N. 3 – Maggio 2004 – Lavori in corso –
Contributi
Un letrado
sassarese al servizio della Monarchia ispanica. Appunti per una biografia di
Francisco Ángel Vico y Artea*
Università di Sassari
Sommario: 1. L’ascesa nella burocrazia del regno di Sardegna. – 2. A Madrid, nel Consiglio d’Aragona. –
3. Il plenipotenziario del conte-duca di Olivares. – 4.
I memoriales
d’accusa contro il regente Vico.
– 5. Il caso politico della pubblicazione della Historia general. – 6. La caduta del conte-duca e il declino del regente sardo.
Sul declinare della sua
esistenza il regente sardo del
Supremo Consiglio d’Aragona Francisco Ángel Vico y Artea indirizza al re
Filippo IV una súplica nella quale
ricapitola i momenti salienti della sua biografia di fedele servitore della
Monarchia[1].
La carriera di letrado era cominciata
nel 1606 a Sassari, sua città natale, come giudice della Real Governación del Cabo
di Logudoro; dopo tre anni era stato promosso a giudice della sala criminal della Real Audiencia di
Sardegna ed aveva operato in quella plaza
di grande prestigio e responsabilità fino al 1627, «governando aquel Reyno de
Regente en todas las ocasiones de las ausencias y vacantes de los que le tenían
en propiedad»[2]. Da
questi primi cenni autobiografici, scritti forse nel 1645, risulta chiaro come
Vico avesse assunto un ruolo politico d’assoluto rilievo già prima
dell’esperienza di governo a Madrid. Nel 1626, in un momento politicamente
molto delicato per il regno di Sardegna e per l’intera Monarchia ispanica,
surroga il regente la Cancillería del regno di Sardegna don
Francisco Pacheco; copre la seconda carica del regno fino al maggio 1627,
allorché lascia l’isola per occupare la plaza
di regente sardo nel Consiglio
d’Aragona a Madrid[3].
La sua inarrestabile
ascesa era stata costruita con grande accortezza politica. Nelle cortes del 1614 aveva
sostenuto il viceré duca di Gandía[4], «assistiendole sin faltarle un punto - afferma nella sua súplica - siguiendo en todo sus órdenes
y con su autoridad y mano se confirmó el servicio de los 125 mil escudos de los
Parlamentos passados y se aumentó hasta 150 mil en beneficio del Patrimonio de
Vuestra Magestad. Y en las que celebró Don Juan Vivas el año 1623 passó el
suplicante los trabajos que son notorios en oposición de los que contradecían
que no se formasse en aquel reyno la esquadra de Galeras y se sirviesse a
Vuestra Magestad con la panática y manjativo, y con una protesta que hizo en la
Junta a los que se opponían a este servicio se reducieron algunos con los
quales fueron los votos superiores a los que lo contradecían y se consiguió el
servicio de Vuestra Magestad con las capitulaciones que se refieren en la
conclusión de las Cortes sirviendo en ambos Parlamentos de juez de greuges,
tratador y habilitador»[5].
È una sintesi puntuale
sui meriti politici che il nostro letrado
può vantare, in virtù di un’assoluta disponibilità a servire il re in nome del
superiore valore della fidelidad[6].
Nelle poche occasioni in cui si manifestano in Sardegna spinte contrarie agli
indirizzi centralistici della Monarchia Vico si pone sempre dalla parte del
viceré di turno. Sono tempi in cui vanno facendosi sempre più decise le
sollecitazioni assolutistiche del centro sulla periferia. Opportunità nuove si
presentano allora per i letrados che
intendono fare il salto di qualità nell’apparato amministrativo della
Monarchia. Una prima ghiotta occasione si presenta col varo del progetto di
riforma fiscale e di potenziamento della difesa mediterranea. Il letrado sassarese è sicuramente della
partita e le sue chances crescono
quando si pone a disposizione del viceré di Sardegna Carlos Borja de Gandía. Il
grande signore valenziano è feudatario di vasti estados in Sardegna e rappresenta un importante elemento di
raccordo politico fra il centro madrileno e la provincia sarda. Prebende e
vantaggi di carriera sono la contropartita sicura per chi si impegna a
sostenere il governo di Madrid nella fase di gestazione del regime del
conte-duca di Olivares. Negli anni del viceregno Borja don Francisco Vico viene
promosso «por los caminos que aquí se usan» da fiscal della Governación
di Sassari a ministro della reale Audiencia
come giudice criminal. Per il figlio
di «un boticario» è un avanzamento straordinario, tanto inconsueto nel cursus honorum dei letrados di provincia da far scrivere al polemico inquisitore Gámiz
che Vico è «el verdadero virrey» di Sardegna[7].
In verità Vico aveva
già da prima manifestato tutte le sue capacità manovriere per ingraziarsi il
viceré in carica ed entrare nella cerchia dei fiduciari governativi. Nel 1608
il viceré Pedro Sánchez de Calatayud, conde del Real, riceve dal re l’ordine di
recarsi a Sassari con tutto il Consiglio vicereale per amministrarvi giustizia[8].
La prolungata residenza a Sassari della Audiencia
allarma i giudici cagliaritani che paventano un pregiudizio alla status di
capitale di fatto della loro città. La frattura porta i giudici
filocagliaritani (il regente Mur e i dottori
Masons e Dalp) a screditare lo stesso viceré accusandolo d’essersi accordato
con i sassaresi (attraverso il conseller
en cap della città don Francisco Scano Castelví) per convincere la corte della convenienza di trasferire a Sassari
la sede del governo vicereale e della Audiencia
al fine di celebrarvi i parlamenti. Secondo le accuse di Mur, sarebbero
stati i giudici sassaresi Jagaracho e Vico ad indurre a questo passo il conte
del Real, che al momento del suo arrivo aveva ricevuto dal consiglio civico di
Sassari un’offerta di mille ducados e
una fornitura gratuita di grano ed orzo. Basta la propensione benevola
manifestata verso Sassari per far cadere sul viceré l’accusa d’essersi fatto
corrompere e di violare la tradizione puntando nei fatti al trasferimento della
capitale a Sassari[9].
In effetti i timori dei cagliaritani non sono del tutto destituiti di
fondamento perché in quei giorni i consellers
di Sassari ed i nobili del Capo di sopra compiono l’ennesimo tentativo di porre
la candidatura della loro città come sede del parlamento attraverso
un’ambasciata a Madrid del loro síndico
don Estevan Manca de Cedrelles[10].
Ma il Consiglio d’Aragona dispone che viceré e Audiencia rientrino a Cagliari e a quel punto il conde del Real
deve fare fronte all’ostilità del clero e dell’establishment municipale e nobiliare cagliaritano. Quando nel 1611
la visita di don Martin Carrillo
porta alla luce certe responsabilità amministrative dei vertici del governo
sardo, soltanto la minoranza filosassarese della Audiencia si schiera a sostegno di Sánchez de Calatayud. La
contiguità di Vico con l’inquisito (a cui parrebbe legato addirittura da
vincoli di parentela) è così stretta che il visitador
finisce per coinvolgerlo nell’inchiesta come falso testimone e come
manutengolo del viceré[11].
Ma Vico non è persona
da farsi impaniare nelle disgrazie giudiziarie e politiche a cui sovente vanno
soggetti i viceré invisi ai gruppi dirigenti locali. Mentre pendono su di lui i
cargos del visitador, don Francisco viene inserito dal nuovo viceré duca di
Gandía nella terna degli aspiranti a ricoprire una plaza della sala civil
della Audiencia sarda. La lotta che
si accende fra Cagliari, Barcellona e Madrid per scegliere il nuovo giudice è
aspra e senza esclusione di colpi. Come patrons
dei candidati scendono in campo da un lato il visitador Carrillo (che sostiene l’advogado fiscal della visita)
e dall’altro il viceré duca di Gandía e l’arcivescovo di Cagliari Francisco de
Esquivel che
sostengono Vico[12]. Il
peso politico dei due padrini è tale che il vicecancelliere d’Aragona non può
prescegliere un altro candidato[13].
Benché sia sotto processo per «delictos en el offissio», Vico viene promosso a
giudice delle due salas. Dalla nuova
solida posizione, che talvolta gli assicura anche la supplenza nella regencia della cancillería del regno, può agevolmente risolvere le pendenze
giudiziarie e proporsi per ulteriori promozioni. Il 27 giugno 1615 il Supremo
Consiglio d’Aragona lo manda assolto dalle imputazioni della visita Carrillo e quasi contestualmente
Filippo III emana da Aranjuez un privilegio di cavalierato a suo favore[14].
Ma le gratificazioni
del letrado sassarese non si fermano
qui. Due anni dopo, nel 1617, allo spirare del viceregno Gandía, sfrutta le
ultime opportunità della protezione di
Carlos Borja per postulare nuove mercedes.
Come riconoscimento dei meriti acquisiti presso la Corona per aver istruito la
difesa del conde del Real durante la visita
Carrillo e per aver coadiuvato il viceré Gandía nel governo del regno richiede
al Consiglio d’Aragona una saca di
quattromila starelli di grano sardo ed un titolo di nobiltà[15].
La sua abilità nel profittare dei vantaggi del patronage è fuori del comune. Ma ormai il rapporto col signore
valenziano è destinato ad allentarsi e così cominciano ad assottigliarsi anche
i favori del Consiglio d’Aragona. Sono battute d’arresto quasi inevitabili, ma
che non frenano i suoi propositi d’ascesa sociale. Nel 1619, rinnova, ma
invano, la richiesta di nobilitazione[16].
Non sappiamo se in quel
periodo abbia già attivato a corte nuovi rapporti clientelari e se possa
contare su un suo personale credito politico. Certo è che a più riprese dalla
Sardegna fornisce al Consiglio d’Aragona consulenze di carattere giuridico-amministrativo,
propone arbitrios (ossia personali
soluzioni) in questioni politiche del regno, avanza a corte varie súplicas per sé e per i propri
congiunti e sodali. Cresce la sua autorevolezza e in pari tempo si consolida lo
spazio di potere personale a tutto vantaggio della sua famiglia e della rete
clientelare sassarese. Nel 1621, come advogado
fiscal e oydor «más antiguo»
della Audiencia sarda, chiede per il
figlio Pedro Vico, ecclesiastico «licenciado en artes» e studente di teologia e
di diritto, la merced dell’abbazia di
San Nicolás nella diocesi d’Oristano. Motiva la súplica al re ponendo sul piatto della
bilancia i venticinque anni del suo onorato servizio, «mirando por el aumento
de su Real Patrimonio y conservación de su Real jurisdicción en ocasiones de
competencias, acudiendo también con su hazienda en ocasión de precisas
necessidades de su real servicio, prestando a la real caxa sin interés ninguno
millares de ducados empeñando su hazienda y la de sus hijos por servir a
Vuestra Magestad, acompañando los Virreyes en muchas visitas del Reyno a su
costa y perdiendo los gajes de la audiencia»[17].
Al di là di qualche
esagerazione, i meriti vantati paiono reali e pare completamente mutata la
posizione sociale ed economica del letrado
sassarese. Dopo poco più d’un decennio dall’ingresso nei quadri della
burocrazia regia Francisco Vico è in grado di vantare un ruolo qualificato nel
governo del regno e può anche permettersi ingenti anticipazioni finanziarie a
favore della Corona. Quanto sia cresciuta la sua influenza politica lo dimostra
un piccolo ma significativo episodio che riguarda i rapporti di potere nella
sua città d’origine. Quando il governatore del capo di Sassari don Enrique de
Sena chiede a Madrid che il figlio don Francisco Ramón venga designato come suo
coadiutore (l’intento è quello di stabilire una continuità familiare
nell’esercizio della carica) Vico segnala l’inopportunità di quella nomina[18].
È un passo politico molto significativo, un azzardo che un parvenu come Vico nel milieu
nobiliare sassarese non avrebbe compiuto contro una casa aristocratica d’antico
lignaggio come i Sena se non avesse già alle spalle una rete di potere
consolidata ed un forte credito politico negli ambienti di corte.
Per i letrados più accorti – e Vico è persona
oltremodo accorta – i lavori parlamentari costituiscono sempre un’occasione
propizia per ottenere dalla Monarchia favori politici e ricompense economiche.
Dopo la fruttuosa esperienza col duca di Gandía è il viceré Juan Vivas de
Canyamàs ad offrire al nostro una nuova opportunità di autopromozione. A metà
degli anni venti il viceré è protagonista d’un burrascoso braccio di ferro
parlamentare con una buona parte del notabilato cagliaritano. Il sostegno dei
rappresentanti sassaresi e della grande feudalità sardo-ispanica diviene
decisiva per far passare in parlamento, con l’avallo del Consiglio d’Aragona,
la linea autoritaria del viceré contro la volontà della nobiltà e del Consiglio
civico di Cagliari[19].
Vico è parte dello schieramento favorevole al viceré e come abilitador e jutge de greuges si adopera per spostare voti a favore della causa
vicereale[20]. La
sua mediazione servirà a molti nobili logudoresi abilitati (talvolta,
«muchachos de linea bastarda») per strappare a Vivas la promessa di cavalleratos, noblezas, hábitos[21].
Insomma, grazie ai buoni uffici del giudice togato, gli interessi personali e
di fazione dei sassaresi collimano con gli interessi governativi. È a quel punto che a Sassari e nel
Logudoro comincia a coagularsi intorno a Vico una rete di patronage ampia, che coinvolge nobili e borghesi e che mira a
sostituirsi ai cagliaritani nel rapporto privilegiato con la Monarchia e con i
suoi ministri provinciali.
In Sardegna il periodo
politico si caratterizza non soltanto per la stretta fiscale e centralistica
imposta dai viceré di turno ma anche per la virulenza del conflitto
municipalistico fra Cagliari e Sassari. L’insanabile spaccatura fra le due
principali città del regno emerge a più riprese nel dibattito parlamentare e vi
è un momento in cui la feudalità sassarese sembra in grado d’ottenere pari
condizioni con quella cagliaritana e pare concretarsi persino la possibilità
d’autoconvocazione dello “stamento” militare. Ormai il rapporto fra le classi
dirigenti di Cagliari e Sassari è completamente lacerato e l’oggetto del
contendere va ben oltre l’antico e ingarbugliato problema del primato
ecclesiastico[22]. Le
lacerazioni interne alle élites sarde e le lotte di fazione che ne scaturiscono
assumono carattere trasversale e non solo toccano i rapporti fra città ed
istituzioni laiche ed ecclesiastiche ma condizionano il funzionamento degli
organi di governo periferici.
Il blocco di potere che
in questi anni si è costituito intorno al viceré comincia a perseguire
obiettivi più ambiziosi dei contingenti tatticismi parlamentari proprio per
l’operato di Francisco Ángel Vico. Il rafforzamento personale del giudice
sassarese all’ombra del viceré Vivas si ripercuote sugli equilibri interni
della Audiencia con l’emarginazione
di giudici di primo piano come Francisco Corts e Nicolás Scarxoni[23].
Le sue relazioni privilegiate finiscono per risultare determinanti non solo
nelle lotte sotterranee fra i giudici della Audiencia
ma anche nei conflitti delle fazioni cittadine. Durante il viceregno del
marchese di Baiona Vico otterrà il ridimensionamento dei suoi avversari che,
nella fattispecie sassarese, sono le case nobiliari, i giudici e i funzionari
della Governación di Sassari a lui
ostili[24].
Vico è ormai il letrado di maggiore spicco politico e
forse è anche in quel momento il giudice togato di più alto sapere giuridico.
Ma è, soprattutto, il più leale ministro della Monarchia, sempre allineato
senza tentennamenti sulle posizioni del governo centrale. Il sostegno dato al
viceré Vivas durante le aspre vertenze parlamentari sarde era stato decisivo
per maturare una merced importante,
commisurata all’importanza del servicio
prestato. Quando nel 1624 il viceré accede alla richiesta parlamentare di
designare un sardo alla regencia
degli affari di Sardegna in Consiglio d’Aragona, la prestigiosa carica pare
fatta su misura per il giudice togato che ha servito meglio il re[25].
La designazione formale
di Vico alla plaza di regente provincial non fa registrare
opposizioni evidenti, forse perché in quel momento un generale sentimento
d’appagamento prevale sulle lotte di fazione e sulle divisioni dei sardi.
Finalmente si concretizza l’antica e diffusa aspirazione d’essere rappresentati
a Madrid, in Consiglio d’Aragona, da un natural
sardo deputato a tutelare gli interessi politici e giuridici del regno
insulare. L’istanza dei sudditi sardi risaliva addirittura ai tempi
dell’imperatore Carlo V[26]
ed era stata riaffacciata più volte, da ultimo nel parlamento Gandía. Ma
soltanto nel parlamento Vivas era stata formalizzata in un capítulo de corte che traduce anche nel contesto politico sardo le
aspirazioni diffuse in tutti i regni della Corona d’Aragona di dare concretezza
al rivendicazionismo autonomistico di marca corporativa[27].
Nel mettere in evidenza l’importanza crescente del ruolo dei letrados nell’amministrazione centrale e
periferica della Monarchia, il “capitolo” sosteneva la necessità d’un regente “natural” del regno, «lo qual
axibé per la despedició de les causes del Supremo [Consiglio], com per lo
informar les coses del estat del Regne (pragmàtiques, consuetuts, y lleis
municipals dell) sería de gran servey de sa Magestat, profit y utilitat del
Regne»[28].
La richiesta degli “stamenti” d’istituire una plaza per un sardo viene accolta dal re «por vía de favor y no de
obligación», a condizione che sia il Regno a pagarne lo stipendio ordinario e a
conferire ogni anno seimila reali per i diritti dovuti per sentenze e provisions del regente e per le spese a corte di casa de aposento, propinas de fiestas de toros y luminarias[29].
Ma l’abilità politica
di Vico non si manifesta soltanto nella rincorsa di prestigiose e sostanziose mercedes. Egli esce miracolosamente
indenne dalla bufera che si abbatte su coloro che avevano sostenuto il viceré
Vivas. L’inchiesta del visitador Amador,
promossa per accertare la correttezza dei comportamenti del viceré e degli
ufficiali reali, coinvolge direttamente alcuni giudici della Audiencia responsabili sul piano
giuridico delle decisioni arbitrarie, quando non illecite, assunte dal viceré
Vivas in Sardegna[30].
Nell’occhio del ciclone finisce il
regente la real cancillería
Francisco Pacheco, che viene inquisito da Amador e che paradossalmente sarà
surrogato fra il 1626 e il 1627 proprio da Francisco Vico, il quale non meno
degli altri giudici si era reso responsabile della linea di governo tenuta
negli anni 1624-25.
Gli strascichi
politico-amministrativi che seguono la celebrazione delle cortes finiscono per ritardare la chiamata del letrado sassarese a Madrid. Il trasferimento verrà ulteriormente
rinviato quando i superiori interessi della Monarchia impongono che Vico
assolva ad un incarico di grande importanza politica in Sardegna. Quando Madrid
decide di coinvolgere i catalano-aragonesi nel progetto olivarista della Unión de armas i regentes del Consiglio d’Aragona vengono inviati in periferia per
sensibilizzare e mobilitare i ceti dirigenti dei diversi regni. Don Luis
Blasco, il regente che sino ad allora
aveva istruito in Consiglio gli affari della secretaría de Cerdeña, è comandato a mobilitare i sudditi
maiorchini e sardi.
In Sardegna, al pari
degli altri regni della Corona d’Aragona, il consenso si deve conquistare nelle
cortes. E chi meglio di Vico può
assolvere ad un compito così delicato come è quello d’aggregare ed orientare i
parlamentari, di manipolare il consenso, di promuovere insomma un
pronunciamento favorevole del parlamento sardo? Vico, advogado fiscal della Audiencia, collabora col fiduciario di
Olivares per orchestrare la convocazione degli “stamenti”, fintanto che non
sopraggiunge il nuovo viceré Pimentel, marchese di Baiona. Quando Pimentel
assume la presidenza del parlamento, il letrado
sassarese è al suo fianco in qualità di membro togato della commissione per le
abilitazioni parlamentari. Vico avrebbe più che altro la funzione di consulente
giuridico: ma in realtà, come era avvenuto nelle cortes precedenti, finisce per assumere un ruolo attivo
d’orchestratore del consenso[31].
Lo fa – è evidente - per interposta persona, attraverso suo figlio, quel Pedro
Vico che si è affacciato alla ribalta politica appena cinque anni prima come
studente e postulante di mercedes.
Nel 1626, don Pedro, ormai dottore in
utroque, prende parte al parlamento come vicario della diocesi di Oristano,
decano della cattedrale di Cagliari e “señor de Gerrey”. Nella società
privilegiata del regno è un bel passo in avanti, che consente al giovane
ecclesiastico di raccogliere deleghe e di rappresentare persino alcuni nobili
sassaresi[32]. La
condotta del giovane Vico non diverge dalla linea seguita dal padre in tutte le
circostanze parlamentari: si dà da fare per sostenere l’azione di don Luis
Blasco e del viceré Pimentel in modo da maturare crediti politici che, alla
conclusione del parlamento, immancabilmente gli assicurino ricompense e nuove
promozioni nella carriera ecclesiastica.
Ma torniamo brevemente
all’azione propagandistica di Blasco. Nella fase preliminare del parlamento
l’inviato di Madrid si rivolge alle personalità più eminenti degli “stamenti”
sardi con un documento a stampa, una proposición
che nella sostanza ricalca il progetto del conte-duca sulla Unión de armas[33]:
«si hazemos un mismo cuerpo – scrive Blasco – […] la ofensa de qualquiera de
las partes dél, la ha de reparar y castigar esta unión». Il regente sa anche toccare la corda dei
sentimenti evocando le antiche origini catalane, aragonesi e valenziane delle
principali casate sarde e sollecitando sottilmente sensibilità unionistiche mai
del tutto sopite nella nobiltà del regno. Il resto lo fanno le promesse di
adeguate mercedes e di un impiego
militare per coloro che saranno capaci di distinguersi nel servicio alla Monarchia.
Il progetto olivarista
fa registrare nel regno di Sardegna un largo consenso, che stride con l’accesa
conflittualità delle corts catalane
del 1626 ed anche con le più attenuate resistenze delle cortes d’Aragona e Valencia[34].
È un primo vistoso segnale della divaricazione, nel Seicento, delle attitudini
politiche dei ceti dirigenti sardi da quelli catalani. I secoli di
“conformidad” culturale, sociale e giuridica fra Sardegna e Catalogna[35]
vanno ormai dissolvendosi di fronte alla forza centralistica ed omologatrice
dello Stato assoluto. Nel parlamento straordinario di Pimentel il servicio viene votato nemine discrepante e negli anni a venire
l’adesione alla politica del conte-duca si tradurrà in continui conferimenti di
uomini e di sostanze.
Il clima politico
decisamente favorevole alla causa castigliana è ben delineato nel memoriale di
Vico a cui abbiamo fatto già riferimento. A
proposito dell’operazione politica connessa alla Unión de armas scriverà Vico intorno al 1645: «Llegó a Cerdeña Don
Luis Blasco deste Supremo Consejo en el año 1626 con orden de Vuestra Magestad
para representar al reyno las necessidades de la Monarchía y lo que necessitava
ser socorrida con alguna leva de soldados sustentados por algunos años. Y
reparando el reyno en sus necessidades representó el Regente [Francisco Vico] a
los estamentos que para acudir a este servicio de Vuestra Magestad cedía el
drecho que tenía en el salario que se le devía por la plaça de Regente deste
Supremo Consejo. Y juzgando el reyno que para su mayor beneficio tenía por más
necessaria su presencia en este Consejo no lo aceptó. Antes vino bien servir a
Vuestra Magestad con 80 mil escudos por cinco años que después se ha prorrogado
por diez más, y para este effecto offreció el Regente y ha pagado todos los
años ducientos escudos, 150 por él y 50 por el Dean [Pedro Vico] su hijo en el
dicho año de 1626. Le hizo Vuestra Magestad merced de la regencia de este
Supremo Consejo donde acudió al año siguiente de 1627 para servir a Vuestra
Magestad dejando su Casa en Cerdeña»[36].
L’intesa fra la corte e
la provincia sarda pare perfetta. Lo dimostrano non tanto le scontate mercedes a favore di Vico quanto le
numerose concessioni agli altri parlamentari su indicazione del viceré marchese
di Baiona. Don Jerónimo Pimentel segnala a Madrid l’opportunità politica di
premiare la fedeltà (ossia l’acquiescenza) dei sardi che avevano votato un
consistente donativo senza sollevare
problemi, accontentandosi di modeste ricompense in titoli nobiliari,
cavalierati ed abiti di ordini militari[37].
L’assoluta assenza di richieste di portata generale a favore del regno è dunque
compensata dall’elargizione a piene mani della gracia real ai particulares
che agli occhi del sovrano avevano ben meritato in parlamento. È così che il patronazgo real apre sempre più le porte
agli appetiti di nobilitazione dei ceti intermedi del regno. Nelle cortes straordinarie del 1626 sono
amministratori di feudi, uomini della milicia,
letrados, consiglieri civici a
postulare hábitos, titoli di nobiltà
e cavalierati. Ne ottengono talmente tanti che il numero non è di molto
inferiore a tutte le nobilitazioni concesse dagli Austria “maggiori” nel Cinquecento[38].
Quando sul finire di maggio del 1627 Francisco Vico lascia la Sardegna per
Madrid, il marchese di Baiona gli rilascia credenziali a dir poco
entusiastiche: «de [sus] méritos pudiera hacer larga relación por ser muchos y
su integridad y limpieça de servir increhíble […] en un año que ha servido el
officio de Regente ha sido con tanta alabança y acierto que por mucho que lo
quiera encarecer quedaré corto»[39].
Il credito personale
che don Francisco può vantare a corte induce il Consiglio d’Aragona a favorirlo
fino al punto da deliberare alcune consultas
quanto meno paradossali. Vico era stato solo sfiorato dall’inchiesta a tutto
campo sugli ufficiali reali sardi compiuta anni prima da Baltasar Amador, il
quale lo aveva posto in una posizione giudiziaria perlomeno “sospechosa”. Dopo
la morte di Amador la visita di
Sardegna languiva per le lentezze burocratiche madrilene ed anche perché non si
trovava nelle Audiencias d’Aragona,
Catalogna e Valencia un giudice disposto a trasferirsi nell’isola per
concludere l’inchiesta. Nel settembre del 1627 il Consiglio d’Aragona pensa
d’affidare quell’incarico proprio a Vico che è appena giunto a Madrid. È
un’idea perlomeno bizzarra, perché a quel punto il regente sardo sarebbe
passato dalla posizione di “quasi” imputato al ruolo di visitador degli altri ufficiali reali di Sardegna. I regentes madrileni motivano la loro
decisione sostenendo che Vico ha già maturato in Sardegna una solida esperienza
amministrativa e che può quindi cumulare le cariche di visitador e di regente la
cancillería e consentire così risparmi consistenti alle finanze reali
perché «solo gozará del salario de Regente deste Consejo el qual le ha de pagar
aquel Reyno»[40]. Ammettono,
i consiglieri madrileni, che contro una tale scelta, dettata principalmente da
esigenze di risparmio, militano sostanziali motivi politici, quali
l’inopportunità d’attribuire la plaza
di regente la cancillería a un natural del regno che si sarebbe
sicuramente rilevato indulgente verso parenti ed amici e facilmente
influenzabile nell’amministrare la giustizia. Ma
le qualità del ministro sardo («sujeto de muy buenas letras, mucha virtud y
prudencia, y de gran noticia de las cosas y negocios de Cerdeña») fanno
propendere il Consiglio per il conferimento dell’incarico. Alla fine non se ne
farà niente, la consulta rimarrà
inapplicata e Vico non tornerà in Sardegna nel 1627.
Ma l’episodio lascia
intendere come il favore della corte, maturato dopo la cooptazione in
Consiglio, fosse decisivo per costruire – o ricostruire - la reputazione
politica di un ministro reale provinciale. Come è buona regola, la
considerazione riservata al letrado sassarese
si traduce in gratificazioni pecuniarie. Una merced straordinaria di duemila ducados,
corrisposta dal tesorero general
marchese di Montesclaros per metà in tratas
di legumi e per l’altra metà in due cavalierati, tende ad alleviare le
difficoltà finanziarie che Vico deve affrontare a Madrid per la mancata corresponsione
del suo salario di regente[41].
Si apre a quel punto una vertenza che durerà a lungo, perché i sardi vengono
meno all’impegno formale assunto in parlamento di sostenere le spese
dell’ufficio del regente sardo e il
Consiglio d’Aragona non intende in alcun modo surrogare il regno[42].
Ma la morosità dei sardi non è soltanto la conseguenza dei soliti traccheggi
nel pagamento dei “donativi” fiscali e delle altre contribuzioni dovute alla
corona. In questo caso si vuole penalizzare Vico, nei cui confronti è cresciuta
l’ostilità a Cagliari. Un fronte politico compatto, formato dall’arcivescovo,
dal jurado en cabo del municipio e
dal marchese di Villasor con altri títulos
(in pratica l’intero schieramento parlamentare cagliaritano), ignora le
sollecitazioni di Madrid e si rifiuta di pagare lo stipendio al regente sardo[43].
Le frizioni fra Vico e
i cagliaritani emergono platealmente nel 1628. Il mancato gradimento di una
parte dei connazionali crea imbarazzo a Madrid, ma non mina la fiducia nel
nuovo regente. Già ai primi del 1629
si prospettano per Vico compiti politici di primo piano nel quadro della Unión de armas. Si pensa d’inviarlo in Sardegna «por negocios
graves del Real servicio». La Sardegna è tenuta al pari degli altri regni a
dare il suo contributo alla guerre della Monarchia. Bisogna soccorrere
urgentemente con denaro fresco il governatore di Milano don Gonzalo de Cordova,
impegnato nel confronto aperto con la Francia per la questione del Monferrato;
il viceré Baiona viene comandato a reperire nell’isola duecentomila ducados per la campagna d’Italia e a
sovvenire con venticinque o trentamila ducados
una non precisata jornada in
Catalogna[44].
Anche l’esercito delle Fiandre ha necessità d’essere soccorso con centomila ducados[45].
Reperire in tempi
ragionevoli in un regno che versa in gravi difficoltà finanziarie somme così
ingenti è impresa quasi disperata per il viceré. La dismissione già progettata
della grande proprietà demaniale della Planargia di Bosa non basterà a coprire
le richieste della corona. Bisogna trovare altri espedienti finanziari, bisogna
trasformare i feudi sardi in beni allodiali al fine di ricavare quanto più
danaro è possibile dai títulos e dai
baroni titolari delle concessioni; bisogna porre all’asta il peso reale di
Cagliari, di Oristano e della encontrada
di Parte Ocier real; bisogna vendere la laguna di Ollastra e le peschiere di
Santa Giusta, nonché – se necessario - quelle del capo di Neapoli, di Sasso, di
Sastral[46].
Sono questi gli arbitrios suggeriti
da Madrid. L’operazione finanziaria per alienare una parte così consistente del
patrimonio reale non andrà in porto per mancanza di compratori e il marchese di
Baiona si limiterà ad inviare a don Gonzalo de Córboba 45 mila escudos,
frutto di un prestito che egli dice aver raccolto per “milagros”[47].
Anche in Sardegna,
dunque, la strada obbligata è ormai quella degli asientos del grano, ossia dei contratti d’appalto sui diritti
d’esportazione, previe anticipazioni finanziarie alla Corona. In tal modo, fra
gli anni venti del secolo ed il 1643 il mercato sardo viene di fatto
monopolizzato da un cartello di hombres
de negocio (sono genovesi per lo più, ma vengono coinvolti anche
valenziani, maiorchini e sardi) che impone forti vincoli al commercio del
grano, con riflessi negativi sui delicati meccanismi della produzione e della
commercializzazione[48].
I gravi pregiudizi che ne derivano per l’economia sarda nel suo insieme
finiscono per ripercuotersi anche sulle precarie finanze della Monarchia. Il
1629, l’anno di stipula del secondo asiento
del grano, è proprio il momento in cui si acutizzano i segnali del malessere.
L’inappagabile bisogno di liquidità suggerisce al conte-duca di Olivares di
fare ricorso a Vico come plenipotenziario per tentare la complessa quanto
disperata operazione finanziaria di cui si diceva prima. A Madrid Vico pare la
persona più adatta a tradurre in concreto quei disegni, ma a Cagliari
l’insofferenza verso la pratica degli asientos
ed ancor più i risentimenti diffusi nei confronti del regente dicono il contrario. Quando vengono informati della
prossima venuta del ministro sassarese i cagliaritani «se alborotan»,
protestano vivacemente col viceré perché «no quieren que a su costa [Vico] gane
gracias»[49].
L’animosa opposizione dei cagliaritani non è ingiustificata. I ceti dirigenti
della capitale del regno non sono lontani dalla verità quando affermano che il
ministro sardo a Madrid sostiene i programmi della Monarchia soltanto per
ricavarne cospicui vantaggi per sé e per la sua città. I torbidi si esauriscono
subito perché il viaggio di Vico in Sardegna viene prudentemente annullato.
I cagliaritani
lamentano che il Consiglio d’Aragona sia sempre più impegnato ad esaudire le
richieste di mercedes dei sassaresi
al di fuori delle consuete procedure parlamentari, mentre è più raro che a
beneficiare della gracia real siano i
cittadini di Cagliari. Nei mesi a cavallo fra il 1628 e il 1629 il Consiglio
d’Aragona, riunito a Barcellona, accoglie una lunga serie di mercedes a favore di Sassari. Il
postulante sassarese è il síndico don
Juan Pilo, jurado en cabo di Sassari;
il patrocinante è il regente Vico[50].
È un esempio significativo della scoperta faziosità del regente, destinata ad acuire i contrasti fra le due città rivali.
Don Francisco, per quanto lontano dall’isola, prende parte con grande impegno
alla contesa fra Cagliari e Sassari, tanto da rappresentare il punto di
riferimento più forte ed autorevole della fazione sassarese. Per questo viene
accusato di non rappresentare in Consiglio d’Aragona gli interessi dei sardi
del capo di Cagliari e per questo nel 1630 gli viene negato ancora una volta il
pagamento del salario e delle propinas di regente. La questione viene posta all’ordine del giorno del Supremo
d’Aragona a metà del 1630 ed ancora nel 1633, quando Madrid tenta invano d’imporre
anche per il regente sardo la
gestione contabile accentrata (come avviene per gli altri regentes) da parte della tesoreria del Consiglio[51].
Ma nel 1633 si presenta
ai cagliaritani una nuova e più sostanziale occasione per tentare di
delegittimare il regente sardo. Una consulta del Consiglio d’Aragona di
febbraio aveva approvato la recopilación
di leggi, prammatiche, capitoli ed atti di corte del regno di Sardegna che Vico
aveva appena compiuto e sottoposto al vaglio dei colleghi. L’incarico di
raccogliere ed ordinare le leggi vigenti in Sardegna, che risultavano
«divididas en diversos papeles manuscritos», gli era stato affidato quasi
vent’anni prima dal viceré duca di Gandía, quando era ancora giudice della Audiencia sarda; secondo le
disposizioni, avrebbe dovuto individuare, mettere insieme e sistemare le norme
vigenti, nonché «reformar, mudar y corregir las viejas»[52].
Il pluralismo giuridico e l’incertezza normativa dovuta alla vigenza di molte
leggi e regole spesso contrastanti o cadute in desuetudine o difficilmente
applicabili avevano convinto nel 1614 il parlamento Gandía della necessità di
promuovere una raccolta coerente e sistematica delle leggi del regno[53].
Dopo un lavoro di lunga lena Vico presenta in Consiglio d’Aragona la raccolta
legislativa ritenuta indispensabile dalla corte per il buon governo e per il
corretto funzionamento degli organi istituzionali della provincia sarda.
Intende ottenere l’esecutività dal Consiglio, che ai primi di marzo del 1633
con un decreto di Filippo IV autorizza la stampa dell’opera[54].
Non sappiamo perché trascorrano ancora tre anni prima che la raccolta venga
portata a conoscenza delle istituzioni del regno. Si può pensare che i ritardi
siano dovuti ai difficili rapporti che in quel tempo intercorrono fra il regente e le élites sarde. Soltanto nel
1636, quando si sta approssimando la scadenza della sua tormentata missione
nell’isola, Vico sottopone il suo “libro de pragmáticas” direttamente
all’attenzione del viceré e della Audiencia
che lo accolgono con molto favore[55].
Di diverso avviso sono i consellers
di Cagliari che lamentano di non essere stati informati nelle dovute forme di
un progetto di codificazione che lede gli interessi della città perché contiene
molte norme che «se encuentran con privilegios que los predecessores de Vuestra
Magestad han otorgado a esta Ciudad por sus inumerables servissios hechos en
tantos siglos como también se encuentran con Capítulos de Corte y Leyes deste
Reyno pactionadas»[56].
Si mobilitano le rappresentanze parlamentari della città e una junta delle prime “voci” degli stamenti
(l’arcivescovo di Cagliari, il marchese di Laconi e il jurado en cabo) pretende d’esaminare le prammatiche, «para que
vistas aquellas que se encuentran con privilegios y Capítulos de Corte pudieran
recorrer a Vuestra Magestad e instar el reparo o desagravio pues no siendo el
dicho Regente persona muy affecta y que en quanto ha podido ha procurado las
menguas de las preheminéncias, honras, y privilegios desta fidelíssima Ciudad
siendo enemigo della declarado»[57].
Le recriminazioni degli stamenti vengono accolte senza difficoltà in Consiglio
d’Aragona, anche se il viceré di Sardegna viene invitato a fare presto, a
comunicare in tempi brevi le osservazioni e le rettifiche proposte dai
cagliaritani onde procedere alla stampa della raccolta legislativa[58]. Sono sollecitazioni, quelle del
Consiglio, che lasciano il tempo che trovano. Gli ambienti politici sardi sono
scossi da forti tensioni politiche che l’ingombrante presenza di Vico non
contribuisce certo ad attenuare.
La notizia che Vico si
accinge a pubblicare a Barcellona la Historia
general de la Isla y Reyno de Sardeña fa sollevare come un sol uomo i
cagliaritani, che invocano il controllo preventivo del libro ritenuto «una obra
contra la Ciudad de Cáller»[59].
È probabile che il provvedimento di censura sollecitato per il libro di
storia pregiudichi anche la
pubblicazione delle Leyes y pragmáticas.
Una prima edizione della compilazione giuridica vedrà la luce nella stamperia
reale di Napoli soltanto nel 1640 e le spese saranno sopportate dall’autore e
non dagli “stamenti” militare e reale, come aveva deliberato il parlamento
Gandía[60].
Probabilmente la prima edizione è priva dei crismi dell’ufficialità e comunque
non è condivisa ed applicata nel regno. Per questo nel 1646 il Consiglio
d’Aragona deve invitare il viceré di Sardegna duca di Montalto a sottoporre
nuovamente il testo all’esame della Audiencia[61].
Nuovi solleciti di Madrid del 6 febbraio e del 3 giugno 1647 restano lettera
morta. L’anno dopo, nel 1648, altre pastoie burocratiche, che forse celano
resistenze politiche più sostanziali, consigliano la corte di fare pressioni su
Montalto perché «se gane tiempo», perché si chiuda la verifica della
compilazione delle prammatiche, «pues como sabéis – scrive il vicecancelliere
Bayetolá – es mucho el que ha que se os embiaron y no menor la falta que hacen
acá para cosas de mi servicio»[62].
L’ultimo perentorio sollecito al viceré è del febbraio 1649 quando Vico è ormai
defunto[63].
Nel frattempo, quando le Leyes y
pragmáticas di Sardegna non hanno ancora ottenuto la piena esecutività,
l’arcivescovo di Cagliari Bernardo de la Cabra invia a Roma alla Congregazione
dell’indice i due tomi chiedendo che vengano posti nell’indice dei libri
proibiti, «por motivo que en ellas y en su comento se avía dispuesto sobre
materias concernientes a las immunidades del estado ecclesiástico»[64].
Il forte conflitto giurisdizionale che ne deriva coinvolge direttamente le
curie di Roma e di Madrid. L’ultima proibizione romana è del 1651, a cui fa
seguito l’immediato ordine del Consiglio d’Aragona ai ministri sardi di non
applicarla in Sardegna[65].
Insomma le resistenze contro la riforma legislativa sono molteplici e tutte
congiurano contro Vico che non ha la soddisfazione di vedere il definitivo
coronamento del suo lungo lavoro di giurisperito.
L’ostilità dei
cagliaritani nei confronti di don Francisco si manifesta a tutto campo e si
ripercuote sulla cerchia dei suoi clienti, in primo luogo sui suoi familiari.
Senza grandi risultati, però, se il suo ambiziosissimo figlio, don Pedro, può
compiere una carriera a dir poco folgorante. Sfruttando protezioni politiche ai
massimi livelli che giungono fino alla persona del re, nel 1634 don Pedro Vico
viene designato a coadiutore del vescovo di Oristano con la formale promessa
della futura successione nella carica. La designazione del giovane prelato
costituisce di fatto una morbida esautorazione dell’arcivescovo assenteista don
Gavino Mallano. Quando costui si oppone al provvedimento reale ed ottiene la
sospensione della ratifica papale, Vico padre dà prova della sua capacità di
pressione politica provocando l’intervento diretto di Filippo IV sul cardinale
Barberini e sull’ambasciatore spagnolo a Roma marchese di Castelrodrigo per
sollecitare l’emanazione della bolla di nomina[66].
Il 10 gennaio 1635 giunge la nomina papale, ma al coadiutore viene negata la
pensione annuale di dieci mila reales
connessa all’esercizio delle funzioni della mitra, delle visite e della cura
d’anime da lungo tempo trascurate nella diocesi. Lo spiacevole intoppo viene
prontamente rimosso da Madrid con pressanti solleciti presso il papa tramite
l’ambasciatore spagnolo a Roma[67].
Lo straordinario credito di don Francisco presso la corte madrilena ricade
beneficamente sul figlio don Pedro, destinato a promozioni rapide quanto
inconsuete per un ecclesistico sardo. L’arcivescovado di Oristano prima e
quello di Cagliari dopo (carica riservata abitualmente a prelati non naturales del regno per via delle pingui
prebende che vi sono connesse) consentiranno negli anni a venire a don Pedro
Vico d’esercitare un ruolo di primissimo piano nelle vicende politiche del
regno come orchestratore dei deliberati assunti nei parlamenti presieduti dai
viceré Lemos e Camarasa[68].
Costante sarà l’aspirazione del potente prelato a ripercorrere le orme del
padre e ad esercitare un ruolo di mediazione fra gli interessi della Corona e
quelli dei ceti dirigenti sardi.
Il 1635 è un anno
cruciale nella storia della Monarchia ispanica ed anche nella biografia di don
Francisco. Nel maggio, quando riprendono le ostilità con la Francia, si fa pressante la domanda di uomini e di
denaro da inviare in Italia e soprattutto in Catalogna, diventata una zona
strategicamente importante per la vicinanza della Francia. È opportuno perciò
che gli altri regni della Corona d’Aragona sostengano il principato con apporti
militari e finanziari consistenti. I servicios
di vettovaglie e di denaro delle provincie catalano-aragonesi sono tanto più
necessari quanto più difficile si fa, dopo il cattivo raccolto di quell’anno,
l’approvvigionamento dell’esercito di stanza in quella provincia[69].
Per trattare con i sempre riluttanti sudditi catalano-aragonesi vengono
mobilitati i regentes del Consiglio
d’Aragona: don Matías de Bayetolá andrà in Catalogna, don Melchor Sisternes a
Valencia, lo stesso sovrano conta d’intervenire in Aragona, don Francisco Vico
opererà in Sardegna.
Le istruzioni date al regente sardo nel luglio 1635 e le
disposizioni per il viceré di Sardegna dell’ottobre si susseguono in un
concitato affastellamento di ordini talvolta contrastanti, ma disegnano alla
fine un piano di richieste articolato ed oneroso ma anche ottimisticamente
possibilista. In quella fase bellica le necessità del fronte italiano sono in
cima alle preoccupazioni del governo di Madrid. È a Milano, dove si accinge ad
operare il consigliere don Francisco de Melo, che la Sardegna dovrebbe inviare
i fondi del servicio ordinario e straordinario
relativo all’anno 1634[70].
In pari tempo avrebbe dovuto rimettere centomila fanegas di grano ed un altro non precisato contributo in denaro
come antecipazione degli ottantamila escudos
del donativo straordinario promesso
dai sardi per l’anno 1636. La fornitura di grano è talmente urgente che Vico
viene autorizzato a fare ricorso alla libera negoziazione sul mercato
scavalcando i monopolisti delle tratas
del grano sardo. Nel caso che i titolari degli asientos si opponessero alla trattativa privata, Vico dovrebbe
tentare di coinvolgerli nell’operazione o addirittura potrebbe passare loro la
mano. A Genova ed ai genovesi, precisamente al principe Doria, dovrebbero fare
capo sia don Francisco de Melo che don Francisco Vico per l’armamento
nell’isola di una squadra di galeras.
Inoltre Vico dovrebbe farsi propagandista del disegno militare della Monarchia
e coadiuvare il viceré di Sardegna, marchese di Almonacir, nel reclutamento di
un contingente di fanti sardi da destinare al fronte d’Italia; dovrebbe anche
convincere i sardi a sostenere con un ulteriore donativo straordinario il re che si accinge a scendere
personalmente in campo.
Si tratta, come è
evidente, di richieste esose e di arbitrios
assolutamente irrealistici. Le esigenze della guerra e le scelte errate nella
politica economica degli asientos
hanno aperto una vera e propria voragine finanziaria che rende impossibile ogni
ulteriore prelievo fiscale. Per questo urge procedere a vendite di uffici e
assottigliare ancora il patrimonio reale in Sardegna. Al marchese di Villasor
viene ceduto per venticinquemila escudos
l’arrendamiento delle tonnare sarde;
per ottomila escudos è assegnato per
la durata di due vite l’officio di governador del Goceano a don Jorge de
Castelví e alla contessa de Almayno; a Joan Bauptista Asquer e ad Agustín
Martín è stato venduto per ottantamila reali castigliani l’asiento delle sacas dei
legumi; l’arrendamiento della neve
nella città di Cagliari è in vendita per mille o millecinquecento escudos; vengono messi in vendita nell’isola
dieci titoli di cavalierato e dieci di nobiltà al prezzo di diecimila escudos. Il ricavato della liquidazione
dei beni e dei diritti reali deve essere inviato “a prisa”, in fretta, parte a
Barcellona e parte in Italia. Ma, tutto sommato, sono dismissioni di poco conto
che non bastano per fare fronte agli impegni finanziari della Monarchia. Vico
dovrebbe perciò convincere i titolari degli asientos
ad aumentare il valore delle tratas
di quindicimila escudos da versare
nelle mani del receptor del Consiglio
d’Aragona; invece le vettovaglie destinate alla armadilla in via d’allestimento a Barcellona (5.400 starelli di
grano, 336 quintali di formaggio, 168 quintali di tonno, 168 quintali di
pancetta, 600 fanegas di fave e ceci)
devono essere appoggiate a don Ramon Caldés i Ferran, regente la Tesoreria di Catalogna[71].
La
rassegna delle istruzioni è volutamente dettagliata per evidenziare come le
esigenze della guerra rendano incalzanti ed eccezionalmente minute le richieste
di denaro e di vettovaglie. Ma un conto sono i disegni della corte ed un altro
è la dura realtà dei fatti con cui Vico deve misurarsi. Persino il suo viaggio
verso la Sardegna si rivela carico di rischi. Ai primi d’ottobre, sulla rotta
da Genova a Cagliari, il convoglio viene assalito dai corsari barbareschi: la
barca del regente scampa alla
cattura, ma gli occupanti dell’altra barca (a bordo viaggiano il futuro
procuratore reale don Jaime Artal de Castelví, un capitano, alcuni marinai e i criados di Vico) vengono fatti
prigionieri e privati dei loro beni[72].
A Cagliari
Vico assume una carica politica e burocratica eminente (ha l’interim della regencia della cancillería sarda) per condurre le trattative da una posizione di
forza[73].
Emergono subito le difficoltà, a cominciare dal rifiuto degli asentistas d’anticipare trentamila escudos dal quarto asiento delle sacas di
grano[74].
Non trovano accoglimento presso gli asentistas
neppure le più miti pretese di corrispondere una tantum al Consiglio d’Aragona 3.000 ducados per la paga di duecento soldati e di conferire 5.500 fanegas di grano e le altre vettovaglie
che Caldés attende per l’approvvigionamento delle truppe a Barcellona. I
dinieghi più o meno espliciti vengono dai genovesi e da altri privati, ma
specialmente dai consellers della
città di Cagliari. Pressato dalle urgenze, Vico è costretto a fare ricorso alle
proprie sostanze per gli acquisti di grano, formaggio e legumi da mandare in
Catalogna[75].
La
renitenza dei sardi va fatta risalire alla solita attitudine speculativa degli
incettatori di grano ed alla loro diffidenza nei confronti della corona
ritenuta un cliente poco affidabile. Ma le difficoltà incontrate da Vico non
sono imputabili solo agli asentistas
sardo-genovesi: risalgono, più in generale, all’estrema povertà del regno, alla
ridottissima liquidità monetaria, alla cronica morosità dei pecheros sardi. Non
è facile porre rimedio alle disfunzioni del sistema fiscale: «al patrimonio
[real] me dizen se deben muchas cantidades de muchas maneras – lamenta Vico - y
sino hay persona que cuide de averiguarlas se perderán»[76]. La
riscossione degli ottantamila escudos
del donativo, su cui Madrid fa molto
affidamento, è in grave ritardo per il palleggiarsi delle responsabilità fra il
viceré, l’arcivescovo di Cagliari ed i giudici della Audiencia. Analoghe difficoltà si presentano per la leva dei
soldati, per il pagamento dell’arrendamiento
delle tonnare, per il servicio
volontario dei privati, per la vendita dei titoli nobiliari.
È un
compito veramente ingrato quello che la corte ha affidato al ministro
sassarese. Le difficoltà economiche costringono Vico a concertare col viceré
nuovi arbitrios che non sono altro
che ulteriori dismissioni di titoli nobiliari, di uffici e di beni immobili per
ricavare denaro in contante o moneta pregiata più facilmente esitabile sul
mercato della guerra. Bisogna sollecitare gli appetiti di nobili, burocrati e
mercanti che in Sardegna possono ancora investire nella terra e negli onori. Il
pezzo forte delle nuove alienazioni è la vendita della encontrada di Parte Ocier Real, effettuata senza i vincoli della carta de gracia, e del salto di Soleminis arricchito del titolo
di marchese per il compratore (sarà questo un ghiotto boccone per lo stesso regente). Al governatore del capo di Cagliari
don Diego de Aragall viene proposto l’acquisto dell’oficio di veguer
d’Oristano e delle oficialías dei tre
Campidani per la somma di 30 mila reales
in plata doble pagabili a corte;
dietro rimessa di duemila ducados a
Madrid, viene conferita ai ministri patrimoniali del regno (procuratore reale,
maestro razionale e tesoriere) la potestà di designare le terne delle cariche
giudiziarie e delle dignità ecclesiastiche del regno; per 15 mila reales in plata doble pagabili a Madrid viene ceduta a don Antiogo Sanjust la
oficialía di Quart con la capitanía delle marine. Ma è necessario
altro denaro fresco e per questo il regente
e il viceré di Sardegna guardano con fiducia alle trattative (non molte, per la
verità) intraprese con coloro che aspirano ad acquistare titoli nobiliari[77].
L’obiettivo
principale resta, in ogni caso, la provvista del grano. Per comprarlo sul
libero mercato Vico pare disposto ad ingaggiare un vero e proprio braccio di
ferro con gli asentistas, che avevano
già accaparrato il raccolto del 1635 e che divengono per forza di cose gli
unici possibili interlocutori. In mancanza di garanzie finanziarie costoro si
rifiutano di venire incontro alle richieste di anticipazioni del ministro del
re, al punto che Vico è costretto ad impiegare anche le sostanze personali e
quelle del genero Sebastián de la Zonza per effettuare gli acquisti
strettamente indispensabili[78].
In verità l’invio delle vettovaglie in Catalogna è reso possibile soprattutto
per la compiacente disponibilità di Benedetto Nater e dell’agente di Nicolás de
Amico, due fra i maggiori mercanti che operano sulla piazza sarda e che si
erano impegnati a prestare tremila ducados
e fornire il grano per la Catalogna nel caso di un rifiuto degli altri hombres de
negocio. Nel novembre 1635 Caldés scrive da Barcellona a don
Gerónimo de Villanueva per accusare ricevuta del grano, che a suo dire «es del
mejor que ha venido muchos anyos ha de aquel Reyno»[79].
Il
successo di Vico è solo momentaneo. Il cartello degli asentistas è destinato a ricompattarsi quasi subito, grazie anche
ad un fronte di notabili recalcitranti che comprende mercanti, esponenti della
nobiltà terriera e della burocrazia reale. Sarebbe eccessivo vedere
nell’opposizione all’operato di Vico qualcosa di più della semplice tutela di interessi
economici. Di sicuro non è possibile ravvisarvi una resistenza politica alle
pretese di marca assolutistica della Monarchia. Non esistono in Sardegna le
condizioni politiche della Catalogna e l’accondiscendenza dei sardi verso il
programma della Unión de armas non
conosce incrinature in nessun momento. Sono discussi, semmai, i comportamenti
personali del regente sardo che
rinfocolano inimicizie antiche ed acrimonie che risalgono ai tempi della sua
folgorante ascesa politica. Vico è costretto a segnalare a Madrid le difficoltà
che incontra quotidianamente ed a denunciare l’appoggio occulto in danno del
real patrimonio che il dottor Francisco Corts, abogado fiscal della Audiencia
sarda, dà alla conventicola dei mercanti capeggiata dal conte di Torralba
Gerónimo Comprat. «El conde y sus camaradas – scrive a
Villanueva - se ban aprovechando de la hazienda de Su Magestad por todos
caminos, a quienes favorece declaradamente el Doctor Corts que entra en los
tratados destas materias y en los demás arrendamientos del patrimonio por el
interés que tiene, según lo assiguran y afirman hombres de verdad, y assí con
este padrastro mal puede conseguirse el servicio de Su Magestad»[80]. Corts
deve essere rimosso ed allontanato dal regno, secondo Vico, magari con una promozione
a juez de corte in Catalogna, se si
vuole porre termine alle dilazioni e portare a compimento il programma del
governo. Riemergono così le vecchie ruggini dei tempi burrascosi del viceré Vivas, quando Vico aveva provocato
l’arresto del giudice Corts e il suo trasferimento coatto a Sassari, legato
mani e piedi e montato su un ronzino, per essere gettato in carcere e
processato. Corts era stato poi prosciolto in seguito alla visita di Amador, ma il contrasto fra i due giudici togati era
continuato all’interno della Audiencia
senza esclusione di colpi e si riproponeva nel 1635 con tutta l’antica
animosità[81].
Nella
primavera dell’anno 1636 Madrid avanza nuove gravose richieste. Vico è
comandato ad approvvigionare diecimila fanegas
di grano per la armada real, oltre la
quantità che devono fornire per contratto gli asentistas. Ma la produzione è quella che è: le scorte sono ormai esigue, sul mercato sono
disponibili solo le partite di grano in possesso degli asentistas. È su quelle provviste che Vico punta l’attenzione, le
vuole ad ogni costo ed in tempi brevi, con le buone e con le cattive maniere.
Quando i mercanti hanno ormai acconsentito alla vendita si scopre che le
finanze del regno non dispongono di
denaro liquido, per cui non si può perfezionare il contratto se non dopo la
riscossione del donativo di 80.000 escudos del 1636. È come dire che il
pagamento è rinviato sine die, perché
tutti sono consapevoli delle insormontabili difficoltà di riscuotere in tempi
brevi il donativo.
Dopo un tentativo fallimentare d’incettare grano nelle
principali piazze sarde, l’unica via d’uscita per approvvigionare gli eserciti
di Catalogna e d’Italia è il ricorso alle maniere forti. Per non deludere le
aspettative di Madrid Vico esercita pressioni sui ministri reali sardi (viceré
e consigli di giustizia e di patrimonio) che sono orientati verso soluzioni più
morbide e possibiliste[82].
Alla resa dei conti Caldés riceverà a Barcellona «la cantidad que ha sido posible», soltanto diecimila starelli, ben poca
cosa rispetto ai centomila richiesti[83].
La prospettiva di un fallimento dei programmi governativi si fa sempre più
realistica per le reali difficoltà economiche che il regno attraversa («la
Tesorería deste Reyno está tan acabada que no hay para pagar el salario del
Virrey y Juezes del Audiencia») e per i malumori che la politica del conte-duca
comincia a suscitare («lo que más es de sentir que ha mandado Su Magestad que
todas las rentas corridas hasta el año 1635 se le embíen a Madrid»)[84].
È in difficoltà, il plenipotenziario di Olivares, perché la crisi finanziaria
del regno non consente alcuna fruttuosa trattativa commerciale e perché la
realizzazione del programma governativo segna il passo. Ad esempio, la
formazione della squadra di galere per conto della Corona è ancora soltanto
un’intenzione.
Quando si approssima la
scadenza della missione, prevista per l’ottobre del 1636, l’insoddisfazione di
Vico per non aver potuto portare a compimento il mandato di Olivares è resa
ancora più bruciante dalla mancata soluzione dei suoi problemi personali. Viene
lasciata praticamente cadere l’opportunità di rinegoziare l’annosa questione
del suo salario di regente che il regno si ostinava a non
pagargli[85]. Non
è chiaro se la clamorosa inadempienza sia dovuta a dolo o a colpevole lassismo
dei ministri reali: certo è che Vico accusa un grave danno economico che, a suo
dire, rende precaria la sopravvivenza a corte della sua casa[86].
Ci sono ancora tante cose per lui da sistemare in Sardegna. A quel punto non
gli resta che chiedere al Consiglio d’Aragona la proroga d’un anno della
licenza[87].
Ma quando ha già ottenuto l’autorizzazione a restare, avverte che la lontananza
da Madrid potrebbe risultargli pregiudizievole perché i suoi avversari sardi
potrebbero accampare il pretesto del mancato esercizio dell’oficio di regente provincial per negargli ancora lo stipendio[88].
Il repentino ripensamento di Vico viene accolto dal
Consiglio d’Aragona: «los rezelos que causa el ser natural en aquellos
vasallos, aunque sea sin culpa suia, parece que obliga a que pues él mismo pide
licencia para bolver a servir su plaza en este Consejo Su Magestad tenga por
bien de permitirselo»[89].
Ma non è
solo l’annosa questione del salario non
corrisposto a consigliare un ritorno immediato di Vico a Madrid. Il
rinfocolarsi dell’antico dissidio col fiscal
della Audiencia Francisco Corts ha
prodotto conseguenze politiche preoccupanti. Corts ha presentato al Consiglio
d’Aragona una denuncia molto articolata sugli illeciti commessi da Vico a
partire dagli anni del suo avanzamento all’ombra del duca di Gandía[90].
Il memorial di Corts è, in pratica,
una dettagliata biografia in negativo del regente
sardo. Accuse circostanziate e “verità” incontrovertibili si alternano ad
insinuazioni di dubbia attendibilità: tutto è mirato a screditare Vico e a
ridimensionarne il ruolo politico a corte. È evidente che il giudice Corts non
agisce da solo, ma è informato, consigliato e sostenuto dai molti nemici che
Vico annovera nella capitale sarda. Il memoriale è interessante non tanto per
l’attendibilità, sempre dubbia, delle accuse quanto per la capacità di mettere
a nudo la personalità del ministro e di disegnare la sua condotta pubblica e
privata. Insomma il memoriale consente d’apprezzare il contesto politico in cui
il regente opera e i vantaggi che gli
derivano dalla posizione di vertice che ricopre. In pari tempo fa capire come
le difficoltà di rapporti con le reti di potere cagliaritane crescano man mano
che si consolida la sua preminenza politica a Madrid e che si allarga il suo
distacco fisico dall’isola. Vico è ritenuto il responsabile dei “bandos” che
imperversano nell’isola, delle “parcialidades” che si accentuano da quando egli
è l’abile orchestratore di un complesso giuoco di rapporti di patronage e di controllo di reti
clientelari. Per questo, secondo Corts, i sardi (i cagliaritani, più
precisamente) hanno di lui una cattiva opinione e nutrono notoriamente nei suoi
confronti un odio profondo o un timore reverenziale[91].
La
contro-biografia di Francisco Corts prende le mosse dal periodo dell’ascesa
politica del letrado sassarese. Negli
anni venti, durante la celebrazione delle cortes,
con grande opportunismo Vico aveva sfruttato le divisioni interne dei
parlamentari ed aveva costruito maggioranze utili alla causa monarchica allo
scopo d’ottenere riconoscimenti e ricompense per sé e per le sue clientele. In sostanza il giudice togato sassarese viene rappresentato – forse
sopravvalutandone il ruolo - come l’arbitro della politica parlamentare:
«teniendo él más mano con los que bençen y éstos recelosos que no bençan los
otros los humilla para que con esto pueda alcançar sus botos y fabores para
salir con lo que pretende y que se den oficios a las personas de su bando y a
los que tiene reducidos a su obediencia». L’intesa con
il viceré duca di Gandía, costruita abilmente durante i lavori
parlamentari, gli aveva aperto la strada per l’oficio di juez de corte,
un incarico che - secondo Corts -Vico aveva ricoperto e ricopriva indegnamente per i limiti della sua cultura
giuridica e per la corruttibilità dimostrata in ogni circostanza. L’opinione
corrente fra i sardi – continua Corts - è che fosse un “publico mercader y
negociante”, disponibile ad accordare favori in cambio di denaro. Quando
finisce nelle maglie dell’inchiesta del visitador
Martin Carrillo, Vico è capace d’uscirne indenne per l’intervento di patroni
influenti come l’arcivescovo di Cagliari Francisco de Esquivel. Sono le alte
protezioni a garantirgli l’impunità: non solo non viene sospeso dal suo oficio, ma il processo a suo carico
viene insabbiato a Cagliari ed inviato a Madrid molto più tardi, quando è
mutata la composizione del Consiglio d’Aragona e si è persa ormai la memoria
storica degli avvenimenti.
Corts
passa poi a denunciare il rapido ed illecito arricchimento del letrado sassarese, realizzato mediante
la vendita di prebende ecclesiastiche e la manipolazione delle cause da lui
giudicate. «Ha sido – afferma Corts con un’efficace
metafora - esponja de las bolsas y haciendas de los que acudían a pedille
justicia, porque jamás la ha administrada sino bendiéndola a puro dinero; y no
ha podido ningún mercader negociar en cosas del patrimonio que él no haya
tenido su participación, en particular en quantos partidos de sacas se hicieron
en el gobierno de don Juan Vivas […] y sin esto ha tenido participación en los
arrendamientos de las almadrabas y es tan publico y notorio que se han visto y
leydo en las quentas de los administradores asentadas todas las partidas que cada
uno le dava por su participación».
Quando nel
1627 (l’anno della promozione a regente
del Consiglio d’Aragona) si trasferisce a Madrid, Vico dispone già d’una
fortuna eccezionale che gli consente di sovvenire con larghezza figli e nipoti,
di fare una consistente donazione alla Compagnia di Gesù, di finanziare
personaggi a lui prossimi in Sardegna, di sopportare nel periodo di residenza a
corte spese per 30.000 ducados, di
comprare in un fallimento la villa di Gesturi per 65.000 lire a nome del figlio
sedicenne, di pagare 10.000 escudos
per la partita di grano destinata alle truppe di Barcellona, di consegnare al
marchese di Montesclaros 3.000 escudos
per comprare un titolo di marchese per suo figlio, d’essere in procinto di
costruire una casa a Cagliari del valore di 10.000 escudos, di sostenere le gravose spese per l’elezione a vescovo di
suo figlio Pedro. Insomma - conclude Corts maliziosamente - o Vico possiede una
miniera nel Potosí o ha approfittato in Sardegna delle cariche che ha ricoperto.
La pratica di concussore – secondo Corts - continua a corte, dove pretende
somme considerevoli dai sardi che si presentano per chiedere favori o per
sostenere i loro interessi in sede giudiziaria. Dal marchese di Villasor esige
17.000 reales en plata doble per il pleito sostenuto col conte di Torralba
per l‘appalto delle tonnare sarde; 3.000 escudos
gli dà il dottor Bonfant per la concessione delle plazas che questi ricopre in Sardegna; da don Francisco Sogio ha
preteso «una gran cantidad» per le molte mercedes
(un titolo di cavalierato e nobiltà, la carica di veguer del governador, pagador
de las torres del cabo di
Cagliari) concesse inspiegabilmente a «un hombre de las villas»; il dottor
Domingo Brunengo gli ha consegnato 3.000 ducados
a Barcellona per ottenere una plaza
nella Audiencia[92].
Sono
attendibili le accuse a valanga del giudice Corts? Sono in qualche misura
verosimili, visto che in pochi anni don Francisco costituisce un patrimonio
immobiliare di tutto rispetto ed accumula denaro liquido in quantità
considerevoli. È inesorabile, Corts, nel suo intento di demolire l’immagine
politica del regente. Insinua persino
che don Francisco, per nascondere le sue umili origini, abbia cambiato cognome
posponendo quello paterno, Artea (il padre era «un pobre hombre que andava
vendiendo agujetas por las villas»), a quello più titolato della madre,
Isabella Vico («un hermano della era cura de una Iglesia y le ayudó en los
estudios»). La singolare denuncia non è verificabile perché di Francisco Ángel
Vico mancano dati anagrafici certi; ma non pare destituita di fondamento, se si
considera che a quel tempo non era inconsueto assumere il cognome materno come
patronimico[93].
L’interminabile
rosario di accuse occupa pagine e pagine del memorial. Screditare il regente
provincial di Sardegna e provocare una visita
che ponga fine alla sua carriera è l’intento dichiarato dell’accusatore.
Tuttavia in Consiglio d’Aragona è d’obbligo un atteggiamento di prudenza di
fronte a denunce che provengono da nemici dichiarati dell’accusato. Il dottor
Corts viene invitato a firmare e a riconoscere come proprio il memorial, a depositare una cauzione di
quattromila escudos a garanzia della
fondatezza delle accuse. Alla resa dei conti sembra prevalere, fra i colleghi
di Vico, un sentimento di difesa corporativa ed in qualche misura di
giustificazionismo psicologico. È opinione unanime che i comportamenti
dell’accusato siano per lo più legittimi e rientrino nel normale esercizio
delle funzioni di un alto ministro del re. Un regente provincial di un
consiglio territoriale, che ha compiti di raccordo fra la corte e la periferia,
deve necessariamente coordinare una rete di potere complessa ed ha l’obbligo di
gratificare un gran numero di fedeli. Per questo deve garantirsi la possibilità
non solo di promuovere i suoi clienti e sollecitare per loro ricompense
onorifiche ma anche di dispensare in proprio prebende e gratificazioni
materiali.
L’iniziativa
di Corts non risulta granché incisiva, ma a corte un qualche effetto forse lo
produce. Quando si approssima la scadenza dell’anno di missione nell’isola,
alla regencia della cancillería viene designato Fernando
Azcón, un giudice appena destinato alla Audiencia
sarda[94].
La sostituzione nella prima carica amministrativa del regno prelude ad una svolta
nell’atteggiamento di Vico, il quale comincia a prendere le distanze dagli
affari di governo e a manifestare il proposito di lasciare l’isola[95].
Il momento è molto incerto sotto il profilo politico. All’atto del
trasferimento nell’isola il giudice Azcón era stato incaricato d’investigare
sullo stato patrimoniale del regno. La sua prima impressione è
che il real patrimonio di Sardegna sia «muy exhausto», per «la falta de
justicia que hay, y los grandes fraudes que a Su Magestad se le hazen en sus
reales rentas»[96]. Azcón
basa il suo giudizio specialmente su un memoriale anonimo che individua il
principale responsabile del dissesto finanziario in Antonio Ornano de
Basteliga, un sassarese di origine corsa fedele a Vico e per questo promosso
alla carica di tesoriere del regno[97].
Anche in questo caso il Consiglio d’Aragona procede con i
piedi di piombo: «la natural inclinación de los de aquel Reyno – si legge nella
consulta provocata dal primo rapporto
di Azcón - es fácil en quejarse y poner en descrédito a los ministros, y esto
obliga a proceder con particular tiento por su reputación y más quando se llega
a ablar de quien ocupa tan preheminente puesto en este Consejo como el Regente
don Francisco Vico»[98]. Tra
il vedere e il non vedere, però, il Consiglio d’Aragona dà mandato ad Azcón di
“visitare” il tesoriere e gli altri ministri patrimoniali del regno ed in pari
tempo d’assumere informazioni sulle accuse che vengono mosse a Vico
«extrajudicialmente», «en el secreto y decoro que se deve a tal persona»[99].
L’attacco del
giudice Corts non è l’unico che il regente
sardo deve subire in quei giorni. Scendono in campo anche i consellers della città di Cagliari per
chiedere al viceré che Vico si astenga finalmente dall’esercitare la funzione di regente
la cancillería, dato che è spirato l’anno del suo mandato. A quel punto uno
scatto d’orgoglio spinge don Francisco a far valere davanti alla Audiencia il provvedimento di proroga
emanato da Madrid. Il viceré è costretto ad interpellare in proposito il
Consiglio d’Aragona che in una consulta
del 11 gennaio 1637 dichiara in forma sibillina che «Su Magestad tiene en esto
tomada resolución»[100];
ma nel frattempo invita Vico a tornare a corte «a servir su plaza»[101].
Il passo dei
giurati cagliaritani presso il viceré segue di poco l’iniziativa d’inviare a
Madrid il conseller en cap Francisco de Ravaneda per tutelare gli
interessi della città conculcati da Vico[102].
Ormai il conflitto fra Sassari, la città del regente, e Cagliari, la cabeza
del regno, ha raggiunto livelli che mai si erano toccati in precedenza. Appena
Sassari ha notizia della missione a corte di Ravaneda, nomina a sua volta un
proprio síndico, il dottor Antonio
Nuseo, allo scopo di neutralizzare l’azione dei cagliaritani e di rivendicare a
Madrid una serie di privilegi e di reparos
amministrativi a vantaggio della città[103].
La missione di Nuseo, vicario generale della Chiesa turritana, è avallata da un
giudice Azcón sempre più preoccupato della piega che hanno preso i contrasti
municipalistici. Azcón consiglia Madrid d’impedire interferenze di lobbies
locali e di ministri reali nella causa romana sul primato ecclesiastico, onde
evitare «infinitas parcialidades que son peores que las de Nyerros y Cadeles»[104].
I dissidi sardi non sono paragonabili, se non con una evidente iperbole, alle
vicende catalane del primo Seicento, quando le bande dei nyerros e dei cadells,
divise da insanabili lotte di fazione, si combattevano senza tregua in molti
luoghi della Catalogna[105].
Tuttavia alcuni fatti clamorosi che si verificano fra Cagliari e Sassari in
quel periodo denotano che la disputa è ormai degenerata fino a configurarsi
veramente come una guerra fra bandos.
Per i
cagliaritani lo schieramento sassarese ha la punta di diamante nel regente del Supremo d’Aragona.
Neutralizzare ad ogni costo lo strapotere di Vico è indispensabile per
ripristinare un rapporto politico equilibrato nel regno e a corte. Col nuovo memorial presentato da Ravaneda i
cagliaritani puntano dunque a rimuovere il ministro sassarese[106].
L’accusa più bruciante per il regente,
anche perché largamente infondata, è quella d’aver violato l’obbligo di lealtà
verso il sovrano. Più volte Vico sarebbe venuto meno al dovere fondamentale per
un regente natural di una provincia della Monarchia. È stato sleale una prima
volta quando, incaricato di vendere in Sardegna encontradas, villas e lugares appartenenti al patrimonio
reale, ha svalutato la encontrada di
Parte Ocier Real per acquistarla in proprio per circa la metà del giusto
prezzo; lo è stato una seconda volta, quando ha affermato che copriva la regencia del Consiglio supremo senza
emolumenti ed invece otteneva ayudas de
costa a Madrid ed incassava in Sardegna il salario del regno tramite il suo procuratore, il dottor Domingo
Brunengo; una terza volta sleale è stato quando ha dichiarato d’aver comprato a
proprie spese il grano da inviare in Catalogna sapendo di mentire perché il
grano lo ha avuto in prestito dai mercanti Nater, Martín, Ordà e Malonda a cui
lo va pagando dai fondi del donativo
annuale del regno.
È solo un
primo assaggio della miriade di accuse, fondate e no, dei cagliaritani.
Ravaneda imputa a Vico anche l’appropriazione indebita di beni contesi in cause
legali da lui giudicate nella Audiencia;
la concessione in cambio di denaro di favori e di titoli a persone indegne; la
concussione di alcuni sardi che postulavano pubblici oficios e di altri che intrattenevano rapporti economici con la
Corona. In particolare gli viene rimproverato d’aver ricavato un utile
personale dalle varie operazioni di arrendamiento
dei beni patrimoniali della Corona e d’aver avuto una «participación»
nell’affitto delle tonnare e nelle
molte sacas di grano al tempo del
viceré Vivas. Solo dal mercante Antonio Polero ha riscosso ben diecimila ducados. Ricalcando
poi le accuse del giudice Corts, Ravaneda soggiunge che «es tan público y
notorio que han visto y leído en las cuentas de los administradores assentados
las partidas que cada uno le dava por su participación, y es fuerça que de
estas negociaciones haya hecho la hazienda tan grande que tiene, aver
sustentado su casa con tanto luzimiento, aver dado excessivas dotes a sus hijos
y nietas, aver cargado muchos censos, y tener mucho dinero de contado, pues de
sus Padres no ha tenido hazienda alguna por ser muy pobres». Ma la responsabilità
più grave per i cagliaritani è quella d’aver fomentato le “inquietudes” e le
“parcialidades” che dilaniano la società sarda. I “bandos” e le “enemistades”
esistenti fra cagliaritani e sassaresi sono il risultato delle sue trame per
mantenere un’assoluta preminenza sui gruppi di potere che operano nelle città
sarde e all’interno delle istituzioni del regno. Il
regente è ormai sottoposto ad un
attacco concentrico degli avversari che di continuo vogliono metterne in
discussione l’egemonia politica: «en la Audiencia no sólo hay conformidad, pero
bandos y enquentros, formados pues en el pleyto de la Primacía de las Iglesias
de Sáçer y Cáller en las provisiones
que se haçen por la Real Audiencia con el Arçobispo de Sáçer excluyen al
Regente porque es desta Ciudad de Sáçer, y él se lo permite pudiéndolo
resistir, en que le culpan pareçe que devía remediarlo, pero los demás Juezes
se oponen contra dél por ser opuestos a él y lo más de la Ciudad y Cabo de
Cáller; sin estos enquentros hay otros bandos entre ellos que no tocan a los
que tan publicados están con el dr. Corts sino de otra especie, y más modernos,
que miran al fraude que se haçe a la hacienda real, a lo menos ellos entre sí
unos contra otros assí lo publican»[107].
L’animosità
dei cagliaritani si carica di nuove motivazioni proprio agli inizi del 1637
quando viene diffusa la notizia della
prossima pubblicazione della Historia
general de la Isla y Reyno de Sardeña. Si tratta, dicono gli informatori
occulti, di un libro di storia dai contenuti ferocemente anticagliaritani
firmato da Vico. Subito viene posta in essere una campagna di stampa
diffamatoria nei confronti dell’autore e vengono invocati a corte provvedimenti
di censura preventiva dell’opera in corso di stampa presso un tipografo
barcellonese. Il libro di un seminatore di zizzania come Vico deve essere, per
Ravaneda, sequestrato e purgato e la condotta del suo autore censurata in
Consiglio d’Aragona. Tutta la polemica trae origine dalla contesa sul primato
ecclesiastico che si combatte senza esclusione di colpi a Roma, a Madrid e in
ogni sede civile e religiosa della Sardegna. È appena il caso di dire che la
questione non è circoscritta a problemi relativi all’ordinamento ecclesiale ma
investe interessi politici più generali. Vico è accusato d’aver scritto «una
obra contra la Ciudad de Cáller», concertata col gesuita Jaime (o Diego) Pinto,
«su amigo intrínseco», professore di Sacra Scrittura nell'università di
Sassari. Nell’opera Christus crucifixus,
pubblicata a Lione fra il 1624 e il 1644, Pinto aveva affrontato
incidentalmente il tema del primato ecclesiastico di Sardegna, esaltando i
martiri turritani e le antichità della sua città d'origine, ed aveva fatto
riferimento ad un libro di Vico che circolava evidentemente in una versione
manoscritta. Questo basta ai cagliaritani per contrapporre alla storia di Vico
un libro dal titolo Triunfo de los Santos
de Cerdeña in cui il dottor Dionisio Bonfant, membro del Consiglio generale
di Cagliari, esalta i santi cagliaritani[108].
La polemica a mezzo stampa non si ferma qui. Dopo
le iniziative cagliaritane, «luego se ha sentido Sásser - scrive Ravaneda nel
suo memorial - y ha hecho sátiras
contra Cáller, y visto esto Cáller ha hecho otras contra Sásser, de que ha
crecido esta enemistad, y ha sido de manera que el Virrey y Real Audiencia con
pregones han puesto penas contra lo que han intentado y intentan las sátiras»[109].
Come era avvenuto in occasione del caso Corts, di fronte
alle denunce del memorial Ravaneda il
Consiglio Supremo d’Aragona adotta tutta la prudenza che un caso così delicato
raccomanda. A luglio il giudice Fernando Azcón è incaricato d’indagare in via
informale e riservata riguardo alle accuse mosse a Vico[110].
L’accertamento della verità è tutt’altro che facile perché tutte le persone
interrogate - ministri reali, mercanti, ufficiali ed amministratori pubblici
– non sono in grado di confermare le
accuse o scagionano Vico senza tentennamenti[111].
L’inquirente si trova di fronte anche a clamorosi silenzi, ad atteggiamenti
omertosi che probabilmente sono conseguenza di intimidazioni a cui le carte
dell’inchiesta fanno appena cenno. Il fatto è che persino Francisco Corts,
l’antico accusatore che ha fiancheggiato i giurati municipali di Cagliari,
risulta essere alla fine un testimone reticente[112].
Gli unici cargos, tutti di poco
conto, che si possono muovere con
qualche fondamento all’inquisito sono la trattativa per l’acquisto di un censo gravante sul real patrimonio e la
protezione accordata al tesoriere Basteliga, il quale ha compiuto per suo conto
transazioni commerciali (come l’acquisto diretto di crediti pubblici) in danno
della hazienda real[113].
Quando Vico comunica a Madrid la sua intenzione
di rimanere ancora in Sardegna nell’isola il clima politico non è destinato di
certo a rasserenarsi. A restare lo costringe la morte del figlio Diego che ha
lasciato alle sue cure un nipote di appena diciotto mesi. Gli impediscono
d’allontanarsi dall’isola anche altre ragioni, non ultima l’impossibilità di
riscuotere il salario di regente. Ma in realtà Vico non vuole
andare via perché intende neutralizzare le accuse dei cagliaritani e, nei
limiti del possibile, controllare l’inchiesta a suo carico. Quando Madrid gli
rinnova perentoriamente l’invito a tornare a corte, Vico deve chinare il capo,
«con lo que – scrive in tono polemico – quedarán gustosos los que dessean gozar
de sus libertades»[114].
È a quel momento che lo scontro politico si
sposta dalla Sardegna sulla penisola iberica[115].
I consellers di Cagliari tentano
d’impedire che l’accusato rientri a corte e rinnovano l’istanza di residenza
coatta fuori della capitale. Temono, i cagliaritani,
che egli possa condizionare l’inchiesta e effettuare ritorsioni contro la
città: «sabiendo que está governando en el Supremo – sostengono - nadie querrá
aquí testificar ni dar cosa contra dél […] porque nos han certificado se va tan
enconado contra esta Ciudad y los della que les hará todos los tiros que podrá»[116]. Ma
Vico non è soggetto a visita, come
pensano i cagliaritani. L’inchiesta informale di Azcón è ormai conclusa, per
cui il regente può riprendere il suo
posto in Consiglio: «no parece – recita la consulta
del Consiglio - que de lo verificado hasta aora se colija culpa en el Regente
que vaste a poner nota en su persona visitándole publicamente y impidiéndole el
entrar en la corte a servir su plaça pues no halla el Consejo tales fundamentos
que vasten a condenarle»[117].
Ma i cagliaritani sono tenaci e presentano nuovi cargos, su cui il Consiglio ritiene opportuno fare chiarezza. Vico
e suo figlio Pedro sarebbero gli autori di abusi edilizi nel castello di
Cagliari a danno del palazzo reale, della sicurezza militare della mura
cittadine e di un monastero delle monache di S. Lucia. Il viceré di Sardegna è
incaricato di verificare se la costruzione del palazzo di Vico pregiudichi la
difesa della città ed il regente
Azcón, «extrajudicialmente y con secreto», viene di nuovo investito
dell’inchiesta[118].
A quel punto il Consiglio d’Aragona sarebbe
tenuto a riconsiderare l’istanza dei cagliaritani e comminare a Vico la
residenza coatta fuori Madrid. Ma l’allontanamento dalla corte sarebbe una
misura umiliante per un ministro del re, tanto che i consiglieri d’Aragona
pensano di simulare una missione del loro collega ad Alicante per “visitare”
gli ufficiali reali deputati alla vigilanza delle coste[119].
È una soluzione comunque inaccettabile per Vico, il quale chiede la revoca
della delibera segnalando orgogliosamente i suoi meriti e ad un tempo
denunciando i demeriti degli avversari (primo fra tutti di Ravaneda, che nella
sua qualità di veguer di Cagliari era
stato punito per abusi amministrativi proprio dal regente). Sostiene Vico che durante la recente missione in Sardegna
gli ostacoli frapposti dalle reti di potere cagliaritane erano stati
innumerevoli e continui. Le conventicole locali avevano mirato soltanto a
screditarlo e a farlo allontanare dall’isola per non sottostare alla giusta
preminenza reale e riacquistare libertà d’azione. Giudica poi pretestuosa
l’istanza d’allontanamento dalla corte durante la nuova inchiesta di Azcón a
suo carico: l’indagine ha luogo in Sardegna e non a Madrid, dove non esiste
alcuna possibilità d’alterare le prove. L’età avanzata, le spese ingenti e le
scomodità che i recenti viaggi hanno comportato non gli permettono – sostiene -
d’affrontare nuove fatiche, se non a rischio della vita[120].
Quando Vico sembra disposto ad accettare il compromesso di risiedere nei
dintorni di Madrid, a Vallecas o a Valdemoro, ottiene la revoca temporanea del
divieto d’entrare a corte[121].
Sono momenti di grande amarezza quelli vissuti
alla fine del 1637. Ma sono largamente compensati dai sensibili avanzamenti
della sua casata nella società privilegiata. Dopo l’invasione francese
d’Oristano del 1637, un’occasione sapientemente sfruttata per strappare mercedes a vantaggio delle élites locali[122],
viene “supplicato” un titolo di conte per il giovane nipote, su cui Vico
esercita la patria potestà dopo la morte del figlio Diego e la rottura con la
nuora Catalina Çetrillas risposatasi con don Francisco Sanjust[123].
Negli stessi giorni, quando viene ravvisata l’urgenza d’effettuare a Cagliari,
Castel Aragonés ed Alghero nuove opere di fortificazione, che avrebbero
comportato costi ingenti e quindi nuove dismissioni di beni del patrimonio
reale, don Francisco si dichiara disponibile ad anticipare la somma necessaria
(8.000 escudos) in cambio della
cessione con patto di riscatto del feudo di Soleminis e della relativa carta de gracia[124].
Il riscatto non verrà mai esercitato della Corona, così che Vico può accrescere
il suo patrimonio ed acquisire il titolo di marchese di Soleminis. Finalmente
il regente corona il sogno d’entrare
a pieno titolo nella élite della nobiltà di Sardegna.
Anche l’orizzonte
politico madrileno pare rischiararsi nei primi mesi del 1638. Da Cagliari
giungono buone notizie sugli sviluppi dell’inchiesta a suo carico. La
maggioranza della giunta municipale si dichiara contraria a continuare l’azione
legale contro Vico dopo aver constatato che ben sedici capítulos dell’atto d’accusa non risultano lesivi degli interessi
collettivi della città e che l’inchiesta Azcón ha ridimensionato tutti i cargos, fino a negare ogni
responsabilità dell’accusato[125].
Poco dopo una consulta del Supremo
d’Aragona chiude definitivamente il caso: non esistono prove a carico del regente, il quale non ha «faltado en
ningún tiempo a las obligaciones de buen ministro». Vico viene scagionato e
reintegrato nella sua plaza, mentre
il síndico Ravaneda è condannato alla
confisca dei duemila ducados di
cauzione[126].
Don Francisco ha appena il tempo d’assaporare
la vittoria che il conflitto con i cagliaritani si riaccende con grande vigore.
Oggetto del contendere è ancora la sua Historia general de la Isla y Reyno de
Sardeña. Francisco de Ravaneda ne aveva chiesto il sequestro al Consiglio
d’Aragona perché nel libro, «compuesto por el Regente don Francisco de Vico de
historia de aquel Reyno», «hay muchas cosas que saliendo a luz el dicho libro
serán de muy grande ocasión para renovar los dichos encuentros y
parcialidades». Il Consiglio, sempre più preoccupato della frattura politica in
atto fra le due città sarde ma anche propenso a non urtare la suscettibilità
del suo regente («podría ser que el
dicho Regente las haya escrito por relación de papeles de algunos que en esta
parte no tienen buena intención»), dispone che il viceré di Catalogna faccia
sospendere a Barcellona la stampa del libro e gli rimetta il manoscritto per
sottoporlo al vaglio di esperti[127].
Il tentativo d’interdizione dei cagliaritani ha poco successo perché il libro
di Vico, sottoposto al benevolo controllo del Consiglio di Stato, vede la luce
l’anno dopo.
Il tentativo d’impedire la pubblicazione del
libro di storia s’inquadra nell’interminabile contesa delle due comunità urbane
per affermare il proprio primato. Un anno prima erano stati i sassaresi a
chiedere al Consiglio d’Aragona, tramite il loro síndico Nuseo, la revoca di un provvedimento della Audiencia di Sardegna che imponeva la
censura preventiva degli stampati della tipografia di Sassari. Nella capitale
era diffuso il convincimento che dai torchi della tipografia degli Scano
Castelví uscissero i libelli anonimi anticagliaritani diffusi in tutta l’isola
e nelle corti di Roma e di Madrid. Ai sassaresi, invece, quella decisione dei
giudici della Audiencia, ritenuti
filocagliaritani, sembrava rivolta al controllo ideologico della loro
produzione culturale. Nel memorial di Nuseo lamentano che la lesione delle leggi, dei
privilegi e delle tradizioni culturali della città di Sassari, «donde por
residir el Arçobispo, el Tribunal del Santo Officio, el Governador, sus
Asesores y un pro-abogado, y la primera y más antigua Universidad del Reyno
instituída y fundada con Autoridad Apostólica y Real, y de muchos conbentos y
colegios de Religiosos y Seminarios de Seglares, en la qual Universidad se leen
todas facultades y reciben grados exercitándose en ella continuas conclusiones
y actos literarios por lo qual llega a ser dél inconveniente y desautoridad que
se dexa considerar, y más comunmente se viene a faltar en la particularidad que
los dichos actos literarios requieren, pues para qualquier dellos que se haya de imprimir es forçoso
que primero se represente a la dicha Audiencia distando quatro jornadas de la
dicha Ciudad de Sáçer, de manera que se toma por mejor partido remitir fuera
del Reyno lo que se ofreçe imprimir (como oy se haze) por ser más breve camino
aunque siempre difícil a los Religiosos y estudiantes pobres»[128]. A
Madrid vengono prontamente accolte le ragioni di Sassari, sempre più impegnata,
dopo il recente riconoscimento regio delle due università, a contrastare la
città rivale anche sul terreno del primato culturale[129].
Non esistono prove documentarie di un
coinvolgimento di Vico nella soluzione della vicenda. Ma il suo spiccato
interesse per l’editoria come mezzo di comunicazione e di propaganda, l’antico
sodalizio con la famiglia Scano Castelví proprietaria della tipografia[130]
e gli stretti rapporti con i padri gesuiti che operano nell’università di
Sassari[131]
fanno pensare che Vico abbia speso più d’una parola presso il Consiglio, come è
del resto sua abitudine in tutte le circostanze in cui sono in giuoco gli
interessi della sua città.
Per questo Vico resta un nemico giurato per i
cagliaritani, palese o occulto che sia il suo operato. Ne è consapevole il
Consiglio d’Aragona che si preoccupa d’attenuare le divisioni interne dei sardi
in un difficile momento politico in cui sarebbero indispensabili la compattezza
interna e la solidarietà interprovinciale dei regni rimasti fedeli alla
Monarchia. Non è un caso che nel 1640 quando il viceré Doria Landi, principe di
Melfi, nell’imminenza delle nuove cortes
del regno, prospetta la possibilità d’avere con sé Vico durante i lavori
parlamentari, il Consiglio si esprima negativamente, «por ocasión de los pocos
affectos que [il regente] tiene en el
Cabo de Cáller por ser él del de Sácer»[132].
In quella travagliata fase politica il Consiglio vuole mantenere una
sostanziale equidistanza fra Sassari e Cagliari per favorire risposte unitarie
del regno. Così in quei giorni il regente
è indotto ad assumere una posizione defilata negli affari sardi.
Ma tutti gli accorgimenti per appianare le
asprezze fra i sardi sono destinati all’insuccesso. La morte del principe Doria
porta il governatore di Cagliari don Diego de Aragall ad assumere il governo
interinale del regno e così anche Cagliari pare aver trovato finalmente il suo
campione nella contesa stracittadina. Quando Madrid sollecita la rimessa di
100.000 quarteras di grano e foraggi
per l’esercito del principato di Catalogna Aragall tenta di traccheggiare,
spalleggiato dalle prime tre “voci” degli “stamenti” espresse dal partito
cagliaritano. Data la gravità degli avvenimenti catalani, i malumori in
Consiglio sono fortissimi e nel giro di pochi giorni varie consultas che si succedono freneticamente stabiliscono d’esautorare
Aragall e le tre “voci” degli “stamenti” e d’affidare al regente Azcón il compito di reperire con urgenza denari e grano da
inviare in Catalogna[133].
Nelle sbrigative consultas di quel
1640 la firma di Francisco Vico, che è il regente
refendario, segue quella del vicecancelliere d’Aragona.
Non meno sgradita a Madrid era risultata
l’iniziativa di Aragall d’esasperare il dissidio fra Cagliari e Sassari. Il
caso politico suscitato dalla storia di Sardegna di Vico e il continuo
stillicidio di memoriales a stampa, sátiras e libelli clandestini avevano
avvelenato irreparabilmente il clima politico. Nel 1640, venuta a mancare
l’equilibrata mediazione del viceré principe di Melfi, le posizioni si erano
ulteriormente radicalizzate. La guerra delle reliquie e la difesa della santità
dei rispettivi martiri andava evolvendosi verso posizioni sempre più accese e
la questione del primato, alimentata da ecclesiastici e laici delle due città,
minacciava di degenerare da polemica dotta e curiale in questione d’ordine
pubblico. Quando l’Inquisizione sarda aveva vietato la pubblicazione del libro Defensio Sanctitatis Beati Luciferi
scritto dall’arcivescovo di Cagliari Ambrosio Machín, algherese e quindi
tradizionale alleato dei cagliaritani contro la causa sassarese, un vero e
proprio moto d’indignazione era corso nella società cagliaritana e aveva
portato alla caccia di un qualche capro espiatorio. La pubblicazione
clandestina di «pasquines, sátiras y tratados infamatorios» contro Cagliari e
la santità del suo patrono San Lucifero aveva fatto piovere sul bagnato. L’ira
dei cagliaritani si era appuntata su alcuni sassaresi che risiedevano a
Cagliari, il noto tesoriere reale Ornano de Basteliga e i fratelli Díaz, l’uno
canonico della cattedrale e consultore del Santo
Oficio e l’altro abogado fiscal delle reales visitas. I tre, come sodali di
Vico, erano stati ritenuti gli ispiratori della censura inquisitoriale e i
responsabili della campagna denigratoria nei confronti dei santi martiri
cagliaritani. Col pretesto d’evitare più gravi “inquietudes” popolari, Ornano
era stato espulso dal regno e i Díaz erano stati allontanati da Cagliari e
confinati nel villaggio di Mandas. Il provvedimento, sollecitato da nobili,
ecclesiastici e amministratori della città, era stato assunto da Aragall col
consenso dei giudici della Audiencia
e dei principali ministri reali[134].
La cacciata del tesoriere reale e il sequestro delle sue carte riservate
avevano comportato la brusca interruzione della gestione del real patrimonio e
la regolarità delle rimesse di denaro per l’esercito di stanza in Catalogna. In
tempi di grandi ambasce finanziarie e di bisogni mai appagati di grano e di
foraggi per la Catalogna la decapitazione dell’ufficio di tesoreria è una
iattura intollerabile[135].
Nella consulta dedicata ai torbidi
cagliaritani i relatori Vico e Magarola si pronunciano con accenti di forte riprovazione
per l’operato dei responsabili del governo locale[136].
Per ripristinare rapporti meno risentiti fra
Madrid e Cagliari giunge proprizia, nell’imminenza della convocazione delle cortes, la nomina a viceré del duca
d’Avellano Fabrizio Doria. Invece è tutt’altro che facile sedare le animosità
interne agli “stamenti” e sanare la frattura fra le due municipalità. Doria
deve fare i conti col rifiuto dei sassaresi di celebrare le cortes a Cagliari. Dopo la cacciata
dalla capitale del tesoriere Basteliga e dei fratelli Díaz i sassaresi
ritengono opportuno trasferire la sede del parlamento ad Oristano. Già nel 1636
era stata avanzata un’analoga richiesta dai vescovi di Ampurias, Bosa e Sassari
quando la “guerra dei santi” era degenerata nella rimozione dalle chiese
cagliaritane delle effigi dei martiri turritani. Allora i tre prelati avevano
ritenuto che Oristano fosse la sede più adatta per riunire le cortes per la posizione geografica
baricentrica («está situada en el riñón del Reyno») e per la sua neutralità
nella diatriba municipalistica[137].
La richiesta – sia nel 1636 che nel 1642 - è un puro pretesto per squalificare
Cagliari: non è un caso che il Consiglio d’Aragona (a firmare la consulta è il solito Vico) la dichiari
fondata sul piano giuridico: «está a arbitrio de Vuestra Magestad la elección
del lugar para la convocación del Parlamento en Cerdeña conforme los Capítulos
de Corte de aquel Reyno»[138].
Il trasferimento ad Oristano delle cortes mira anche a consegnare la
gestione del parlamento all’astuto figlio del regente, l’arcivescovo don Pedro Vico, il quale comincia a
manifestare la volontà di proporsi come arbitro della dinamiche politiche sarde
nel rapporto fra centro e periferia. Inoltre all’ambizioso prelato in quel
momento brucia ancora la mancata designazione di un natural sardo (cioè la sua) a sostituire nella sede arcivescovile
di Cagliari il defunto Ambrosio Machín. Il viceré, che è alla ricerca di solide
alleanze parlamentari, si fa interprete presso la corte della “delusione” dei
sardi per la mancata promozione di Pedro Vico e propone una sorta di
risarcimento con una dignità vacante in un altro regno, «tanto por sus partes –
afferma - como por los servicios de su padre»[139].
Ma il favore accordato ai Vico non fa deflettere il viceré Doria dall’abituale
linea di “prudenza” politica consigliata da Madrid, così che la scelta della
sede parlamentare cadrà ancora sulla capitale di fatto del regno.
Il parlamento Doria si conclude positivamente per la
Corona. Il regno concede l’intera somma del servicio
di 70.000 escudos rinunciando alla
consuetudine di far gravare sul donativo
il diritto dei laborantes.
Indubbiamente per il viceré è un successo politico, condiviso col regente sardo che da Madrid ha tenuto i
fili della contrattazione parlamentare contemperando accortamente le necessità
finanziarie della Monarchia con le aspettative di mercedes dei parlamentari sardi[140].
Chiuso il parlamento, la volontà di rivalsa dei
cagliaritani riprende vigore. Sono quelli i giorni in cui si consuma la caduta
del conte-duca di Olivares e che segnano ineluttabilmente anche il principio
del declino delle fortune politiche di Vico. Ha accumulato molte inimicizie, il
letrado sassarese, e non solo nel
consiglio municipale di Cagliari: nella Audiencia
sarda gli sono ostili quasi tutti, i giudici Dexart e Canales specialmente;
nella capitale del regno, i ministri reali e i principali esponenti dello
“stamento” militare ed ecclesiastico sono schierati sulle posizioni dei
cagliaritani. È un fronte che può vantare una compattezza tale da legittimare
la missione a corte del síndico
Salvador Martín per conto del Consiglio municipale di Cagliari. Nel momento
della caduta di Olivares e del conseguente allontanamento del protonotario
d’Aragona anche la posizione del regente
sardo necessariamente si fa più debole[141].
Nelle istruzioni segrete a Martín emerge chiaramente la volontà di sollecitare
presso il successore del conte-duca don Luis de Haro una certa restaurazione
politica anche nel regno di Sardegna. Come abbiamo detto più volte, la corte
aveva assunto sempre una formale posizione di neutralità di fronte ai conflitti
sardi, anche se don Jerónimo de Villanueva aveva tenuto in particolare
considerazione il ruolo istituzionale del regente
sardo, così da far pendere di fatto la bilancia a favore dei sodali di
Vico. Nel 1643 i cagliaritani ritengono che don Francisco sia ormai privo di
protezioni a Madrid e che anche lui, sgradito ai sardi come Villanueva lo era
ai catalani, possa essere allontanato dal Consiglio d’Aragona.
È per questo che prospettano al sovrano la soluzione più
drastica, la “jubilación” del regente
sardo. Vico era stato ricusato per aver votato e firmato provvedimenti contrari
agli interessi di Cagliari. In pratica, per il Consiglio civico egli non
rappresentava più nel Supremo d’Aragona la provincia che lo aveva espresso,
dopo che aveva perpetrato a più riprese “persecuciones” contro i cagliaritani
«procurando visitarles a los unos y a los otros, buscandoles modo para para
inquietarlos». Nell’esercizio del patronazgo,
sempre squilibrato a favore dei sassaresi, era stato particolarmente fazioso
perché aveva pensato soltanto a rafforzare politicamente la sua rete di potere
e a consolidare le proprie sostanze economiche e quelle dei suoi clienti.
Esemplare era stato il favore accordato ai nobili Manca, che all’ombra di Vico
avevano fatto man bassa di plazas
ecclesiastiche e civili e si erano arricchiti col commercio clandestino del
grano in danno della hacienda reale[142].
Questo dicono le
istruzioni segrete al síndico Martín,
che trovano poi una più compiuta articolazione nel memorial presentato a corte nel 1644. Negli anni della regencia di Vico sono molte le occasioni
in cui i cagliaritani hanno dimostrato la loro innata fidelidad al re:
lo hanno fatto - sostiene il memorial - nei parlamenti con molti e
costosi servicios ed in tutte le
altre circostanze in cui la Monarchia li ha messi alla prova, specialmente in
occasione della Unión de armas.
Invece delle ricompense sperate e per qualche verso dovute, avevano dovuto
sperimentare l’ostracismo e l’ostilità di Vico. Il regente, che a suo tempo era stato prescelto dal regno con un
consenso generale, si era ridotto a difendere soltanto gli interessi di Sassari
contro quelli di Cagliari, fomentando «disensiones y encuentros, dividiendoles
en dos vandos y parcialidades»[143].
Sono molte - secondo il memorial
– le dimostrazioni di faziosità del regente
sassarese. La prima è la pubblicazione di libri di storia e di carte
geografiche che sottraggono a Cagliari «las honras y antigüedades que los
historiadores antiguos y modernos le han dado, aplicándolas a la ciudad de
Sásser su patria»[144];
la seconda, l’aver fomentato nel 1638 il dissidio fra gli arcivescovi delle due
città riguardo al primato delegittimando, fra l’altro, alcuni provvedimenti
della Audiencia sarda favorevoli alla
causa di Cagliari; ancora, l’aver promosso da Madrid - assieme alla sua
conventicola filosassarese formata dal padre Pinto, da fra Alonso Serrano e dal
dottor Julián Usena – il provvedimento di censura dell’Inquisizione sarda nei
confronti dei libri di Dionisio Bonfant e di Ambrosio Machín sulla difesa del
primato ecclesiastico e sulla santità di San Lucifero. Tutto
questo Vico lo ha fatto per sostenere la sua città e favorire le sue clientele
personali a danno dei cagliaritani: «aviendo experimentado en estas últimas
Cortes – sostiene Martín – las vacantes de Prelaturas, pensiones, y otras
mercedes, ha tenido maña el dicho Regente para que los hijos de la ciudad de
Cáller no participassen en ellas, aviéndose dado a sujetos de Sassar, y las más
a personas deudas suyas». È per questo che Vico «está recusado para no poder
intervenir casi en todos los negocios de gracia y de justicia de nos naturales
del Reyno: y en particular en los de la dicha Ciudad». Bisogna procedere alla
sua «jubilación», dunque, anche perché «es de edad de más de ochenta años»[145].
Il memoriale Martín si differenzia dai precedenti tentativi
di screditare Vico a corte. Stavolta i cagliaritani rinunciano ad avanzare cargos sulle presunte pratiche illegali
del regente per arricchirsi e promuovere socialmente la sua famiglia;
puntano invece sulle roventi polemiche in atto sul primato religioso e sulla
ricostruzione della storia dell’isola fatta da don Francisco. Dopo Machín e
Bonfant scende in campo anche il padre Salvador Vidal, un polemista di
prim’ordine che con una serie di debordanti pamplets
confuta la versione della storia sarda data nella Historia general. Vico replica con altrettanta vis polemica,
alimentando un confronto pretenziosamente dotto ma caratterizzato specialmente
per una ridondante cifra espositiva, tipica dell’erudizione secentesca. Il
dibattito è meritevole d’attenzione non tanto per i suoi contenuti
storiografici di poca consistenza, quanto per i valori ideologici che
supportano tanto impegno intellettuale.
Il memorial della
città di Cagliari è anche un piccolo condensato delle pletoriche disquisizioni
storico-religiose già abbondantemente enunciate a Roma e riproposte ora a Madrid
nell’intento d’imprimere una connotazione più marcatamente politica
all’offensiva contro il regente. La
rimozione di Vico avrebbe comportato un riequilibrio delle forze e forse
avrebbe fatto pendere definitivamente la bilancia a favore di Cagliari. Consapevole
che i ceti dirigenti cagliaritani vogliono giungere ad una resa dei conti per
impedirgli di mantenere la rappresentanza del regno, Vico replica con una
memoria di grande acutezza ed efficacia dialettica. Contesta che i cabos a lui imputati, «injuriosos y sin
más probança que su arbitrio», siano mirati semplicemente a tutelare Cagliari:
sono, piuttosto, una prova dell’avversione di una fazione “particular”, che
agisce per fini personali, con l’unico intento di presentarlo «como enemigo de
mi Reyno y Provincia»[146].
Si tratta, insomma, non di un legittimo confronto politico fra città ma di una
lotta di fazione, come provano i torbidi cagliaritani del 1641. Col pretesto di
un risentimento popolare contro i “nemici” sassaresi residenti a Cagliari, il
governatore Aragall e la sua conventicola avevano espulso dal regno Ornano de
Basteliga e i fratelli Díaz per impadronirsi illegalmente della corrispondenza
del tesoriere al fine – sostiene Vico – d’accreditare la tesi del complotto
orchestrato a Madrid contro Cagliari. L’animosità localistica del “partito”
cagliaritano non appartiene a lui che nel suo libro di storia (suo e non di
altri, come insinuano slealmente gli autori del memorial) ha dato a Cagliari ciò che è di Cagliari, senza
esaltazioni e senza detrazioni. «Nada puede desear Cáller con verdad en su
beneficio que no le dé mi historia», sostiene sottilmente Vico, rivendicando
una probità storiografica fondata su fonti letterarie e documentarie a lungo studiate e ricercate negli archivi.
Non a caso la sua opera ha avuto l’autorevole avallo scientifico di «algunos
peritos en historia» e l’assenso dei consiglieri d’Aragona e di Castiglia. Vico
giuoca, dunque, la sua partita difensiva sulla distinzione fra la legittima
difesa della “patria” sassarese, sostenuta con gli argomenti etici della
tradizione e della storia, e gli arbitrari comportamenti di camarillas cagliaritane che perseguono
solo interessi personalistici avulsi da qualunque valore ideale che si richiami
alla comunità cittadina.
È difficile dire quale
apprezzamento siffatte argomentazioni riscuotano a corte. In ogni caso il
Consiglio d’Aragona, sempre orientato verso la prudenza politica e il
formalismo legale, invita Martín a formulare accuse più concrete e probanti. Ma il síndico cagliaritano non ha
altri elementi da fornire e con un secondo memorial
ribadisce genericamente che «en 18 años que está [Vico] en este Consejo lo que
ha experimentado [Cagliari] es haverle perseguido y por éste se le ha admitido
la dicha recusación, y oy es fundamento bastante para la dicha jubilación». Nuove prove non vi
sono, se non le vaghe notizie che giungono da Saragozza sulla pubblicazione di
un nuovo libro di Vico, «una apologia muy perjudicial a la paz y quietud
publica» e la conferma che gli “stamenti” si sono rifiutati ancora una volta di
pagare il salario del regente. È la dimostrazione, per Martín,
che il parlamento ritiene inaccettabile la presenza di Vico in Consiglio
d’Aragona e che la rottura dell’antico accordo parlamentare fra Corona e regno
di Sardegna sul pagamento del salario
pone un problema politico prima che finanziario. La questione può risolversi
soltanto con la rimozione di «un enemigo capital como es el dicho Regente»:
Cagliari è convinta d’avere ampiamente meritato una tale merced dal suo re[147].
I toni accesi e
risoluti degli accusatori poco si conciliano con i formalismi del Consiglio
della Monarchia. Una volta di più le accuse dei cagliaritani sono ritenute
inconsistenti, anche se un’accorta apertura politica verso i cagliaritani porta
il Supremo d’Aragona ad auspicare che il sovrano ordini a don Francisco «que no
scriba libros que puedan mover los ánimos de los de la Ciudad de Cáller, y si
alguno tuviere scrito que no lo saque a luz». Il Consiglio è in via di
rinnovamento nella sua composizione e sceglie opportunamente di dare un colpo
al cerchio ed uno alla botte. La consulta
raccomanda da un lato che la città di Cagliari non presenti in futuro lagnanze
senza il preventivo assenso del viceré di Sardegna; dall’altro impegna il Consiglio
a non gravare i cagliaritani di alcuna sanzione pecuniaria per la vertenza
appena conclusa; e conclude con la promessa di futuri onori e ricompense per
Cagliari e i suoi abitanti[148].
Sembrerebbe che il Supremo d’Aragona voglia porre la pietra tombale sulla lunga
diatriba.
Ma gli atteggiamenti di
equidistanza del Consiglio avevano finito per avvantaggiare soltanto il regente. L’opposizione cagliaritana ne è
consapevole e tenacemente persiste nella sua richiesta di “jubilación” che
ormai pare raccogliere sempre più consensi. A corte non v’è disponibilità ad
accollarsi i costi del salario del regente sardo e comincia a farsi strada
la convinzione che Vico sia un ostacolo alla possibile riconciliazione fra i
due cabos del regno e che sarebbe
opportuno estrometterlo dalla regencia[149].
La voce circola insistentemente nei primi mesi del 1645, tanto che lo stesso
Vico deve sollecitare un nuovo pronunciamento del Consiglio a tutela della sua
posizione[150]. A
luglio anche l’arcivescovo turritano e i consellers
della Città di Sassari intercedono a favore del loro concittadino[151].
Ma da tempo l’opposizione al regente va oltre la diatriba stracittadina per la difesa dei valori
religiosi e morali delle comunità. Ormai tocca nel vivo l’affermazione
egemonica delle oligarchie urbane, incide sulla distribuzione della ricchezza e
della gracia, riguarda la
ridefinizione delle dinamiche politiche basate sul patronazgo real. In buona sostanza sono in molti a ritenere che
urge ristabilire un’equità distributiva nelle relazioni fra la corte e la
provincia, non meno che negli equilibri interni ai ceti sociali del regno. In
una Monarchia che anche in periferia lascia intravvedere sempre di più i segni
della decadenza economica e delle disfunzioni amministrative le oligarchie
tradizionali hanno buone possibilità di riprendere il sopravvento. Dopo
l’uscita di scena del conte-duca pare che anche il suo fiduciario sardo abbia
fatto il suo tempo.
Non sarebbe più necessaria, insomma, la mediazione del regente nelle relazioni fra Madrid e la
Sardegna. Dopo lo scoppio dei conflitti con la Francia e dopo la dolorosa
secessione catalana quei rapporti si sono intensificati e vedono sempre più
spesso Madrid dialogare con la nobiltà provinciale attraverso il viceré di
turno. Dal suo canto la nobiltà sarda fa a gara per collaborare con la
Monarchia che combatte in Catalogna contro i catalani. Alcune casate, come i
Villasor e i Castelví, forniscono uomini ed armi e costruiscono proprio negli
anni quaranta quei rapporti privilegiati con la Corona che assicureranno loro
posizioni di primo piano nell’aristocrazia sarda[152].
Ma è evidente che la
Monarchia non può fare a meno del suo fedele intermediario quando non è alle
viste alcuna reale possibilità di ricambio. A Madrid il regente sardo gode ancora di notevole prestigio e nel 1646 il
Consiglio d’Aragona conta ancora sulla sua capacità ed esperienza per stabilire
nuove linee d’indirizzo per il governo della Sardegna. Il disastroso stato
economico dell’isola non consente più di fare fronte con le entrate del real
patrimonio neppure ai costi dell’amministrazione ordinaria e alle spese della
difesa militare. Una consulta
consiliare del luglio 1646 fa il punto sulle disastrose conseguenze del sistema
degli asientos stabilito fra il 1627
e il 1642. Le entrate del regno, derivate in gran parte dalle esportazioni di
grano, si erano assottigliate da quando il meccanismo perverso degli asientos aveva finito per avvantaggiare
solo i mercanti, i quali «havian procedido – dice la consulta - con fraude de los derechos reales». In attesa delle
conclusioni dell’inchiesta amministrativa del giudice della Audiencia sarda Jaime Mir su quella
fallimentare esperienza e di fronte alle continue richieste di soccorso dei
territori italiani, non rimane altro da fare che sospendere il pagamento delle
rendite e delle pensioni. Non resta che confidare
nella «Magestad divina» – è Vico ad affermarlo – e «reducida la Monarchía a la
paz y quietud que se dessea, se podrían pagar con comodidad todos estos
rédditos que sólo padecen suspensión y no pérdida de la paga». In pratica è
un’ammissione di bancarotta. Per fare fronte alle emergenze di cassa pare
opportuno concedere ai creditori sacas
di grano sotto forma di merced e
senza utili per il fisco ed effettuare in via prioritaria una saca annuale di 25.000 starelli a vantaggio della hazienda real. I calcoli dicono che si potrebbero ricavare ogni
anno 12.500 escudos, sufficienti alla
tesoreria reale per saldare i debiti contratti nell’arco di un decennio e per fare
fronte al pagamento delle rendite di juros
e censos. Sottratti i 25.000 starelli
destinati all’esportazione, il regno potrebbe contare su una produzione
granaria di altri 150.000 starelli[153].
I calcoli di Vico paiono ottimistici e le sue proposte sono forse un po’
campate in aria, come d’altronde lo sono in quel tempo i molti arbitrios dei politici impostati su
approssimative analisi economiche. Ma qui non mette conto di sottolineare la
fondatezza delle scelte di politica economica quanto d’osservare come Madrid
abbia ancora fiducia nel vecchio letrado
sassarese, che è giunto ormai alla veneranda età di 75 anni. Il Consiglio
d’Aragona gli riconosce una competenza senza eguali sui problemi amministrativi
del regno e gli attribuisce una credibilità politica negata invece ai suoi
avversari.
Ma le restrizioni delle esportazioni di grano suscitano le
immediate reazioni dei grandi esportatori. Le città e i nobili trovano nel
viceré Guillém de Moncada, giunto in Sardegna nel 1644, una sponda per
contrastare i provvedimenti del regente
sassarese. Il viceré ambisce a surrogare Vico nell’esercizio del patronazgo e ad ergersi a rappresentante
esclusivo della Monarchia in Sardegna. Appena insediato, il viceré duca di
Montalto si era impegnato freneticamente, col suo fare autoritario d’inusitata
durezza, per assicurare alla Monarchia ogni tipo d’ausilio militare, dalla
rimessa di armi e di vettovaglie, al reclutamento forzato di soldati sardi e al
loro armamento[154].
Ma gli intenti di Moncada falliscono clamorosamente per l’impopolarità che si è
guadagnato presso la nobiltà sarda e per le resistenze degli apparati di corte
a ridimensionare il ruolo istituzionale del regente provinciale. Osteggiato da
una parte dell’aristocrazia che fa capo alla casa di Laconi (a sua volta
vincolata al regente Vico), il viceré
finisce per trovarsi in una difficile posizione politica ed al centro di nuovi
conflitti. Anche Vico ne viene toccato direttamente, quando Montalto ostacola
il pagamento del suo salario e compie
pubbliche dimostrazioni d’ostilità nei suoi confronti. A quel punto ogni
possibilità di dialogo fra regente e
viceré viene perentoriamente interrotta con la ricusazione di Montalto e
l’astensione di Vico in Consiglio d’Aragona nei giudizi riguardanti gli atti di
governo del duca[155].
Il fatto è che il viceré Moncada aspira a diventare la
punta di diamante dello schieramento cagliaritano. Quando promuove un nuovo
tentativo di rimozione del regente
trova nella città di Cagliari pronti consensi. Un memorial viene presentato a Madrid tramite il decano della diocesi
di Ales Jaime Capay y Castañer. Stavolta è la questione dell’esercizio del patronazgo real ad assumere una
significativa centralità nel bagaglio di accuse contro il regente. Sostiene il memoriale che in vent’anni di regencia nel Supremo d’Aragona Vico
aveva designato dodici prelati sassaresi, di cui ben sei sono suoi familiari, controllando di fatto una buona
parte della chiesa sarda. Era stata posta a dura prova la «innata fidelidad» verso
il sovrano dei cagliaritani. Giustamente era stata chiesta la “jubilación” del regente, evitata soltanto per la
scaltrezza e le trame ordite a corte dall’accusato. Per i consellers cagliaritani Vico deve essere rimosso, deve ritirarsi a
vita privata e godersi l’ingente patrimonio (di circa duecentomila libras, insinuano maliziosamente)
accumulato negli anni dei suoi incarichi pubblici[156].
La collimanza degli interessi fa sì che il viceré di
Sardegna si ponga al fianco dei giurati cagliaritani nella nuova offensiva
contro Vico. In un suo memorial a
stampa, presentato tramite Capay, il principe di Paternò elenca orgogliosamente
i suoi meriti di principale attore della politica assolutistica in Sardegna. Sostiene d’aver assicurato alla Monarchia un enorme contributo, «el mayor
esfuerzo que hizo Cerdeña fuera de Cortes»[157]. Nel
mese di settembre del 1645 aveva levato in un solo giorno seicento fanti e li
aveva imbarcati nel giro di dieci giorni, «purgando con ella el Reyno de la
gente facinorosa que la estragava». Allo stesso tempo aveva imposto uno
speciale donativo in grano, avena,
cavalli e bestiame: si era trattato di un contributo del regno talmente
«grandioso» che aveva dovuto servirsi di tredici vascelli per il trasporto in
Spagna. Nel 1646 erano stati assicurati viveri in abbondanza alla armada in navigazione verso Orbetello e
alle galere di Spagna, grano era stato inviato all’isola di Minorca, 20.000 escudos erano stati impegnati per la
leva di mercenari tedeschi, e così via. Uno sforzo finanziario senza
precedenti, quello di Moncada, ottenuto con metodi autoritari e poco rispettosi
delle leggi e dei privilegi del regno. Vico si era opposto a certi atti
amministrativi del viceré che attingeva irregolarmente alle risorse finanziarie
del regno in violazione della legislazione vigente e contro la volontà dei
ministri patrimoniali. Con l’assenso dell’intero Consiglio Vico aveva bloccato
l’avventurata gestione della hacienda sarda con una “reprehención” pubblica,
fondata sul richiamo formale al rispetto delle pragmaticas del regno. Moncada aveva replicato imputando i malumori
diffusi fra i sardi alla mancata concessione di favori e di mercedes. Era
stata – a dire del viceré - l’iniqua erogazione della gracia real da parte del regente provincial («moderava las
materias de dicho Reyno distribuyendo los premios en los sujetos que por
parentesco o amistad eran sus dependientes y porsiguiendo y inquietando a la
nobleza y vezinos de la ciudad de Cáller») a provocare la rottura della
collaborazione fra la Monarchia e i sudditi sardi.
È interessante notare come il contrasto fra i due alti
ministri reali riguardi più l’esercizio del patronazgo
che l’applicazione di norme a salvaguardia dell’economia e delle finanze del
regno. Il viceré accusa il regente
d’opporsi ad ogni sua proposta d’attribuzione delle plazas vacanti per imporre soltanto persone di suo gradimento nella
Audiencia, nel veguerato di Alghero, nelle gobernaciones
di Cagliari e di Sassari e nella alcaydía
del Castello di Cagliari. «De todo lo referido – si
legge nel memorial Capay ispirato da Moncada-
han formado los naturales concepto de que el Duque no tiene la mano ni
autoridad que pide el cargo para mayor servicio de Vuestra Magestad y acierto
del govierno y que en éste el que más influye es el Regente provincial porque
dependiendo los ministros del Supremo de relaciones para resolver negocios del
reyno tan distante juzgan que no admitiéndose las del Virrey y Audiencia es
fuerça que se sigan las del provincial». Un regno, quello sardo, in cui la
fondamentale funzione del viceré è annichilita dallo strapotere del regente: «Asigurados desta verdad –
continua l’atto d’accusa - viven los del Reyno con mayor sentimiento biendo
depender los premios y gracias que V.M. reparte de un regente que oy está más
irritado y le tiene particular odio y rancor por averse eximido [de la paga del
salario] los tres estamentos en estas ultimas Cortes»[158]. La delusione dei ceti privilegiati che assicurano la “conservación” del
regno è alle stelle perché devono constatare «la desautoridad del cargo de
Virrey y que la ciudad y nobleza de Cáller que por más poderosos y imediatos al
Virrey que residen en ella son los ynstrumentos más eficaces para conseguir los
donativos ya con su sequito ya con su exemplo están desalentados con el dolor
de ver que sus finezas en lugar de premios han alcançado molestias y
persecuciones por mano del Regente provincial de quien por más irritado esperan
mayores vexaciones»[159].
L’immagine di un regente
provincial che si contrappone
all’intero corpo privilegiato del regno è quanto meno inverosimile. Presentare
il ministro sassarese come un nemico dei sardi – avverso ai cagliaritani,
all’amministrazione vicereale, alla nobiltà e al popolo - è un vecchio
espediente a cui gli amministratori municipali cagliaritani erano ricorsi più
volte. In un mese imprecisato del 1647 Vico passa al contrattacco e presenta
una querela contro il jurado
cagliaritano Ravaneda. Intende tutelare, il vecchio regente, il credito politico personale e la dignità del suo oficio. Nell’atto giudiziario
ricapitola tutte le ostilità e le macchinazioni del jurado cagliaritano dell’ultimo decennio, ricordando come il
memoriale Ravaneda avesse provocato non solo la sua sospensione dalle funzioni
consiliari ma addirittura l’allontanamento dalla corte per quattro mesi. Era
stato un atto arbitrario, perpetrato «con mucha nota de mi reputación y quietud
de mi persona»[160].
Sono ferite ancora aperte, per Vico, a cui in tempi recenti si è aggiunta una
nuova campagna diffamatoria ordita per allargare il fronte dei suoi avversari.
Ravaneda aveva convinto il duca di Montalto che le reprimende del Consiglio
d’Aragona sul governo del regno erano opera del regente provincial; aveva insufflato al marchese di Villasor che
per volontà di Vico gli era stato negato il comando delle galere di Sardegna
(da sempre appannaggio del principe Doria) e lo aveva convinto a convocare in
forma irrituale, in violazione degli actos
de corte, il braccio militare del parlamento; gli aveva attribuito
ingiustamente la paternità della carta reale con cui il Supremo d’Aragona aveva
derogato alla prammatiche reali ed imposto ai porcionistas (e quindi anche alla città di Cagliari) l’esportazione
del grano di “porción” non più in franchigia ma dietro pagamento dei diritti
reali. Infine, nella riunione in cui si era raggiunta l’intesa fra municipio,
viceré e “stamento” reale, il jurado
cagliaritano aveva proposto un nuovo síndico
per rappresentare a corte le nuove accuse. Non a caso la scelta era caduta sul
decano di Ales, un nemico giurato di Vico perché anni addietro, al tempo del
duca di Gandía, nella Audiencia sarda
questi aveva fatto condannare alla forca come monedero falso un parente di Capay.
Atteggiamenti così ostili e persecutori nei confronti di un
ministro colateral del re richiedono
“pronto reparo”. Vico pretende che finalmente si faccia pagare a Ravaneda la
sanzione pecuniaria di duemila ducados
comminatagli per calunnia nel primo giudizio, che venga punito per i tumulti
provocati contro la persona e l’operato del ministro, che vengano annullate sia
le decisioni del “braccio” militare assunte in violazione delle regole
parlamentari sia le istruzioni date dal consiglio municipale a Capay. È questa,
forse, l’ultima orgogliosa battaglia del vecchio regente in Consiglio d’Aragona.
Non abbiamo certezze, ma è da presumere che le consultas consiliari dell’agosto e del
settembre del 1647 siano provocate proprio dalla risentita querela di Vico. Il
disagio politico e morale del vecchio letrado
pare riverberarsi sulle decisioni del Consiglio. Prima di tutto vengono
respinte come manifestamente infondate le accuse del viceré Moncada. Il decano Vico gode sempre di largo credito fra i suoi colleghi: «al
Consejo en execución de la Real orden de Vuestra Magestad ha parecido en primer
lugar representar a Vuestra Magestad que el Regente Don Francisco Vico se halla
muchos años decano de este Consejo aviendo servido en él con entera satisfación
de más de veinte y quatro años a esta parte correspondiendo siempre en todo a
las obligaciones de buen Ministro de Vuestra Magestad y que oy se halla en edad
de más de setenta y cinco años»[161].
Restano in piedi le accuse formulate dai cagliaritani nel memorial Martín del 1644. Il Consiglio,
pur ritenendo infondate quelle lamentele, non aveva rigettato l’istanza per
ragioni di convenienza politica: «hazer la censura sin más examen – aveva
sentenziato - podría ser materia de desconsuelo». Era sembrato opportuno
promuovere un’inchiesta «en forma de visita» per allargare il raggio delle
testimonianze sui rapporti politici all’interno del regno. Nel settembre del
1645 l’incarico era stato affidato dal cardinale di Toledo all’inquisitore di
Sardegna Miguel López de Eguinoa[162].
A distanza di due anni l’inchiesta inquisitoriale risultava, però, ancora in
alto mare. Ragioni di salute dell’inquisitore, difficoltà dell’ecclesiastico ad
abbandonare Sassari e la sua normale attività giudiziaria nel tribunale,
inspiegabili disguidi amministrativi nella trasmissione delle carte processuali
ed altre ragioni non del tutto chiare avevano impedito a Lopez di compiere la visita. Non vanno esclusi, però, motivi
d’opportunità politica, forse sopraggiunti nel tempo. Quando López deve
giustificarsi davanti al Consiglio d’Aragona per non aver onorato l’impegno,
sostiene che il clamore del caso e la notorietà dei protagonisti non avrebbero
consentito all’inquisitore d’agire con la dovuta segretezza per raccogliere
testimonianze attendibili[163].
Insomma, quando anche l’Inquisizione se ne lava prudentemente le mani, il
Consiglio deve decidere per suo conto, senza il conforto di altri organismi
istituzionali. L’orientamento del Supremo d’Aragona è definito da tempo. Dopo le ripetute assoluzioni del regente
il consesso madrileno punta soltanto a salvaguardare il prestigio dei suoi
membri, che sono una cosa sola con l’istituzione: «lo mucho que importa atajar
estas persecuciones – si legge nella definitiva consulta di settembre - y que así como es justo que los ministros
estén espuestos a ser residenciados también lo es que sean defendidos y que no
por qualquier quexa ayan de inquietarlos y pretender que los jubilen con nota y
descredito suyo e daño del servicio de Vuestra Magestad»[164].
È interessante scoprire l’opinione che il Consiglio si è
fatto delle questioni politiche sarde. I capi d’accusa
contro Vico, dice la consulta, «se
reducen a las emulaciones ordinarias de los dos cabos de Cáller y Sácer y sobre
si el ser el Regente natural del uno le ha hecho inclinar tal vez con más
afecto al otro, impostura de que ningún ministro por entero y circumspeto que
sea podrá librarse en qualquier Provincia que estuviere pues nace de las
passiones y encuentros particulares de los ministros naturales, y más en
Cerdeña donde influyen tanto estas imbidias que hasta en las devociones se han
esperimentado y esperimentan». L’insussistenza delle accuse è nei fatti, «aviendo
sido este ministro tan obstinadamente perseguido por tantos años nunca se ha
provado ni dicho contra él cosa que se pueda afear, ni aún culpa digna de
desestimación; y que quando de persecuciones tan continuadas y reiteradas salen
los ministros sin lesión, merecen no sólo la clemencia y amparo común de
Vuestra Magestad sino tan particular que sirba de exemplo»[165]. Nessuna
colpa, dunque, e la richiesta di rimozione va rigettata. Ma se anche Vico si
fosse reso responsabile di un qualche misfatto, i servizi resi alla Monarchia
gli assicurerebbero la clemenza del re. Il decano del Consiglio ha raggiunto
quasi la veneranda età d’ottanta anni e il credito di cui gode impone di
respingere qualunque istanza che suoni come condanna del suo operato. Non
devono restare macchie sulla figura del regente,
non si può «dejarle amancillado a vista de la sepultura».
È l’ultima battaglia, ancora una volta vittoriosa, del
ministro sardo. Il suo allontanamento dal Consiglio, che i cagliaritani
continuano a chiedere con un’ostinazione senza limiti anche nei mesi a venire,
è imposto inesorabilmente dal tempo. L’età avanzata costringe don Francisco ad
appartarsi. Ormai gli restano pochi mesi di vita, come risulta dal suo
testamento che viene aperto e pubblicato a Madrid il 13 febbraio 1648[166].
* Il
saggio è in corso di pubblicazione negli atti del convegno internazionale
“Sardegna, Spagna, Mediterraneo, Atlantico dai Re Cattolici al Secolo d’Oro”,
Roma, Carocci, 2004.
[1] Non si conosce l’anno di nascita di Vico e neppure si hanno
certezze sulle sue origini sociali. Al di là delle biografie approssimative
(come quella ottocentesca di Pasquale Tola dettata per il Dizionario biografico degli uomini illustri di Sardegna), le poche
notizie documentate riguardano il padre il quale sfrutta la carica di receptor del Santo Officio per migliorare la condizione sociale ed
economica della famiglia (cfr., ad esempio, Archivo de la Corona de Aragón
(ACA), Real Cancillería (RC), reg. 4335, concessione di Filippo
II a Juan Ángel de Vico d’esportare un quartago
dietro pagamento dei diritti, 26 febbraio 1578). Destituita di fondamento è
l’affermazione di Tola (ripresa da J.
Arrieta Alberdi, El Consejo
Supremo de la Corona de Aragón (1494-1707), Zaragoza, 1994, 628) che Francisco
Ángel Vico abbia frequentato l’università di Salamanca. Studiò invece
all’Università di Pisa dove venne immatricolato come legista il 2 aprile 1588 (Libri
matricularum Studii Pisani (1543-1737), dir. E. Cortese, Pisa, 1983, p.
98); si laureò in utroque iure il 28
aprile 1590 (R. Del Gratta, Acta graduum Academiae Pisanae (1543-1599),
dir. E. Cortese, Pisa, 1980, 261).
[2] ACA, Consejo de Aragón
(CdA), leg. 1149, súplica di
Francisco Vico al re, s.d. [1645]. Una versione ridotta della súplica è nel leg. 1083 dello stesso
fondo archivistico.
[4] Sul parlamento Gandía si rinvia a G. Ortu (a cura di), Il
parlamento del viceré Carlo de Borja duca di Gandía (1614), Cagliari, 1995.
[6] In generale sul tema della fedeltà al re, cfr. A. Musi, L’Italia dei Viceré. Integrazione e resistenza nel sistema imperiale
spagnolo, Cava de’ Tirreni, 2000, cap. VI.
[7] E. Martínez Ferrando,
Un conflicto en la Inquisición de Cerdeña
durante el primer tercio del siglo XVII, in Atti del VI Congresso internazionale di Studi sardi, Cagliari,
1962, 502, nota 22.
[10] ACA, CdA, leg. 1162, Instructions y memorials de lo que a de negociar lo noble don Estevan
Manca de Cedrelles síndich elegit per la magnífica Ciutat de Sàsser en la cort
de Sa Real Magestat, s.d.
[11] ACA, CdA, leg. 1218, lettere del giudice della Audiencia Gabriel Ángel Dalp a Pablo Del
Rosso, 30 dicembre 1610; ACA, CdA, leg. 1218, memorial di Vico del 3 giugno 1611. A distanza di qualche tempo
l’intesa di Vico col viceré sembra incrinarsi per il fatto che il conde del
Real accusa il letrado d’essersi
appropriato di certe pensiones riscosse
per conto del figlio del conte. Vico respinge sdegnosamente le insinuazioni e lamentando che si voglia macchiare
«la estimación que Vuestra Magestad tiene de la persona del dicho Doctor y de
sus servicios [Vico scrive in terza persona] es pagarle muy mal la voluntad y
obras con que siempre a acudido a sus cosas y de su Casa en tiempo que fue
virrey de aquel Reyno el conde del Real su suegro» (ACA, CdA, leg. 1225, Vico
al Consiglio d’Aragona, s.d.).
[12] ACA, CdA, leg. 1218, il candidato Andrés Del Rosso al fratello
Pablo, 4 dicembre 1611; Pablo Del Rosso al vicecancelliere d’Aragona, 12
dicembre 1611.
[13] L’arcivescovo cagliaritano scrive al
vicecancelliere d’Aragona auspicando che la scelta cada sul «doctor Vico Artea,
y con mucha razón por ser persona muy honrada y que lo merece muy bien ocupar
este lugar en servicio de su Magestad por concurrir en su persona las prendas
necessarias y ser muy bien visto en esta Ciudad por su virtud» (ACA, CdA, leg.
1218, l’arcivescovo di Cagliari al vicecancelliere d’Aragona, 4 dicembre 1611).
[14] ACA, CdA, leg. 1083, sentenza di Filippo III del 27 giugno 1615;
leg. 1221, attestato del viceré duca di Gandía dell’armamento di Vico come caballero, 9 settembre 1615.
[15] ACA, CdA, leg. 1223, súplicas
di Vico pervenute al vicecancelliere d’Aragona il 7 ottobre 1617.
[16] ACA, CdA, leg. 1225, súplicas
di Vico pervenute al vicecancelliere d’Aragona il 26 febbraio e il 3 dicembre
1619.
[19] A. Marongiu, Parlamento e lotta politica nel 1624-25,
in Id., Saggi di storia giuridica e politica sarda, Cagliari, 1975, 212 ss.
[20] Memorial y relación de todo lo que ha sucedido en el Parlamento que
celebró el virrey don Juan Vivas en el reyno de Cerdeña en el año 1624 con
poderes del Rey, s.n.t.
[21] B. Anatra, La Sardegna dall’unificazione aragonese ai
Savoia, estratto da Storia d’Italia,
diretta da G. Galasso, vol. X, La
Sardegna medioevale e moderna, Torino, 1987, 426.
[22] Sul complesso conflitto municipalistico è in corso di
pubblicazione uno studio di chi scrive. Sulla diatriba relativa al primato
ecclesiastico si rinvia a R. Turtas,
Storia della Chiesa in Sardegna dalle
origini al Duemila, Roma, 1999, 373-382, e alla bibliografia ivi citata.
[23] G. Tore, Il regno di Sardegna nell’età di Filippo IV.
Centralismo monarchico, guerra e consenso sociale (1621-30), Milano, 1996,
pp. 35-39.
[24] Memorial al Rey de España recusando al Marqués de Bayona virrey de
Cerdeña como sospechoso para hazer el proceso de visita que ha començado contra
don Jayme Alivesi, s.a. [ma 1626]. Accenni alla questione in G.
Tore, Il regno di Sardegna
nell’età di Filippo IV cit., p. 57, nota 40.
[25] A. Marongiu, Gravami e voti parlamentari nel 1624, in
Id., Saggi di storia giuridica e politica sarda cit., p. 235.
[26] Nel parlamento del viceré Miquel de Moncada del 1583, in un
capitolo presentato da don Ángel Cetrilla per conto dei tre stamenti, era stata
presentata al re una supplica per «concedir que en lo supremo Consell de Aragó
hi hage hu dels regents que sia de la nació sarda perque los negocis del
present regne tinguen mes àgil expedició, y axí com hi ha dels altres regnes de
Aragó, y sa Magestat tindrà mes certa informació de totes les coses del present
regne» (ACA, RC, reg. 4340, c. 23r). Una richiesta analoga era stata già
avanzata nel 1544-45 nel parlamento di Anton Folch de Cardona (V. Angius, Memorie de' Parlamenti o Corti del Regno di Sardegna, in Dizionario geografico storico statistico
commerciale degli stati di S.M. il Re di Sardegna, a cura di G. Casalis,
Torino, 1856, vol. XVIII quater, 529).
[27] J.H.
Elliott, La rebelión
de los catalanes. Un estudio sobre la decadencia de España (1598-1640), Madrid, 1977, 193 ss.
[28] ACA, CdA, leg. 1098, Copia de dos Capítulos de Corte, el uno sobre el nombramiento de
Regente en el Consejo Supremo de Aragón en persona natural del Reyno de
Cerdeña, y el otro sobre la paga que se le ha de dar al Regente por el dicho
Reyno.
[29] ACA, CdA, leg. 1236, Relación de lo que contienen las Consultas y papeles tocantes a la
plaça de Regente de este Consejo en persona natural de Cerdeña y su salario,
propinas y Casa de aposento, s.d. [ma 1636].
[30] A. Marongiu, Parlamento e lotta politica cit., 224; G. Tore, Il regno di Sardegna nell’età di Filippo IV cit., 73-74.
[31] G. Tore, Il regno di Sardegna nell’età di Filippo IV cit.,
p. 52 ss.; cfr. anche Il parlamento
straordinario del viceré Gerolamo Pimentel marchese di Bayona (1626), a
cura di G. Tore, Cagliari, 1998.
[33] Il testo a stampa Proposición
a los tres estamentos del reyno de Sardeña por don Lluis Blasco del Consejo del
Rey nuestro Señor nel Supremo de Aragón embiado por su Magestad al negocio que
contiene è inserito negli atti parlamentari
del parlamento Baiona (Archivio di Stato di Cagliari (ASC), Antico Archivio Regio (AAR), Parlamenti, reg. 168, cc. 28-38v)
e si conserva anche in Biblioteca Universitaria di Cagliari (BUC), Fondo
Baille, Stampe relative agli Stamenti.
Il progetto di Olivares, preparato per spiegare
e giustificare davanti alle cortes
della Corona d’Aragona la Unión de armas,
è pubblicato nella versione a stampa in J.H.
Elliott – J.F. De La Peña, Memoriales
y cartas del conde duque de Olivares, tomo I Política interior: 1621 a 1627, Madrid, 1978, doc. IX, 183-193.
[34] Il riferimento obbligato è a J.H. Elliott, La rebelión de los catalanes cit.; Id., El conde-duque de
Olivares. El político en una época de decadencia, Barcelona, 1990. Cfr. anche E. Solano, Poder monárquico
y estado pactista 1625-1652. Los aragoneses ante la Unión de Armas,
Zaragoza, 1987.
[35] F.
Manconi, “De no
poderse desmembrar de la Corona de Aragón”: Sardenya i Països catalans, un
vincle de quatre segles, in «Pedralbes», a. XVIII, n° 18/II, Barcelona,
1998, 179-194; Id., L'identità catalana della Sardegna, in
«Cooperazione mediterranea. Cultura economia
società», a. 2003/1-2, Cagliari, 2003, 105-112.
[41] ACA, CdA, leg. 1236, Relación de lo que contienen las Consultas y papeles tocantes a la
plaça de Regente de este Consejo cit.
[44] J.H.
Elliott, El
conde-duque de Olivares cit., pp. 367-368. Le disposizioni sono in ACA, CdA, leg. 1092, consulta del Consiglio d’Aragona del 6 gennaio 1629; AHN, Consejos suprimidos, libro 2561, il re
al regente Vico, 8 gennaio 1629.
[45] G. Tore, Ceti sociali, finanze e “buon governo” nella
Sardegna spagnola (1620-1642), in XIV Congresso di Storia della Corona
d’Aragona, La Corona d’aragona in Italia
(secoli XIII-XVIII), vol. 4°, Sassari, 1997, 485.
[46] AHN, Consejos suprimidos,
libro 2561, il re al viceré Baiona, 4 novembre 1628 e 8 gennaio 1629.
[47] ACA, CdA, leg. 1180, il marchese di Baiona al governatore di Milano
Gonzalo de Córdoba, 22 gennaio 1629.
[48] B. Anatra, Economia sarda e commercio mediterraneo nel
basso medioevo e nell’età moderna, in Storia
dei sardi e della Sardegna, vol. 3°, a cura di M. Guidetti, Milano, 1989,
173 ss.; G. Tore, Ceti sociali, finanze e “buon governo”
cit., 485 ss.
[50] ACA, CdA, leg. 1092, consultas
del Consiglio d’Aragona, 15 dicembre 1628 e 8 febbraio 1629. Vico
approfitta della residenza a Barcellona per compiere le sue ricerche
storiografiche sulla Sardegna negli archivi reali (ACA, CdA, leg. 1083, Papel del Regente Vico en satisfación de
otro de Salvador Martín, s.d. [ma 1644]).
[51] ACA, CdA, leg. 1180, risposta del viceré di Sardegna al sollecito
del Consiglio d’Aragona, 13 ottobre 1630; leg. 1094, consulta del Consiglio d’Aragona, 16 aprile 1633.
[53] B. Anatra, La Sardegna dall’unificazione aragonese ai
Savoia cit., 348-349; G. Ortu,
Introduzione a Il parlamento del viceré Carlo de Borja duca di Gandía cit., 81.
[54] ACA, Cancillería
Real, Sardiniae XV, fol. 99, 7 marzo 1633. Il decreto reale è anche
premesso al Libro primero de las Leyes y
Pragmaticas Reales del Reyno de Sardeña compuestas, glosadas, y comentadas por
don Francisco de Vico del Consejo del Rey N.S. y su Regente en el supremo de
Aragón, vistas, y aprovadas en el, y mandadas guardar, y observar con su Real
Decreto, Nápoles, 1640.
[59] Cfr. la mia introduzione alla riedizione della Historia general de la Isla y Reyno de
Sardeña di Francisco Vico, Cagliari, 2004.
[66] AHN, Consejos suprimidos,
libro 2562, il re all’ambasciatore marchese di Castelrodrigo, al cardinale
Barberini e al papa, 7 agosto 1634.
[67] AHN, Consejos suprimidos,
libro 2562, il re all’ambasciatore marchese di Castelrodrigo, 7 marzo 1635.
[68] F.
Manconi, Castigo de
Dios. La grande peste barocca nella Sardegna di Filippo IV, Roma, 1994, 239-278; Id.,
Don Agustín de Castelví, "padre
della patria" sarda o nobile-bandolero?, in Banditismi mediterranei. secoli XVI-XVII, a cura di F. Manconi,
Roma, 2003, 107-146 (= Diritto @ Storia. Quaderni di Scienze Giuridiche e
Tradizione Romana, 2, marzo 2003 < http://www.dirittoestoria.it/lavori2/Contributi/Manconi-Agustin.htm
>).
[71] AHN, Consejos
suprimidos, libro 2562, istruzioni a don Francisco de Vico per la missione
in Sardegna, 20 luglio 1635; ACA, CdA, leg. 1184, Memoria que se dió al Señor Virrey por el Regente Vico, 8 ottobre
1635.
[73] ACA, CdA, leg. 1184, istanza per la proroga della missione di Vico
in Sardegna, 30 aprile 1636.
[74] ACA, CdA, leg. 1184, gli asentistas
Benedetto Nater, Andrés Ordà, Pedro María Moyran, Gerónimo Martín, Gaspar
Malonda e Juan Francisco Ayraldo al viceré di Sardegna, 16 ottobre 1635.
[75] ACA, CdA, leg. 1184, carteggio fra Vico e il viceré di Sardegna in
data 17, 19 e 21 ottobre 1635.
[77] ACA, CdA, leg. 1184, carta sobre la venda del Salto de Soleminis e arbitrios que se proponen, 15 ottobre 1635.
[78] Vico chiede un pronto rimborso dei denari
anticipati, perché così – egli dice - «tendré aliento de emplearlos segunda y
tercera vez en serbicio de Su Magestad» (ACA, CdA, leg. 1184, Vico al
protonotario d’Aragona, 6 dicembre 1635).
[82] ACA, CdA, leg. 1184, Vico al Consiglio d’Aragona, 18 aprile 1636;
Vico al protonotario d’Aragona, 19 aprile 1636.
[83] ACA, CdA, leg. 1184, Vico al Consiglio
d’Aragona, 30 aprile 1636; AHN, Consejos
suprimidos, libro 2563, Al Regente
don Francisco de Vico encargandole la remisión de los 100 mil estareles de
trigo para el exercito, 17 aprile 1636.
[85] ACA, CdA, leg. 1236, Relación de lo que contienen las Consultas y papeles tocantes a la
plaça de Regente de este Consejo cit.
[90] ACA, CdA, leg. 1083, il giudice Francisco Corts al Consiglio
d’Aragona, s.d., consultada dal
Consiglio in data 11 agosto 1636. Allegato alla consulta è il circostanziato memoriale intitolato Capítulos que resultan contra el Regente Don
Francisco Ángel Vico en perjuycio y contra el servicio de Vuestra Magestad.
[91] La valutazione di Corts trova conferma in un documento posteriore
alla morte di Francisco Ángel Vico. Nel 1657, dopo la cessazione della grande
peste, i consellers d’Oristano aprono
una dura polemica con il loro arcivescovo don Pedro Vico per il suo assenteismo
nei giorni dell’epidemia e gli ricordano che per «el miedo reverencial que se
tenía a Vuestra Señoría Illustrísima por su Padre el noble y Magnífico don
Francisco de Vico Regente era en el Supremo de Aragón por las dependencias
[que] esta Ciudad tenía en dicho Supremo sus particulares no osaron instar
contra Vuestra Señoría Illustrísima el cumplimiento de obligaciones tan
devidas» (ACA, CdA, leg. 1202, i consellers
d’Oristano all’arcivescovo Pedro Vico, 23 aprile 1657).
[92] ACA, CdA, leg. 1083, Capítulos que resultan contra el Regente Don Francisco Ángel Vico en
perjuycio y contra el servicio de Vuestra Magestad, allegato alla consulta del Consiglio d’Aragona in data
11 agosto 1636.
[93] Un esempio illustre è quello di Santa Teresa d’Avila, il cui padre
Alonso aveva adottato il cognome materno, Cepeda, per nascondere le sue origini
ebraiche. Il nonno paterno si chiamava infatti Juan Sánchez ed era un ebreo converso (Cristiana Dobner, Il
segreto di un archivio. Teresa di Gesù e il nonno marrano, Roma, 2003).
Altrettanto illustre è il caso di Bartolomé de las Casas, il cui padre Pedro
era fratello di Gabriel, Diego e Francisco de Peñalosa: erano tutti conversos, il che spiega la diversità di
cognome che poteva essere scelto fra quelli dei quattro nonni (H. Thomas, El Imperio español. De Colón a Magallanes, Barcelona, 2003, 152). A quel tempo era possibile scegliere il primo cognome fra quelli dei
quattro nonni. L’adozione del cognome materno da parte di Vico risulta dai
libri matricolari dell’Università di Pisa dove la sua paternità è registrata a
nome di “Joannes de Altea” (R. Del
Gratta, Acta graduum Academiae
Pisanae cit., 261).
[97] ACA, CdA, leg. 1083, papel original que se halló en la posada de don Fernando Azcón en la
Ciudad de Sácer a 21 del mes de octubre, en que se haze varios cargos al
Regente Vico y Thesorero Basteliga, tovantes al Patrimonio Real de Su Magestad,
15 ottobre 1636.
[100] ACA, CdA, leg. 1184, il viceré di Sardegna al Consiglio d’Aragona,
20 novembre 1636 (allegati: istanza al viceré dei giurati di Cagliari, s.d.;
verbale della seduta della Real Audiencia,
5 novembre 1636).
[101] AHN, Consejos
suprimidos, libro 2563, istruzioni a don Francisco de Vico, 15 novembre
1636, fol. 45.
[105] Sul tema il riferimento obbligato è a Xavier Torres i Sans, Nyerros
i Cadells: bàndols i bandolerisme a la Catalunya moderna (1590-1640),
Barcelona, 1993. Cfr. anche Xavier
Torres i Sans, Faide e banditismo
nella Catalogna dei secoli XVI e XVII, in Banditismi mediterranei (secoli XVI-XVII), a cura di Francesco
Manconi, cit., 35-52 (cfr. Diritto @ Storia. Quaderni di Scienze Giuridiche
e Tradizione Romana, 2, marzo 2003 < http://www.dirittoestoria.it/lavori2/Contributi/Torres-Faida-bandolerismo.htm
>.
[106] ACA, CdA, leg. 1083, memorial
del síndico della Città di Cagliari
Francisco de Ravaneda al Consiglio d’Aragona, 3 marzo 1637.
[108] Sul caso del libro di storia di Vico rinvio alla mia introduzione
alla Historia general de la Isla y Reyno de Sardeña, cit.
[112] ACA, CdA, leg. 1083, Carta de don Fernando Azcón para don Francisco Corts y su respuesta,
24 e 28 giugno 1637.
[114] ACA, CdA, leg. 1185, Vico al Consiglio d’Aragona, 26 giugno 1637.
Un nuovo sollecito a tornare, “por la falta que haze aquí”, viene inviato a
Vico il 24 luglio 1637 (AHN, Consejos
suprimidos, libro 2563, fol. 84).
[118] AHN, Consejos
suprimidos, libro 2563, Al Virrey de
Cerdeña que informe en razón de unas cosas del Regente Vico; Al Regente Azcón embiándole un memorial de
cabos contra el Regente Vico deste Consejo para que reciba información secreta
dellos, 24 ottobre 1637.
[121] ACA, CdA, leg. 1238, súplica
di Vico e relativa consulta del
Consiglio d’Aragona, 11 gennaio 1638
[122] F. Manconi, L'invasione di Oristano nel 1637:
un'occasione di patronazgo real nel
quadro della guerra ispano-francese, in «Società e Storia», n° 84, 1999,
253-279.
[123] ACA, CdA, leg. 1238, súplica
del viceré Almonacir, 15 marzo 1637; súplica
di Vico al Consiglio d’Aragona, s.d. [ma fine 1637].
[125] ACA, CdA, leg. 1083, Azcón al Consiglio
d’Aragona, 1 e 13 aprile 1638; allegata alla lettera del 1 aprile è una Relación breve y sumaria de quanto ay en el
Processo que a instancia de la Ciudad de Cáller y horden de Su Magestad contra
el Regente Don Francisco Vico ha averiguado en Cerdeña el Regente Don Fernando
Azcón.
[129]
Biblioteca Nacional, Madrid (BNM), Manuscritos,
18651/39, Carta Real de Felipe IV por la
que se levantan, bajo pena de mil florines de oro, ciertas prohibiciones que el
Virrey y Real Audiencia de Cerdeña impusieron a los impresores de Sácer, Madrid
30 septiembre 1637. Sulla vicenda cfr. E.
Toda y Güell, Bibliografía
española de Cerdeña, Madrid, 1890, 280-281 e 297-303; R. Turtas, La nascita dell’Università in Sardegna. La politica culturale dei sovrani spagnoli nella formazione
degli Atenei di Sassari e di Cagliari (1543-1632), Sassari, 1988.
[130] Il titolare della tipografia è erede di Francisco Scano Castelví,
che è stato per lungo tempo amministratore civico e personaggio di punta della
rete di potere sassarese; al pari di Vico ha avuto un ruolo di rilievo nel
parlamento Gandía (Ortu, Centralismo e autonomia cit., 320-321; Il Parlamento del viceré Carlo de Borja duca
di Gandía cit., pp.20-21. Il legame personale di Francisco Scano Castelví
col regente è attestato dalla sua
presenza come testimone ufficiale della laurea in utroque iure conseguita da Vico a Pisa il 28 aprile 1590 (Del Gratta, Acta graduum Academiae Pisanae cit., 261).
[131] Nella sua Historia general Vico
racconta come nel 1627, quando era provinciale suo fratello Pedro, i gesuiti di
Sassari avevano preso possesso del nuovo collegio costruito in un’area che lui
stesso aveva messo a disposizione della Compagnia (Turtas, La Casa
dell’Università cit., 11-12). Per i legami culturali col rettore Jaime
Pinto ed in genere con i padri del collegio gesuitico sassarese rinvio a R. Turtas, La nascita dell’Università in Sardegna cit., e alla mia
introduzione alla Historia general
cit.
[132] ACA, Camara de Aragón,
leg. 1234, il viceré Doria al Consiglio d’Aragona, gennaio 1640, consultada il 5 ottobre 1640.
[133] AHN, Consejos suprimidos,
libro 2564, il Consiglio d’Aragona al Presidente Aragall e al regente Azcón, 23 e 26 agosto 1640.
[134] ACA, CdA, leg. 1190, il Presidente, la Audiencia e la Junta
patrimonial di Sardegna al Consiglio d’Aragona, 10 marzo 1641.
[136] ACA, CdA, leg. 1190, l’avvocato patrimoniale Juan Lopez de Baylo
al Consiglio d’Aragona, 10 marzo 1641; consulta
del Consiglio d’Aragona, 18 giugno 1641.
[137] ACA, CdA, leg. 1184, l’arcivescovo di Sassari e i vescovi di
Ampurias e Bosa al Consiglio d’Aragona, 20 dicembre 1636.
[138] ACA, Camara
de Aragón, leg. 1234, il viceré Doria al Consiglio d’Aragona, 13 febbraio
1642, Motivos y combeniencias importantes
porque las Cortes del Reyno de Cerdeña que están para celebrarse se hayan de
tener en la Ciudad de Oristán y no en la de Cáller; consulta del Consiglio d’Aragona, 13 febbraio 1642.
[142] ACA, CdA, leg. 1083, istruzioni segrete della Città di Cagliari a
Salvador Martín, 12 luglio 1644.
[143] BUC, S.P. 6.3. 1/6, Memoriale al Re della Città di Cagliari
contro i sassaresi Francisco Vico, Julián Usena e Basteliga, s.n.t. [ma
1644].
[146] ACA, CdA, leg. 1083, Papel del Regente Vico en satisfación de otro de Salvador Martín,
s.d. [ma 1644].
[149] Fra i tanti documenti a stampa e manoscritti che sollecitano la
“jubilación” di Vico, cfr. BNM, Mss 1440, Discurso
de un discreto sobre que se jubile a un Ministro de el Regno de Zerdeña.
[151] ACA, CdA, leg. 1149, i consellers
e l’arcivescovo di Sassari al Consiglio d’Aragona, 25 e 26 luglio 1645.
[152] F. Manconi,
Introduzione a Jorge Aleo, Storia
cronologica e veridica dell'isola e regno di Sardegna dall'anno 1637 all'anno
1672, Nuoro, 1998; Id., Don Agustín de Castelví cit., 107-146.