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Sacco-foto-2019Brevi considerazioni storico-religiose sul cinctus Gabinus

 

 

LEONARDO SACCO

Sapienza Università di Roma

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ABSTRACT

 

Il saggio esamina il tema del c.d. cinctus Gabinus, un particolare modo di indossare la toga che, stando al dettato di alcune fonti e agli studi, costituirebbe una tenuta connessa alle attività rituali e belliche. Secondo alcuni, si tratterebbe del retaggio delle relazioni intercorse tra l’antica comunità di Gabii, crogiolo forse della cultura greca, e Roma, mentre per altri autori, l’abbigliamento sarebbe già stato noto presso gli Etruschi. La studiosa italiana Anna Pasqualini ha supposto che il cinctus Gabinus fosse utilizzato in tutti quei frangenti in cui era necessario delimitare con auspici “singularia” lo spazio e sacralizzare il limite, il confine, tra dentro e fuori. A nostro avviso, invece, il cinctus Gabinus non vuole evidenziare solo il nesso, che pure esiste, tra il modus vestiendi e il concetto di “terminus”, inteso quale “confine” tangibile e astratto fra visioni distanti, ma individua precisamente l’atto di attraversare quell’“estremità”, superando la linea di demarcazione tra un interno e un esterno.

 

 

Le fonti antiche riferiscono, talvolta, di un modo caratteristico di portare la tunica, denominato cinctus Gabinus. La peculiarità di tale abbigliamento consisteva nel legare la sopravveste sui fianchi senza vincolare le braccia, così da garantire autonomia nei movimenti: retaggio, forse, delle relazioni intercorse tra Roma e Gabii, quest’abito si conservò in specifiche tipologie rituali connesse tanto alla sfera religiosa, tanto alla sfera militare. Data l’esiguità delle fonti che ne fanno menzione, non è agevole dare risposte definitive sulla valenza semantica del cinctus Gabinus sebbene non manchino autorevoli tentativi di inquadrarne il senso[1].

 

In quest’analisi, pertanto, e sulla scorta di quanto è stato scritto, cercheremo di fornire una via ulteriore con l’obiettivo di aprire nuovi squarci di luce intorno a una fattispecie arcaica le cui reali finalità non paiono ancora del tutto comprese. Tuttavia, leggendo attentamente i frammenti degli autori antichi sembrano emergere dati faticosamente controvertibili[2]. Secondo l’opinione di Anna Pasqualini:

 

«A Gabii fu fissata una liturgia augurale […] adottata (e resa manifesta attraverso quel modo peculiare di indossare la toga) in tutti quei frangenti in cui era necessario delimitare con auspici “singularia” lo spazio e sacralizzare il limite, il confine, tra dentro e fuori (riti di fondazione), tra guerra e pace (apertura del tempio di Giano e dichiarazione di guerra, protezione delle mura e amburbium), tra morte e vita (devotio e riti funebri)»[3].

 

Le affermazioni della studiosa appaiono legittime, plausibili e condivisibili; nondimeno, a nostro avviso, il cinctus Gabinus andava ben oltre la «sacralizzazione del limite e del confine tra dentro e fuori» indicando precisamente l’attraversamento del margine che separava un interno da un esterno – come in un metaforico “rito di passaggio”.

 

Fra la tarda età regia e l’epoca repubblicana, le parole cinctus Gabinus designavano un modus caratteristico di vestire la toga che – stando ad alcuni frammenti – risultava “nel far passare un lembo della sopravveste sulla spalla sinistra, riportandolo quindi sotto il braccio destro” (obvoluti toga super humerum sinistrum, dextro nudo), “fissandolo tramite un nodo frontale alla vita” (hominem cingat), in modo che “l’estremità che scendeva dietro la schiena potesse essere tirata sul petto” (una lacinia a tergo revocata adtrahitur ad pectus), lasciando ambedue le braccia libere con i drappi del costume penzoloni su entrambi i fianchi (ex utroque latere ex humeris picturae pendeant), ottenendo così un “abito” ben saldo intorno al corpo e che garantisse, al contempo, un’ampia libertà di movimento[4].

 

I frammenti in nostro possesso elencano cinque occasioni nelle quali si fa uso del cinctus Gabinus:

 

a)          nella fondazione di colonie

 

(Serv., Ad Aen. V.755: urbem designat aratro quem Cato in originibus dicit morem fuisse conditores enim civitatis taurum in dexteram, vaccam intrinsecus iungebant, et incincti ritu Gabino, id est togae parte caput velati, parte succincti, tenebant stivam incurvam, ut glebae omnes intrinsecus caderent, et ita sulco ducto loca murorum designabant, aratrum suspendentes circa loca portarum. unde et territorium dictum est quasi terriborium tritum bubus et aratro);

 

b)          in alcune vicende rituali riguardanti lustratio e/o amburbium

 

(Lucan., Phars. I.592-596: Mox iubet [Arruns] et totam pavidis a civibus urbem ambiri et, festo purgantes moenia lustro, longa per extremos pomeria cingere fines Pontifices, sacri quibus est permissa potestas. Turba minor ritu sequitur succinctu Gabino)[5];

 

c)          all’apertura della porta del tempio di Giano

 

(Verg., Aen. VII.611-614: has [sc geminae Belli portae], ubi certa sedet patribus sententia pugnae, / ipse Quirinali trabea cinctuque Gabino / insignis reserat stridentia limina consul, / ipse vocat pugnas);

 

d)          durante i sacrifici annuali della gens Fabia

 

(Liv. V.46.2: Sacrificium erat statum in Quirinali colle genti Fabiae. Ad id faciendum C. Fabius Dorsuo Gabino [cinctus in] cinctus sacra manibus gerens cum de Capitolio descendisset, per medias hostium stationes egressus nihil ad uocem cuiusquam terroremue motus in Quirinalem collem peruenit);

 

e)          nelle devotiones al Veseris

 

(Liv. VIII.9.9-12: In hac trepidatione Decius consul M. Valerium magna voce inclamat. Deorum inquit, ope, M. Valeri, opus est; agedum, pontifex publicus populi Romani, praei verba quibus me pro legionibus devoveam. Pontifex eum togam praetextam sumere iussit et velato capite …; Ipse incinctus cinctu Gabino, armatus in equum insiluit ac se in medios hostes immisit …)

 

e a Sentinum

 

(Liv. X.28.14-18: eadem precatione eodemque habitu quo pater P. Decius ad Veserim bello Latino se iusserat devoveri … concitat equum inferensque se ipse infestis telis est interfectus)[6].

 

L’eminente classicista Theodor Mommsen (1817-1903), ha teorizzato come l’origine di tale modus vestiendi fosse di natura guerriera e risalisse alle vicende belliche intercorse tra Roma e Gabii; d’altra opinione l’archeologo August Mau (1840-1909), che ha dato a questa particolar guisa di mettere la toga connotazioni esplicitamente rituali, essendo stata utilizzata in occasione dell’insediamento di alcune famiglie gabine a Roma[7]. A parere di Laura Bonfante Warren, il cinctus Gabinus sarebbe stato, invece, una mera tipologia di ornamento togale conosciuto già nel mondo etrusco[8]. Nel 1986, Annie Dubourdieu ha ipotizzato come il cinctus Gabinus si prestasse a due interpretazioni opposte e distinte: l’una di taglio squisitamente militare, l’altra di tipo religioso[9], sebbene in alcuni casi, come ad esempio nella devotio Deciana, l’indumentum venisse infilato per ambedue gli scopi[10]. Più esattamente, stando al pensiero della studiosa transalpina – che riprende e amplia le tesi di Fernand Courby (1878-1932) – il cinctus Gabinus non era un modo oscuro di portare la toga, che inizialmente avrebbe escluso la velatura del capo, ma piuttosto una consuetudo che, gradualmente, si sarebbe omogeneizzata con quella[11]. Nella devotio, tuttavia, l’atto del consul che, dopo essersi votato agli dèi (velato capite) e (incinctus cinctu Gabino), si inoltrava (armatus in equum) tra le schiere nemiche, stava a indicare anche la continuità di una “condotta religiosa” che richiamava – simultaneamente – la tutela e il deorum favor: la toga praetexta, il cinctus Gabinus e il caput velatum costituivano, perciò, gli elementi distintivi del devovens/devotus nella sua funzione di mediatore rituale[12]. La copertura del capo, in questa circostanza, avrebbe garantito una protezione da qualunque situazione di disturbo tale da compromettere la riuscita del ritus.

 

Per Emilio Peruzzi (1924-2009), già Professore di Glottologia alla Scuola Normale di Pisa, il cinctus Gabinus sarebbe originato dalla combinazione di influssi culturali greci nell’ambiente pre-romano dell’VIII secolo a.C. Lo studioso, basando le proprie teorie sulle notizie tramandate dagli storici greci Dion. Hal. (Antiq. Rom. 1.84.5), Plut. (Rom. 6.2; Moral. [de fort. Roman.] 8.320e), su peculiari indagini etimologiche, ritrovamenti archeologici e sull’ampio reticolo di relazioni intercorrenti fra Roma e Gabii, ipotizzò che proprio in quest’ultima località, posta sul tracciato della Via Prenestina, a circa 15 km dalla Porta Maggiore, i gemelli Romolo e Remo potrebbero essere stati allevati e istruiti alla lingua greca e alla cultura militare[13].

 

Seguendo un proprio iter ermeneutico, Paolo Carafa ha supposto che, nel cinctus Gabinus, la toga venisse appoggiata sul braccio sinistro e sulla spalla corrispondente, mentre il “lembo” (lacinia) che ricadeva dietro la schiena era fatto passare sotto il braccio destro, in modo da fasciare completamente i fianchi. La “sopravveste” (amictus), pertanto, risultava completamente distesa, ricadendo fino ai piedi di chi la portava, mentre l’indicazione super humerum sinistrum sarebbe stata riferita sia alla spalla sia al braccio e le picturae pendentes avrebbero fatto chiara allusione allo scivolamento del sinus fino ai piedi[14]. Questa argomentazione sembra contraddire, però, una delle presunte prerogative del cinctus Gabinus, ovvero il fatto stesso che la tenuta fosse (sub)cincta, per consentire di combattere, come – d’altronde – attestano le fonti (Fest. 67L: apud antiquos togis incincti pugnitasse dicuntur; 251L: procincta classis dicebatur, cum exercitus cinctus erat Gabino cinctu, confestim pugnaturus). I termini succinctus / incinctus ritu Gabino indicano, infatti, come la toga fosse vestita (cincta) per non ostacolare le movenze, circostanza suffragata anche dal fatto che il termine succinctus era impiegato per indicare il costume dei victimarii (Prop. IV.3.62) e quello, molto simile, adottato in età imperiale dai Luperci (Val. Max. II.2.9), senza dimenticare che la stessa Diana è sovente rappresentata succincta, come pure «i Lares erano incincti o subcincti e, secondo gli Scholia ad Persium, avrebbero vestito il cinctus Gabinus»[15]. L’uso del vocabolo succinctus induce, perciò, a rifiutare il modello di un abito togale che avvolgesse interamente il corpo[16], laddove nelle picturae pendentes potrebbero essere riconosciute le estremità della sopravveste lasciate ciondolare liberamente dopo essere passate sotto la “cintura” (licium) che cingeva i fianchi: d’altra parte, il rilievo di Aquileia, raffigurante una scena di aratura compiuta da alcuni magistrati, atto in cui secondo le fonti gli aratori indossavano proprio il cinctus Gabinus, non smentirebbe tale ricostruzione[17]. In tale ottica, sembrerebbe riscuotere maggior plauso la tesi di Megan Goldman-Petri, secondo la quale: «The cinctus Gabinus […] was worn on some of Rome’s most significant religious occasions»[18].

 

Scorgendo con attenzione le fonti, notiamo come Servio associ l’attributo Gabinus tanto al ritus (Ad Aen. V.755), quanto al cinctus (Ad Aen. VII.612), offrendo – de facto – una duplice esegesi della “tenuta gabina”[19]. Le associazioni lessicali serviane potrebbero essere scaturite proprio da una vicenda oscura come la rappresentazione della devotio al Veseris (340 a.C.), che Livio puntualmente fraziona nel momento dell’“invocazione” e in quello del “sacrificio”: nell’esecuzione del ritus, all’atto di recitare il carmen, il devovens – nella fattispecie “celebrante” e “vittima”[20] – indossava la toga praetexta, propria della dignità consolare, e portava il “capo velato” (Romano ritu), in un apparato fortemente simbolico, che attribuiva una caratteristica sacrale alla scena; in un secondo tempo, per lanciarsi contro il nemico, egli passava al cinctus Gabinus[21]. A creare una sorta di bailamme subentra il fatto che, nella tradizione latina, il cinctus Gabinus sia menzionato per lo più in ambito sacrificale, quantunque ciò, ovviamente, non equivalga a tracciare una perfetta equazione tra la “tenuta” e la “divisa” dell’“operatore rituale”, sebbene Kurt Latte (1891-1964) abbia supposto il contrario[22] e nonostante, in alcuni frangenti, il capo di colui che eseguiva un sacrificium poteva essere coperto e/o bendato con una porzione della stoffa togale, come nel caso della raffigurazione eroica di Enea all’Ara Pacis[23]; nella fattispecie, peraltro, si parlava di ritus Romanus[24]. L’origine dell’uso di coprirsi il capo si credeva risalisse all’indovino Eleno, che avrebbe prescritto tale costume (conservatosi poi tra i Romani) ad Enea, volendolo preservare da un incontro pericoloso, una volta che questi fosse giunto nella “terra promessa”[25]. Plutarco (Quaest. Rom. X.266C-D), tuttavia, non dovette accontentarsi di tale congettura eziologica e pseudo storica che, nondimeno, avrebbe avuto una sua giustificazione relativamente a forme di rapporto con un “nemico” e, perciò, espose ulteriori proposte esplicative della solennità che prevedeva il caput velatum. In quella pratica, il biografo greco riconosceva la volontà di caratterizzare la maniera di onorare gli uomini potenti (davanti ai quali ci si scopriva la fronte) da quello di venerare gli dèi, come pure uno strumento per evitare l’ascolto di parole ominose da parte del “sacerdos” che restava in tal modo isolato, nella tutela del suo silenzio[26]. Erano queste spiegazioni parziali che, faticosamente, avrebbero potuto dar conto della proliferazione dei rituali qualificati dall’elemento “velo”[27]: rituali che, piuttosto, apparivano intimamente collegati all’idea di consecratio[28], quasi che il velo convenisse alle “res sacrae”, poiché separate dal mondo e, perciò, riservate agli dèi[29]. Dagli Acti dei Ludi Saeculares sappiamo che Augustus aveva immolato una vittima[30] e, probabilmente, come ha rilevato l’etruscologo Massimo Pallottino, è anche per questa ragione che Caracalla, sull’arco degli Argentari, è a capo nudo rispetto a Septimius Severus, anziché per il ritus Graecus[31]. Se la velatura del capo si rendeva necessaria per ragioni non attinenti alla sfera del “sacro”, per esprimerlo si faceva uso del verbo obvolvere: Giulio Cesare, ad esempio, alle Idi di Marzo, non solo avvolse il proprio caput con la toga, ma se la tirò fino ai talloni quo honestius caderet[32]. La copertura del capo, ad ogni buon conto, non si verificava solo durante le cerimonie sacrificali, come si potrebbe credere, ma anche in tutte le occasioni nelle quali era necessario interagire con gli dèi, come – ad esempio – nelle preghiere[33] e/o nelle dichiarazioni di guerra[34]. Nella devotio Deciana, poi, un magistratus cum imperio poteva votarsi alle divinità capite velato e che la copertura della testa non fosse proibita dall’uso dell’armatura è attestato dal fatto che Decius Mus, anteriormente al suo eroico gesto, si votasse agli dèi capite velato primam ante aciem, cioè senz'altro militarmente equipaggiato[35].

 

Livio usa le espressioni caput velatum e cinctus Gabinus molto vicine tra loro, così da favorire l’idea di una loro possibile equivalenza, posizione assunta, per esempio, da Giulio Cressedi[36], laddove Heinrich Freier – richiamandosi letteralmente alle fonti – ha ritenuto che il cinctus Gabinus era semplicemente un modo per consentire maggiore autonomia nei movimenti, poiché i Romani adoperavano gli stessi abiti sia in tempo di pace sia in tempo di guerra[37]. Tale convincimento, però, sembrerebbe contraddire il valore di “pax” che, in seguito, alla toga fu attribuito. In un passo, infatti, Cicerone – criticato da un accusato per un suo verso nel quale si augurava che “le armi cedessero alla toga” – illustra il senso dell’espressione, dichiarando che non parlava della toga che portava addosso, né, parlando di armi, si riferiva alla spada e allo scudo di un generale, ma essendo la toga un simbolo di pace e tranquillità, mentre le armi lo sono del caos e della guerra, intendeva dire, nello stile proprio dei poeti, che la belligeranza e il disordine dovevano cedere il passo alla quiete e alla concordia[38]. Alcuni studiosi – per mezzo di espressioni che facessero esplicito riferimento al cambio d’abito connesso – hanno ritenuto di poter mostrare le trasformazioni epocali romane a livello sociale, politico e militare[39]. Per indicare l’“apertura delle ostilità”, pertanto, il Romanus poteva usare la locuzione saga sumere, nel senso di “abbandonare la toga per indossare il mantello (sagum) tipico dei milites”, mentre il ritorno a una “condizione di calma e riconciliazione” poteva essere espresso sostituendo il sagum con la toga[40].

 

Come si è detto all’inizio, non è particolarmente facile distillare le specificità del cinctus Gabinus, sia per la carenza dei testi che vi accennano, sia per le difficoltà concernenti le prescrizioni e gli eventi del suo impiego: è come se si parlasse di un “costume” noto, del quale non vi fosse necessità di fornire tante delucidazioni. Un problema ulteriore sembra poi costituito dalla nostra lacunosa conoscenza delle relazioni storiche tra Roma e Gabii, a dispetto di alcuni pregevoli sforzi di circoscriverne il retroterra culturale[41]. Probabilmente, la tradizione romana, che tende a ridimensionare le occupazioni subite durante il periodo arcaico, non semplifica il compito degli studiosi, giacché pare molto arduo stabilire se le tradizioni gabine di Roma siano un omaggio reso dalla civitas a un popolo assoggettato – come darebbe a credere la leggenda dell’educazione di Romolo e Remo a Gabii – o se riguarda usanze imposte durante la dominazione gabina di Roma: sopravvivenze che, pertanto, e per ovvie ragioni, sarebbero state rimosse. Le speculazioni avanzate a proposito del cinctus Gabinus spaziano dalla funzione bellica (Mommsen) a quella rituale (Mau), con uno sguardo attento ai riti di natura sacrificale, oppure a mediare tra le funzioni religiosa e militare (Dubordieu), o ancora a porre in risalto il nesso tra il peculiare modo gabino di vestire la toga e il concetto di “limite”, ossia di «confine materiale e ideale tra realtà contrapposte» (Pasqualini)[42].

Se rileggiamo con attenzione e scrupolo le parole degli autori classici scopriremo che il cinctus Gabinus non si limita ad evidenziare il nesso, che pure esiste, tra il modus vestiendi e il concetto di “terminus”, inteso quale “confine” tangibile e astratto fra visioni distanti, ma individua precisamente l’atto di attraversare quell’“estremità”, superando la linea di demarcazione tra un interno e un esterno.

Servio (Ad Aen. V.755), ad esempio, parla della creazione di una “colonia”: il vocabolo deriva dal latino “colonus”, ovvero coltivatore, contadino. Mediante la parola “coloniae”, i Romani non designavano i territori sottomessi, che prendevano il nome di “provinciae”, ma i luoghi nei quali si insediava un gruppo di cives che, dunque, passavano da un “interno” (Roma) a un “esterno” – le coloniae stesse che, stando a Gell., Noc. Att. XVI.13.9, costituivano effigies parvae simulacraque (di Roma). Nella fattispecie del tracciamento del sulcus primigenius, la descriptio delle mura, per mezzo dell’aratrum, si colloca nello stesso ambito rituale della definizione del pomerium e, in età augustea, è possibile osservare l’attribuzione di un grande valore evocativo a questo ritus, che spinge Manilius ad attribuire allo stesso Augustus il ruolo di conditor, che, succinctus, compie l’azione di describere moenia con il curvus aratrum[43], alla stregua di Romulus, archetipo di ogni “fondatore” successivo e, quindi, anche di Augusto.

La cerimonia di purificazione, narrata da Lucano (Phars. I.592-596), si concretizza in una processione che percorre il lungo confine agli estremi dell’Urbs, segnando – anche in tal caso – il superamento della linea che divide l’“interno” dall’“esterno”.

Il gesto dell’apertura della porta del tempio di Giano, connesso all’evocazione del furor belli, dava inizio alle ostilità e, pertanto, fissava il momento dell’uscita dello “spirito della guerra” dal tempio (interno) al campo aperto (esterno). La valenza rituale è notevole. Affiora, infatti, un collegamento evidente fra il cultus di Ianus e la protezione dei termini, sottolineato dalla tradizione che situava la porta Ianualis sul margine tra il territorio romano e quello sabino[44]. La descrizione virgiliana del ritus è, ragionevolmente, una conseguenza della sua “ri-attualizzazione” voluta da Augusto, che fece chiudere per tre volte le porte del templum di Ianus Geminus – chiamato con l’epiteto “Quirinus” in Res Gestae 13 – che erano rimaste aperte ininterrottamente da secoli.

Nell’accingersi all’esecuzione dei propri sacrifici gentilizi, Fabius Dorsuo – nel resoconto liviano (V.46.2) – scende dal Campidoglio assediato e attraversa l’accampamento dei Galli per recarsi al colle Quirinale. In questo frangente, come pure nell’epopea delle devotiones Deciane del Veseris e Sentinum (Liv. VIII.9.9-12 e X.28.14-18), emerge decisamente l’immagine del sacerdos che, indossando il cinctus Gabinus, varca le hostium stationes, nel primo caso, e si getta armato di tutto punto in medios hostes, nel secondo, tratteggiando, palesemente, anche in tali circostanze, il superamento di un margine: precisamente, quello che slega la propria parte dalla parte avversa. La chiave di lettura, che sembra porre sullo stesso piano gli episodi citati, risiede, a nostro avviso, nella “civicità” della “religio romana” e nel fatto che Roma si costituì, fin dalle origini, come una civitas con una peculiare propensione all’accoglienza e alla tolleranza[45]: il topos mitologico dell’asylum Romuli vale a edificare questa capacità d’integrazione culturale nell’ambito della compagine sociale[46]. Il rapporto civis-civitas si presentava, a Roma, con caratteri del tutto diversi da quelli del modello greco: il primato logico e cronologico spettava al cittadino, il quale concorreva, insieme agli altri, a formare la città, idealmente concepita in senso politico, sociale e religioso, e non nella sua dimensione fisica e urbana[47]. Questa astrazione, che non riconosce i “confini” della “cittadinanza” con i “confini” della “città”, permise di estendere lo status giuridico di civis Romanus prima ai Latini (dunque anche a Gabii), poi ai socii italici e, gradualmente, a tutti i liberi viri presenti nella res publica e, successivamente, nell’impero[48]. In virtù di ciò, vestire il cinctus Gabinus avrebbe potuto implicare – su un piano rigorosamente simbolico – una sorta di rito di passaggio (“interno” verso “esterno”) tra Roma (civitas), l’“altro” e il “diverso”[49].

 

 



[1] Cfr., infra, n. 3 e nn. 7-17.

[2] Serv., Ad Aen. V.755; Lucan., Phars. I.592-596; Scholia ad Persium V.30; Isid., Etym. XIX.24.7; Verg., Aen. VII.611-614; Liv. V.46.2; Liv. VIII.9.9-12; Liv. X.28.14-18.

[3] A. Pasqualini, Nuovi spunti sulla storia e sulle istituzioni di Gabii, in Studi Romani 58, 1-4, 2010, 27-51, praesertim, 45. Sugli “aspetti augurali”, cfr. P. Catalano, Aspetti spaziali del sistema giuridico religioso romano: mundus, templum, urbs, ager, Latium, Italia, in Aufstieg und Niedergang der Römischen Welt, II, 16, 1, Berlin-New York 1978, 440-553, praesertim, 494-495.

[4] Scholia ad Persium V.30: succinctis Laribus; quia Gabino cinctuque dii Penates formabantur, obvoluti toga super humerum sinistrum, dextro nudo; Serv., Ad Aen. VII, 612: Gabinus cinctus est toga sic in tergum reiecta, ut una eius lacinia a tergo revocata hominem cingat; Isid., Etym. XIX.24.7: cinctus Gabinus est cum ita imponitur toga ut togae lacinia quae post secus reicitur, adtrahitur ad pectus, ita ut ex utroque latere ex humeris picturae pendeant, ut sacerdotes gentilium faciebant aut cingebantur praetores. A proposito della “lacinia” – parte della toga repubblicana – cfr. H.R. Goette, Studien zu römischen Togadarstellungen, Mainz am Rhein 1990, 3-4.

[5] Sulla problematica riguardante gli ambarualia, cfr. G. Dumézil, La religion romaine archaïque, suivi d’un appendice sur la religion des Étrusques, Paris 1966, 230-312.

[6] A. Pasqualini, Nuovi spunti sulla storia e sulle istituzioni di Gabii, cit., 41-43.

[7] T. Mommsen, Römische Geschichte, Berlin 1854-1856, vol. I, 98; C.A. Mau, s.v. Cinctus Gabinus, in Realencyklopädie der classischen Altertumswissenschaft, 3, Stuttgart 1899, 2559.

[8] L. Bonfante Warren, Roman Costumes, in Aufstieg und Niedergang der Römischen Welt, I, 4, Berlin-New York 1973, 584-614; L. BONFANTE, Etruscan Dress. Updated Edition, Baltimore 2003, 92-93 e, tra le fonti, Liv. I.8.3: ab Etruscis finitimis … toga praetexta sumpta est; Plin. VIII.195: Praetextae apud Etruscos originem invenere; Fest. 228L: Picta quae nunc toga dicitur, purpurea ante vocitata est, eaque erat sine pictura. Sulla toga in senso lato, cfr. A. Maiuri, Solennità e abbigliamento in Roma antica: toga, trabea e laena, in G. De Sanctis, A. Maiuri, D. Segarra Crespo, Roma antica/2/Costumi tradizionali, Roma 2007, 45-70.

[9] A. Dubourdieu, Cinctus Gabinus, in Latomus 45, 1, 1986, 3-20, praesertim, 4: «cette tenue est partie dans un contexte ambigu, qui peut lui-même s’interpréter soit comme guerrier, soit comme religieux».

[10] L. Sacco, Devotio. Aspetti storico-religiosi di un rito militare romano, Roma 2011, 126.

[11] A. Dubourdieu, Cinctus Gabinus, cit.; F. Courby, s.v. Toga, in Daremberg-Saglio, Dictionnaire des Antiquités Grecques et Romaines, 5, 1919 [rist. anast. 1969], 347-352.

[12] L. Deubner, Die Devotion der Decier, in Archiv für Religionswissenschaft 8, 1905, 66-68.

[13] Cfr. A.M. BIETTI SESTIERI, A. DE SANTIS, A. LA REGINA, Elementi di tipo cultuale e doni personali nella necropolis laziale di Osteria dell’Osa, in Anathema. Regime delle offerte e vita dei santuari nel Mediterraneo antico, Atti del Convegno Internazionale, Roma, 15-18 giugno 1989, in Scienze dell’Antichità 3-4, 1989-1990, 65-88; E. Peruzzi, Cultura greca a Gabii nel secolo VIII, in La Parola del Passato 47, 1992, 459-468; ID., Grecità di Gabii, in La Parola del Passato 50, 1995, 81-90; D. RIDGWAY, Greek Letters at Osteria dell’Osa, in Opuscula Romana 20, 1996, 87-97; E. PERUZZI, Civiltà greca nel Lazio preromano, Firenze 1998; A. Fraschetti, Romolo il fondatore, Roma-Bari 2002, 18 e 141, n. 42; C. Gabrielli, Lucius Postumius Gemellus at Gabii. A New Fragment of Livy, in The Classical Quarterly 53, 2003, 247-259. Tra gli studi più recenti, cfr. R. Janko, From Gabii and Gordion to Eretria and Methone. The Rise of Greek Alphabet, in J. Strauss Clay, I. Malkin, and Y.Z. Tzifopoulos (edited by), Panhellenes at Methone. Graphê in Late Geometric and Protoarchaic Methone, Macedonia (ca. 700 BCE), Berlin-Boston 2017, 135-164.

[14] P. Carafa, Il costume e l’aratro del fondatore, in A. Carandini, R. Cappelli (a cura di), Roma. Romolo, Remo e la fondazione della città, Milano 2000, 277.

[15] Cfr. M. Cadario, La corazza di Alessandro: loricati di tipo ellenistico dal IV secolo al II, Milano 2004, 225.

[16] M. Pfanner, Der Titusbogen, Mainz am Rhein 1983, 54-55; 75.

[17] J. Ronke, Magistratische Repräsentation im römischen Relief. Studien zu standes- und statusbezeichnenden Szenen, Oxford 1987, I, 108-110. Nell’atto di arare, i magistrati attraversavano idealmente il “limite” che demarcava la propria comunità: si trattava di un modus che simboleggiava l’uscita dal templum (inteso come città, recinto, accampamento). Marco Terenzio Varrone (ca. 116-27 a.C.), De ling. lat. V.27, per esempio, riteneva che il sostantivo urbs originasse dal termine urvum (la curva del manico dell’aratro) e che urvare – di conseguenza – avrebbe individuato l’atto di arare e/o di tracciare un solco, per andare al di là del templum. Cfr. F. Sini, Urbs. Concetto e implicazioni normative nella giurisprudenza, in Diritto@Storia 10, 2011-2012, http://www.dirittoestoria.it/10/Tradizione-Romana/Sini-Urbs-concetto-norme-giurisprudenza.htm

[18] M. Goldman-Petri, Acting “Republican” under Augustus: The Coin Types of the Gens Antistia, in K. Morrell, J. Osgood, K. Welch (edited by), The Alternative Augustan Age, New York 2019, 199-215, praesertim, 208.

[19] Serv., Ad Aen. V.755: cincti ritu Gabinu, id est, togae parte caput velati, parte succincti; VII.612: Gabinus cinctus est toga sic in tergum reiecta, ut una eius lacinia a tergo revocata hominem cingat. Nel primo caso è fatta menzione alla “copertura della testa” (caput velati), con parte della toga usata per cingersi i fianchi, mentre, nel secondo, solo un’estremità della toga era assicurata intorno alla vita (secondo una modalità comoda nel combattimento corpo a corpo). Cfr. A. Dubourdieu, Deux définitions du Cinctus Gabinus chez Servius, in D. Porte, J.P. Néraudau, Hommages à H. Le Bonniec. Res sacrae, Bruxelles 1988, 163-170.

[20] G. Amiotti, Religione e politica nell’iniziazione romana. L’assunzione della toga virile, in M. Sordi (a cura di), Religione e politica nel mondo antico, Milano 1981, 131-140, praesertim, 134.

[21] Liv. VIII.9.9-12: In hac trepidatione Decius consul M. Valerium magna voce inclamat. Deorum inquit, ope, M. Valeri, opus est; agedum, pontifex publicus populi Romani, praei verba quibus me pro legionibus devoveam. Pontifex eum togam praetextam sumere iussit et velato capite […]; Ipse incinctus cinctu Gabino, armatus in equum insiluit ac se in medios hostes immisit […]. Forse, per questa ragione alcuni studiosi hanno messo in relazione cinctus Gabinus, velatura del capo, toga e trabea, sebbene altri, sul medesimo punto, abbiano espresso posizioni discordanti. Pro: L. Wilson, The Clothing of the Ancient Romans, Baltimore 1938, 55-71; H. Wrede, Zur Trabea, in Jahrbuch des Deutschen. Archäologischen Institut 103, 1988, 385-389; S. Stone, The Toga. From National to Ceremonial Costume, in J.L. Sebesta, L. Bonfante (edited by), The World of Roman Costume, Madison 2001, 13-45. Contra: H. Gabelmann, Die ritterliche Trabea, in Jahrbuch des Deutschen Archäologischen Institut 92, 1977, 73-78; A. Dubourdieu, Cinctus Gabinus, cit., 5.

[22] K. Latte, Römische Religionsgeschichte, Münich 1960, 382.

[23] J. Marquardt, Le culte chez les Romains, Paris 1889, 223; G. Moretti, Ara Pacis Augustae, Roma 1948, 215; J. Elsner, Cult and Sculpture. Sacrifice in the Ara Pacis Augustae, in Journal of Roman Studies 81, 1991, 50-61; M.L. Freyburger-Galland, Le rôle politique des vêtements dans l’Histoire romaine de Dion Cassius, in Latomus 52, 1993, 117-128; O. Rossini, Ara Pacis, Milano 2006, 30-33. A. Pasqualini, Nuovi spunti sulla storia e sulle istituzioni di Gabii, cit., 44, riporta un’ipotesi secondo la quale il personaggio raffigurato sul pannello dell’Ara Pacis non sarebbe Enea, ma Numa nell’atto di sacrificare agli dèi Penati una scrofa, vestendo il cinctus Gabinus. Nel merito, cfr. P. Rheak, Aeneas or Numa? Rethinking the Meaning of the Ara Pacis Augustae, in Art Bulletin 83, 2, 2001, 190-208.

[24] Verg., Aen. III.403-409: Quin ubi transmissae steterint trans aequora classes et positis aris iam vota in litore solves, purpureo velare comas adopertus amictu, ne qua inter sanctos ignis in honore deorum hostilis facies occurrat et omina turbet. Hunc socii morem sacrorum, hunc ipse teneto; hac casti maneant in religione nepotes; Fest. 432L: videtur, quia apud eam supplicant apertis capitibus. Nam Italici auctore Aenea velant capita, quod is, cum rem divinam faceret in litore Laurentis agri Veneri matri, ne ab Ulixe cognitus interrumperet sacrificium, caput adoperuit, atque ita conspectum hostis evitavit. Cfr. E. Fantham, Covering the Head at Rome. Ritual and Gender, in J. Edmonson, A. Keith (edited by), Roman Dress and the Fabrics of Roman Culture, Toronto 2008, 158-171. Le divinità alle quali si sacrificava secondo il ritus Graecus (con il capo scoperto) sarebbero state, secondo Plutarco: Saturnus, Hercules ed Honos; il primo, come culto anteriore ad Enea, avrebbe conservato l’uso antico introdotto dai Pelasgi e da Hercules (cfr. H.S. Versnel, Saturn and the Saturnalia. The Question of Origin, in H. Sancisi-Weerdenburg, H.C. Teitler [edited by], De Agricoltura. In memoriam Pieter Willem de Neeve, Amsterdam 1993, 98-120); il secondo in quanto, essendo un dio straniero, avrebbe seguito il rito straniero; il terzo, infine, perché al cospetto della divinità Honos non si sarebbe dovuto aver pudore stando a capo scoperto (Plut., Aet. Rom. 13). G. Cressedi – Caput velatum e cinctus Gabinus, in Rendiconti Accademia Lincei 8, 5, 1950, 452-453 – aveva osservato che, a quelli citati, dovevano aggiungersi altri dèi: le Moerae poiché, durante i Ludi Secolari, Augusto moeris… immolavit hostias prodigivas achivo ritu (CIL VI.32323) e che, quindi, come divinità straniere esigevano il ritus Graecus; Apollo e Latona, come riferisce Liv. XXV.12: alterum senatus consultum factum est ut decemviri sacrum Graeco ritu facerent, hisque hostis, Apollini bove aurato et capris duabus albis auratis, Latonae bove femina aurata. Cfr. J. Bayet, Les origines de l’Hercule Romain, Paris 1926, 307; B. Liou-Gille, Cultes “héroïques” romains. Les fondateurs, Paris 1980, 74; J. Scheid, Graeco Ritu: A Typically Roman Way of Honoring the Gods, in Harvard Studies in Classical Philology 97, 1995, 15-31; Id., Nouveau rite et nouvelle piété. Réflexions sur le ritus Graecus, in F. Graf (Herausgegeben von), Ansichten griechischer Rituale. Geburtstags-Symposium für Walter Burkert, Stuttgart 1998, 168-182.

[25] Verg., Aen. III.374-462 e, in particolare, 403-409. Cfr. G. Highet, The Speeches in Vergil’s “Aeneid”, Princeton 1972, 257-258.

[26] C. Guittard, Existe una oración silenziosa en el ritus Romanus?, in S. Montero, M. Cruz Cardete (por), Religión y silencio. El silencio en las religiones antiguas (’Ilu. Revista de Ciencias de las Religiones, n. 19), Madrid 2007 (Serie de monografías), 133-141.

[27] Si pensi, in merito, all’antico rito italico del ver sacrum che prevedeva la consacrazione agli dèi di vite umane e il cui tratto essenziale stava nell’imposizione del velo e al rito previsto per la punizione delle Vestali impure, seppellite vive, naturalmente “velate”. Cfr. L. Sacco, Osservazioni comparative sulla sepoltura della Vestale a Roma, in Mediterraneo Antico 13, 1-2, 2010, 417-424; Id., Ver sacrum. Osservazioni storico-religiose sul rito italico e romano, in Chaos e Kosmos 17-18, 2016-2017, http://www.chaosekosmos.it/pdf/2017_07.pdf.

[28] S. Reinach, Cultes, Mythes et Religions, Paris 1908, t. 1, 305-307.

[29] R. Schilling, Le voile de consécration dans l’ancien rite romain, in AA.VV., Mélanges en l’honneur de Monseigneur Michel Andrieu (= Revue des Sciences Religieuses), Strasbourg 1956, 403-414; M. Lauria, Il capo, il volto, gli occhi coperti, in Index 9, 1980, 1-23.

[30] CIL VI.32323, L. 103-104: moeris … immolavit hostias prodigivas achivo ritu.

[31] Liv. X.7: non capite velato victimam caedet auguriumve ex Arce capiet? Cfr. M. Pallottino, L’arco degli Argentari, Roma 1946, 81; A. Daguet-Gagey, L’Arc des Argentiers, à Rome. À propos de la dédicace du monument (CIL VI.1035 = 31232 = ILS 426), in Revue Historique 635, 3, 2005, 499-518.

[32] Suet., Caes. 82.

[33] Ovid., Fast. III.363: constitit atque caput niveo velatus amictu.

[34] Liv. I.32.6: Legatus ubi ad fines eorum venit unde res pepetuntur, capite velato filo–lanae velamen est –“audi, Iuppiter,” inquit. “audite, fines – cuiuscumque gentis sunt, nominat –“audiat fas. ego sum publicus nuntius populi Romani; iuste pieque legatus venio, verbisque meis fides sit.” peragit deinde postulata. inde Iovem testem facit.

[35] Flor., Epit. IX.14.3: alter quasi monitu deorum capite velato primam ante aciem dis manibus se devoverit, ut in confertissima se hostium tela iaculatus novum ad victoriam iter sanguinis sui limite aperiret.

[36] G. Cressedi, Caput velatum, cit., passim.

[37] Sulla base di Fest. 251L; Serv., Ad Aen. V.755; VII.612; Isid., Etym. XIX.24.7, cfr. H. Freier, Caput Velare, cit., 16-20. Il tema è stato ampliato criticamente da L. Bonfante Warren, Roman Costumes, cit., e, in particolare, per quanto riguarda specificamente Publius Decius Mus e la devotio, 596-597 e 606-607.

[38] Cic., Pis. XXX.73: Non dixi hanc togam qua sum amictus, nec arma scutum aut gladium unius imperatoris, sed quia pacis est insigne et otii toga, contra autem arma tumultus atque belli, poetarum more locutus hoc intellegi volui, bellum ac tumultum paci atque otio concessurum; cfr. anche: Off. I.77: Cedant arma togae. In letteratura, cfr. J. Dugan, Making a New Man. Ciceronian Self-Fashioning in the Rhetorical Works, Oxford Oxford-New York 2005, 62; K. Volk, The Genre of Cicero’s De consulatu suo, in T.D. Papanghelis, S.J. Harrison, S. Frangoulidis (edited by), Generic Interfaces in Latin Literature. Encounters, Interactions and Transformations, Berlin-Boston 2013, 93-112, praesertim, 106: «The symbol of peace and order is the toga»; cfr. anche K. Olson, Masculinity and Dress in Roman Antiquity, London-New York 2017, 51-55.

[39] M.-L. Freyburger-Galland, Le rôle politique des vêtements dans l’histoire romaine de Dion Cassius, in Latomus 52, 1993, 117-128.

[40] J.H. Kim, The Significance of Clothing Imagery in the Pauline Corpus, London-New York 2004, 93: «After the sagum had become popular as a military garment, the toga served as the exclusive garb and symbol of peace»; cfr. anche M.A. Speidel, Dressed for the Occasion. Clothes and Context in the Roman Army, in M.-L. Nosch (edited by), Wearing the Cloak. Dressing the Soldier in Roman Times, Oxford 2011, 1-12.

[41] In merito segnaliamo il “Progetto di Ricerca Scientifica” (PRIN 2008), coordinato dal Prof. E. Lippolis (Università di Roma Tor Vergata), dal titolo: “Il Santuario Orientale di Gabii: Strutture, funzioni e interazioni con Roma”; tra i più recenti contributi, cfr. M. Fabbri, S. Musco, M. Osanna, Sur le traces des Tarquins à Gabies. Une découverte exceptionelle, in Dossiers d’Archéologie. Palais en Méditerranée, de Mycènes aux Tarquins 339, 2010, 62-64; G. Zuchtriegel, Gabii I. Das Santuario Orientale im Zeitalter der Urbanisierung. Eisenzeitliche und archaische Funde der Ausgrabungen 1976/77, Bonn 2010; M. Mogetta, From Latin Planned Urbanism to Roman Colonial Layouts: The Town-planning of Gabii and Its Cultural Implications, in E. Robinson (edited by), Papers on Italian Urbanism in the First Millennium B.C., Portsmouth 2014, 145-174; D. Palombi, Gabii, Giunone e i Cornelii Cethegi, in Archeologia Classica 66 (n.s. II), 5, 2015, 253-287.

[42] A. Pasqualini, Nuovi spunti sulla storia e sulle istituzioni di Gabii, cit., 44.

[43] Man., Astr. IV.555-556: urbibus auge bit terras iunctisque iuvencis / moenia succinctus curvo describet aratro – il passo si riferisce ad Augusto e succinctus sarebbe usato come lemma tecnico per alludere proprio al cinctus Gabinus, come nel passo di Lucan. VII.425-427, che usa, a sua volta, succinctus per indicare in forma abbreviata il modo particolare in cui è panneggiata la veste indossata dal fondatore. Con particolare riguardo al “sulcus primigenius”, cfr. M.J. Le Gall, Les rites de fondation des villes romaines, in Bulletin de la Société nationale des Antiquaires de France 1972, 292-307; G. De Sanctis, Solco, muro, pomerio, in Mélanges de l’école française de Rome 119, 2, 2007, 503-526.

[44] J. Rüpke, Domi militiae. Die Religiose Konstruktion Des Krieges in Rom, Stuttgart 1990, 139-141. Con relazione al “terminus” e al “pomerium”, oltre al risalente, ma tutt’ora fondamentale, G. Piccaluga, Terminus. I segni di confine nella religione romana, Roma 1974, cfr. anche M. Koortbojian, Crossing the Pomerium. The Boundaries of Political, Religious and Military Institutions from Caesar to Constantine, Princeton-Oxford 2020.

[45] Sul tema esiste una bibliografia sterminata. In questa sede e ai nostri fini, cfr. C. AMPOLO, La città riformata e l’organizzazione centuriata. Lo spazio, il tempo, il sacro nella nuova realtà urbana, in A. Momigliano, A. Schiavone (a cura di), Storia di Roma, I: Roma in Italia, Torino 1988, 203-340; C. Santi, Roma città aperta. Integrazione sociale e inclusione religiosa in Roma antica, in R. Cioffi, G. Pignatelli (a cura di), Intra ed extra moenia. Sguardi sulla città tra antico e moderno, Napoli 2014, 179-184. Vedi infra n. 49 (SACCO).

[46] Liv. I.8.5: Deinde ne uana urbis magnitudo esset, adiciendae multitudinis causa vetere consilio condentium urbes, qui obscuram atque humilem conciendo ad se multitudinem natam e terra sibi prolem ementiebantur, locum qui nunc saeptus descendentibus inter duos lucos est asylum aperit. Eo ex finitimis populis turba omnis sine discrimine, liber an seruus esset, auida novarum rerum perfugit, idque primum ad coeptam magnitudinem roboris fuit. Nel merito, cfr. R. DEL PONTE, L’Asylum di Romolo. Da schiavi a cittadini romani, in Diritto@Storia 14, 2016, http://www.dirittoestoria.it/14/memorie/Del-Ponte-Asylum-Romuli-da-schiavi-a-cittadini.htm .

[47] Per il rapporto civis/civitas, cfr. É. Benveniste, Le vocabulaire des institutions indoeuropéennes, Paris 1969; D. Sabbatucci, Lo stato come conquista culturale, Roma 1975, 199-201.

[48] Cfr. G. Crifò, Civis. La cittadinanza tra antico e moderno, Roma-Bari 2005, 23-40.

[49] A proposito del tema “riti di passaggio”, menzionato nel testo, cfr. A. Brelich, Paides e parthenoi, Roma 1969; M. Torelli, Riti di passaggio maschili di Roma arcaica, in Mélanges de l’école française de Rome 102, 1, 1990, 93-106. Sulle c.d. “aperture” della Romana religio, cfr. L. Sacco, La presunta tolleranza religiosa romana in epoca repubblicana, in S. Botta (et Al., a cura di), La Storia delle religioni e la sfida dei pluralismi. Morcelliana, Brescia 2017, 106-115.