N. 3 – Maggio 2004 – Cronache

 

 

Collegio di diritto romano

GLI STATUTI MUNICIPALI

(Pavia, 12-30 gennaio 2004)

 

 

Nel gennaio 2004, presso l’Almo Collegio Borromeo, si è tenuto il secondo Collegio di diritto romano, promosso dal Centro di studi e ricerche sui diritti antichi (Cedant) del IUSS di Pavia. Come per l’anno precedente, si è trattato di un’esperienza significativa nel panorama non solo nazionale: sono stati selezionati quindici giovani romanisti, sia storici che giuristi, provenienti da paesi diversi. Accolti come borsisti nello storico Collegio pavese, essi hanno potuto seguire un intenso calendario di relazioni, svolte dai più importanti studiosi del tema, individuato quest’anno ne «gli statuti municipali». Ripartito in tre cicli settimanali, dedicati rispettivamente alle istituzioni, al diritto e processo, all’autonomia municipale come fattore di integrazione, il programma prevedeva interventi di G. Camodeca, L. Capogrossi, J.-L. Ferrary, H. Galsterer, F. Grelle, M. Humbert, U. Laffi, E. Lo Cascio, J.-M. David, E. Gabba, P. Gros, D. Mantovani, B. Santalucia, M. Talamanca, Y. Thomas e J.G. Wolf.

I lavori, sono stati avviati il 12 dal Rettore dell’Università di Pavia, R. Schmid. Precisata la accezione di municipium e municeps alla stregua delle fonti antiche, è stato subito messo in luce (Humbert) il carattere principale della organizzazione per municipi dell’Italia romana, individuato nella attitudine di questa a sconvolgere gli equilibri socio-economici delle realtà preesistenti mediante l’inserimento nelle élite locali di soggetti romani assegnatari dei suoli espropriati e successivamente provocare un nuovo assestamento dei rapporti secondo il mutato equilibrio. Ciò consentiva la conservazione di una significativa autonomia locale, unita ad un efficace controllo, indirettamente conseguito con la conformazione delle classi dominanti ai modelli lato sensu culturali di Roma. L’istituzione di prefecturae iure dicundo, insieme alla formazione di unità territoriali non sempre corrispondenti ai confini politici osservati prima della romanizzazione favorì una più rapida ricompattazione sociale, quasi completamente maturata già nell’età del principato. La penetrazione, materiale e dirompente, della romanità ebbe soprattutto la sembianza delle limitationes agrimensorie, che preludevano necessariamente alla regimentazione dei suoli, con loro attribuzione – secondo un metro localmente variabile - ora a cittadini romani, ora a soggetti autoctoni. L’esame delle fonti gromatiche (Capogrossi) ha permesso un contatto ravvicinato con un rito certamente tecnico, eppure carico di significato politico ed indispensabile al raggiungimento del fine di rinnovata integrazione sociale perseguito con la forma municipale. Lo strumento costituzionale di istituzione del municipio era naturalmente lo statuto – lex data: i molti resti di provvedimenti del genere sono quindi stati dettagliatamente esaminati (Galsterer) e confrontati tra loro, con individuazione approssimativa di un modello di ispirazione comune, che doveva forse fattualmente improntare i singoli provvedimenti, pur caratterizzati da forti elementi di specificità, legati anche alle diverse situazioni proprie delle comunità interessate. Le istituzioni pubbliche, per prime, rispondevano ad una tipologia riscontrata conforme, impostata sulla ripartizione delle funzioni tra magistrati, senato e popolo, pur con molte particolarità, prevalentemente legate alla successione nel tempo di soluzioni modificate: l’esame delle epigrafi celebrative e delle monete municipali (Laffi) ha consentito l’apprezzamento di tale variabilità. La compenetrazione di amministrazioni locale e centralizzata ha procurato un risultato di efficienza prima sconosciuta nel mondo antico. Il tributo esatto ne rappresentava evidentemente il corrispettivo, in definitiva non sproporzionato: l’applicazione al mondo romano del criterio analitico del costo transazionale ha permesso (Lo Cascio) di concludere per una relativa ragionevolezza del peso fiscale, aggravato semmai dalla concorrenza delle esigenze locali, non sempre soddisfatte evergeticamente, e delle crisi economiche o di liquidità che, dal II secolo d.C., non sono state infrequenti.

Il tema del Collegio ha nutrito un filone importante di studi, cui hanno contribuito i maggiori giuristi e storici degli ultimi tre secoli. Una puntuale rassegna della letteratura (Ferrary) ha messo in luce lo stratificarsi della produzione scientifica, talvolta occasionata da fortunati rinvenimenti, come quello ultimo della legge di Irni, dalla quale si è appreso dell’esistenza stessa di quella comunità, prima di allora mai altrove menzionata. L’attenzione degli studiosi si è prevalentemente concentrata sull’aspetto della giurisdizione locale, attribuita ai magistrati municipali in limiti quantitativi e qualitativi che potevano variare, anche significativamente, tra una comunità e l’altra. Dai frammenti posseduti – specialmente Atestino, de Gallia Cisalpina ed Irritano – emergono con buona approssimazione i termini delle rispettive competenze di giurisdizione, ricostruite (Wolf) secondo un disegno unitario, almeno quanto all’ispirazione generale. Come è noto, il problema più grave insisteva nella indisponibilità da parte del magistrato locale del potere di imperium: la lex Rubria disponeva in proposito talune soluzioni alternative, per le situazioni in cui a Roma il pretore vi avrebbe fatto utilmente ricorso, come nel caso della indefensio e del danno temuto. Una attribuzione paragiurisdizionale che nel mondo antico – complice la ridotta durata della vita media – doveva avere avuto grande importanza era la datio tutoris: in essa era compresa, accanto alla funzione di assistenza dei pupilli, una innegabile esigenza di controllo dei loro patrimoni da parte dell’organo politico: nelle istituzioni di Gaio quel potere è infatti attribuito al pretore in Roma, ai governatori in provincia; nulla dice però il giurista sulla eventuale competenza municipale. Lacuna grave, non potendosi ritenere (Grelle) che l’intero suolo italico, domicilio della maggior parte dei cittadini romani, fosse per quell’incombente affidato esclusivamente al pretore urbano. Evidentemente la posizione defilata di Gaio, giurista provinciale, aveva fatto sì che, nell’economia della trattazione manualistica, l’aspetto municipale fosse taciuto. Le leggi Iulia e Titia dovevano in effetti disciplinarlo, rimettendo la datio tutoris al magistrato locale, previa indicazione decurionale del soggetto più idoneo. Il carattere che però nel tempo maggiormente impronterà l’autonomia municipale è quello patrimoniale: dagli statuti emerge l’attenzione alla conservazione delle risorse locali, alla loro oculata gestione, alla giustificazione contabile imposta ai magistrati, nel quadro della prevenzione di un dissesto altrimenti non improbabile e della conseguente vanificazione della sempre più importante funzione di distretto fiscale del municipio, culminata con l’introduzione della figura del curator rei publicae. Dall’esegesi dei capitoli LXVII ss. della legge Irnitana (Mantovani) è emerso il rigido procedimento amministrativo con il quale era assolta la rendicontazione pubblica, assistita da previsione di multe per il caso di omesso od irrituale deposito dei conti, e da giudizio di responsabilità di gestione, con tanto di sindacato di merito esteso anche alle forme di investimento (compresa la omissione) degli eventuali avanzi di bilancio, cui il magistrato doveva provvedere affinché la pecunia communis non rimanesse otiosa. Non sembra che statuti od altre fonti normative, esauriti gli aspetti funzionali, disciplinassero i rapporti sostanziali tra i municipes, fossero o meno questi cittadini romani. Un celebre passo di Gellio farebbe – è vero – riferimento, in ambito municipale, a leges et iura propri dei non cives: dal contesto complessivo sembra tuttavia potersi ricavare (Talamanca) una sostanziale ignoranza in materia dell’erudito scrittore, che manipola goffamente i dati ricavati da un’orazione adrianea. Fonti più affidabili, quali soprattutto gli statuti municipali, non fanno infatti parola di iura et leges proprie delle comunità, di cui peraltro nulla sarebbe sopravvissuto. La legge di Irni offre semmai argomenti per l’esclusione di una loro esistenza, nella parte in cui – capitolo XCIII – ricorda che il diritto da applicarsi è quello proprio dei cives optimo iure: la norma infatti non ha il carattere costitutivo che potrebbe a prima vista sembrare e per il fatto di essere posta in chiusura della legge invece che in sua apertura e – soprattutto – perché costituisce il pedante complemento del capitolo LXXXV, il quale già rinviava al diritto onorario: la legge sarebbe stata ricavata da un modello utilizzato per municipi di diritto romano; applicata alla normazione di una realtà latina, avrebbe subito quella aggiunta poco felice, al solo scopo di chiudere un sistema e non invece di impedire, per il futuro, l’applicazione di un preteso diritto proprio degli Irnitani. Anche i fondi archivistici dell’antichità consentono una verifica della situazione concreta di effettività del diritto romano nelle realtà municipali e della non esistenza di un concorrente o previgente sistema giuridico, almeno nell’Occidente. Nell’archivio puteolano dei Sulpicii, rinvenuto nella seconda metà del secolo scorso ed oggetto di progressiva (ri)pubblicazione, sono attestati vadimonia stragiudiziali e contratti di mutuo. Analoga attitudine probatoria hanno taluni documenti provenienti dall’Egitto e – seppure in quantità decisamente minori – dalle regioni di Dacia, Pannonia e Britannia. Del vadimonioum (Camodeca) si apprende la struttura unitaria, composta della menzione della vocatio ritualmente operata dall’aspirante attore e della domanda da questo rivolta all’avversario circa la futura sua ricomparizione in ius, cui accede una sola complessiva risposta di quest’ultimo. Dai documenti relativi ai contratti di mutuo, emerge invece la prassi di occultare nella somma formalmente numerata (e dunque oggetto dell’obbligazione), oltre al capitale, gli interessi predeterminati, che non sono così oggetto di un separato negozio e che neppure sono facilmente individuabili nella loro consistenza. L’aspetto esteriore delle tavolette consente infine una importante prova del recepimento nella periferia dell’impero delle leggi di Roma: prescrivendo infatti il senatoconsulto Neroniano adversus falsarios un certo modo di chiusura del documento, con passaggio plurimo del nastro lungo i bordi, il rinvenimento in Pannonia di tavolette recanti il solco predisposto per il passaggio del nastro in quel modo prescritto, attesta l’effettività della norma in quella regione.

Della repressione criminale in ambito municipale non sappiamo molto; a Roma, tra la fine della età repubblicana ed il primo principato andava generalizzandosi il sistema delle quaestiones perpetuae: una serie di indizi testuali lascia forse intendere che anche nelle comunità dell’Italia romana esistessero analoghi tribunali; altre fonti sembrano invece smentire decisamente l’assunto. È peraltro inverosimile che, limitando gravemente gli statuti municipali la giurisdizione privata dei magistrati locali, nessun limite vi fosse per quella criminale e che quindi il magistrato avesse la facoltà, sia pure de consilii sententia, di irrogare ed eseguire una condanna, anche capitale, nei confronti di un cittadino romano. Con ogni probabilità (Santalucia) erano rimessi alla competenza periferica una serie di fatti aventi rilevanza locale, come i brogli elettorali o le falsificazioni di liste e registri municipali, conosciuti tramite un procedimento multaticio, di rilevanza pubblica, rimesso – dopo una prima fase in iure – ad un collegio di recuperatori presieduto dallo stesso magistrato municipale. Restavano assorbiti alla competenza dei tribunali urbani, oltre ai fatti politici, i più gravi crimini ordinari. Il rapporto delle comunità con Roma del resto non si limitava ad una osmosi di funzioni pubbliche variamente ripartite: grande rilevanza assumeva infatti il legame originativo, formalizzato per il tramite del (ri)fondatore della città, il cui ruolo appare fondamentale tanto nelle colonie che presso i municipia (David): ai compiti iniziali di individuazione del sito di fondazione (dove già non vi fosse un agglomerato), del tracciato murario e del foro si univa quello di limitazione ed assegnazione delle terre; non meno importanti, inoltre, la dazione dello statuto – secondo le indicazioni ricevute da Roma -, la formazione del senato locale, la convocazione dell’assemblea popolare. Il fondatore – cittadino al tempo stesso del municipio e di Roma - acquistava il patronato sulla comunità locale e lo trasmetteva ai propri successori. Al modello costituzionale di ispirazione comune delle realtà municipali faceva eco un prototipo urbanistico (Gros), rinvenibile dalle emergenze archeologiche delle città fondate o ricostruite da Roma, improntato alla centralità non solo topografica dello spazio pubblico votato ai riti religiosi, politici, giuridici. Ogni città della romanità, proiezione ideale dell’Urbe, era effigies parva del popolo romano, che in effetti in essa quasi materialmente si identificava, preferendola ai consueti vincoli aggregativi di carattere etnico o religioso, propri delle comunità orientali. Ogni realtà conservava comunque una spiccata identità, talvolta custodita gelosamente, la quale si manifestava nel vincolo di appartenenza al singolo municipio, che determinava l’origo del soggetto ascritto (Thomas), già attestata in età augustea: allo scopo non era sufficiente una mera domiciliazione nell’ambito territoriale, rilevando necessariamente l’inclusione dell’oriundo nelle liste civiche. La circostanza ebbe grande rilievo per l’acquisto della cittadinanza romana in applicazione della lex Iulia, per la quale sarebbe divenuto civis ogni membro di una comunità municipale, purché residente nell’ambito territoriale di competenza. La stessa iscrizione nelle liste civiche municipali rilevava inoltre ai sensi della legge Plautia Papiria, per la quale avrebbe invece acquistato la civitas ogni cittadino municipale che ne facesse richiesta in Roma, purché residente in suolo italico, come nel celebre caso del poeta Archia. Il vincolo di appartenenza municipale con il tempo divenne anche il segno della soggezione munerale alla comunità locale, con le conseguenti difficoltà dei casi di soggetti portatori di più ‘cittadinanze’, come per prassi diffusa nel mondo ellenistico, anche romanizzato, e di migrazione da una città ad un’altra. Il rescritto imperiale di Vardagate testimonia (Gabba) l’attenzione della cancelleria imperiale ai risvolti fiscali della mobilità delle persone, nell’ottica della conservazione di una situazione di equilibrio ottenuta nel corso di più secoli dosando accuratamente gli strumenti oppressivi che sono tradizionalmente nella disponibilità del vincitore (espropriazioni, deduzioni altrove dei vinti, per citare i meno duri) ed i mezzi di promozione delle autonomie locali, rimodellate con l’inserimento progressivo nelle élites municipali di cittadini romani, aventi la funzione di polo gravitazionale del nuovo equilibrio socio-economico, e dunque associate nel sistema politico della Italia romana, che è maturato nella crisi del modello della città-stato.

Un più preciso resoconto degli interventi sarà pubblicato all’inizio del 2005 negli atti ufficiali del Cedant, cui si rinvia senz’altro aggiungere. Una cronaca del Collegio non può non soffermarsi su una serie di profili indubbiamente ulteriori rispetto alle pur importanti relazioni, ma che sono fortemente caratterizzanti e che ne rappresentano – si ritiene - il pregio più autentico: nelle tre settimane di svolgimento, i quindici giovani ricercatori hanno risieduto presso il Borromeo insieme ai relatori, i quali si sono spesso trattenuti per una o due settimane, assistendo alle lezioni dei colleghi ed intervenendo nelle discussioni che ne seguivano: ogni relazione, programmaticamente incentrata sugli aspetti problematici dei temi trattati, era infatti chiusa da un approfondito esame degli elementi salienti, messi di volta in volta in luce dal relatore, dai borsisti, dai docenti presenti. L’occasione si è presto trasformata per tutti in un contatto diretto; ciò che, almeno per i più giovani, difficilmente si verifica in altre occasioni di incontro. I punti controversi evidenziati potevano, negli intervalli e nei pomeriggi liberi, essere meglio precisati e talvolta avviati ad un principio di soluzione nell’ambito di ‘sessioni ristrette’ molto informali; l’indomani tornavano in aula sotto forma di tracce e diventavano possibili indirizzi di ricerca (oppure cadevano nel nulla, svuotati della suggestione che avevano subitaneamente esercitato). Oltre alla migliore tesaurizzazione dell’insegnamento, tale attività di riflessione tendeva alla assegnazione a ciascun ricercatore, o meglio alla individuazione da parte sua in conformità delle proprie inclinazioni, di un tema di indagine connesso alle problematiche municipali, da sviluppare autonomamente; tema che, ottimizzando l’occasione rappresentata dal Collegio, poteva essere estraneo agli interessi che fino ad allora egli aveva coltivato. Come è avvenuto per il primo anno, il seminario 2004 si sublimerà infatti nella pubblicazione di un volume collettaneo composto e – come anticipato - delle relazioni svolte dai docenti e dei contributi sviluppati dai giovani studiosi, sui temi che li hanno maggiormente stimolati: in settembre, fusi ormai in un testo, i risultati delle ricerche individuali dovranno essere illustrati ai docenti da parte dei borsisti, che raccoglieranno le ultime indicazioni e consegneranno entro l’anno le bozze finali dei loro lavori.

Il seminario, conformemente agli intendimenti degli organizzatori, è stato – per la seconda volta – un’occasione preziosa, unica, privilegiata per quanti vi hanno partecipato: in particolar modo per i giovani ricercatori, avendo loro consentito al tempo stesso un rapporto autenticamente diretto con molti autorevoli Maestri, impossibile nelle tradizionali sedi congressuali, un’occasione di sollecitazione culturale lungo percorsi eterogenei rispetto a quelli abituali, il cui spessore talvolta è emerso improvviso ed inatteso per chi prima di allora aveva trattato solo istituzionalmente il tema municipale, un’esperienza – inoltre – di ricerca e di lavoro con una guida autorevole e diversa dal proprio maestro abituale; un momento - infine - di aggregazione poliedrica e cordiale tra colleghi italiani e stranieri, letterati e giuristi, evidentemente portatori di storie culturali ed umane eterogenee.

L’impegno generosamente profuso dal direttore Mantovani e dai coordinatori Gabba e Capogrossi ha consentito il raggiungimento di un risultato di eccezionale livello ed ha consolidato la posizione di prestigio giustamente guadagnata nel panorama internazionale dell’alta formazione e della ricerca dal Collegio di diritto romano del Cedant nella passata edizione. Nel gennaio del prossimo anno l’esperienza si rinnoverà con un terzo Collegio, coordinato da A. Schiavone ed avente per tema «testi e problemi del giusnaturalismo romano».

 

 

giovanni gulina

Università di Firenze