DA ROMA ALLA TERZA ROMA
XXXVIII SEMINARIO INTERNAZIONALE DI STUDI STORICI
Campidoglio, 20-21 aprile 2018
Università ‘Roma Tre’
IMPERO RUSSO E MONDIALIZZAZIONE TRA ESCATOLOGIA E GEOPOLITICA
SOMMARIO: 1. Premessa. – 2. Spazio imperiale e proiezione universale. – 3. Messianismo e bolscevismo. – 4. Territorializzare la Rivoluzione.
Jürgen Hosterhammel, nel suo importate lavoro sulla storia globale dell’Ottocento, inserisce la Russia nel complesso processo di trasformazioni che cambiarono il mondo conducendolo nell’età contemporanea. Lo storico tedesco osserva come il XIX secolo sia stato secolo degli imperi piuttosto che dell’espansione degli Stati nazionali[1]. In questo contesto l’Impero russo prese parte in maniera rilevante ai processi di mondializzazione attraverso un articolato fascio di interconnessioni e interazioni di cui fu protagonista. L’aspetto geopolitico costituì una componente non secondaria di tale processo. Le proiezioni della Russia in Asia costituirono uno snodo di grande rilievo per la formazione di un orizzonte che diventava vieppiù mondiale[2]. Lo spazio continentale euroasiatico settentrionale, cioè lo spazio russo, ha rappresentato uno degli ambiti di maggiore rilevanza per lo sviluppo delle interconnessioni mondiali.
Lo storico tedesco sottolinea il ruolo avuto dall’Impero russo nei processi che hanno riguardato la riconfigurazione territoriale del mondo. La vicenda russa è affiancata a quella degli Stati Uniti e del Canada per indicare la rilevanza del fenomeno della formazione e del consolidamento di Stati dall’ampia estensione territoriale[3]. Un riflesso di tali processi furono le teorie geografiche di Friederich Ratzel sulla legge della crescita spaziale degli Stati e la nascita della geopolitica, fino alle idee schmittiane sui «grandi spazi»[4]. La dimensione spaziale e le ideologie imperiali dello spazio hanno costituito una chiave della partecipazione della Russia ai processi di mondializzazione dell’età contemporanea[5].
La collocazione della Russia nel mondo si è misurata, a partire dall’età moderna, con un paradigma ideologico secondo il quale al popolo russo è attribuita una missione universale da svolgere nella storia. In altre parole, la Russia è chiamata a esercitare una funzione di valore universale, connessa con il destino stesso del mondo, potremmo dire con il senso e la direzione della storia o con la salvezza del mondo, a seconda di quali coordinate assiologiche si assumano come riferimenti del discorso.
Una tale visione si è formata, a partire dalla conquista di Kazan’ e Astrachan’ alla metà del XVI secolo, nel quadro di un ordinamento statale e di un universo mentale e culturale di tipo imperiale[6]. La trama imperiale, pur avendo conosciuto evoluzioni, modifiche, strappi, rattoppi nel corso dei secoli, ha costituito il filo di continuità di un canovaccio storico travagliato. A essa ha prestato particolare attenzione la ricerca storiografica che, a partire dagli anni Novanta del secolo scorso, si è interrogata su nuovi paradigmi interpretativi della storia russa ed euroasiatica[7]. D’altro canto continua a essere una categoria non scevra di valore ermeneutico anche per la Russia attuale, che non può essere interpretata secondo i parametri dello Stato nazione[8].
Richard Wortman ha osservato come il termine impero abbia avuto in Russia differenti significati tra loro correlati: il potere supremo indipendente da ogni altra istanza, l’espansione imperiale con la conquista di ampi territori, l’eredità dell’impero cristiano bizantino difensore dell’ortodossia[9]. L’Impero romano d’Oriente si concepiva come universale, immagine terrestre del Regno di Dio, il cui spazio in teoria «corrispondeva, secondo l’ideologia politica ufficiale, all’intero mondo abitato, l’oikoumene»[10]. L’orizzonte dell’uomo bizantino era all’interno dell’impero cristiano[11].
Un’idea universale che giustifichi l’esistenza della Russia e ne ispiri la sua collocazione nel mondo ha rappresentato un tratto costitutivo del concetto di impero elaborato dalle élite politiche, religiose e intellettuali dello Stato russo nel corso della sua vicenda storica[12]. In altre parole potremmo dire che ci deve essere una prospettiva ideologica, mitologica, universale, perché lo Stato russo possa esercitare nel mondo il ruolo che gli è proprio, in quanto Stato di carattere imperiale. Un ruolo che per sua natura ha una proiezione mondiale, anche perché iscritto in un paradigma di senso di valenza universale.
Tale concezione si è coniugata con un aspetto fondamentale della vicenda russa, ovvero quello della preminente rilevanza che ha acquisito la dimensione spaziale. L’impero russo «non è stato l’impero del popolo russo, ma è stato l‘impero dello spazio russo»[13]. Lo spazio infatti costituisce una «dimensione primaria dell’esperienza russa»[14]. Ha scritto a questo riguardo Aleksandr Achiezer: «Il significato eccezionale dello spazio nella storia della Russia è diventato un fattore potente di stimolo per il pensiero in Russia, per il bisogno di individuare il suo ruolo e il suo posto nella storia, il suo significato per la società, per la cultura»[15].
La Russia si presenta, in un certo senso, primariamente come una categoria spaziale. È un dato identitario, culturale, politico di primaria rilevanza. Il rapporto con lo spazio è pertanto costitutivo della collocazione dei russi nella storia. La Russia non ha conosciuto una mistica del sangue, come è avvenuto in altri contesti nazionali, ma piuttosto una mistica dello spazio o della terra.
Un interprete, per molti versi sui generis dell’idea russa, Nikolaj Vasil’evič Ustrjalov, fondatore del movimento nazionalbolscevico negli anni Venti del XX secolo, in un articolo pubblicato nel 1921 esprimeva la pregnanza di significato che l’universo culturale russo attribuiva all’elemento spaziale: «Si sbaglia di grosso chi ritiene il territorio un elemento ‘morto’ dello Stato, indifferente alla sua anima. Io sono pronto ad affermare piuttosto il contrario: proprio il territorio è la parte più essenziale e preziosa dell’anima statale, nonostante il suo apparente carattere ‘grossolanamente fisico’»[16]. Il complesso intreccio tra spazio imperiale, identità russa, proiezione universale e prospettiva escatologica costituisce un carattere di lungo periodo dell’universo culturale e religioso russo e della sua relazione con il mondo esterno.
In una qualche misura è la dimensione spaziale ad alimentare la proiezione universale e a sua volta la proiezione universale stimola l’espansione spaziale. L’eccesso di spazio non può che suscitare un’idea universale che giustifichi e collochi nel mondo quello spazio ipertrofico che è la Russia.
Lo spazio euroasiatico ha le caratteristiche di un “campo” aperto. Uno spazio con tali caratteristiche ha costituito la precondizione dell’azione geopolitica della Russia: senza questo spazio la sua espansione non avrebbe avuto luogo. Tuttavia l’espansione della Russia, la cui storia secondo la famosa definizione dello storico russo della seconda metà dell’Ottocento, Vasilij Osipovič Ključevskij, è quella di «un paese che colonizza se stesso»[17], è stata concepita come un allargamento dello spazio russo e non come l’acquisizione di “bottini di guerra”. I russi nella loro espansione non conquistavano un patrimonio territoriale di “colonie”, che sarebbero andate a costituire possedimenti “altri” rispetto allo spazio metropolitano originario. L’espansione era considerata come un processo di allargamento delle “terra russa”[18]. La “terra russa” infatti è uno dei mitologemi più antichi della storia degli slavi orientali, le cui origini risalgono alla Rus’ di Kiev, tra X e XI secolo; esso è stato un potente fattore di legittimazione dell’affermazione dello Stato moscovita, tra XIII e XV secolo, e ha continuato a esercitare la sua influenza fino ai nostri giorni[19].
L’espansionismo russo conseguentemente si è configurato, in misura per certi versi alquanto paradossale, come “difensivo”, secondo la formula dell’“imperialismo difensivo”, che Marc Raeff ha mutuato dagli storici dell’impero romano[20]: la frontiera russa assumeva la funzione difensiva di proteggere lo spazio russo, costituito dai pezzi di territorio progressivamente acquisiti e assimilati dai russi, i quali in tal modo concorrevano a formare la “terra russa”. La necessità di difendere lo spazio così acquisito comportava, secondo tale schema, l’esigenza di spostare ulteriormente le frontiere e quindi di espandere il territorio, al fine di allontanare il pericolo esterno.
Una tale radicata spazialità ha contribuito a territorializzare le idee universali che la Russia ha acquisito nel corso della sua storia quali assi di riferimento delle sue visioni geopolitiche.
Nella tradizione bizantina la funzione escatologica dell’impero era connessa all’idea di Katéchon. La categoria, come è noto, è di origine neotestamentaria e la sua paternità appartiene all’apostolo Paolo, che nella seconda lettera ai Tessalonicesi, nel quadro di un discorso di carattere escatologico, fa riferimento a un Katéchon, vale a dire a un qualcosa o un qualcuno che trattiene il mistero di iniquità, cioè il male, e impedisce la manifestazione dell’Anticristo[21]. Tale concetto, che nel corso dei secoli, fin dall’epoca patristica, è stato oggetto di numerose interpretazioni, ha avuto notevole fortuna nella teologia e nella filosofia politiche. Infatti, l’approccio ermeneutico più diffuso è stato quello che ha identificato il Katéchon con la forma di impero, dapprima con l’Impero romano, e poi con quello bizantino, con il Sacro romano Impero o con l’Impero russo[22].
L’universo russo ha ereditato da Bisanzio la categoria di Katéchon per definire la missione dell’impero, quale ostacolo all’affermazione del disordine apocalittico. L’ordine che l’Impero zarista si riteneva preposto a mantenere acquisì nella reinterpretazione russa un carattere maggiormente geopolitico, rivolto all’esterno. La sua variante secolare, che ebbe a prevalere a partire dall’età petrina, fu l’idea della Russia come “scudo” d’Europa. L’impero russo si sentiva investito del ruolo di difendere l’ordine europeo da chi attentasse alla sua stabilità: fu questa la giustificazione degli interventi militari di Alessandro I contro Napoleone e di Nicola II contro la Germania, come anche della partecipazione alla Santa Alleanza o del ruolo di gendarme d’Europa che Nicola I ascrisse alla Russia[23]. Giovanni Capodistria, plenipotenziario dello zar Alessandro I al congresso di Vienna, definì la firma dell’atto di fondazione della Santa Alleanza: «l’unico sistema che può salvare l’umanità». «Il conseguimento della pace in Europa, la salvezza dell’umanità – ha commentato Michail Jakovlevič Geller –, sono il compito principale dell’imperatore di Russia nel 1814-1820»[24].
Tuttavia a questa funzione di “scudo”, si contrapponeva quella speculare della Russia “pericolo” d’Europa, di cui nell’ottobre 1917 il potere rivoluzionario si fece interprete in qualità di protagonista della distruzione dell’ordine costituito. In qualche modo la funzione di Katéchon dello Stato russo, nella sua prospettiva di lunga durata, si è collocata lungo un asse antinomico i cui due poli sono stati “trattenere” e “distruggere”, in corrispondenza d’altronde dell’ambivalenza insita al potere catecontico[25]. La Russia, in questa funzione escatologica, ha assunto il ruolo di ostacolo a qualsiasi progetto geopolitico globale: «è l’ultimo tassello di qualsiasi ‘puzzle’ geopolitico, senza il quale il quadro non riesce». In questo senso essa può essere considerata «sia il principale custode del mondo, sia la sua principale minaccia»[26].
Geoffrey Hosking ha rilevato come il sentimento nazionale russo abbia acquisito facilmente forme messianiche e universalistiche, che sono state fatte proprie, in una versione rinnovata, anche dal marxismo sovietico[27]. Sono note in questo senso le riflessioni di Nikolaj Aleksandrovič Berdjaev sul carattere religioso del popolo russo e sul comunismo russo come «deformazione della vecchia idea messianica russa»[28]: «L’idea russa è escatologica, rivolta al fine ultimo. Di qui il massimalismo russo»[29].
Il potere bolscevico si presentò sulla scena mondiale con un progetto rivoluzionario di sovversione globale. La rivoluzione mondiale fu, infatti, nei primi anni del potere leniniano l’obiettivo che il nuovo gruppo dirigente a Mosca intendeva perseguire sullo scenario internazionale nei turbolenti passaggi del dopoguerra. La rivoluzione era percepita come un momento decisivo di palingenesi della realtà russa e pertanto del mondo[30].
Da Pietrogrado e Mosca la scintilla rivoluzionaria si sarebbe diffusa all’Europa e soprattutto alla Germania, per condurre a un abbattimento generale del sistema capitalistico. I bolscevichi si dotarono di uno strumento di azione politica internazionale, il Komintern, il «partito mondiale della rivoluzione», la cui costituzione risultava atipica soprattutto a motivo della sua connessione organica con uno Stato. Agente di collegamento e direzione dell’azione rivoluzionaria del movimento comunista internazionale, esso era però allo stesso tempo un organismo che faceva della sua connessione al potere bolscevico in qualche modo la propria ragione sociale, tanto da assumere gli obiettivi e gli interessi dello Stato governato dai rivoluzionari russi come obiettivi e interessi del movimento comunista internazionale.
La convinzione dei bolscevichi, alla presa del potere nell’ottobre del 1917, era che l’utopia universalista di cui erano portatori si sarebbe affermata a breve su scala mondiale, ovvero che sarebbe scoppiata da lì a poco la rivoluzione mondiale. In questo senso gli eventi russi dell’ottobre erano il primo passo di una trasformazione palingenetica che sarebbe passata attraverso la demolizione del vecchio ordine. Tuttavia, se negli anni immediatamente successivi al 1917 la rivoluzione mondiale costituiva l’orizzonte prioritario della visione politica elaborata da Lenin e dal gruppo dirigente bolscevico, tale spinta utopica, tuttavia, si coniugava con le esigenze più prettamente geopolitiche che sovrintendevano alla gestione militare e politica dei vari fronti della guerra civile all’interno dello spazio imperiale russo. La difesa del potere rivoluzionario dagli eserciti bianchi o il sostegno alla componente bolscevica del fronte rivoluzionario in alcune aree dell’ex impero (Ucraina, Transcaucasia) erano motivazioni ideologiche genuine al servizio della realizzazione dell’utopia che spingevano la dirigenza bolscevica a scelte belliche e geopolitiche di espansione spaziale del proprio potere.
Tuttavia non si può non osservare come appunto la dimensione spaziale fosse insita alla vicenda bolscevica fin dai suoi primi passi nel quadro di una cultura geopolitica di carattere imperiale. L’invasione dell’Ucraina tra il dicembre del 1917 e il gennaio 1918, decisa da Lenin e Stalin, allora commissario alle nazionalità, alle origini della guerra civile, presentava indubbi tratti di continuità con l’eredità imperiale. D’altro canto, anche la firma della pace di Brest-Litovsk, che comportò cospicui sacrifici territoriali e che potrebbe essere considerata l’espressione evidente della rinunzia a una prospettiva geopolitica a favore di quella utopica – sacrificare lo spazio per salvare la rivoluzione –, a ben guardare fu la scelta fortemente voluta da Lenin, contro l’opinione della maggioranza dei dirigenti del partito capeggiati da Nikolaj Ivanovič Bucharin, di privilegiare la difesa dello Stato alla causa della rivoluzione, che avrebbe invece richiesto di continuare a combattere la guerra rivoluzionaria a oltranza, pur nella certezza di una sconfitta militare, nell’attesa dell’inevitabile scoppio della rivoluzione europea. La rivoluzione aveva bisogno dello Stato per potere disporre di un suo spazio: la salvaguardia dello Stato, alla base della pace di Brest-Litovsk, costituiva una condizione necessaria all’azione di espansionismo “difensivo” che il potere rivoluzionario conduceva nel quadro della guerra civile. L’utopia necessitava di spazio per potersi immettere nella storia, e tale spazio era lo “spazio russo”.
Con la fine delle speranze rivoluzionarie in Europa nei primi anni Venti, come è noto, la causa della rivoluzione mondiale venne sempre più identificandosi, pur non senza aspetti controversi, con quella dello Stato rivoluzionario, l’Unione Sovietica. L’istituzionalizzazione della Rivoluzione derivò dalla pretesa dei bolscevichi di rappresentare il punto di arrivo dell’itinerario del progresso, cioè della storia, come ha notato Martin Malia: la Rivoluzione bolscevica era «la rivoluzione che poneva fine a tutte le rivoluzioni»[31]. In questa convinzione non vi era solo il portato di una visione ideologica fondata sulla filosofia della storia marxista, ma vi era anche il contributo importante proveniente dalla tradizione di escatologismo radicata nella cultura russa.
Infatti, la principale dottrina politica della Russia zarista, rielaborata nel corso del XIX secolo, poggiante sull’idea di “Mosca terza Roma”, postulava proprio che l’Impero russo rappresentasse il compimento della translatio imperii. La sua formulazione, risalente al 1523-1524, è attribuita a un monaco di Pskov, Filofej. Il religioso ortodosso aveva fatto riferimento al testo bizantino del VI secolo di Cosma Indicopleuste che aveva presentato l’impero romano come regno eterno al servizio dell’economia della salvezza[32]. La dottrina dichiarava che dopo la caduta della prima e della seconda Roma, Mosca era diventata la “terza Roma” e una quarta non vi sarebbe stata.
L’idea di eternità attribuita all’impero e a Roma aveva assunto per i romani e i bizantini un carattere universale detemporalizzato e deterritorializzato. La translatio imperii, da Roma a Costantinopoli, ne era stata prova evidente: Roma si spostava dal Tevere al Bosforo. Analogamente, con la fine dell’impero bizantino nel 1453, le attese di un trasferimento dell’idea imperiale, e quindi di Roma, a Mosca, capitale dell’unico Regno cristiano ortodosso che potesse aspirare a tale eredità, potevano rientrare in questo paradigma di pensiero universalista. Tuttavia la reinterpretazione russa apportava una variazione di notevole rilievo. Nella formula proposta dal monaco di Pskov si affermava: «Due Rome sono cadute, la terza sta, e la quarta non ci sarà». In altre parole la dimensione universale, eterna e quindi in qualche modo detemporalizzata, acquisiva una sua durata temporale, in una prospettiva escatologica. Tale passaggio ne segnava anche la fuoriuscita dalla deterritorializzazione dell’ideale universale dell’impero, che si connetteva, in un legame oramai inscindibile, all’Impero russo, e quindi al suo elemento spaziale costitutivo, la “terra russa”. L’impero “eterno” diventava l’“ultimo”, quello russo, dopo il quale sarebbe stata la fine della storia. L’impero russo legava il valore universale dell’idea imperiale, interpretato in chiave cristiana anche come missione di custodia del vero cristianesimo ortodosso, a uno spazio determinato e lo proiettava in una prospettiva temporale storica, sebbene di carattere escatologico.
L’istituzionalizzazione della Rivoluzione si consolidò negli anni di Stalin, quando si realizzò la «transizione dallo slancio utopistico dei primi anni postrivoluzionari a una forma organizzata di messianismo, dotata di dogmi ideologici e di riti canonici»[33]. Senza indulgere a una raffigurazione ad effetto di Stalin come nuovo zar, riducendo così ad aspetti marginali gli elementi di differenziazione del sistema sovietico dall’Impero russo, occorre però riconoscere che non sono prive di fondamento le osservazioni di Vladislav Zubok e Konstantin Pleshakov:
«Stalin considerava se stesso come il fondatore del nuovo impero sovietico come pure l’erede del tradizionale impero russo. Era ciò una contraddizione nell’anima di un vero credente [nel comunismo]? Solo apparentemente, poiché per il marxista l’ideale era un impero universale e la Russia era vista come il suo cuore. Stalin voleva eguagliare il potere e lo splendore dei governanti del passato, degli zar, e sorpassarli»[34].
La concezione che Stalin aveva della sicurezza nazionale era fondata su una costruzione strategica il cui architrave era costituito dal dominio diretto o dal controllo del territorio[35]. A parere di Maksim Maksimovič Litvinov Stalin ragionava «secondo un antiquato concetto di sicurezza in termini di territorio – più ne hai più sei al sicuro»[36]. Nel 1937 Stalin, in occasione del ricevimento per il ventennale della Rivoluzione d’ottobre, aveva pronunciato parole significative in merito alla sua idea di quale eredità l’esperienza zarista avesse lasciato al regime sovietico:
«Gli zar russi hanno fatto molte cose cattive. Hanno rapinato e soggiogato il popolo. Hanno condotto guerre e si sono impadroniti di territori nell’interesse dei grandi proprietari fondiari. Ma una cosa buona l’hanno fatta: hanno creato uno Stato enorme, sino alla Kamčatka. Noi abbiamo ricevuto in eredità questo Stato. E per la prima volta noi, bolscevichi, abbiamo reso coeso e rafforzato questo Stato come Stato unitario e indivisibile»[37].
L’ipertrofia spaziale zarista non mancava di esercitare il suo fascino su Stalin. Vjačeslav Michajlovič Molotov, nelle conversazioni raccolte da Feliks Čuev, ha indicato chiaramente come il «paradigma della sicurezza territoriale»[38] abbia guidato i vertici dell’Unione Sovietica nelle relazioni internazionali di quegli anni: «Io ho visto il mio compito come ministro degli affari esteri nell’allargare il più possibile i confini della nostra patria. Noi con Stalin non ce la siamo cavata male con questo compito, almeno così sembra»[39].
L’aspetto territoriale si coniugava con quello ideologico-sistemico nell’imporre la sovietizzazione non solo alle regioni annesse all’URSS, ma anche ai paesi che entravano nella sfera di influenza di Mosca, come Stalin ebbe a dire nell’aprile del 1945 in una famosa affermazione riportata da Milovan Djilas: «Questa guerra è diversa da tutte quelle del passato; chiunque occupi un territorio gli impone anche il suo sistema sociale. Ciascuno impone il suo sistema sociale fin dove riesce ad arrivare il suo esercito; non potrebbe essere diversamente»[40].
La concezione della sicurezza e della politica internazionale dello stalinismo si formò in un intreccio di rappresentazioni geopolitiche, stimolate dalle logiche della politica di potenza, e di comprensioni ideologiche del mondo esterno. L’elaborazione di una politica estera fondata sulle sfere d’influenza fu il risultato di una sintesi di valutazioni ispirate ai principi della Realpolitik, in continuità con gli interessi geopolitici tradizionali dello Stato russo, e di percezioni ideologiche della realtà internazionale fondate sulla contrapposizione sistemica fra mondo comunista e capitalismo. L’idea delle sfere d’influenza, che doveva portare alla creazione di una fascia di sicurezza alle frontiere occidentali dell’URSS, come ha osservato Gabriel Gorodetsky, era «un’eredità degli zar russi, che avevano avvertito il libero accesso al Mar Nero al sud e al Mar Baltico al nord indispensabile affinché la Russia potesse affermarsi come la maggiore potenza europea e potesse difendere le sue vulnerabili frontiere»[41]. In una conversazione con Molotov, Vladimir Georgievič Dekanozov e Georgi Dimitrov, Stalin, nel novembre del 1940, a proposito della proposta di un patto di mutua assistenza rivolta dal governo di Mosca a quello di Sofia, osservò: «Noi facciamo rilevare al governo bulgaro che una minaccia alla sicurezza di entrambi i paesi viene dal Mar Nero e dagli Stretti e che occorrono sforzi congiunti per garantire questa sicurezza. Storicamente la minaccia è venuta sempre da lì: la guerra di Crimea, l’occupazione di Sebastopoli, l’intervento di Vrangel’ nel 1919 ecc.»[42].
Il risultato era una «simbiosi di espansionismo imperiale e proselitismo ideologico» che è stata definita «il paradigma rivoluzionario-imperiale»[43]. Il leader sovietico perseguì «la sicurezza attraverso l’impero», per utilizzare una felice espressione di Vojtech Mastny[44]. Sono significative, a tal proposito, le impressioni riportate da Edvard Beneš sui suoi incontri con i dirigenti sovietici a Mosca nel dicembre 1943: «L’impero sovietico si identifica oggi con ciò, che sul piano internazionale rappresentava l’impero russo»[45].
Ha scritto Berdjaev nel suo lavoro sull’idea russa:
«Ma non è un caso se il nostro paese è così vasto. La sua vastità è provvidenziale ed è legata all’idea e alla vocazione del suo popolo. L’immensità della Russia è una sua proprietà metafisica, non solo una proprietà della sua storia empirica. La grande cultura spirituale russa poteva appartenere solo a un enorme paese, a un enorme popolo; la grande letteratura russa non poteva svilupparsi che in un popolo numeroso, abitante una terra immensa. La letteratura russa e il pensiero russo erano compenetrati di odio per l’impero, ne denunciavano l’iniquità. Ma, al tempo stesso, presupponevano l’impero, presupponevano l’immensità della terra russa. È una contraddizione inerente alla stessa struttura spirituale del nostro paese e del nostro popolo»[46].
Questa pagina, scritta nel 1946 dal pensatore russo, rende con efficacia stilistica e voluta contraddittorietà argomentativa il paradigma fondamentale del rapporto tra escatologia e geopolitica nell’universo russo, quello di un’idea universale territorializzata. L’identità russa nel periodo zarista, e anche in quello sovietico, non si è fondata su di un’ideologia secolarizzata e particolarista, ma prevalentemente su di un pensiero universalista di carattere messianico, che ha trovato nell’impero la naturale forma di espressione.
[Un evento culturale, in quanto
ampiamente pubblicizzato in precedenza, rende impossibile qualsiasi valutazione
veramente anonima dei contributi ivi presentati. Per questa ragione, gli scritti
di questa parte della sezione “Memorie” sono stati valutati “in chiaro” dal
Comitato promotore del XXXVIII Seminario internazionale di studi storici “Da
Roma alla Terza Roma” (organizzato dall’Unità di ricerca ‘Giorgio La Pira’
del CNR e dall’Istituto
di Storia Russa dell’Accademia delle Scienze di Russia, con la
collaborazione della ‘Sapienza’ Università di Roma, sul tema: «IMPERO
UNIVERSALE, CITTÀ, COMMERCI: DA ROMA A MOSCA, A NERČINSK») e dalla
direzione di Diritto @ Storia].
[1] Jü. Osterhammel,
The Transformation of the World. A Global History of the Nineteenth Century,
Princeton, NJ-Oxford 2014 (ed. or. München 2009, traduzione di Patrick
Camiller), 392.
[2] Cfr. A.J. Rieber, The Struggle for the
Eurasian Borderlands. From the Rise of Early Modern Empires to the End of the
First World War, Cambridge-New York 2014.
[3] Jü. Osterhammel, The Transformation of
the World, cit., 361 ss. Si veda anche M.
Bassin, Turner, Solov’ev, and the “Frontier Hypothesis”: The National
Signification of Open Spaces, in Journal of Modern History 65, 1993,
473 ss.
[4] Jü. Osterhammel, The Transformation of
the World, cit., 108. Cfr. anche M.
Bassin, Imperialism and the nation state in Friedrich Ratzel’s
political geography, in Progress in Human Geography 11/4, 1987, 473
ss.
[5] Per alcune riflessioni sulla dimensione spaziale nella storia si veda A. Roccucci, Spatial turn e geopolitica. Il nesso spazio-temporale e il carattere plurale della storia, in Il mestiere di storico 2, 2016, 23 ss.
[6] Sulla vicenda imperiale della Russia si
rinvia a The Cambridge History of Russia, vol. II, Imperial
Russia, 1689-1917, ed. D. Lieven, Cambridge 2006.
[7] Si veda M. von Hagen, Empires, Borderlands, and
Diasporas: Eurasia as Anti-Paradigm for the Post-Soviet Era, in The
American Historical Review 109/2, 2004, 445 ss.
[8] Alcune considerazioni in questo senso nel mio Per la Russia l’impero resta la carta vincente, in Limes 3, 2002, 177 ss.
[9] R.S. Wortman, Scenarios of Power: Myth and Ceremony in Russian Monarchy, 2 voll., Princeton, NJ 1995-2000. Si veda anche J. Meyendorff, Ot Vizantii k Rossii: religioznoe i kul’turnoe nasledie [Da Bisanzio alla Russia: l’eredità religiosa e culturale], in Id., Rome, Costantinople, Moscow: Historical and Theological Studies, Crestwood, NY 1996 (trad. russa di L.A. Uspenskaja, Rim-Kostantinopol’-Moskva. Istoričeskie i bogoslovskie issledovanija, Moskva 2005, 157 ss.).
[10] C.G. Pitsakis, Dalla Nuova Roma al Commonwealth bizantino: il modello politico-religioso di Costantinopoli e la sua espansione oltre i confini dell’impero, in L’Ortodossia nella nuova Europa. Dinamiche storiche e prospettive, a cura di A. Pacini, Torino 2003, 3 ss., la citazione è a 31.
[11] Si vedano le osservazioni di J. Meyendorff, Byzantine Theology, New York 1974 (trad. italiana di C. Impera, La teologia bizantina. Sviluppi storici e temi dottrinali, Nota introduttiva di L. Perrone, Casale Monferrato 1984, 256 ss.). Cfr. tra le tante opere: S. Runciman, The Byzantine Theocracy, Cambridge 1977 (trad. italiana di V. Peri, Firenze 1988); C. Mango, Byzantium. The Empire of New Rome, London 1980 (ed. italiana a cura di P. Cesaretti, La civiltà bizantina, Roma-Bari 1998); L’uomo bizantino, a cura di G. Cavallo, Roma-Bari 1992; S. Ronchey, Lo Stato bizantino, Torino 2002.
[12] Cfr. D.G. Rowley, Imperial versus national
discourse: the case of Russia, in Nations and Nationalism 6, 2000,
23 ss.
[13] F. Razumovskij, Prostranstvo kak proročestvo [Lo spazio come profezia], in Ekspert, 13 gennaio 2008, 29. Si vedano Spazio e centralizzazione del potere [Da Roma alla Terza Roma. Documenti e studi], a cura di M.P. Baccari, Roma 1984; Russian Empire. Space, People, Power, 1700-1930, eds. J. Burbank, M. von Hagen, A. Remnev, Bloomington-Indianapolis IN 2007; Space, Place and Power in Modern Russia. Essays in the New Spatial History, eds. M. Bassin, Ch. Ely, M.K. Stockdale, DeKalb, IL 2010.
[14] V. Strada, EuroRussia. Letteratura e cultura da Pietro il Grande alla rivoluzione, Roma-Bari 2005, 19.
[15] A. Achiezer, Rossijskoe prostranstvo kak predmet osmyslenija [Lo spazio della Russia come oggetto di interpretazione], in Otečestvennye zapiski 6, 2002, 72.
[16] Il brano dell’articolo di Nikolaj Ustrjalov, Patriottica, pubblicato nel 1921, è citato in V. Strada, Lenin, Stalin, Putin. Studi su comunismo e postcomunismo, Soveria Mannelli 2011, 150.
[17] V.O. Ključevskij, Sočinenija [Opere], vol. I, Kurs russkoj istorii. Čast’ I [Corso di storia russa. Parte prima], Moskva 1987, 50.
[18] Su tali questioni utile consultare anche D. Trenin, The End of Eurasia: Russia on the Border Between Geopolitics and Globalization, Washington, DC 2001, 37 ss.
[19] Su tali questioni si vedano le riflessioni contenute nel saggio di T. Lersarjan, Beskrajnjaja ravnina konca vremen [La sconfinata pianura della fine dei tempi], in Otečestvennye zapiski 3, 2002, 10 ss.
[20] M. Raeff, Un empire comme les autres?, in Cahiers du monde russe et
soviétique 30/3-4, 1989, 321 ss.
[21] Cfr. 2Ts 2.1-10. Il riferimento al Katéchon è al versetto sette.
[22] Cfr. M. Cacciari, Il potere che frena. Saggio di teologia politica, Milano 2013, 27. Si veda anche il numero 2008/2009 dell’annuario Politica e Religione dal titolo Il Katéchon (2Ts 2,6-7) e l’Anticristo. Teologia e politica di fronte al mistero dell’anomia.
[23] Si vedano sugli aspetti ideologici della
politica di potenza dell’Impero russo e anche sugli elementi di continuità con
l’esperienza dell’Unione Sovietica: D. Lieven,
Empire. The Russian Empire and Its Rivals,
London 2003; K. Kumar, Visions
of Empire. How Five Imperial Regimes Shaped the World, Princeton, NJ-Oxford
2017, 213 ss. Cfr. anche D. Groh,
Russland und das Selbstverständnis Europas. Ein Beitrag zur europäischen
Geistesgeschichte, 1961, trad. italiana a cura di C. Cesa, La Russia e
l’autocoscienza dell'Europa, Torino 1980, 90 ss.
[24] M.Ja. Geller, Istorija Rossijskoj imperii [Storia dell’impero russo], vol. II, Moskva 2001, 212.
[25] Si veda V. Šnirel’man, Antichrist, katechon i Russkaja revoljucija [L’Anticristo, il Katéchon e la Rivoluzione russa], in Gosudarstvo religija crekov’ v Rossii i za rubežom 37/1-2, 2019, 488 ss.
[26] T. Lersarjan, Beskrajnjaja ravnina konca vremen, cit., 23.
[27] Cfr. G. Hosking, Russia: People and Empire, Cambridge, MA 1997. Su questo tema si veda P.J.S. Duncan, Russian Messianism: Third Rome, Revolution, Communism and After, London 2000.
[28] N. Berdjaev, Istoki i smysl russkogo kommunizma, Paris 1955, trad. italiana di L. Dal Santo, Le fonti e il significato del comunismo russo, con una nota di A. Kolosov, Milano 1985, 236.
[29] Id., Russkaja Ideja. Osnovnye problemy russkoj mysli XIX veka i načala XX veka, Paris 1946, trad. italiana di C. De Lotto, L’idea russa. I problemi fondamentali del pensiero russo (XIX e inizio XX secolo), a cura di C. De Lotto, introduzione di G. Riconda, Milano 1992, 244.
[30] Una recente rassegna della storiografia sulla Rivoluzione del 1917 è in V.V. Tichonov, S.V. Žuravlev, Sto let izučenija revoljucii: istoriografičeskie tradicii i sovremennost’ [Cento anni di studio della Rivoluzione; tradizioni storiografiche e contemporaneità], in Rossijskaja revoljucija 1917 goda: vlast’, obščestvo, kul’tura [La Rivoluzione russa del 1917: potere, società, cultura], a cura di Ju.A. Petrov, vol. I, Moskva 2017, 26 ss. Si vedano anche i contributi pubblicati nel numero 16/4, 2015, della rivista Kritika: Explorations in Russian and Eurasian History, nella sezione intitolata State of the Field: 1917 on the Eve of the Centenary, 733 ss.; nel numero 58/1-2, 2017 di Cahiers du monde russe intitolato 1917. Historiographie, dynamiques révolutionnaires et mémoires contestées; nel numero 3, 2017 di Slavic Review dal titolo 1917-2017: The Russian Revolution a Hundred Years Later. Mi sia consentito infine di rinviare ad A. Roccucci, Ripensare la Rivoluzione. A cento anni dal 1917, in Rivoluzione, riforma, transizione, Atti della Summer School 2017 della Scuola di dottorato in Studi umanistici, Università Cattolica, a cura di A. Barzanò e C. Bearzot, Milano 2018, 5 ss.
[31] M. Malia, History’s
Locomotives. Revolutions and the Making of the Modern World, Edited and
with a Foreword by T. Emmons, New
Haven, CT-London 2006, 278.
[32] Si veda lo studio fondamentale di N.V. Sinicyna, Tretij Rim: Istoki i evoljucija russkoj srednevekovoj koncepcii XV-XVI vv. [La Terza Roma. Origini ed evoluzione della concezione medievale russa nei secoli XV-XVI], Moskva 1998.
[33] S. Pons, La rivoluzione globale. Storia del comunismo internazionale. 1917-1991, Torino 2012, 58.
[34] V. Zubok - C. Pleshakov, Inside the Kremlin’s Cold War. From Stalin to Khrushchev, Cambridge, MA-London 1996, 16.
[35] Si vedano le osservazioni di N.I. Egorova, Evropejskaja bezopasnost’ i «ugroza» NATO v ocenkach stalinskogo rukovodstva [La sicurezza europea e la “minaccia” della NATO nei giudizi della dirigenza staliniana], in Stalinskoe desjatiletie cholodnoj vojny. Fakty i gipotezy [Il decennio staliniano della guerra fredda. Fatti e ipotesi], Moskva 1999, 60.
[36] A. Graziosi, L’Urss dal trionfo al degrado. Storia dell’Unione Sovietica 1945-1991, Bologna 2008, 57.
[37] Le parole di Stalin sono riportate in G. Dimitrov, Diario. Gli anni di Mosca (1934-1945), a cura di S. Pons, traduzione dal russo di F. Ibba, per le parti in tedesco traduzione di P. Rosafio, Torino 2002, 81.
[38] Si veda S. Pons, In the Aftermath
of the Age of Wars: the Impact of World War II on
Soviet Security Policy, in Russia in the Age of Wars
1914-1945 [Annali della Fondazione Giangiacomo Feltrinelli, XXXIV, 1998], a
cura di S. Pons e A. Romano, Milano 2000, 306.
[39] Sto sorok besed s Molotovym. Iz dnevnika F. Čueva [Centoquaranta conversazioni con Molotov. Dal diario di F. Čuev], postfazione S. Kulešov, Moskva 1991, 14.
[40] M. Gilas, Conversations with Stalin, London 1962, trad. italiana di E. Spagnol Vaccari, Conversazioni con Stalin, Milano 1962, 121.
[41] G. Gorodetsky, Geopolitical Factors in
Stalin’s Strategy and Politics in the Wake of the Outbreak of World War II,
in Russia in the Age of Wars, cit., 239.
[42] Le parole di Stalin sono riportate in G. Dimitrov, Diario. Gli anni di Mosca, cit., 245.
[43] V. Zubok
- C. Pleshakov, Inside the
Kremlin’s Cold War. From Stalin to Khrushchev,
cit., 3 s.
[44] V. Mastny, The Cold War and Soviet Insecurity. The Stalin Years, Oxford-New York 1996, trad. italiana di A. Agrati, Il dittatore insicuro: Stalin e la guerra fredda, Milano 1998, 24.
[45] V.V. Mar’ina, Peregovory E. Beneša v Moskve (dekabr’ 1943 g.) [Le conversazioni di E. Beneš a Mosca (dicembre 1943)], in Voprosy istorii 1, 2001, 8.
[46] N. Berdjaev, L’idea russa. I problemi fondamentali del pensiero russo, cit., 217.