritenuti filocagliaritani, sembrava rivolta al controllo ideologico della loro produzione culturale. Nel memorial di Nuseo lamentano che la lesione delle leggi, dei privilegi e delle tradizioni culturali della città di Sassari, «donde por residir el Arçobispo, el Tribunal del Santo Officio, el Governador, sus Asesores y un pro-abogado, y la primera y más antigua Universidad del Reyno instituída y fundada con Autoridad Apostólica y Real, y de muchos conbentos y colegios de Religiosos y Seminarios de Seglares, en la qual Universidad se leen todas facultades y reciben grados exercitándose en ella continuas conclusiones y actos literarios por lo qual llega a ser dél inconveniente y desautoridad que se dexa considerar, y más comunmente se viene a faltar en la particularidad que los dichos actos literarios requieren, pues para qualquier  dellos que se haya de imprimir es forçoso que primero se represente a la dicha Audiencia distando quatro jornadas de la dicha Ciudad de Sáçer, de manera que se toma por mejor partido remitir fuera del Reyno lo que se ofreçe imprimir (como oy se haze) por ser más breve camino aunque siempre difícil a los Religiosos y estudiantes pobres»[128]. A Madrid vengono prontamente accolte le ragioni di Sassari, sempre più impegnata, dopo il recente riconoscimento regio delle due università, a contrastare la città rivale anche sul terreno del primato culturale[129].

Non esistono prove documentarie di un coinvolgimento di Vico nella soluzione della vicenda. Ma il suo spiccato interesse per l’editoria come mezzo di comunicazione e di propaganda, l’antico sodalizio con la famiglia Scano Castelví proprietaria della tipografia[130] e gli stretti rapporti con i padri gesuiti che operano nell’università di Sassari[131] fanno pensare che Vico abbia speso più d’una parola presso il Consiglio, come è del resto sua abitudine in tutte le circostanze in cui sono in giuoco gli interessi della sua città.

Per questo Vico resta un nemico giurato per i cagliaritani, palese o occulto che sia il suo operato. Ne è consapevole il Consiglio d’Aragona che si preoccupa d’attenuare le divisioni interne dei sardi in un difficile momento politico in cui sarebbero indispensabili la compattezza interna e la solidarietà interprovinciale dei regni rimasti fedeli alla Monarchia. Non è un caso che nel 1640 quando il viceré Doria Landi, principe di Melfi, nell’imminenza delle nuove cortes del regno, prospetta la possibilità d’avere con sé Vico durante i lavori parlamentari, il Consiglio si esprima negativamente, «por ocasión de los pocos affectos que [il regente] tiene en el Cabo de Cáller por ser él del de Sácer»[132]. In quella travagliata fase politica il Consiglio vuole mantenere una sostanziale equidistanza fra Sassari e Cagliari per favorire risposte unitarie del regno. Così in quei giorni il regente è indotto ad assumere una posizione defilata negli affari sardi.

Ma tutti gli accorgimenti per appianare le asprezze fra i sardi sono destinati all’insuccesso. La morte del principe Doria porta il governatore di Cagliari don Diego de Aragall ad assumere il governo interinale del regno e così anche Cagliari pare aver trovato finalmente il suo campione nella contesa stracittadina. Quando Madrid sollecita la rimessa di 100.000 quarteras di grano e foraggi per l’esercito del principato di Catalogna Aragall tenta di traccheggiare, spalleggiato dalle prime tre “voci” degli “stamenti” espresse dal partito cagliaritano. Data la gravità degli avvenimenti catalani, i malumori in Consiglio sono fortissimi e nel giro di pochi giorni varie consultas che si succedono freneticamente stabiliscono d’esautorare Aragall e le tre “voci” degli “stamenti” e d’affidare al regente Azcón il compito di reperire con urgenza denari e grano da inviare in Catalogna[133]. Nelle sbrigative consultas di quel 1640 la firma di Francisco Vico, che è il regente refendario, segue quella del vicecancelliere d’Aragona.

Non meno sgradita a Madrid era risultata l’iniziativa di Aragall d’esasperare il dissidio fra Cagliari e Sassari. Il caso politico suscitato dalla storia di Sardegna di Vico e il continuo stillicidio di memoriales a stampa, sátiras e libelli clandestini avevano avvelenato irreparabilmente il clima politico. Nel 1640, venuta a mancare l’equilibrata mediazione del viceré principe di Melfi, le posizioni si erano ulteriormente radicalizzate. La guerra delle reliquie e la difesa della santità dei rispettivi martiri andava evolvendosi verso posizioni sempre più accese e la questione del primato, alimentata da ecclesiastici e laici delle due città, minacciava di degenerare da polemica dotta e curiale in questione d’ordine pubblico. Quando l’Inquisizione sarda aveva vietato la pubblicazione del libro Defensio Sanctitatis Beati Luciferi scritto dall’arcivescovo di Cagliari Ambrosio Machín, algherese e quindi tradizionale alleato dei cagliaritani contro la causa sassarese, un vero e proprio moto d’indignazione era corso nella società cagliaritana e aveva portato alla caccia di un qualche capro espiatorio. La pubblicazione clandestina di «pasquines, sátiras y tratados infamatorios» contro Cagliari e la santità del suo patrono San Lucifero aveva fatto piovere sul bagnato. L’ira dei cagliaritani si era appuntata su alcuni sassaresi che risiedevano a Cagliari, il noto tesoriere reale Ornano de Basteliga e i fratelli Díaz, l’uno canonico della cattedrale e consultore del Santo Oficio  e l’altro abogado fiscal delle reales visitas. I tre, come sodali di Vico, erano stati ritenuti gli ispiratori della censura inquisitoriale e i responsabili della campagna denigratoria nei confronti dei santi martiri cagliaritani. Col pretesto d’evitare più gravi “inquietudes” popolari, Ornano era stato espulso dal regno e i Díaz erano stati allontanati da Cagliari e confinati nel villaggio di Mandas. Il provvedimento, sollecitato da nobili, ecclesiastici e amministratori della città, era stato assunto da Aragall col consenso dei giudici della Audiencia e dei principali ministri reali[134]. La cacciata del tesoriere reale e il sequestro delle sue carte riservate avevano comportato la brusca interruzione della gestione del real patrimonio e la regolarità delle rimesse di denaro per l’esercito di stanza in Catalogna. In tempi di grandi ambasce finanziarie e di bisogni mai appagati di grano e di foraggi per la Catalogna la decapitazione dell’ufficio di tesoreria è una iattura intollerabile[135]. Nella consulta dedicata ai torbidi cagliaritani i relatori Vico e Magarola si pronunciano con accenti di forte riprovazione per l’operato dei responsabili del governo locale[136].

 

 

6. – La caduta del conte-duca e il declino del regente sardo

 

Per ripristinare rapporti meno risentiti fra Madrid e Cagliari giunge proprizia, nell’imminenza della convocazione delle cortes, la nomina a viceré del duca d’Avellano Fabrizio Doria. Invece è tutt’altro che facile sedare le animosità interne agli “stamenti” e sanare la frattura fra le due municipalità. Doria deve fare i conti col rifiuto dei sassaresi di celebrare le cortes a Cagliari. Dopo la cacciata dalla capitale del tesoriere Basteliga e dei fratelli Díaz i sassaresi ritengono opportuno trasferire la sede del parlamento ad Oristano. Già nel 1636 era stata avanzata un’analoga richiesta dai vescovi di Ampurias, Bosa e Sassari quando la “guerra dei santi” era degenerata nella rimozione dalle chiese cagliaritane delle effigi dei martiri turritani. Allora i tre prelati avevano ritenuto che Oristano fosse la sede più adatta per riunire le cortes per la posizione geografica baricentrica («está situada en el riñón del Reyno») e per la sua neutralità nella diatriba municipalistica[137]. La richiesta – sia nel 1636 che nel 1642 - è un puro pretesto per squalificare Cagliari: non è un caso che il Consiglio d’Aragona (a firmare la consulta è il solito Vico) la dichiari fondata sul piano giuridico: «está a arbitrio de Vuestra Magestad la elección del lugar para la convocación del Parlamento en Cerdeña conforme los Capítulos de Corte de aquel Reyno»[138].

Il trasferimento ad Oristano delle cortes mira anche a consegnare la gestione del parlamento all’astuto figlio del regente, l’arcivescovo don Pedro Vico, il quale comincia a manifestare la volontà di proporsi come arbitro della dinamiche politiche sarde nel rapporto fra centro e periferia. Inoltre all’ambizioso prelato in quel momento brucia ancora la mancata designazione di un natural sardo (cioè la sua) a sostituire nella sede arcivescovile di Cagliari il defunto Ambrosio Machín. Il viceré, che è alla ricerca di solide alleanze parlamentari, si fa interprete presso la corte della “delusione” dei sardi per la mancata promozione di Pedro Vico e propone una sorta di risarcimento con una dignità vacante in un altro regno, «tanto por sus partes – afferma - como por los servicios de su padre»[139]. Ma il favore accordato ai Vico non fa deflettere il viceré Doria dall’abituale linea di “prudenza” politica consigliata da Madrid, così che la scelta della sede parlamentare cadrà ancora sulla capitale di fatto del regno.

Il parlamento Doria si conclude positivamente per la Corona. Il regno concede l’intera somma del servicio di 70.000 escudos rinunciando alla consuetudine di far gravare sul donativo il diritto dei laborantes. Indubbiamente per il viceré è un successo politico, condiviso col regente sardo che da Madrid ha tenuto i fili della contrattazione parlamentare contemperando accortamente le necessità finanziarie della Monarchia con le aspettative di mercedes dei parlamentari sardi[140]. 

Chiuso il parlamento, la volontà di rivalsa dei cagliaritani riprende vigore. Sono quelli i giorni in cui si consuma la caduta del conte-duca di Olivares e che segnano ineluttabilmente anche il principio del declino delle fortune politiche di Vico. Ha accumulato molte inimicizie, il letrado sassarese, e non solo nel consiglio municipale di Cagliari: nella Audiencia sarda gli sono ostili quasi tutti, i giudici Dexart e Canales specialmente; nella capitale del regno, i ministri reali e i principali esponenti dello “stamento” militare ed ecclesiastico sono schierati sulle posizioni dei cagliaritani. È un fronte che può vantare una compattezza tale da legittimare la missione a corte del síndico Salvador Martín per conto del Consiglio municipale di Cagliari. Nel momento della caduta di Olivares e del conseguente allontanamento del protonotario d’Aragona anche la posizione del regente sardo necessariamente si fa più debole[141]. Nelle istruzioni segrete a Martín emerge chiaramente la volontà di sollecitare presso il successore del conte-duca don Luis de Haro una certa restaurazione politica anche nel regno di Sardegna. Come abbiamo detto più volte, la corte aveva assunto sempre una formale posizione di neutralità di fronte ai conflitti sardi, anche se don Jerónimo de Villanueva aveva tenuto in particolare considerazione il ruolo istituzionale del regente sardo, così da far pendere di fatto la bilancia a favore dei sodali di Vico. Nel 1643 i cagliaritani ritengono che don Francisco sia ormai privo di protezioni a Madrid e che anche lui, sgradito ai sardi come Villanueva lo era ai catalani, possa essere allontanato dal Consiglio d’Aragona.

È per questo che prospettano al sovrano la soluzione più drastica, la “jubilación” del regente sardo. Vico era stato ricusato per aver votato e firmato provvedimenti contrari agli interessi di Cagliari. In pratica, per il Consiglio civico egli non rappresentava più nel Supremo d’Aragona la provincia che lo aveva espresso, dopo che aveva perpetrato a più riprese “persecuciones” contro i cagliaritani «procurando visitarles a los unos y a los otros, buscandoles modo para para inquietarlos». Nell’esercizio del patronazgo, sempre squilibrato a favore dei sassaresi, era stato particolarmente fazioso perché aveva pensato soltanto a rafforzare politicamente la sua rete di potere e a consolidare le proprie sostanze economiche e quelle dei suoi clienti. Esemplare era stato il favore accordato ai nobili Manca, che all’ombra di Vico avevano fatto man bassa di plazas ecclesiastiche e civili e si erano arricchiti col commercio clandestino del grano in danno della hacienda reale[142].

Questo dicono le  istruzioni segrete al síndico Martín, che trovano poi una più compiuta articolazione nel memorial presentato a corte nel 1644. Negli anni della regencia di Vico sono molte le occasioni in cui i cagliaritani hanno dimostrato la loro innata fidelidad al re: lo hanno fatto - sostiene il  memorial - nei parlamenti con molti e costosi servicios ed in tutte le altre circostanze in cui la Monarchia li ha messi alla prova, specialmente in occasione della Unión de armas. Invece delle ricompense sperate e per qualche verso dovute, avevano dovuto sperimentare l’ostracismo e l’ostilità di Vico. Il regente, che a suo tempo era stato prescelto dal regno con un consenso generale, si era ridotto a difendere soltanto gli interessi di Sassari contro quelli di Cagliari, fomentando «disensiones y encuentros, dividiendoles en dos vandos y parcialidades»[143].

Sono molte - secondo il memorial – le dimostrazioni di faziosità del regente sassarese. La prima è la pubblicazione di libri di storia e di carte geografiche che sottraggono a Cagliari «las honras y antigüedades que los historiadores antiguos y modernos le han dado, aplicándolas a la ciudad de Sásser su patria»[144]; la seconda, l’aver fomentato nel 1638 il dissidio fra gli arcivescovi delle due città riguardo al primato delegittimando, fra l’altro, alcuni provvedimenti della Audiencia sarda favorevoli alla causa di Cagliari; ancora, l’aver promosso da Madrid - assieme alla sua conventicola filosassarese formata dal padre Pinto, da fra Alonso Serrano e dal dottor Julián Usena – il provvedimento di censura dell’Inquisizione sarda nei confronti dei libri di Dionisio Bonfant e di Ambrosio Machín sulla difesa del primato ecclesiastico e sulla santità di San Lucifero. Tutto questo Vico lo ha fatto per sostenere la sua città e favorire le sue clientele personali a danno dei cagliaritani: «aviendo experimentado en estas últimas Cortes – sostiene Martín – las vacantes de Prelaturas, pensiones, y otras mercedes, ha tenido maña el dicho Regente para que los hijos de la ciudad de Cáller no participassen en ellas, aviéndose dado a sujetos de Sassar, y las más a personas deudas suyas». È per questo che Vico «está recusado para no poder intervenir casi en todos los negocios de gracia y de justicia de nos naturales del Reyno: y en particular en los de la dicha Ciudad». Bisogna procedere alla sua «jubilación», dunque, anche perché «es de edad de más de ochenta años»[145].

Il memoriale Martín si differenzia dai precedenti tentativi di screditare Vico a corte. Stavolta i cagliaritani rinunciano ad avanzare cargos sulle presunte pratiche illegali del regente per arricchirsi  e promuovere socialmente la sua famiglia; puntano invece sulle roventi polemiche in atto sul primato religioso e sulla ricostruzione della storia dell’isola fatta da don Francisco. Dopo Machín e Bonfant scende in campo anche il padre Salvador Vidal, un polemista di prim’ordine che con una serie di debordanti pamplets confuta la versione della storia sarda data nella Historia general. Vico replica con altrettanta vis polemica, alimentando un confronto pretenziosamente dotto ma caratterizzato specialmente per una ridondante cifra espositiva, tipica dell’erudizione secentesca. Il dibattito è meritevole d’attenzione non tanto per i suoi contenuti storiografici di poca consistenza, quanto per i valori ideologici che supportano tanto impegno intellettuale.

Il memorial della città di Cagliari è anche un piccolo condensato delle pletoriche disquisizioni storico-religiose già abbondantemente enunciate a Roma e riproposte ora a Madrid nell’intento d’imprimere una connotazione più marcatamente politica all’offensiva contro il regente. La rimozione di Vico avrebbe comportato un riequilibrio delle forze e forse avrebbe fatto pendere definitivamente la bilancia a favore di Cagliari. Consapevole che i ceti dirigenti cagliaritani vogliono giungere ad una resa dei conti per impedirgli di mantenere la rappresentanza del regno, Vico replica con una memoria di grande acutezza ed efficacia dialettica. Contesta che i cabos a lui imputati, «injuriosos y sin más probança que su arbitrio», siano mirati semplicemente a tutelare Cagliari: sono, piuttosto, una prova dell’avversione di una fazione “particular”, che agisce per fini personali, con l’unico intento di presentarlo «como enemigo de mi Reyno y Provincia»[146]. Si tratta, insomma, non di un legittimo confronto politico fra città ma di una lotta di fazione, come provano i torbidi cagliaritani del 1641. Col pretesto di un risentimento popolare contro i “nemici” sassaresi residenti a Cagliari, il governatore Aragall e la sua conventicola avevano espulso dal regno Ornano de Basteliga e i fratelli Díaz per impadronirsi illegalmente della corrispondenza del tesoriere al fine – sostiene Vico – d’accreditare la tesi del complotto orchestrato a Madrid contro Cagliari. L’animosità localistica del “partito” cagliaritano non appartiene a lui che nel suo libro di storia (suo e non di altri, come insinuano slealmente gli autori del memorial) ha dato a Cagliari ciò che è di Cagliari, senza esaltazioni e senza detrazioni. «Nada puede desear Cáller con verdad en su beneficio que no le dé mi historia», sostiene sottilmente Vico, rivendicando una probità storiografica fondata su fonti letterarie e documentarie a  lungo studiate e ricercate negli archivi. Non a caso la sua opera ha avuto l’autorevole avallo scientifico di «algunos peritos en historia» e l’assenso dei consiglieri d’Aragona e di Castiglia. Vico giuoca, dunque, la sua partita difensiva sulla distinzione fra la legittima difesa della “patria” sassarese, sostenuta con gli argomenti etici della tradizione e della storia, e gli arbitrari comportamenti di camarillas cagliaritane che perseguono solo interessi personalistici avulsi da qualunque valore ideale che si richiami alla comunità cittadina.

È difficile dire quale apprezzamento siffatte argomentazioni riscuotano a corte. In ogni caso il Consiglio d’Aragona, sempre orientato verso la prudenza politica e il formalismo legale, invita Martín a formulare accuse più concrete e probanti. Ma il síndico cagliaritano non ha altri elementi da fornire e con un secondo memorial ribadisce genericamente che «en 18 años que está [Vico] en este Consejo lo que ha experimentado [Cagliari] es haverle perseguido y por éste se le ha admitido la dicha recusación, y oy es fundamento bastante para la dicha jubilación». Nuove prove non vi sono, se non le vaghe notizie che giungono da Saragozza sulla pubblicazione di un nuovo libro di Vico, «una apologia muy perjudicial a la paz y quietud publica» e la conferma che gli “stamenti” si sono rifiutati ancora una volta di pagare il salario del regente. È la dimostrazione, per Martín, che il parlamento ritiene inaccettabile la presenza di Vico in Consiglio d’Aragona e che la rottura dell’antico accordo parlamentare fra Corona e regno di Sardegna sul pagamento del salario pone un problema politico prima che finanziario. La questione può risolversi soltanto con la rimozione di «un enemigo capital como es el dicho Regente»: Cagliari è convinta d’avere ampiamente meritato una tale merced dal suo re[147].

I toni accesi e risoluti degli accusatori poco si conciliano con i formalismi del Consiglio della Monarchia. Una volta di più le accuse dei cagliaritani sono ritenute inconsistenti, anche se un’accorta apertura politica verso i cagliaritani porta il Supremo d’Aragona ad auspicare che il sovrano ordini a don Francisco «que no scriba libros que puedan mover los ánimos de los de la Ciudad de Cáller, y si alguno tuviere scrito que no lo saque a luz». Il Consiglio è in via di rinnovamento nella sua composizione e sceglie opportunamente di dare un colpo al cerchio ed uno alla botte. La consulta raccomanda da un lato che la città di Cagliari non presenti in futuro lagnanze senza il preventivo assenso del viceré di Sardegna; dall’altro impegna il Consiglio a non gravare i cagliaritani di alcuna sanzione pecuniaria per la vertenza appena conclusa; e conclude con la promessa di futuri onori e ricompense per Cagliari e i suoi abitanti[148]. Sembrerebbe che il Supremo d’Aragona voglia porre la pietra tombale sulla lunga diatriba.

Ma gli atteggiamenti di equidistanza del Consiglio avevano finito per avvantaggiare soltanto il regente. L’opposizione cagliaritana ne è consapevole e tenacemente persiste nella sua richiesta di “jubilación” che ormai pare raccogliere sempre più consensi. A corte non v’è disponibilità ad accollarsi i costi del salario del regente sardo e comincia a farsi strada la convinzione che Vico sia un ostacolo alla possibile riconciliazione fra i due cabos del regno e che sarebbe opportuno estrometterlo dalla regencia[149]. La voce circola insistentemente nei primi mesi del 1645, tanto che lo stesso Vico deve sollecitare un nuovo pronunciamento del Consiglio a tutela della sua posizione[150]. A luglio anche l’arcivescovo turritano e i consellers della Città di Sassari intercedono a favore del loro concittadino[151].

Ma da tempo l’opposizione al regente va oltre la diatriba stracittadina per la difesa dei valori religiosi e morali delle comunità. Ormai tocca nel vivo l’affermazione egemonica delle oligarchie urbane, incide sulla distribuzione della ricchezza e della gracia, riguarda la ridefinizione delle dinamiche politiche basate sul patronazgo real. In buona sostanza sono in molti a ritenere che urge ristabilire un’equità distributiva nelle relazioni fra la corte e la provincia, non meno che negli equilibri interni ai ceti sociali del regno. In una Monarchia che anche in periferia lascia intravvedere sempre di più i segni della decadenza economica e delle disfunzioni amministrative le oligarchie tradizionali hanno buone possibilità di riprendere il sopravvento. Dopo l’uscita di scena del conte-duca pare che anche il suo fiduciario sardo abbia fatto il suo tempo.

Non sarebbe più necessaria, insomma, la mediazione del regente nelle relazioni fra Madrid e la Sardegna. Dopo lo scoppio dei conflitti con la Francia e dopo la dolorosa secessione catalana quei rapporti si sono intensificati e vedono sempre più spesso Madrid dialogare con la nobiltà provinciale attraverso il viceré di turno. Dal suo canto la nobiltà sarda fa a gara per collaborare con la Monarchia che combatte in Catalogna contro i catalani. Alcune casate, come i Villasor e i Castelví, forniscono uomini ed armi e costruiscono proprio negli anni quaranta quei rapporti privilegiati con la Corona che assicureranno loro posizioni di primo piano nell’aristocrazia sarda[152].

Ma è evidente che la Monarchia non può fare a meno del suo fedele intermediario quando non è alle viste alcuna reale possibilità di ricambio. A Madrid il regente sardo gode ancora di notevole prestigio e nel 1646 il Consiglio d’Aragona conta ancora sulla sua capacità ed esperienza per stabilire nuove linee d’indirizzo per il governo della Sardegna. Il disastroso stato economico dell’isola non consente più di fare fronte con le entrate del real patrimonio neppure ai costi dell’amministrazione ordinaria e alle spese della difesa militare. Una consulta consiliare del luglio 1646 fa il punto sulle disastrose conseguenze del sistema degli asientos stabilito fra il 1627 e il 1642. Le entrate del regno, derivate in gran parte dalle esportazioni di grano, si erano assottigliate da quando il meccanismo perverso degli asientos aveva finito per avvantaggiare solo i mercanti, i quali «havian procedido – dice la consulta - con fraude de los derechos reales». In attesa delle conclusioni dell’inchiesta amministrativa del giudice della Audiencia sarda Jaime Mir su quella fallimentare esperienza e di fronte alle continue richieste di soccorso dei territori italiani, non rimane altro da fare che sospendere il pagamento delle rendite e delle pensioni. Non resta che confidare nella «Magestad divina» – è Vico ad affermarlo – e «reducida la Monarchía a la paz y quietud que se dessea, se podrían pagar con comodidad todos estos rédditos que sólo padecen suspensión y no pérdida de la paga». In pratica è un’ammissione di bancarotta. Per fare fronte alle emergenze di cassa pare opportuno concedere ai creditori sacas di grano sotto forma di merced e senza utili per il fisco ed effettuare in via prioritaria una saca annuale di 25.000 starelli  a vantaggio della hazienda real. I calcoli dicono che si potrebbero ricavare ogni anno 12.500 escudos, sufficienti alla tesoreria reale per saldare i debiti contratti nell’arco di un decennio e per fare fronte al pagamento delle rendite di juros e censos. Sottratti i 25.000 starelli destinati all’esportazione, il regno potrebbe contare su una produzione granaria di altri 150.000 starelli[153]. I calcoli di Vico paiono ottimistici e le sue proposte sono forse un po’ campate in aria, come d’altronde lo sono in quel tempo i molti arbitrios dei politici impostati su approssimative analisi economiche. Ma qui non mette conto di sottolineare la fondatezza delle scelte di politica economica quanto d’osservare come Madrid abbia ancora fiducia nel vecchio letrado sassarese, che è giunto ormai alla veneranda età di 75 anni. Il Consiglio d’Aragona gli riconosce una competenza senza eguali sui problemi amministrativi del regno e gli attribuisce una credibilità politica negata invece ai suoi avversari.

Ma le restrizioni delle esportazioni di grano suscitano le immediate reazioni dei grandi esportatori. Le città e i nobili trovano nel viceré Guillém de Moncada, giunto in Sardegna nel 1644, una sponda per contrastare i provvedimenti del regente sassarese. Il viceré ambisce a surrogare Vico nell’esercizio del patronazgo e ad ergersi a rappresentante esclusivo della Monarchia in Sardegna. Appena insediato, il viceré duca di Montalto si era impegnato freneticamente, col suo fare autoritario d’inusitata durezza, per assicurare alla Monarchia ogni tipo d’ausilio militare, dalla rimessa di armi e di vettovaglie, al reclutamento forzato di soldati sardi e al loro armamento[154]. Ma gli intenti di Moncada falliscono clamorosamente per l’impopolarità che si è guadagnato presso la nobiltà sarda e per le resistenze degli apparati di corte a ridimensionare il ruolo istituzionale del regente provinciale. Osteggiato da una parte dell’aristocrazia che fa capo alla casa di Laconi (a sua volta vincolata al regente Vico), il viceré finisce per trovarsi in una difficile posizione politica ed al centro di nuovi conflitti. Anche Vico ne viene toccato direttamente, quando Montalto ostacola il pagamento del suo salario e compie pubbliche dimostrazioni d’ostilità nei suoi confronti. A quel punto ogni possibilità di dialogo fra regente e viceré viene perentoriamente interrotta con la ricusazione di Montalto e l’astensione di Vico in Consiglio d’Aragona nei giudizi riguardanti gli atti di governo del duca[155].

Il fatto è che il viceré Moncada aspira a diventare la punta di diamante dello schieramento cagliaritano. Quando promuove un nuovo tentativo di rimozione del regente trova nella città di Cagliari pronti consensi. Un memorial viene presentato a Madrid tramite il decano della diocesi di Ales Jaime Capay y Castañer. Stavolta è la questione dell’esercizio del patronazgo real ad assumere una significativa centralità nel bagaglio di accuse contro il regente. Sostiene il memoriale che in vent’anni di regencia nel Supremo d’Aragona Vico aveva designato dodici prelati sassaresi, di cui ben sei sono suoi  familiari, controllando di fatto una buona parte della chiesa sarda. Era stata posta a dura prova la «innata fidelidad» verso il sovrano dei cagliaritani. Giustamente era stata chiesta la “jubilación” del regente, evitata soltanto per la scaltrezza e le trame ordite a corte dall’accusato. Per i consellers cagliaritani Vico deve essere rimosso, deve ritirarsi a vita privata e godersi l’ingente patrimonio (di circa duecentomila libras, insinuano maliziosamente) accumulato negli anni dei suoi incarichi pubblici[156].

La collimanza degli interessi fa sì che il viceré di Sardegna si ponga al fianco dei giurati cagliaritani nella nuova offensiva contro Vico. In un suo memorial a stampa, presentato tramite Capay, il principe di Paternò elenca orgogliosamente i suoi meriti di principale attore della politica assolutistica in Sardegna. Sostiene d’aver assicurato alla Monarchia un enorme contributo, «el mayor esfuerzo que hizo Cerdeña fuera de Cortes»[157]. Nel mese di settembre del 1645 aveva levato in un solo giorno seicento fanti e li aveva imbarcati nel giro di dieci giorni, «purgando con ella el Reyno de la gente facinorosa que la estragava». Allo stesso tempo aveva imposto uno speciale donativo in grano, avena, cavalli e bestiame: si era trattato di un contributo del regno talmente «grandioso» che aveva dovuto servirsi di tredici vascelli per il trasporto in Spagna. Nel 1646 erano stati assicurati viveri in abbondanza alla armada in navigazione verso Orbetello e alle galere di Spagna, grano era stato inviato all’isola di Minorca, 20.000 escudos erano stati impegnati per la leva di mercenari tedeschi, e così via. Uno sforzo finanziario senza precedenti, quello di Moncada, ottenuto con metodi autoritari e poco rispettosi delle leggi e dei privilegi del regno. Vico si era opposto a certi atti amministrativi del viceré che attingeva irregolarmente alle risorse finanziarie del regno in violazione della legislazione vigente e contro la volontà dei ministri patrimoniali. Con l’assenso dell’intero Consiglio Vico aveva bloccato l’avventurata gestione della hacienda  sarda con una “reprehención” pubblica, fondata sul richiamo formale al rispetto delle pragmaticas del regno. Moncada aveva replicato imputando i malumori diffusi fra i sardi alla mancata concessione di favori e di mercedes. Era stata – a dire del viceré - l’iniqua erogazione della gracia real  da parte del regente provincial («moderava las materias de dicho Reyno distribuyendo los premios en los sujetos que por parentesco o amistad eran sus dependientes y porsiguiendo y inquietando a la nobleza y vezinos de la ciudad de Cáller») a provocare la rottura della collaborazione fra la Monarchia e i sudditi sardi.

È interessante notare come il contrasto fra i due alti ministri reali riguardi più l’esercizio del patronazgo che l’applicazione di norme a salvaguardia dell’economia e delle finanze del regno. Il viceré accusa il regente d’opporsi ad ogni sua proposta d’attribuzione delle plazas vacanti per imporre soltanto persone di suo gradimento nella Audiencia, nel veguerato di Alghero, nelle gobernaciones di Cagliari e di Sassari e nella alcaydía del Castello di Cagliari. «De todo lo referido – si legge nel memorial Capay ispirato da Moncada- han formado los naturales concepto de que el Duque no tiene la mano ni autoridad que pide el cargo para mayor servicio de Vuestra Magestad y acierto del govierno y que en éste el que más influye es el Regente provincial porque dependiendo los ministros del Supremo de relaciones para resolver negocios del reyno tan distante juzgan que no admitiéndose las del Virrey y Audiencia es fuerça que se sigan las del provincial». Un regno, quello sardo, in cui la fondamentale funzione del viceré è annichilita dallo strapotere del regente: «Asigurados desta verdad – continua l’atto d’accusa - viven los del Reyno con mayor sentimiento biendo depender los premios y gracias que V.M. reparte de un regente que oy está más irritado y le tiene particular odio y rancor por averse eximido [de la paga del salario] los tres estamentos en estas ultimas Cortes»[158]. La delusione dei ceti privilegiati che assicurano la “conservación” del regno è alle stelle perché devono constatare «la desautoridad del cargo de Virrey y que la ciudad y nobleza de Cáller que por más poderosos y imediatos al Virrey que residen en ella son los ynstrumentos más eficaces para conseguir los donativos ya con su sequito ya con su exemplo están desalentados con el dolor de ver que sus finezas en lugar de premios han alcançado molestias y persecuciones por mano del Regente provincial de quien por más irritado esperan mayores vexaciones»[159].

L’immagine di un regente provincial che si contrappone all’intero corpo privilegiato del regno è quanto meno inverosimile. Presentare il ministro sassarese come un nemico dei sardi – avverso ai cagliaritani, all’amministrazione vicereale, alla nobiltà e al popolo - è un vecchio espediente a cui gli amministratori municipali cagliaritani erano ricorsi più volte. In un mese imprecisato del 1647 Vico passa al contrattacco e presenta una querela contro il jurado cagliaritano Ravaneda. Intende tutelare, il vecchio regente, il credito politico personale e la dignità del suo oficio. Nell’atto giudiziario ricapitola tutte le ostilità e le macchinazioni del jurado cagliaritano dell’ultimo decennio, ricordando come il memoriale Ravaneda avesse provocato non solo la sua sospensione dalle funzioni consiliari ma addirittura l’allontanamento dalla corte per quattro mesi. Era stato un atto arbitrario, perpetrato «con mucha nota de mi reputación y quietud de mi persona»[160]. Sono ferite ancora aperte, per Vico, a cui in tempi recenti si è aggiunta una nuova campagna diffamatoria ordita per allargare il fronte dei suoi avversari. Ravaneda aveva convinto il duca di Montalto che le reprimende del Consiglio d’Aragona sul governo del regno erano opera del regente provincial; aveva insufflato al marchese di Villasor che per volontà di Vico gli era stato negato il comando delle galere di Sardegna (da sempre appannaggio del principe Doria) e lo aveva convinto a convocare in forma irrituale, in violazione degli actos de corte, il braccio militare del parlamento; gli aveva attribuito ingiustamente la paternità della carta reale con cui il Supremo d’Aragona aveva derogato alla prammatiche reali ed imposto ai porcionistas (e quindi anche alla città di Cagliari) l’esportazione del grano di “porción” non più in franchigia ma dietro pagamento dei diritti reali. Infine, nella riunione in cui si era raggiunta l’intesa fra municipio, viceré e “stamento” reale, il jurado cagliaritano aveva proposto un nuovo síndico per rappresentare a corte le nuove accuse. Non a caso la scelta era caduta sul decano di Ales, un nemico giurato di Vico perché anni addietro, al tempo del duca di Gandía, nella Audiencia sarda questi aveva fatto condannare alla forca come monedero falso un parente di Capay.

Atteggiamenti così ostili e persecutori nei confronti di un ministro colateral del re richiedono “pronto reparo”. Vico pretende che finalmente si faccia pagare a Ravaneda la sanzione pecuniaria di duemila ducados comminatagli per calunnia nel primo giudizio, che venga punito per i tumulti provocati contro la persona e l’operato del ministro, che vengano annullate sia le decisioni del “braccio” militare assunte in violazione delle regole parlamentari sia le istruzioni date dal consiglio municipale a Capay. È questa, forse, l’ultima orgogliosa battaglia del vecchio regente in Consiglio d’Aragona.

Non abbiamo certezze, ma è da presumere che le consultas consiliari dell’agosto e del settembre del 1647 siano provocate proprio dalla risentita querela di Vico. Il disagio politico e morale del vecchio letrado pare riverberarsi sulle decisioni del Consiglio. Prima di tutto vengono respinte come manifestamente infondate le accuse del viceré Moncada. Il decano Vico gode sempre di largo credito fra i suoi colleghi: «al Consejo en execución de la Real orden de Vuestra Magestad ha parecido en primer lugar representar a Vuestra Magestad que el Regente Don Francisco Vico se halla muchos años decano de este Consejo aviendo servido en él con entera satisfación de más de veinte y quatro años a esta parte correspondiendo siempre en todo a las obligaciones de buen Ministro de Vuestra Magestad y que oy se halla en edad de más de setenta y cinco años»[161].

Restano in piedi le accuse formulate dai cagliaritani nel memorial Martín del 1644. Il Consiglio, pur ritenendo infondate quelle lamentele, non aveva rigettato l’istanza per ragioni di convenienza politica: «hazer la censura sin más examen – aveva sentenziato - podría ser materia de desconsuelo». Era sembrato opportuno promuovere un’inchiesta «en forma de visita» per allargare il raggio delle testimonianze sui rapporti politici all’interno del regno. Nel settembre del 1645 l’incarico era stato affidato dal cardinale di Toledo all’inquisitore di Sardegna Miguel López de Eguinoa[162]. A distanza di due anni l’inchiesta inquisitoriale risultava, però, ancora in alto mare. Ragioni di salute dell’inquisitore, difficoltà dell’ecclesiastico ad abbandonare Sassari e la sua normale attività giudiziaria nel tribunale, inspiegabili disguidi amministrativi nella trasmissione delle carte processuali ed altre ragioni non del tutto chiare avevano impedito a Lopez di compiere la visita. Non vanno esclusi, però, motivi d’opportunità politica, forse sopraggiunti nel tempo. Quando López deve giustificarsi davanti al Consiglio d’Aragona per non aver onorato l’impegno, sostiene che il clamore del caso e la notorietà dei protagonisti non avrebbero consentito all’inquisitore d’agire con la dovuta segretezza per raccogliere testimonianze attendibili[163]. Insomma, quando anche l’Inquisizione se ne lava prudentemente le mani, il Consiglio deve decidere per suo conto, senza il conforto di altri organismi istituzionali. L’orientamento del Supremo d’Aragona è definito da tempo. Dopo le ripetute assoluzioni del regente il consesso madrileno punta soltanto a salvaguardare il prestigio dei suoi membri, che sono una cosa sola con l’istituzione: «lo mucho que importa atajar estas persecuciones – si legge nella definitiva consulta di settembre - y que así como es justo que los ministros estén espuestos a ser residenciados también lo es que sean defendidos y que no por qualquier quexa ayan de inquietarlos y pretender que los jubilen con nota y descredito suyo e daño del servicio de Vuestra Magestad»[164].

È interessante scoprire l’opinione che il Consiglio si è fatto delle questioni politiche sarde. I capi d’accusa contro Vico, dice la consulta, «se reducen a las emulaciones ordinarias de los dos cabos de Cáller y Sácer y sobre si el ser el Regente natural del uno le ha hecho inclinar tal vez con más afecto al otro, impostura de que ningún ministro por entero y circumspeto que sea podrá librarse en qualquier Provincia que estuviere pues nace de las passiones y encuentros particulares de los ministros naturales, y más en Cerdeña donde influyen tanto estas imbidias que hasta en las devociones se han esperimentado y esperimentan». L’insussistenza delle accuse è nei fatti, «aviendo sido este ministro tan obstinadamente perseguido por tantos años nunca se ha provado ni dicho contra él cosa que se pueda afear, ni aún culpa digna de desestimación; y que quando de persecuciones tan continuadas y reiteradas salen los ministros sin lesión, merecen no sólo la clemencia y amparo común de Vuestra Magestad sino tan particular que sirba de exemplo»[165]. Nessuna colpa, dunque, e la richiesta di rimozione va rigettata. Ma se anche Vico si fosse reso responsabile di un qualche misfatto, i servizi resi alla Monarchia gli assicurerebbero la clemenza del re. Il decano del Consiglio ha raggiunto quasi la veneranda età d’ottanta anni e il credito di cui gode impone di respingere qualunque istanza che suoni come condanna del suo operato. Non devono restare macchie sulla figura del regente, non si può «dejarle amancillado a vista de la sepultura».

È l’ultima battaglia, ancora una volta vittoriosa, del ministro sardo. Il suo allontanamento dal Consiglio, che i cagliaritani continuano a chiedere con un’ostinazione senza limiti anche nei mesi a venire, è imposto inesorabilmente dal tempo. L’età avanzata costringe don Francisco ad appartarsi. Ormai gli restano pochi mesi di vita, come risulta dal suo testamento che viene aperto e pubblicato a Madrid il 13 febbraio 1648[166].

 

 

 

 

 



 

* Il saggio è in corso di pubblicazione negli atti del convegno internazionale “Sardegna, Spagna, Mediterraneo, Atlantico dai Re Cattolici al Secolo d’Oro”, Roma, Carocci, 2004.

 

[1] Non si conosce l’anno di nascita di Vico e neppure si hanno certezze sulle sue origini sociali. Al di là delle biografie approssimative (come quella ottocentesca di Pasquale Tola dettata per il Dizionario biografico degli uomini illustri di Sardegna), le poche notizie documentate riguardano il padre il quale sfrutta la carica di receptor del Santo Officio per migliorare la condizione sociale ed economica della famiglia (cfr., ad esempio, Archivo de la Corona de Aragón (ACA), Real Cancillería (RC), reg. 4335, concessione di Filippo II a Juan Ángel de Vico d’esportare un quartago dietro pagamento dei diritti, 26 febbraio 1578). Destituita di fondamento è l’affermazione di Tola (ripresa da J. Arrieta Alberdi, El Consejo Supremo de la Corona de Aragón (1494-1707), Zaragoza, 1994, 628) che Francisco Ángel Vico abbia frequentato l’università di Salamanca. Studiò invece all’Università di Pisa dove venne immatricolato come legista il 2 aprile 1588 (Libri matricularum Studii Pisani (1543-1737), dir. E. Cortese, Pisa, 1983, p. 98); si laureò in utroque iure il 28 aprile 1590 (R. Del Gratta, Acta graduum Academiae Pisanae (1543-1599), dir. E. Cortese, Pisa, 1980, 261).

 

[2] ACA, Consejo de Aragón (CdA), leg. 1149, súplica di Francisco Vico al re, s.d. [1645]. Una versione ridotta della súplica è nel leg. 1083 dello stesso fondo archivistico.

 

[3] ACA, CdA, leg. 1177, il viceré Baiona al Consiglio d’Aragona, 28 maggio 1627.

 

[4] Sul parlamento Gandía si rinvia a G. Ortu (a cura di), Il parlamento del viceré Carlo de Borja duca di Gandía (1614), Cagliari, 1995.

 

[5] ACA, CdA, leg. 1149, súplica di Francisco Vico al re, s.d. [1645].

 

[6] In generale sul tema della fedeltà al re, cfr. A. Musi, L’Italia dei Viceré. Integrazione e resistenza nel sistema imperiale spagnolo, Cava de’ Tirreni, 2000, cap. VI.

           

[7] E. Martínez Ferrando, Un conflicto en la Inquisición de Cerdeña durante el primer tercio del siglo XVII, in Atti del VI Congresso internazionale di Studi sardi, Cagliari, 1962, 502, nota 22.

 

[8] ACA, CdA, leg. 1162, il conte del Real al re, 18 aprile 1608.

 

[9] ACA, CdA, leg. 1162, lettere del regente Mur del 14, 18, 20 aprile, 8 luglio e 2 agosto 1609.

 

[10] ACA, CdA, leg. 1162, Instructions y memorials de lo que a de negociar lo noble don Estevan Manca de Cedrelles síndich elegit per la magnífica Ciutat de Sàsser en la cort de Sa Real Magestat, s.d.

 

[11] ACA, CdA, leg. 1218, lettere del giudice della Audiencia Gabriel Ángel Dalp a Pablo Del Rosso, 30 dicembre 1610; ACA, CdA, leg. 1218, memorial di Vico del 3 giugno 1611. A distanza di qualche tempo l’intesa di Vico col viceré sembra incrinarsi per il fatto che il conde del Real accusa il letrado d’essersi appropriato di certe pensiones riscosse per conto del figlio del conte. Vico respinge sdegnosamente le insinuazioni e lamentando che si voglia macchiare «la estimación que Vuestra Magestad tiene de la persona del dicho Doctor y de sus servicios [Vico scrive in terza persona] es pagarle muy mal la voluntad y obras con que siempre a acudido a sus cosas y de su Casa en tiempo que fue virrey de aquel Reyno el conde del Real su suegro» (ACA, CdA, leg. 1225, Vico al Consiglio d’Aragona, s.d.).

 

[12] ACA, CdA, leg. 1218, il candidato Andrés Del Rosso al fratello Pablo, 4 dicembre 1611; Pablo Del Rosso al vicecancelliere d’Aragona, 12 dicembre 1611.

 

[13] L’arcivescovo cagliaritano scrive al vicecancelliere d’Aragona auspicando che la scelta cada sul «doctor Vico Artea, y con mucha razón por ser persona muy honrada y que lo merece muy bien ocupar este lugar en servicio de su Magestad por concurrir en su persona las prendas necessarias y ser muy bien visto en esta Ciudad por su virtud» (ACA, CdA, leg. 1218, l’arcivescovo di Cagliari al vicecancelliere d’Aragona, 4 dicembre 1611).

 

[14] ACA, CdA, leg. 1083, sentenza di Filippo III del 27 giugno 1615; leg. 1221, attestato del viceré duca di Gandía dell’armamento di Vico come caballero, 9 settembre 1615.

 

[15] ACA, CdA, leg. 1223, súplicas di Vico pervenute al vicecancelliere d’Aragona il 7 ottobre 1617.

 

[16] ACA, CdA, leg. 1225, súplicas di Vico pervenute al vicecancelliere d’Aragona il 26 febbraio e il 3 dicembre 1619.

 

[17] ACA, CdA, leg.1225, istanza di Vico al Consiglio d’Aragona ricevuta il 12 giugno 1621.

 

[18] ACA, CdA, leg. 1170, lettera di Vico al re, 8 luglio 1621.

 

[19] A. Marongiu, Parlamento e lotta politica nel 1624-25, in Id., Saggi di storia giuridica e politica sarda, Cagliari, 1975, 212 ss.

 

[20] Memorial y relación de todo lo que ha sucedido en el Parlamento que celebró el virrey don Juan Vivas en el reyno de Cerdeña en el año 1624 con poderes del Rey, s.n.t.

 

[21] B. Anatra, La Sardegna dall’unificazione aragonese ai Savoia, estratto da Storia d’Italia, diretta da G. Galasso, vol. X, La Sardegna medioevale e moderna, Torino, 1987, 426.

 

[22] Sul complesso conflitto municipalistico è in corso di pubblicazione uno studio di chi scrive. Sulla diatriba relativa al primato ecclesiastico si rinvia a R. Turtas, Storia della Chiesa in Sardegna dalle origini al Duemila, Roma, 1999, 373-382, e alla bibliografia ivi citata.

 

[23] G. Tore, Il regno di Sardegna nell’età di Filippo IV. Centralismo monarchico, guerra e consenso sociale (1621-30), Milano, 1996, pp. 35-39.

 

[24] Memorial al Rey de España recusando al Marqués de Bayona virrey de Cerdeña como sospechoso para hazer el proceso de visita que ha començado contra don Jayme Alivesi, s.a. [ma 1626]. Accenni alla questione in G. Tore, Il regno di Sardegna nell’età di Filippo IV cit., p. 57, nota 40.

 

[25] A. Marongiu, Gravami e voti parlamentari nel 1624, in Id., Saggi di storia giuridica e politica sarda cit., p. 235.

 

[26] Nel parlamento del viceré Miquel de Moncada del 1583, in un capitolo presentato da don Ángel Cetrilla per conto dei tre stamenti, era stata presentata al re una supplica per «concedir que en lo supremo Consell de Aragó hi hage hu dels regents que sia de la nació sarda perque los negocis del present regne tinguen mes àgil expedició, y axí com hi ha dels altres regnes de Aragó, y sa Magestat tindrà mes certa informació de totes les coses del present regne» (ACA, RC, reg. 4340, c. 23r). Una richiesta analoga era stata già avanzata nel 1544-45 nel parlamento di Anton Folch de Cardona (V. Angius, Memorie de' Parlamenti o Corti del Regno di Sardegna, in Dizionario geografico storico statistico commerciale degli stati di S.M. il Re di Sardegna, a cura di G. Casalis, Torino, 1856, vol. XVIII quater, 529).

 

[27] J.H. Elliott, La rebelión de los catalanes. Un estudio sobre la decadencia de España (1598-1640), Madrid, 1977, 193 ss.

 

[28] ACA, CdA, leg. 1098, Copia de dos Capítulos de Corte, el uno sobre el nombramiento de Regente en el Consejo Supremo de Aragón en persona natural del Reyno de Cerdeña, y el otro sobre la paga que se le ha de dar al Regente por el dicho Reyno.

 

[29] ACA, CdA, leg. 1236, Relación de lo que contienen las Consultas y papeles tocantes a la plaça de Regente de este Consejo en persona natural de Cerdeña y su salario, propinas y Casa de aposento, s.d. [ma 1636].

 

[30] A. Marongiu, Parlamento e lotta politica cit., 224; G. Tore, Il regno di Sardegna nell’età di Filippo IV cit., 73-74.

 

[31] G. Tore, Il regno di Sardegna nell’età di Filippo IV cit., p. 52 ss.; cfr. anche Il parlamento straordinario del viceré Gerolamo Pimentel marchese di Bayona (1626), a cura di G. Tore, Cagliari, 1998.

           

[32] Il parlamento straordinario del viceré Gerolamo Pimentel cit., passim.

 

[33] Il testo a stampa Proposición a los tres estamentos del reyno de Sardeña por don Lluis Blasco del Consejo del Rey nuestro Señor nel Supremo de Aragón embiado por su Magestad al negocio que contiene  è inserito negli atti parlamentari del parlamento Baiona (Archivio di Stato di Cagliari (ASC), Antico Archivio Regio (AAR), Parlamenti, reg. 168, cc. 28-38v) e si conserva anche in Biblioteca Universitaria di Cagliari (BUC), Fondo Baille, Stampe relative agli Stamenti.

Il progetto di Olivares, preparato per spiegare e giustificare davanti alle cortes della Corona d’Aragona la Unión de armas, è pubblicato nella versione a stampa in J.H. Elliott – J.F. De La Peña, Memoriales y cartas del conde duque de Olivares, tomo I Política interior: 1621 a 1627, Madrid, 1978, doc. IX, 183-193.

 

[34] Il riferimento obbligato è a J.H. Elliott, La rebelión de los catalanes cit.; Id., El conde-duque de Olivares. El político en una época de decadencia, Barcelona, 1990. Cfr. anche E. Solano, Poder monárquico y estado pactista 1625-1652. Los aragoneses ante la Unión de Armas, Zaragoza, 1987.

 

[35] F. Manconi, “De no poderse desmembrar de la Corona de Aragón”: Sardenya i Països catalans, un vincle de quatre segles, in «Pedralbes», a. XVIII, n° 18/II, Barcelona, 1998, 179-194; Id., L'identità catalana della Sardegna, in «Cooperazione mediterranea. Cultura economia società», a. 2003/1-2, Cagliari, 2003, 105-112.

 

[36] ACA, CdA, leg. 1149, súplica di Francisco Vico al re, s.d. [1645].

 

[37] ACA, CdA, leg. 1140, relazione del viceré Pimentel al re, 27 maggio 1626.

 

[38] G. Tore, Il regno di Sardegna nell’età di Filippo IV cit., pp. 176-177.

 

[39] ACA, CdA, leg. 1177, il viceré Pimentel al Consiglio d’Aragona, 28 maggio 1627.

 

[40] ACA, CdA, leg. 1092, consulta del Consiglio d’Aragona, 20 settembre 1627.

 

[41] ACA, CdA, leg. 1236, Relación de lo que contienen las Consultas y papeles tocantes a la plaça de Regente de este Consejo cit.

 

[42] ACA, CdA, leg. 1090, il marchese di Montesclaros al Consiglio d’Aragona, 1 agosto 1628.

 

[43] AHN, Consejos suprimidos, libro 2561, il re al viceré Baiona, 11 novembre 1628.

 

[44] J.H. Elliott, El conde-duque de Olivares cit., pp. 367-368. Le disposizioni sono in ACA, CdA, leg. 1092, consulta del Consiglio d’Aragona del 6 gennaio 1629; AHN, Consejos suprimidos, libro 2561, il re al regente Vico, 8 gennaio 1629.

 

[45] G. Tore, Ceti sociali, finanze e “buon governo” nella Sardegna spagnola (1620-1642), in XIV Congresso di Storia della Corona d’Aragona, La Corona d’aragona in Italia (secoli XIII-XVIII), vol. 4°, Sassari, 1997, 485.

 

[46] AHN, Consejos suprimidos, libro 2561, il re al viceré Baiona, 4 novembre 1628 e 8 gennaio 1629.

 

[47] ACA, CdA, leg. 1180, il marchese di Baiona al governatore di Milano Gonzalo de Córdoba, 22 gennaio 1629.

 

[48] B. Anatra, Economia sarda e commercio mediterraneo nel basso medioevo e nell’età moderna, in Storia dei sardi e della Sardegna, vol. 3°, a cura di M. Guidetti, Milano, 1989, 173 ss.; G. Tore, Ceti sociali, finanze e “buon governo” cit., 485 ss.

 

[49] ACA, CdA, leg. 1180, il marchese di Baiona al Consiglio d’Aragona, 22 gennaio 1629.

 

[50] ACA, CdA, leg. 1092, consultas del Consiglio d’Aragona, 15 dicembre 1628 e 8 febbraio 1629. Vico approfitta della residenza a Barcellona per compiere le sue ricerche storiografiche sulla Sardegna negli archivi reali (ACA, CdA, leg. 1083, Papel del Regente Vico en satisfación de otro de Salvador Martín, s.d. [ma 1644]).

 

[51] ACA, CdA, leg. 1180, risposta del viceré di Sardegna al sollecito del Consiglio d’Aragona, 13 ottobre 1630; leg. 1094, consulta del Consiglio d’Aragona, 16 aprile 1633.

 

[52] ACA, CdA, leg. 1094, consulta del Consiglio d’Aragona, 16 febbraio 1633.

 

[53] B. Anatra, La Sardegna dall’unificazione aragonese ai Savoia cit., 348-349; G. Ortu, Introduzione a Il parlamento del viceré Carlo de Borja duca di Gandía cit., 81.

 

[54] ACA, Cancillería Real, Sardiniae XV, fol. 99, 7 marzo 1633. Il decreto reale è anche premesso al Libro primero de las Leyes y Pragmaticas Reales del Reyno de Sardeña compuestas, glosadas, y comentadas por don Francisco de Vico del Consejo del Rey N.S. y su Regente en el supremo de Aragón, vistas, y aprovadas en el, y mandadas guardar, y observar con su Real Decreto, Nápoles, 1640.

 

[55] ACA, CdA, leg. 1184, il viceré marchese di Almonacir al Consiglio d’Aragona, 18 luglio 1636.

 

[56] ACA, CdA, leg. 1184, i consellers di Cagliari al Consiglio d’Aragona, 14 luglio 1636.

 

[57] Ibidem.

 

[58] AHN, Consejos suprimidos, libro 2563, il re al viceré Almonacir, 12 agosto 1636.

 

[59] Cfr. la mia introduzione alla riedizione della Historia general de la Isla y Reyno de Sardeña di Francisco Vico, Cagliari, 2004.

 

[60] B. Anatra, La Sardegna dall’unificazione aragonese ai Savoia cit., 349.

 

[61] AHN, Consejos suprimidos, libro 2566, il re al viceré Montalto, 11 ottobre 1646.

 

[62] AHN, Consejos suprimidos, libro 2566, il re al viceré Montalto, 13 ottobre 1648.

 

[63] AHN, Consejos suprimidos, libro 2566, il re al viceré Montalto, 15 febbraio 1649.

 

[64] AHN, Consejos suprimidos, libro 2566, il re al viceré Montalto, 6 febbraio 1649.

 

[65] AHN, Consejos suprimidos, libro 2568, il re al viceré Guevara, 7 novembre 1651.

 

[66] AHN, Consejos suprimidos, libro 2562, il re all’ambasciatore marchese di Castelrodrigo, al cardinale Barberini e al papa, 7 agosto 1634.

 

[67] AHN, Consejos suprimidos, libro 2562, il re all’ambasciatore marchese di Castelrodrigo, 7 marzo 1635.

 

[68] F. Manconi, Castigo de Dios. La grande peste barocca nella Sardegna di Filippo IV, Roma, 1994, 239-278; Id., Don Agustín de Castelví, "padre della patria" sarda o nobile-bandolero?, in Banditismi mediterranei. secoli XVI-XVII, a cura di F. Manconi, Roma, 2003, 107-146 (= Diritto @ Storia. Quaderni di Scienze Giuridiche e Tradizione Romana, 2, marzo 2003 < http://www.dirittoestoria.it/lavori2/Contributi/Manconi-Agustin.htm >).

 

[69] J.H. Elliott, La rebelión de los catalanes cit., 272-277.

 

[70] ACA, CdA, leg. 1184, Memoria que se dió al Señor Virrey por el Regente Vico, 8 ottobre 1635.

 

[71] AHN, Consejos suprimidos, libro 2562, istruzioni a don Francisco de Vico per la missione in Sardegna, 20 luglio 1635; ACA, CdA, leg. 1184, Memoria que se dió al Señor Virrey por el Regente Vico, 8 ottobre 1635.

 

[72] ACA, CdA, leg. 1184, relazione del viceré di Sardegna al Consiglio d’Aragona, 20 ottobre 1635.

 

[73] ACA, CdA, leg. 1184, istanza per la proroga della missione di Vico in Sardegna, 30 aprile 1636.

 

[74] ACA, CdA, leg. 1184, gli asentistas Benedetto Nater, Andrés Ordà, Pedro María Moyran, Gerónimo Martín, Gaspar Malonda e Juan Francisco Ayraldo al viceré di Sardegna, 16 ottobre 1635.

 

[75] ACA, CdA, leg. 1184, carteggio fra Vico e il viceré di Sardegna in data 17, 19  e 21 ottobre 1635.

 

[76] ACA, CdA, leg. 1184, Vico al protonotario d’Aragona don Gerónimo Villanueva, 15 ottobre 1635.

 

[77] ACA, CdA, leg. 1184, carta sobre la venda del Salto de Soleminis e arbitrios que se proponen, 15 ottobre 1635.

 

[78] Vico chiede un pronto rimborso dei denari anticipati, perché così – egli dice - «tendré aliento de emplearlos segunda y tercera vez en serbicio de Su Magestad» (ACA, CdA, leg. 1184, Vico al protonotario d’Aragona, 6 dicembre 1635).

 

[79] ACA, CdA, leg. 1184, Caldés al protonotario d’Aragona, 17 novembre 1635.

 

[80] ACA, CdA, leg. 1184, Vico al protonotario d’Aragona, 3 novembre 1635.

 

[81] ACA, CdA, leg. 1083, il giudice Francisco Corts al Consiglio d’Aragona, s.d. [ma 1636].

 

[82] ACA, CdA, leg. 1184, Vico al Consiglio d’Aragona, 18 aprile 1636; Vico al protonotario d’Aragona, 19 aprile 1636.

 

[83] ACA, CdA, leg. 1184, Vico al Consiglio d’Aragona, 30 aprile 1636; AHN, Consejos suprimidos, libro 2563, Al Regente don Francisco de Vico encargandole la remisión de los 100 mil estareles de trigo para el exercito, 17 aprile 1636.

 

[84] ACA, CdA, leg. 1083, Vico al Consiglio d’Aragona, 29 giugno 1636.

 

[85] ACA, CdA, leg. 1236, Relación de lo que contienen las Consultas y papeles tocantes a la plaça de Regente de este Consejo cit.

 

[86] ACA, CdA, leg. 1184, consulta del Consiglio d’Aragona, 11 maggio 1635.

 

[87] ACA, CdA, leg. 1184, súplica di Vico al Consiglio d’Aragona, 30 aprile 1636.

 

[88] ACA, CdA, leg. 1184, Vico al Consiglio d’Aragona, 28 agosto 1636.

 

[89] ACA, CdA, leg. 1083, consulta del Consiglio d’Aragona, 23 settembre 1636.

 

[90] ACA, CdA, leg. 1083, il giudice Francisco Corts al Consiglio d’Aragona, s.d., consultada dal Consiglio in data 11 agosto 1636. Allegato alla consulta è il circostanziato memoriale intitolato Capítulos que resultan contra el Regente Don Francisco Ángel Vico en perjuycio y contra el servicio de Vuestra Magestad.

 

[91] La valutazione di Corts trova conferma in un documento posteriore alla morte di Francisco Ángel Vico. Nel 1657, dopo la cessazione della grande peste, i consellers d’Oristano aprono una dura polemica con il loro arcivescovo don Pedro Vico per il suo assenteismo nei giorni dell’epidemia e gli ricordano che per «el miedo reverencial que se tenía a Vuestra Señoría Illustrísima por su Padre el noble y Magnífico don Francisco de Vico Regente era en el Supremo de Aragón por las dependencias [que] esta Ciudad tenía en dicho Supremo sus particulares no osaron instar contra Vuestra Señoría Illustrísima el cumplimiento de obligaciones tan devidas» (ACA, CdA, leg. 1202, i consellers d’Oristano all’arcivescovo Pedro Vico, 23 aprile 1657).

 

[92] ACA, CdA, leg. 1083, Capítulos que resultan contra el Regente Don Francisco Ángel Vico en perjuycio y contra el servicio de Vuestra Magestad, allegato alla consulta del Consiglio d’Aragona in data 11 agosto 1636.

 

[93] Un esempio illustre è quello di Santa Teresa d’Avila, il cui padre Alonso aveva adottato il cognome materno, Cepeda, per nascondere le sue origini ebraiche. Il nonno paterno si chiamava infatti Juan Sánchez ed era un ebreo converso (Cristiana Dobner, Il segreto di un archivio. Teresa di Gesù e il nonno marrano, Roma, 2003). Altrettanto illustre è il caso di Bartolomé de las Casas, il cui padre Pedro era fratello di Gabriel, Diego e Francisco de Peñalosa: erano tutti conversos, il che spiega la diversità di cognome che poteva essere scelto fra quelli dei quattro nonni (H. Thomas, El Imperio español. De Colón a Magallanes, Barcelona, 2003, 152). A quel tempo era possibile scegliere il primo cognome fra quelli dei quattro nonni. L’adozione del cognome materno da parte di Vico risulta dai libri matricolari dell’Università di Pisa dove la sua paternità è registrata a nome di “Joannes de Altea” (R. Del Gratta, Acta graduum Academiae Pisanae cit., 261).

 

[94] ACA, CdA, leg. 1083, consultas del Consiglio d’Aragona, 23 settembre e 25 ottobre 1636.

 

[95] ACA, CdA, leg. 1184, Vico al Consiglio d’Aragona, 6 ottobre 1636.

 

[96] ACA, CdA, leg. 1083, Azcón al duca di Alburquerque, 28 ottobre 1636.

 

[97] ACA, CdA, leg. 1083, papel original que se halló en la posada de don Fernando Azcón en la Ciudad de Sácer a 21 del mes de octubre, en que se haze varios cargos al Regente Vico y Thesorero Basteliga, tovantes al Patrimonio Real de Su Magestad, 15 ottobre 1636.

 

[98] ACA, CdA, leg. 1083, consulta del Consiglio d’Aragona, s.d. [ma ottobre-novembre 1636].

 

[99] Ibidem.

 

[100] ACA, CdA, leg. 1184, il viceré di Sardegna al Consiglio d’Aragona, 20 novembre 1636 (allegati: istanza al viceré dei giurati di Cagliari, s.d.; verbale della seduta della Real Audiencia, 5 novembre 1636).

 

[101] AHN, Consejos suprimidos, libro 2563, istruzioni a don Francisco de Vico, 15 novembre 1636, fol. 45.

 

[102] ACA, CdA, leg. 1083, mandato generale del Consiglio municipale di Cagliari, 14 luglio 1636.

 

[103] ACA, CdA, leg. 1237, Antonio Nuseo al Consiglio d’Aragona s.d. [ma febbraio 1637].

 

[104] ACA, CdA, leg. 1237, Azcón al duca di Alburquerque, 24 febbraio 1637.

 

[105] Sul tema il riferimento obbligato è a Xavier Torres i Sans, Nyerros i Cadells: bàndols i bandolerisme a la Catalunya moderna (1590-1640), Barcelona, 1993. Cfr. anche Xavier Torres i Sans, Faide e banditismo nella Catalogna dei secoli XVI e XVII, in Banditismi mediterranei (secoli XVI-XVII), a cura di Francesco Manconi, cit., 35-52 (cfr. Diritto @ Storia. Quaderni di Scienze Giuridiche e Tradizione Romana, 2, marzo 2003 < http://www.dirittoestoria.it/lavori2/Contributi/Torres-Faida-bandolerismo.htm >.

 

[106] ACA, CdA, leg. 1083, memorial del síndico della Città di Cagliari Francisco de Ravaneda al Consiglio d’Aragona, 3 marzo 1637.

 

[107] ACA, CdA, leg. 1185, Azcón al Consiglio d’Aragona, 31 dicembre 1636.

 

[108] Sul caso del libro di storia di Vico rinvio alla mia introduzione alla Historia general de la Isla y Reyno de Sardeña, cit.

 

[109] ACA, CdA, leg. 1083, memorial di Francisco de Ravaneda al Consiglio d’Aragona, 3 marzo 1637.

 

[110] ACA, CdA, leg. 1083, consulta del Consiglio d’Aragona, s.d. [ma luglio 1637].

 

[111] ACA, CdA, leg. 1083, Azcón al Consiglio d’Aragona, 24 luglio 1637.

 

[112] ACA, CdA, leg. 1083, Carta de don Fernando Azcón para don Francisco Corts y su respuesta, 24 e 28 giugno 1637.

 

[113] ACA, CdA, leg. 1083, consulta del Consiglio d’Aragona, s.d. [ma settembre-ottobre 1637].

 

[114] ACA, CdA, leg. 1185, Vico al Consiglio d’Aragona, 26 giugno 1637. Un nuovo sollecito a tornare, “por la falta que haze aquí”, viene inviato a Vico il 24 luglio 1637 (AHN, Consejos suprimidos, libro 2563, fol. 84).

 

[115] ACA, CdA, leg. 1185, Vico al Consiglio d’Aragona, 29 settembre 1637.

 

[116] ACA, CdA, leg. 1083, i consellers di Cagliari al síndico Ravaneda, 12 settembre 1637.

 

[117] ACA, CdA, leg. 1083, consulta del Consiglio d’Aragona, s.d. [ma settembre 1637].

 

[118] AHN, Consejos suprimidos, libro 2563, Al Virrey de Cerdeña que informe en razón de unas cosas del Regente Vico; Al Regente Azcón embiándole un memorial de cabos contra el Regente Vico deste Consejo para que reciba información secreta dellos, 24 ottobre 1637.

 

[119] ACA, CdA, leg. 1083, consulta del Consiglio d’Aragona, s.d. [ma ottobre 1637].

 

[120] ACA, CdA, leg. 1238, súplica di Vico al Consiglio d’Aragona, s.d. [ma fine 1637].

 

[121] ACA, CdA, leg. 1238, súplica di Vico e relativa consulta del Consiglio d’Aragona, 11 gennaio 1638

 

[122] F. Manconi, L'invasione di Oristano nel 1637: un'occasione di patronazgo real nel quadro della guerra ispano-francese, in «Società e Storia», n° 84, 1999, 253-279.

 

[123] ACA, CdA, leg. 1238, súplica del viceré Almonacir, 15 marzo 1637; súplica di Vico al Consiglio d’Aragona, s.d. [ma fine 1637].

 

[124] ACA, CdA, leg. 1149, lettera di Vico al Consiglio d’Aragona, consultada il 17 maggio 1638.

 

[125] ACA, CdA, leg. 1083, Azcón al Consiglio d’Aragona, 1 e 13 aprile 1638; allegata alla lettera del 1 aprile è una Relación breve y sumaria de quanto ay en el Processo que a instancia de la Ciudad de Cáller y horden de Su Magestad contra el Regente Don Francisco Vico ha averiguado en Cerdeña el Regente Don Fernando Azcón. 

 

[126] ACA, CdA, leg. 1083, consulta del Consiglio d’Aragona, 20 maggio 1638.

 

[127] ACA, CdA, leg. 1094, consulta del Consiglio d’Aragona, 15 gennaio 1638.

 

[128] ACA, CdA, leg. 1237, memorial di Nuseo al Consiglio d’Aragona s.d. [ma febbraio 1637].

 

[129]  Biblioteca Nacional, Madrid (BNM), Manuscritos, 18651/39, Carta Real de Felipe IV por la que se levantan, bajo pena de mil florines de oro, ciertas prohibiciones que el Virrey y Real Audiencia de Cerdeña impusieron a los impresores de Sácer, Madrid 30 septiembre 1637. Sulla vicenda cfr. E. Toda y Güell, Bibliografía española de Cerdeña, Madrid, 1890, 280-281 e 297-303; R. Turtas, La nascita dell’Università in Sardegna. La politica culturale dei sovrani spagnoli nella formazione degli Atenei di Sassari e di Cagliari (1543-1632), Sassari, 1988.

 

[130] Il titolare della tipografia è erede di Francisco Scano Castelví, che è stato per lungo tempo amministratore civico e personaggio di punta della rete di potere sassarese; al pari di Vico ha avuto un ruolo di rilievo nel parlamento Gandía (Ortu, Centralismo e autonomia cit., 320-321; Il Parlamento del viceré Carlo de Borja duca di Gandía cit., pp.20-21. Il legame personale di Francisco Scano Castelví col regente è attestato dalla sua presenza come testimone ufficiale della laurea in utroque iure conseguita da Vico a Pisa il 28 aprile 1590 (Del Gratta, Acta graduum Academiae Pisanae cit., 261).

 

[131] Nella sua Historia general Vico racconta come nel 1627, quando era provinciale suo fratello Pedro, i gesuiti di Sassari avevano preso possesso del nuovo collegio costruito in un’area che lui stesso aveva messo a disposizione della Compagnia (Turtas, La Casa dell’Università cit., 11-12). Per i legami culturali col rettore Jaime Pinto ed in genere con i padri del collegio gesuitico sassarese rinvio a R. Turtas, La nascita dell’Università in Sardegna cit., e alla mia introduzione alla Historia general cit.

 

[132] ACA, Camara de Aragón, leg. 1234, il viceré Doria al Consiglio d’Aragona, gennaio 1640, consultada il 5 ottobre 1640.

 

[133] AHN, Consejos suprimidos, libro 2564, il Consiglio d’Aragona al Presidente Aragall e al regente Azcón, 23 e 26 agosto 1640.

 

[134] ACA, CdA, leg. 1190, il Presidente, la Audiencia e la Junta patrimonial di Sardegna al Consiglio d’Aragona, 10 marzo 1641.

 

[135] ACA, Camara de Aragón, leg. 1234, consulta del Consiglio d’Aragona, 7 settembre 1641.

 

[136] ACA, CdA, leg. 1190, l’avvocato patrimoniale Juan Lopez de Baylo al Consiglio d’Aragona, 10 marzo 1641; consulta del Consiglio d’Aragona, 18 giugno 1641.

 

[137] ACA, CdA, leg. 1184, l’arcivescovo di Sassari e i vescovi di Ampurias e Bosa al Consiglio d’Aragona, 20 dicembre 1636.

 

[138] ACA, Camara de Aragón, leg. 1234, il viceré Doria al Consiglio d’Aragona, 13 febbraio 1642, Motivos y combeniencias importantes porque las Cortes del Reyno de Cerdeña que están para celebrarse se hayan de tener en la Ciudad de Oristán y no en la de Cáller; consulta del Consiglio d’Aragona, 13 febbraio 1642.

 

[139] ACA, Camara de Aragón, leg. 1234, il viceré Doria al Consiglio d’Aragona, 4 settembre 1641.

 

[140] ACA, Camara de Aragón, leg. 1234, consulta del Consiglio d’Aragona, 17 marzo 1643.

 

[141] J.H. Elliott, La rebelión de los catalanes cit., 467.

 

[142] ACA, CdA, leg. 1083, istruzioni segrete della Città di Cagliari a Salvador Martín, 12 luglio 1644.

 

[143] BUC, S.P. 6.3. 1/6, Memoriale al Re della Città di Cagliari contro i sassaresi Francisco Vico, Julián Usena e Basteliga, s.n.t. [ma 1644].

 

[144] Ivi,  fol. 4r.

 

[145] Ivi,  fol. 8r.

 

[146] ACA, CdA, leg. 1083, Papel del Regente Vico en satisfación de otro de Salvador Martín, s.d. [ma 1644].

 

[147] ACA, CdA, leg. 1083, secondo memoriale di Martín, s.d. [ma gennaio 1645].

 

[148] ACA, CdA, leg. 1083, consulta del Consiglio d’Aragona, 12 gennaio 1645.

 

[149] Fra i tanti documenti a stampa e manoscritti che sollecitano la “jubilación” di Vico, cfr. BNM, Mss 1440, Discurso de un discreto sobre que se jubile a un Ministro de el Regno de Zerdeña.

 

[150] ACA, CdA, leg. 1083, consulta del Consiglio d’Aragona, 11 marzo 1645.

 

[151] ACA, CdA, leg. 1149, i consellers e l’arcivescovo di Sassari al Consiglio d’Aragona, 25 e 26 luglio 1645.

 

[152] F. Manconi, Introduzione a Jorge Aleo, Storia cronologica e veridica dell'isola e regno di Sardegna dall'anno 1637 all'anno 1672, Nuoro, 1998; Id., Don Agustín de Castelví cit., 107-146.

 

[153] ACA, CdA, leg. 1137, consulta del Consiglio d’Aragona, 14 luglio 1646.

 

[154] J. Aleo, Storia cronologica del regno di Sardegna cit., pp. 109-111.

 

[155] ACA, CdA, leg. 1098, consulta del Consiglio d’Aragona, 17 agosto 1647.

 

[156] ACA, CdA, leg. 1083, instrucciones dei consellers di Cagliari a Jaime Capay, 8 aprile 1647.

 

[157] ACA, CdA, leg. 1083, copia del memorial Capay inviato al Consiglio d’Aragona, 29 marzo 1647.

 

[158] Ibidem.

 

[159] Ibidem.

 

[160] ACA, CdA, leg. 1083, querela di Vico contro Ravaneda, s.d. [ma 1647].

 

[161] ACA, CdA, leg. 1083, consulta del Consiglio d’Aragona, 23 agosto 1647.

 

[162] ACA, CdA, leg. 1083, decreto del cardinale di Toledo, 18 settembre 1645.

 

[163] ACA, CdA, leg. 1083, l’inquisitore Lopez al Consiglio d’Aragona, 12 settembre 1647.

 

[164] ACA, CdA, leg. 1083, consulta del Consiglio d’Aragona, 26 settembre 1647.

 

[165] Ibidem.

 

[166] La notizia è desunta dal documento Investitura della Gabella, o sia Dritto comunemente detto della Carra della città di Sassari a favor del Sig. Don Pietro Vico Marchese di Soleminis, 28 aprile 1780, in ASC, Regio Demanio, Marchesato di Soleminis, vol. 60, fol. 52v.