Contributo-2019

 

 

Sini-foto-2018DAL DIRITTO ROMANO ALLA LEGISLAZIONE PENALISTICA DELLA SARDEGNA MEDIOEVALE:

CAPITOLO DELLA CARTA DE LOGU DE ARBOREA «QUI OCHIRIT HOMINI»

 

 

FRANCESCO SINI – Università di Sassari

già Preside della Facoltà e Direttore del Dipartimento

di Giurisprudenza

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SOMMARIO: 1. La Carta de Logu de Arborea nella storia e nelle tradizioni giuridiche del Popolo sardo. – 2. Riemersioni nella cultura sarda contemporanea (alcune teorie di Antonio Pigliaru su Carta de Logu de Arborea e «vendetta barbaricina»). – 3. Problemi di datazione. – 4. Carta de Logu de Arborea e diritto romano nella storiografia giuridica contemporanea: studi e ricerche dell’ultimo secolo. – 5. Tipologie di reato sanzionate in relazione al Qui ochirit homini nel capitolo III della Carta de Logu de Arborea. – 6. Salvu si su dictu homini hochirit deffendendo asi: la legittima difesa nella Carta de Logu e nel diritto romano. – 7. Improvisa(da)mente et non cum animu deliberadu et non pensadamente: l’omicidio preterintenzionale. – 8. La Carta de Logu tra diritto romano e diritto canonico: il principio agentes et consentientes pari poena puniuntur. – 9. Conscii et ministri. A proposito di D. 48.9.6 e C.I. 1.3.53(54).5. – 10. Suggestioni romanistiche: «su bene dessa re plubigha sardisca», «su utili cummoni» e altri motivi ispiratori della legislazione dei sovrani del Giudicato di Arborea.

 

 

1. – La Carta de Logu de Arborea nella storia e nelle tradizioni giuridiche del Popolo sardo

 

Queste pagine sono dedicate al problema della continuità del diritto romano nell’esperienza giuridica della Sardegna medievale, ed in particolare all’influenza di quell’antico diritto sulla compilazione della Carta de Logu de Arborea[1]: la più significativa opera legislativa in lingua sarda, promulgata dalla giudicessa Eleonora Bas-Serra[2] nell’ultimo decennio del XIV secolo.

Il forte ancoramento della Carta de Logu[3] al diritto romano, pur avvertibile nella gran parte dei suoi 198 capitoli, appare del tutto evidente nei capitoli III, LXXVII, LXXVIII, XCVII e XCVIII; poiché in quei capitoli i compilatori arborensi plasmarono le soluzioni giuridiche proposte sul diritto romano, mediante espliciti riferimenti e rinvii ad un altro sistema normativo, identificato con sa lege o sa ragione. Così nel capitolo III, la pena capitale comminata all'omicida volontario si fonda sull’effettiva imperatività del diritto romano: «secundu quessu ordini dessa rag(i)oni comandat»[4]. Nei capitoli LXXVII e LXXVIII, sono riferiti in maniera esplicita al diritto romano i termini legali d’impugnazione, fissati entro il limite massimo di dieci giorni: «si appellado non est infra tempus legittimu de dies deghi comenti comandat sa lege»[5]. Inoltre, rimanda ugualmente al diritto romano il capitolo XCVIII, laddove designa la porzione legittima dell'eredità con l’espressione «sa parti sua secundu ragione»[6].

Dai capitoli della Carta de Logu appena citati si ricavano elementi ulteriori, ed assai significativi, per dimostrare la vigenza del diritto romano nella Sardegna medioevale; infatti, sia l’utilizzazione di verbi dall’indiscutibile valenza precettiva (comandare / ordinare), sia l’impiego di questi verbi al presente indicativo (comandat), attestano in maniera incontrovertibile il fatto che i compilatori della Carta de Logu ritenessero ancora vigente quel sistema normativo (sa lege, sa ragione) fatto oggetto di rinvio nel «codice» del Giudicato di Arborea.

Fra i capitoli della Carta de Logu che richiamano esplicitamente il diritto romano, la mia analisi testuale si è limitata all’esame del capitolo III («Qui occhirit homini») ed al confronto del suo dettato con alcuni testi giuridici del Corpus Iuris Civilis. Per dimostrare l’esistenza di influssi del diritto romano giustinianeo sulla Carta de Logu de Arborea, è apparso sufficiente accertare quale grado di aderenza il citato capitolo abbia conservato nei confronti dei frammenti relativi alle diverse fattispecie di omicidio, che quasi certamente costituirono i modelli di riferimento per la legislatrice arborense e per i suoi non incolti compilatori[7].

La Carta de Logu de Arborea, splendido monumento legislativo scritto in «sardo antico»[8], offre allo storico del diritto lo strumento più prezioso e più stimolante per riscoprire, anche nel vasto ambito della storia del diritto italiano[9], caratteri originali e peculiarità delle strutture giuridiche della Sardegna medioevale, moderna, contemporanea; non bisogna dimenticare, infatti, che la Carta de Logu ha plasmato per secoli molti aspetti delle istituzioni giuridiche del Popolo Sardo, quasi fino ai nostri giorni. La Carta de Logu de Arborea, estesa a tutto il Regnum Sardiniae dopo la definitiva affermazione della sovranità aragonese nel 1421, cessò di avere forza di legge solo nel 1828, anno in cui entrarono in vigore le Leggi civili e criminali, promulgate dal re di Sardegna Carlo Felice di Savoia nel 1827 [10].

Le ragioni di una così lunga durata[11] sono da ricercare soprattutto nelle intrinseche qualità e nell’elevato spessore giuridico della compilazione ordinata dalla giudicessa Eleonora d’Arborea[12], i cui capitoli incarnavano, per quanto tradotti con la scrittura «in termini colti»[13], le istanze fondamentali di esperienze popolari e consuetudinarie maturate nelle comunità sarde di pastori e contadini; dove peraltro si è conservata di fatto operante, anche ben al di là della sua stessa vigenza[14]. Sicché, ancora oggi, istituti e tradizioni tipici della Sardegna contadina e pastorale hanno le loro radici, per lo più senza coscienza storica del fatto, in capitoli dell'antica Carta de logu de Arborea.

Tale è sicuramente il caso delle compagnie di barracelli[15], che in numerosi paesi della Sardegna vigilano, come gli antichi Jurados de padru[16], a protezione delle coltivazioni e del bestiame e a tutela del territorio[17]; ma anche le ordinanze della Regione Autonoma della Sardegna per la prevenzione degli incendi estivi[18] presentano notevoli elementi di somiglianza con gli Ordinamentos de foghu (capitoli XLV-XLIX) della Carta de Logu. Tuttora, infatti, per combattere la micidiale piaga degli incendi – fenomeno purtroppo ricorrente nella storia secolare dell’Isola[19] – è fatto obbligo alle Comunità locali (Comuni, Province, ecc.) di predisporre idonee fasce tagliafuoco nei terreni di pertinenza pubblica, prima dell’inizio dell'estate[20]; con modalità e procedure assai simili a quelle prescrizioni della Carta de Logu che ordinavano alle comunità di villaggio (villas) de fagher sa doha[21]. Con le stesse finalità si giustifica (ora come allora) l’obbligo, posto in capo ai privati cittadini, siano essi proprietari dei fondi o altri aventi titolo, di osservare scrupolosamente i tempi prescritti[22] per l’abbruciamento delle stoppie di colture cerealicole o foraggiere[23].

Che dire, poi, della tenace persistenza nella Sardegna contadina della figura del juargiu[24] e del relativo contratto di società parziaria, in rapporto alla coltivazione della terra[25]; o degli usuali contratti di soccida tra pastori e proprietari (delle greggi o del pascolo), stipulati nelle campagne sarde in forme e contenuti assai simili, nei fatti, agli antichi Ordinamentos de cumonis[26], che regolavano tali fattispecie nella Carta de Logu arborense.

 

 

2. – Riemersioni nella cultura sarda contemporanea (alcune teorie di Antonio Pigliaru su Carta de Logu de Arborea e «vendetta barbaricina»)

 

Tra le emersioni più significative della Carta de Logu nella cultura sarda contemporanea, meritano di essere ancora meditate con la massima attenzione le stimolanti riflessioni che possiamo leggere nella nota monografia di Antonio Pigliaru, dedicata ad una delle più caratteristiche «consuetudini giuridiche sarde»: la vendetta barbaricina[27].

Non è possibile, in questa sede, illustrare la complessità di pensiero, la molteplicità di interessi teoretici[28] e il fermo impegno civile di Antonio Pigliaru[29] (titolare della cattedra di Dottrina dello Stato nell’Università di Sassari fino alla sua morte prematura, avvenuta nel 1969)[30]; ma non appare certo azzardato affermare che egli è stato, quasi sicuramente, il più significativo uomo di cultura che la Sardegna abbia avuto nella seconda metà del Novecento[31].

Antonio Pigliaru aveva trattato della Carta de Logu de Arborea in alcune pagine della sua opera più originale: La vendetta barbaricina come ordinamento giuridico. In quelle pagine, dopo aver evidenziato sia l’influenza che ebbe l’«esperienza romanistica» sul “codice” arborense[32], sia il fortissimo legame di esso con le «consuetudini giuridiche sarde»[33], l’insigne filosofo del diritto formulava, con l’originalità e l’acutezza a lui consuete, una tesi davvero suggestiva. A suo avviso, il fatto che la comunità barbaricina in un momento imprecisato della sua storia «sia pervenuta al concetto che la vendetta è un dovere», sarebbe da ascrivere al fortissimo influsso che la legislazione penalistica della Carta de Logu ha esercitato sulla società sarda, nel corso di vari secoli, seppure in una dialettica sovente conflittuale tra «consuetudine e legge»[34].

A conferma della sua tesi lo studioso citava il capitolo VI della Carta de Logu[35]: quello, cioè, che poneva in capo all’intera comunità di villaggio il dovere di catturare e consegnare agli organi giudicali il colpevole di un omicidio commesso nel territorio della villa. Ma di tale testo offriva un’interpretazione del tutto inusuale: «il tentativo di assicurare il delinquente alla giustizia posto in essere dalla Carta de Logu, attraverso quello che il Besta chiamerà “il sistema della responsabilità collettiva”, non ha, secondo me, solo le funzioni che normalmente gli vengono attribuite (rimediare all’insufficienza delle forze di pubblica sicurezza, rompere certi rapporti di omertà); ma più forse quella di sottrarre il reo all’iniziativa privata»[36].

Orbene, proprio il tenore del capitolo VI della Carta de Logu renderebbe verosimile per il Pigliaru l’ipotesi da lui prospettata, circa l’archetipo originario da cui, nell’esperienza secolare delle comunità pastorali sarde, sarebbe stata mutuata la concezione della vendetta come dovere comunitario. «Possiamo per altro cominciare a domandarci, a proposito di questa posizione – scriveva l’indimenticabile studioso sardo –, se la comunità barbaricina non sia pervenuta al concetto che la vendetta è un dovere “proprio” attraverso, o “anche” attraverso la esperienza di questa perentoria disposizione che fa obbligo all’universalità dei soggetti (“tutti gli uomini”) di collaborare attivamente (e non solo passivamente) al regime della propria sicurezza, dentro e fuori della città, dentro e fuori casa, intervenendo attivamente e responsabilmente, epperò entro i limiti della legge, nella repressione delle colpe»[37].

 

 

3. – Problemi di datazione

 

Mentre Gerolamo Olives, giurista sardo del XVI secolo, prudentemente, non precisava l’anno di promulgazione della Carta de Logu arborense: «quod ista Capitula, et compilatio debuerunt publicari, et promulgari in aliqua die solemni, et sancta festivitate, nisi intellexerit de aliqua die sancta, hebdomadae sanctae. Nam in cap. 125 in eodem, ubi loquitur de Ferijs, nullum diem appellat sanctum, nisi hebdomadam sanctam»[38]; la storiografia dell’Ottocento riteneva invece quella data fosse da collocare nel giorno di Pasqua del 1395 [39]. A proporre questa datazione fu il cavaliere Giovanni Maria Mameli De’ Mannelli, autore della riedizione ottocentesca e della prima traduzione in lingua italiana della Carta de Logu[40].

Quasi un secolo più tardi, l’attendibilità di tale datazione fu sottoposta a serrate critiche da parte di Enrico Besta nel suo saggio La Carta de Logu quale monumento storico-giuridico, premesso all’edizione del manoscritto cagliaritano della Carta de Logu[41] da lui curata in collaborazione con il linguista Pier Enea Guarnerio. In quello scritto, il grande storico del diritto, dopo aver evidenziato magistralmente tutte le contraddizioni a cui una simile datazione dava luogo, formulò la sua proposta, avanzata pur con qualche dubbio, di datare la promulgazione della Carta nell’anno 1392: «Nemmeno la data della pubblicazione della legge di Eleonora – scriveva al riguardo lo studioso – è del resto certa benché molti abbiano scritto con tutta sicurezza che fu promulgata l’11 aprile 1395. In realtà si tratta di una semplice congettura del Mameli che, appoggiandosi ad una erronea lezione delle stampe, arguì che fosse stata promulgata il dì di Pasqua nel sedicesimo anno della morte di Mariano da lui attribuita al 1379. Egli morì invece al più tardi nel 1376: e, se veramente la legge fosse stata edita sedici anni dopo la sua fine, non si potrebbe venire al di qua del 1392. Ma forse è anteriore»[42].

In un saggio sulla natura delle così dette questioni giuridiche esplicative della Carta de Logu, destinato nel 1939 proprio agli studi in onore del Besta, Antonio Era propose, invero senza un’adeguata motivazione, di datare la promulgazione della Carta de Logu nell’anno 1386 [43]. Qualche decennio più tardi, l’insigne storico del diritto si attestò su posizioni meno decise, ma sempre contrarie alla data del 1392, in quello che sarebbe poi risultato il suo ultimo studio: intendo riferirmi alla lezione inaugurale, letta nell’Aula Magna dell’Università di Sassari in occasione della cerimonia di apertura dell’anno accademico 1959-60, che il Maestro dedicò al tema delle Carte de logu[44].

Sulla scia dell’Era si colloca la nuova «ipotesi» di datazione della Carta de Logu de Arborea proposta più di recente da Ennio Cortese: «i mesi di gran lunga più propizi son quelli che si succedono dalla primavera alla fine del ‘90, o tutt’al più all’inizio ‘91»[45]. Ipotesi che, peraltro, il Cortese conferma anche nel suo manuale di storia del diritto: «Si è discusso a lungo – scrive lo studioso – sulla data della Carta arborense, ma non si possono fare in proposito che vaghe congetture: forse i mesi più probabili sono quelli che vanno dalla primavera del 1390 all’inverno 1390-1391»[46].

Nonostante le numerose opinioni differenti, la data del 1392 ha finito per imporsi nella storiografia attuale quasi come un canone indiscutibile. Costituisce un esempio significativo di questo atteggiamento anche la più recente edizione e traduzione italiana della Carta de Logu arborense, pubblicata nel 1995 a cura di Francesco Cesare Casula. Nel commentare il testo della Carta, il curatore dedica al «problema della datazione» gran parte della lunga ed articolata nota al proemio: «Poiché si è sempre affermato – scrive in proposito il Casula – che l’autore della nota Carta de Logu sia più la juighissa che il padre, tutti hanno cercato di stabilire l’anno della versione emendata del Codice adottato, poi, anche dai governanti iberici e piemontesi del regno di Sardegna dal 1421 al 1827, proponendo le date più disparate in base a ragionamenti più o meno cervellotici. Ammesso che il problema sia importante, fra le date proposte quella che ci sembra la meno improbabile è la Pasqua del 1392, perché, almeno, trova qualche riscontro nella situazione politico-istituzionale dell’Arborea e nei riferimenti interni al testo»[47].

 

 

4. – Carta de Logu de Arborea e diritto romano nella storiografia giuridica contemporanea: studi e ricerche dell’ultimo secolo

 

Riguardo al problema della continuità e dell’influenza del diritto romano, hanno finito per coesistere nella dottrina opinioni assai differenti, ma che presentano spesso forti elementi di verosimiglianza: mentre Francesco Brandileone, nelle sue Lezioni di storia del diritto[48], insegnava che i Giudicati sardi «fino al secolo XIV, erano stati regolati assai più dalla consuetudine che dalle leggi scritte»[49]; Arrigo Solmi, per contro, nella “prefazione” a Testi e documenti per la storia del Diritto agrario in Sardegna, esprimeva la più ferma convinzione che nella Sardegna giudicale si fossero conservate sostanzialmente intatte le forme del diritto romano[50].

Certamente, oggi, non appare più possibile aderire nelle sue linee generali alla vecchia impostazione, formulata per quel che mi è dato sapere da Giovanni Dexart, giurista sardo del XVII secolo (1590-1646)[51], secondo cui in Sardegna lo ius commune o Romanorum sarebbe stato vigente da tempo immemorabile «mediante veteri consuetudine et continua observantia»[52]; impostazione ancora presente nel celebre manuale di Antonio Pertile[53], soprattutto laddove lo studioso riteneva essere la Carta de Logu «il diritto locale modificante il diritto generale o comune; onde quel nome corrisponde a quello di statuti dato alle proprie norme dai principi di Savoia e dalle nostre città»[54]. Si possono condividere, invece, sia la conclusione a cui il Pertile era pervenuto in merito al rapporto tra diritto romano e Carta de Logu d’Arborea: «E in fatto la carta de logu presuppone l'autorità del diritto romano, e qualche volta anche lo cita»[55]; sia la motivazione complessiva che stava alla base di siffatta conclusione[56].

Una posizione non diversa, a proposito dell’influenza del diritto romano sulla Carta de Logu d’Arborea, può leggersi nel secondo volume di un altro manuale di storia del diritto, dato alle stampe appena tre anni dopo la seconda edizione della Storia del Pertile: si tratta del Manuale di storia del diritto italiano di Federico Ciccaglione, pubblicato appunto nel 1901 [57].

Nel suo Manuale di storia del diritto italiano, Francesco Schupfer ha esposto quasi con ammirazione il contenuto della Carta arborense: «una legge, che ebbe il vanto di essere tenuta per segno di un grande perfezionamento sociale, da cui altre e più vaste contrade del continente italiano erano ancora lontane»; sostenendo, fra l’altro, che solo a seguito della codificazione di Eleonora d’Arborea in Sardegna «ebbero stabili norme i riti giudiziari, la ragione civile e criminale e la pubblica economia»[58].

Nella Storia del diritto italiano di Carlo Calisse viene evidenziata soprattutto la buona qualità della legislazione penalistica della Carta de Logu di Arborea; nello stesso tempo risulta espressa la convinzione di una sostanziale vigenza nella vita giuridica sarda di forme del diritto romano, seppure adattate ai semplici schemi privatistici dell’Isola[59].

La tesi che la Carta de Logu, con i termini lege o ragioni, richiami in vari capitoli espressamente l’autorità del diritto romano, ha avuto fra i suoi più convinti assertori Enrico Besta. Dell’insigne storico del diritto mette conto ricordare, anzitutto, il magistrale saggio intitolato La Carta de Logu quale monumento storico-giuridico, che fu pubblicato come prefazione illustrativa alla prima edizione a stampa del manoscritto cagliaritano della Carta de Logu (Carta de Logu de Arborea, Sassari 1905), curata dallo stesso studioso in collaborazione col linguista Pier Enea Guarnerio[60]. Fra le argomentazioni addotte in quello studio quali elementi probanti «l’autorità generale del diritto romano» nel Giudicato arborense dell’età di Eleonora, il Besta attribuisce importanza fondamentale al fatto che proprio la Carta de Logu vi accenni testualmente in diversi capitoli. Lo studioso ha ritenuto, non senza ragione, che tali citazioni non potevano essere puramente formali, ma rispondessero alle reali condizioni della pratica giuridica del tempo; come del resto dimostrerebbe – ulteriore elemento di prova – il carattere romanistico delle Expositiones de sa ‘llege[61]. In questa prospettiva il Besta sostenne anche il carattere romano di numerosi istituti della Sardegna giudicale, a cominciare dalla «costituzione della famiglia» che a suo avviso «restò pur essa fondamentalmente romana»[62].

Il pensiero del Besta circa l’entità, le modalità e i tempi della diffusione del diritto romano giustinianeo in Sardegna, come ius comune, risulta meglio precisato nel secondo volume della sua fondamentale opera sulla Sardegna medioevale[63]; si sarebbe trattato, sostanzialmente, di un fenomeno determinato dall’influenza della cultura giurisprudenziale italiana, la cui forza assimilatrice si impose assai per tempo nella prassi giuridica dell’Isola[64].

Verso la fine degli anni trenta del Novecento, Antonio Marongiu ha dedicato alcuni studi veramente illuminanti all’esame di particolari «aspetti della vita giuridica» della Sardegna giudicale, attestati nei condaghi e nella Carta de Logu[65]. Emerge da tali studi, anzi tutto, il carattere quasi democratico dell’organizzazione politica dei Giudicati sardi; si sarebbe trattato di una «specie di democrazia diretta», che si sostanziava principalmente nella partecipazione popolare alla nomina del sovrano[66].

Altro elemento rilevato dagli studi del Marongiu è la presenza del diritto romano nella legislazione penalistica giudicale. Lo studioso ha analizzato questa problematica nel saggio su «delitto e pena nella Carta de Logu», dove si presta particolare attenzione sia all'elemento soggettivo del reato[67]; sia alla definizione dei concetti di dolo, colpa e caso fortuito[68]. Infine, per quanto attiene all’influenza del diritto romano sulla legislazione penalistica della Carta de Logu, il Marongiu ne ravvisa l’incidenza soprattutto in relazione al tenore del capitolo I, che equipara al colpevole del delitto di lesa maestà «anche colui che avesse soltanto “trattato” o “consentito” la esecuzione di esso»; rilevando che in questo caso la sovrana arborense aveva adottato «il criterio, delle leggi Iulia majestatis, Cornelia de sicariis et veneficiis e della Pompeia de parricidiis, dell'equiparazione quoad poenam del delitto compiuto con quello soltanto tentato o preparato»[69].

Del tutto diverse si presentano le posizioni assunte da Antonio Era[70] in un lungo saggio del 1939 [71] dedicato ad una singolare operetta di casistica giuridica, scritta da un ignoto giurista sardo (forse in epoca appena successiva alla promulgazione della Carta de Logu di Arborea), di cui nel 1901, Vittorio Finzi, allora direttore della Biblioteca Universitaria di Sassari, aveva pubblicato l’edizione critica intitolandola Questioni giuridiche esplicative della Carta de Logu[72].

Nettamente contrario all’interpretazione del documento proposta dal Finzi, l’Era non riteneva possibile accedere alla tesi che in un'epoca anteriore, o appena successiva, alla redazione della Carta de Logu di Arborea vi fossero nella prassi giuridica della Sardegna situazioni regolate sulla base della legislazione giustinianea[73]. Seguendo questa impostazione, l’Era sottopose ad una critica serrata i richiami al diritto romano nella Carta de Logu: negava, in particolare, che per la Sardegna fosse utilizzabile prima del XVI secolo l'equivalenza “legge” / diritto romano[74].

Nel saggio appena citato, lo studioso non si discostava da quanto aveva scritto qualche anno prima nel suo manuale di Storia delle istituzioni giuridiche ed economiche sarde[75], predisposto per gli studenti di quel corso, allora appena istituito presso la Facoltà di Giurisprudenza dell’Università di Sassari[76]. Nel citato manuale Antonio Era, pur considerando «tesi sorpassata» la convinzione «che nel M. E. la Sardegna, immune da qualsiasi contaminazione di altri diritti, avesse serbato vivo il culto e l’uso del diritto romano», scrive che molto del vecchio fondo giuridico romano si era conservato nella Sardegna medioevale, per quanto «disgiunto da ogni conoscenza ed uso delle fonti, vi rimase solo allo stato di consuetudine»[77]; a suo avviso, infatti, non si ebbe conoscenza ed uso delle fonti di diritto romano prima del XII secolo: quando, cioè, consistenti gruppi di popolazione italiana cominciarono a stanziarsi nell’isola, importandovi conseguentemente «la conoscenza del diritto romano secondo le fonti giustinianee, già da essi adottate e seguite»[78].

Da questo clima di nuova temperie culturale e di rinascita del diritto romano sortisce, per lo studioso, anche la compilazione della Carta de logu di Eleonora d’Arborea[79]; tale Carta, quindi, non può essere presentata in maniera riduttiva come una semplice raccolta, e relativa sanzione, delle consuetudini vigenti nel Giudicato[80].

Infine, lo studioso algherese doveva tornare al tema della Carta de Logu, molti anni più tardi, al momento di lasciare la cattedra, tenuta per oltre trent’anni nell’Università di Sassari. In quella circostanza, il Senato Accademico dell’Ateneo sassarese volle onorare il Maestro facendogli svolgere la prolusione inaugurale dell’anno accademico 1959-1960; e l’Era, significativamente, dedicò la sua ultima lezione da una cattedra universitaria proprio all’esame di alcune rilevanti problematiche legate alle Carte de logu della Sardegna giudicale[81].

Le penetranti osservazioni di Antonio Era possono dirsi oggi superate grazie anche alla riflessione critica di Ennio Cortese, il quale fra l’altro, nell’ambito della solenne commemorazione dello studioso algherese promossa dall’Università di Sassari nel dicembre 1982, tenne una memorabile “lezione” proprio sull’opera di Antonio Era[82]. Peraltro, il Cortese aveva già trattato il tema dei rapporti tra diritto romano e Carta de Logu in una relazione presentata al convegno su Eleonora d’Arborea svoltosi ad Oristano nell’aprile 1962; il testo di quella relazione, trasfuso dal suo autore nel saggio Diritto romano e diritto comune in Sardegna, fu successivamente pubblicato nel volume Appunti di storia giuridica sarda[83].

Nel saggio testé citato, lo studioso muove una serrata critica alla metodologia di ricerca (e quindi ai risultati conseguiti) di quella storiografia che si era occupata prevalentemente «del problema storico del diritto sardo come problema della sue “origini”»[84]. Esprime la convinzione dell’inutilità di «ricercare una “sopravvivenza” di principî latini e bizantini», poiché siffatta ricerca costituisce una maniera unilaterale «di chiarire l’ispirazione romana di certi istituti in uso nella Sardegna medievale»[85]; mentre la questione potrebbe definirsi assai più correttamente sulla base della seguente domanda: «Perché non chiedersi quale importanza ha avuto nella prassi quel diritto comune che – in temporalibus – i contemporanei identificavano proprio nelle “leggi” romane raccolte nella compilazione giustinianea? Era un sistema vigente, quindi attivo: e non soltanto un fossile sepolto nel terreno della vita, e dalla vita ormai del tutto assimilato»[86].

Per il Cortese, anche riguardo alla Carta de Logu, sarebbe valido quanto riscontrato dagli studiosi a proposito della coeva legislazione sul continente italiano, nella quale: «il legislatore tendeva soprattutto a emanare norme che noi diremmo di diritto singolare o speciale – e qui la materia penalistica urgeva per la pretesa più vivace di adeguarsi ai tempi e ai siti – , mentre per tutto il resto era implicito il rinvio, nonché a talune consuetudini locali, principalmente al sistema ampio e minuzioso del diritto comune»[87]. Si spiegherebbe in tal modo la scarsità delle norme di diritto privato nella legislazione arborense, che risalta maggiormente se confrontata con la disciplina penalistica, caratterizzata da un'articolazione molto varia e da un sistema di sanzioni relativamente moderate[88]. Non sarebbero altresì valide, al riguardo, le opinioni contrarie di Antonio Era, quand’anche si volesse convenire con il suo rilievo che il termine “leges” comporterebbe nella Carta de Logu riferimenti non univoci; poiché – argomenta il Cortese – una simile constatazione obbliga solamente a maggior severità nel valutare le testimonianze relative all’impiego del diritto romano in Sardegna prima della conquista aragonese, ovvero a restringere in maniera drastica il numero di esse[89].

Lo studioso ritiene, inoltre, assai probabile la connessione del termine ragione, usato nella Carta de Logu per indicare il diritto romano, con la definizione di ratio scripta, utilizzata di frequente per lo ius commune; senza escludere che ormai «al tempo di Eleonora lo stesso pensiero dei giuristi – i grandi artefici dell'edificazione di quel ius commune – influenzasse i legislatori locali», sicché nel tanto celebrato prologo della Carta de Logu potrebbe ritrovarsi un’ispirazione assai maggiore «proprio dalla scienza giuridica bolognese» rispetto al peso «della pur trasparente tradizione normativa romano-canonica»[90].

Per concludere questa rassegna del pensiero di Ennio Cortese, bisogna fare riferimento alla posizione di sintesi espressa nel secondo volume del suo manuale di storia del diritto[91], in quella parte dedicata alla Carta de Logu e alle «ispirazioni esterne» della legislazione di Eleonora: «Almeno in alto loco, e almeno di nome, le leges di Giustiniano erano conosciute da lunga data, da quando taluni giudici sardi avevan preso ripetuti impegni, sin dal tardo XII secolo, di giudicare i mercanti soprattutto genovesi oltre che secondo gli usi anche secondo le leggi romane. Due secoli più tardi la Carta de Logu si riferisce certo al diritto giustinianeo quando richiama la lege o la ragione: pur senza sopravvalutare la cosa, si tratta dell’indizio di un’importante apertura al mondo della romanità continentale. E di un primo passo verso l’ingresso della Sardegna nel sistema del Diritto comune»[92].

 

 

5. – Tipologie di reato sanzionate in relazione al Qui ochirit homini nel capitolo III della Carta de Logu de Arborea

 

Sarà bene, a questo punto, passare all’analisi di quei capitoli della Carta de Logu in cui i compilatori arborensi si sono richiamati testualmente al diritto romano, con termini quali sa lege o sa ragione. Si tratta, peraltro, di testi assai noti e già molto discussi dalla storiografia giuridica contemporanea; tuttavia, una rinnovata esegesi e la comparazione di tali testi con i frammenti del Corpus Iuris Civilis giustinianeo potrebbero determinare ulteriori prospettive di ricerca, sulla cui base formulare nell’immediato alcune nuove, seppur modestissime, riflessioni sulla materia.

Iniziamo l’esame del capitolo III, rubricato col titolo Qui ochirit homini, dove la legislatrice arborense accorpa in un unico capitolo varie disposizioni riguardanti diverse fattispecie di omicidio[93]. Come si vedrà dal testo, il dispositivo della Carta de Logu lascia intravedere una chiara derivazione romanistica nella sua articolazione; ma qui interessa, in primo luogo, perché fonda espressamente la ratio della pena capitale comminata all'omicida volontario sull’effettiva imperatività del diritto romano: «secundu quessu ordini dessa rag(i)oni cumandat».

 

Carta de Logu, cap. III (Qui ochirit homini): Volemus et ordinamus que si alcuna persona ochirit homini: et est indi confesso in su iudiciu: o ver convinto, secundu quessu ordini dessa rag(i)oni comendat, siat illi segada sa testa in su loghu dessa iusticia per modu quindi morgiat et pro dinari alcuno non campit. Salvu si su dictu homini hochirit deffendendo asi, sa quali deffenssa deppiat provari et mostrare legittimamente per bonos hominis infra dies XV da essa die qui lat esser comandado per issu armentargiu nostru de loghu; o ver per atero officiali nostru at qui sa dicta causa esseret comissida. Et in casu qui provarit aver mortu su dictu homini deffendendo assi comente est naradu desupra, non siat mortu et pena alcuna non patischat et non paghit. Et si perventura avenerit qui plus hominis esserent in compagnia de pari et unu de cussos hochirit alcuno atero homini. Et issos ateros qui non esserent in culpa assa dicta morte non benerent assa corte et non si ischulparint legittimamente que issus non furunt culpabilis nen consentivilis[94] assa morte de cussu tali homini, infra tres dies, qui issos siant ponidos et condenpnados a morte comente et issu qui avirit mortu su dictu homini pro qui nara(n)t sas leges: agentes et consentientes pari pena puniuntur[95]. Et in casu qui alcuno homini hochirit alcuno attero homini improvisa(da)mente[96] et non cum animu deliberadu et non pensadamente ma pro causa fortunabili[97] secundu qui solint a venne(r) multos desastros. Volemus qui in tali casu istet et istari depiat at arbitriu et correctione nostra[98].

 

Nel dispositivo di questo lungo capitolo della Carta de Logu d’Arborea, si individuano con facilità i diversi blocchi normativi, che corrispondono alle varie fattispecie di omicidio considerate giuridicamente rilevanti anche dal diritto criminale romano[99].

Anzitutto, abbiamo l'enunciazione della pena per l'omicidio volontario, comminata – come ho già detto – sulla base di un preciso richiamo all’osservanza del diritto romano («si alcuna persona ochirit homini et est indi confesso in su iudiciu, o ver convinto, secundu quessu ordini dessa rag(i)oni comendat»), che consisteva nella decapitazione in luogo pubblico («Siat illi segada sa testa in su loghu dessa iusticia per modu quindi morgiat»), essendo peraltro vietata al condannato qualsiasi composizione pecuniaria («et pro dinari alcuno non campit»).

La legislatrice arborense detta, quindi, la norma assolutoria per l'omicidio derivante da legittima difesa («Salvu si su dictu homini hochirit deffendendo asi»); segue la formulazione della fattispecie di concorso in omicidio, che si estende anche al caso di semplice partecipazione passiva (quando cioè coloro i quali «non esserent in culpa assa dicta morte non benerent assa corte et non si ischulparint legittimamente que issos non furunt culpabilis nen consentivilis assa morte de cussu tali homini infra tres dies»), con relativa pena di morte comminata sulla base del principio che «nara(n)t sas leges: agentes et consentientes pari pena puniuntur». Infine, stabilisce la sottrazione alla pena ordinaria dell'omicida involontario: di colui che – si legge nella Carta – avesse ucciso «alcuno attero homini improvisa(da)mente et non cum animu deliberadu et non pensadamente, ma pro causa fortunabili (anti pro casu fortuitu, Ms.)»[100].

Non è questo il luogo, né attiene alla mia competenza di romanista farlo, per discutere i problemi più generali posti dal capitolo III, soprattutto in ordine alle specifiche caratteristiche delle leggi penali arborensi[101]; ma merita di essere ricordata, al riguardo, l’opinione di un autorevolissimo storico del diritto, Francesco Brandileone, per il quale, «avuto riguardo alle condizioni dei tempi», tali leggi erano da considerare «assai notevoli»[102]. La Carta de Logu, infatti, non solo codificava il principio che di fronte alla pena capitale non fosse possibile al colpevole (senza alcun riguardo alla sua condizione sociale) riscattare la condanna per mezzo di una compensazione pecuniaria: «et pro dinari alcuno non campit»; ma guardava «altresì attentamente all'elemento soggettivo del reato, sul quale fondava la affermazione o la esclusione della responsabilità e (naturalmente in relazione anche alle circostanze dei singoli delitti) la commisurazione della pena»[103].

 

 

6. – Salvu si su dictu homini hochirit deffendendo asi: la legittima difesa nella Carta de Logu e nel diritto romano

 

Nella Carta de Logu d’Arborea trovava, quindi, ampia tutela la legittima difesa, considerata causa esimente da qualsiasi pena perfino in caso di omicidio: «Et in casu qui provarit aver mortu su dictu homini deffendendo assi comente est naradu desupra, non siat mortu et pena alcuna non patischat et non paghit». Naturalmente, la sussistenza delle condizioni di legittima difesa doveva essere provata dal responsabile dell’omicidio, mediante esibizione di testimoni di indiscussa affidabilità in ragione del loro ruolo sociale (bonos homines)[104], entro i quindici giorni successivi alla data fissata dall’armentargiu de loghu[105], o da qualsiasi altro funzionario giudicale incaricato dell’istruttoria e del giudizio: «sa quali deffenssa deppiat provari et mostrare legittimamente per bonos hominis infra dies XV da essa die qui lat esser comandado per issu armentargiu nostru de loghu; o ver per atero officiali nostru at qui sa dicta causa esseret comissida».

Veniamo ora al diritto romano. A proposito di questa fattispecie di omicidio[106], giova ricordare che i giuristi romani dell’epoca imperiale ne teorizzarono la non punibilità, argomentando la liceità dell'esercizio della legittima difesa sulla base dello ius naturale[107]. La giurisprudenza romana considerava, cioè, la legittima difesa una esplicazione giuridica delle facoltà naturali dell’uomo; un’azione estrema, ma necessaria, per salvaguardare la propria integrità fisica, a fronte di altrui violazioni di quei principi generali dello ius naturale, universalmente riconosciuti come tali, che vietano l’omicidio e gli altri atti lesivi della persona umana.

Sono davvero esemplari, in questo senso, i tre frammenti dei Digesta dell’imperatore Giustiniano citati qui di seguito. Il primo è un notissimo frammento delle Institutiones del giurista Fiorentino[108].

 

D. 1.1.3 (Florentinus libro primo institutionum): ut vim atque iniuriam propulsemus: nam iure hoc evenit, ut quod quisque ob tutelam corporis sui fecerit, iure fecisse existimetur, et cum inter nos cognationem quandam natura constituit, consequens est hominem homini insidiari nefas esse.

 

L’insegnamento del giurista[109] era, dunque, che niente di ciò che fosse stato compiuto ob tutelam corporis sui poteva in alcun modo essere considerato illegale (iure fecisse existimetur); poiché sulla base della cognatio che la natura ha costituito fra tutti gli esseri umani, consequens est hominem homini insidiari nefas esse[110].

Su questo frammento esiste una vasta letteratura ed una elaborazione dottrinaria assai articolata; il dato ci esime da una discussione approfondita in questa sede, non senza aver rimarcato, tuttavia, che mentre la maggior parte degli autori sofferma l’attenzione sulla rilevanza giuridica della cognatio naturalis[111], alcuni altri evidenziano, invece, anche il valore costitutivo del nefas[112].

Riguardo poi alle componenti culturali del frammento, Max Pohlenz pensava ad una forte connotazione filosofica di scuola stoica: «In modo ancor più preciso Florentino, riallacciandosi direttamente alla teoria stoica del primo istinto naturale, fa derivare il diritto naturale dal diritto all’autoconservazione e dalla parentela che lega tra loro tutti gli uomini»[113]; al contrario, Biondo Biondi, evidenziando soprattutto quella parte del testo che radica «la fratellanza umana» nello ius naturale, indicava il frammento fra gli esempi dell’influenza della «concezione cristiana» sul diritto giustinianeo[114].

Il secondo frammento è costituito da un testo del giurista Gaio, anch’esso invero assai discusso dalla dottrina romanistica recente. I compilatori giustinianei lo hanno collocato nel titolo II (Ad legem Aquiliam) del libro IX dei Digesta:

 

D. 9.2.4 pr. (Gaius libro septimo ad edictum provinciale): Itaque si servum tuum latronem insidiantem mihi occidero, securus ero: nam adversus periculum naturalis ratio permittit se defendere.

 

Anche nel frammento di Gaio, viene ribadito con grande chiarezza quel principio basilare del diritto romano, che lega alla natura (naturalis ratio) la liceità dell’esercizio della legittima difesa: nam adversus periculum naturalis ratio permittit se defendere[115]. La genuinità del riferimento gaiano alla naturalis ratio non è più in discussione nella recente dottrina romanistica[116]; sul punto appaiono, dunque, pienamente condivisibili i buoni argomenti addotti da G. Longo: «“Nam adversus periculum naturalis ratio permittit se defendere”, a mio modo di vedere, è una frase infondatamente sospettata. Nulla – se non un preconcetto illogico – può farne attribuire la paternità ai compilatori. Il giurista romano affermò essere una esigenza insita nell’ordine naturale dei rapporti umani la legittimità della difesa a quelle condizioni; ed è, invero, questa l’accezione filosofico-giuridica classica della naturalis ratio»[117].

Ma, a proposito del frammento gaiano, mette conto ricordare anche l’interpretazione proposta da M. Bartošek, il quale vi legge una prova del fatto che nelle teorizzazioni dei giuristi romani «la conoscenza dei rapporti fondamentali della vita materiale e delle circostanze sociali della convivenza umana in generale conduceva anche alla formulazione di massime giuridiche generali»[118].

Veniamo, infine, al terzo frammento, un testo del giurista Ulpiano, in cui però è riferita una massima desunta da un’opera di Gaio Cassio Longino[119]:

 

D. 43.16.1.27 (Ulpianus libro sexagensimo nono ad edictum): Vim vi repellere licere Cassius scribit idque ius natura comparatur: apparet autem, inquit, ex eo arma armis repellere licere.

 

Dunque, secondo Ulpiano, Cassio aveva teorizzato che la legittimità del vim vi repellere[120] si fondava sullo ius natura.

Fra le posizioni espresse dalla dottrina più recente in merito al frammento ulpianeo[121], mi sembrano da condividere, in maniera particolare, sia le considerazioni di Antonio Mantello, sul fatto che il contenuto del brano costituisca una prova dell’attenzione rivolta da parte della scuola sabiniana, ma soprattutto da Cassio, al «concetto che la realtà delle cose potesse giustificare certe regole giuridiche»[122]; mentre riguardo al dato testuale, per lo studioso «è fuor di dubbio che idque – comparatur potrebbe essere o una glossa o un’interpolazione o una specificazione ulpianea. Ma non mi pare neppure da escludere che Ulpiano riassumesse ad sensum il discorso cassiano»[123]; sia le riflessioni di José Luis Murga in ordine alla risalenza del principio vim vi repellere licere: «La doctrina clásica debió tomar de la más antigua jurisprudencia veterana la idea de que siempre era lícita la fuerza para oponerse a una injusta violencia: vim vi repellere licere. Este principio del que Ulpiano se hace eco en sus commentarios al interdicto de vi, D. 43.16.1.27, atribuyéndolo a Casio es sin embargo más antiguo»[124].

Infine, può essere di un certo interesse, in ragione dei legami culturali ed economici esistenti tra la Catalogna-Aragona e l’Arborea giudicale dei Bas-Serra[125], rilevare che il principio vim vi repellere licere si trova menzionato in un documento catalano del 1128 e rappresenta il primo esempio di recezione del diritto romano in Catalogna[126].

Nonostante la vecchia dottrina romanistica considerasse non esenti da interpolazioni i frammenti appena citati[127], ed ancora nell’immediato dopoguerra abbiano manifestato seri dubbi sulla loro genuinità autorevoli studiosi quali Gabrio Lombardi[128] e Alberto Burdese[129]; accedere alla tesi interpolazionista mi parrebbe, comunque, molto difficoltoso, soprattutto in considerazione del fatto che nel testo di questi frammenti compaiono termini e concetti (natura, cognatio, nefas) già presenti in reciproca connessione, sia nell’elaborazione giuridica, sia nella speculazione filosofica della tarda età repubblicana e dei primi decenni del principato.

è noto, infatti, che la prima menzione affidabile a noi pervenuta di «natura ius» risale alla Rhetorica ad Herennium, databile nei primi decenni del I secolo a.C.:

 

Rhet. ad Herenn. 2.19: Natura ius est, quod cognationis aut pietatis causa observatur, quo iure parentes a liberis, et a parentibus liberi coluntur[130].

 

Ma anche nelle orazioni di Cicerone possiamo leggere dei riferimenti alla legittima difesa e al suo fondamento giuridico «ex natura»:

 

Pro Milone 10: Est igitur haec, iudices, non scripta sed nata lex, quam non didicimus, accepimus, legimus, verum ex natura ipsa adripuimus, hausimus, expressimus, ad quam non docti sed facti, non instituti sed imbuti sumus, ut si vita nostra in aliquas insidias, si in vim et in tela aut latronum aut inimicorum incidisset, omnis honesta ratio esset expediendae salutis[131].

 

Mentre a proposito della prima età del principato, basterà appena accennare alla dottrina filosofica di Seneca, il quale insegnava che l’uomo deve essere considerato res sacra homini, proprio sulla base della convinzione che natura nos cognatos edidit cum ex isdem et eadem gigneret[132].

Tuttavia, per quanto riguarda le fonti romane del capitolo III della Carta de Logu, mi sembrerebbe più affidabile ricercare nel Codex Iustinianus i testi, da cui i compilatori arborensi hanno desunto il principio della non punibilità dell’omicidio commesso a scopo di legittima difesa. Potrebbe trattarsi, in particolare, del libro IX, titolo XVI (Ad legem Corneliam de sicariis), dove le due costituzioni imperiali citate qui di seguito esentano da ogni pena colui che abbia commesso un omicidio per legittima difesa[133].

 

C.I. 9.16.2 (Imp. Gordianus A. Quintiano): Is, qui adgressorem vel quemcunque alium in dubio vitae discrimine constitutus occiderit, nullam ob id factum calumniam metuere debet[134].

 

C.I. 9.16.3 (Imp. Gallienus A. Munatio): Si, ut adlegas, latrocinantem peremisti, dubium non est eum, qui inferendae caedis voluntate praecesserat, iure caesum videri[135].

 

 

7. – Improvisa(da)mente et non cum animu deliberadu et non pensadamente: l’omicidio preterintenzionale

 

La convinzione, che la Carta de Logu de Arborea abbia attinto i modelli normativi dell’omicidio per legittima difesa dal titolo XVI (Ad legem Corneliam de sicariis) del libro IX del Codex Iustinianus, risulta ulteriormente rafforzata da un’altra evidenza: sempre in quello stesso titolo del Codex, sono state collocate altre due costituzione imperiali, sui frammenti delle quali i compilatori arborensi ricalcarono quasi sicuramente la fattispecie dell’omicidio preterintenzionale, contemplata nell’ultimo capoverso del capitolo III della Carta de Logu.

 

C.I. 9.16.1 (Imp. Antoninus A. Aurelio Herculiano et aliis militibus): Frater vester rectius fecerit, si se praesidi provinciae obtulerit: qui si probaverit non occidendi animo Iustum a se percussum esse, remissa homicidii poena secundum disciplinam militarem sententiam proferet. Crimen enim contrahitur, si et voluntas nocendi intercedat. Ceterum ea, quae ex improviso casu potius quam fraude accidunt, fato plerumque, non noxae imputantur[136].

 

C.I. 9.16.4 (Exemplum sacrarum litterarum Diocletiani et Maximiani AA. Agathoni): Eum, qui adseverat homicidium se non voluntate, sed casu fortuito fecisse, cum calcis ictu mortis occasio praebita videatur, si hoc ita est neque super hoc ambigi poterit, omni metu ac suspicione, quam ex admissae rei discrimine sustinet, secundum id quod adnotatione nostra comprehensum est volumus liberari[137].

 

Peraltro, in linea con le citate costituzioni imperiali, si presentava già un precedente rescritto[138] dell’imperatore Adriano, di cui possiamo ancora leggere il tenore con il commento del giurista Marciano[139], in un frammento tratto dal libro XIV delle sue Institutiones[140] e collocato nel libro XLVIII dei Digesta di Giustiniano, sotto il titolo VIII Ad legem Corneliam de sicariis et veneficis[141].

 

D. 48.8.1.3 (Marcianus libro quarto decimo institutionum): Divus Hadrianus rescripsit eum, qui hominem occidit, si non occidendi animo hoc admisit, absolvi posse, et qui hominem non occidit, sed vulneravit, ut occidat, pro homicida damnandum: et ex re constituendum hoc: nam si gladium strinxerit et in eo percusserit, indubitate occidendi animo id eum admisisse: sed si clavi percussit aut cuccuma in rixa, quamvis ferro percusserit, tamen non occidendi animo. Leniendam poenam eius, qui in rixa casu magis quam voluntate homicidium admisit[142].

 

Come risulta evidente dal frammento, l’imperatore prescriveva che dovesse assolversi dall’accusa di omicidio volontario chiunque, pur avendo ucciso un uomo, dimostrasse la mancanza dell’animus occidendi nella sua azione; poiché proprio l’assenza dell’animus occidendi non consentiva di configurare in tal caso la fattispecie dell’omicidio volontario.

Sul passo di Marciano[143], mette conto fare subito una prima considerazione di tipo formale, che riguarda la comprovata fedeltà del giurista al testo imperiale discusso: «si delinea, molto chiaramente – scrive al riguardo G. Gualandi – , che i riassunti delle ordinanze imperiali contenute nelle opere giuridiche, sono, assai spesso redatti con parole tratte dalle stesse»[144]. Per quanto riguarda invece l’aspetto sostanziale, vi è invece chi, come Valerio Marotta[145], ha ipotizzato nel rescritto dell’imperatore Adriano una chiara influenza greca: «Che la decisione adrianea sia stata ispirata dalla legge draconiana sull’omicidio, è ipotesi priva di qualsiasi riscontro. La constitutio altro non è, in effetti, che il punto di arrivo di una linea interpretativa pienamente affermatasi in età ciceroniana. Eppure sul modello argomentativo adoperato dalla cancelleria imperiale ha esercitato la sua influenza un topos che risale a Lisia, il principale esponente della logografia attica»[146].

Alla luce dei testi giustinianei fin qui discussi, mi pare del tutto evidente la simiglianza, anche terminologica, col dettato della legislatrice arborense. Sia per il Codex Iustinianus, sia per la Carta de Logu, non può considerarsi in nessun caso omicidio volontario, quello in cui l’omicida abbia agito «non occidendi animo», poiché non devono essere imputabili a dolo dell’agente: «ea, quae improviso casu potius quam fraude accidunt» (cfr. col «improvisadamente et non cum animu deliberadu» della Carta).

Inoltre, come le norme del Codex statuiscono che la accertata mancanza dell’elemento intenzionale sortisca l’effetto di derubricare l’accusa di omicidio per colui «qui adseverat homicidium se non voluntate, sed casu fortuitu fecisse»; così la Carta de Logu prescrive che non sia giudicato per omicidio, ma affidato al giudizio discrezionale del sovrano, quell’uomo che «non pensadamente ma pro causa fortunabili» abbia causato la morte di un altro uomo: «Et in casu qui alcuno homini – si legge nella Carta hochirit alcuno attero homini improvisa(da)mente et non cum animu deliberadu et non pensadamente ma pro causa fortunabili secundu qui solint a venne(r) multos desastros. Volemus qui in tali casu istet et istari depiat at arbitriu et correctione nostra»[147].

 

 

8. – La Carta de Logu tra diritto romano e diritto canonico: il principio agentes et consentientes pari poena puniuntur

 

Dicevo prima che l'intero impianto del capitolo III appare sicuramente modellato sulle norme del diritto romano giustinianeo. Non sarebbe, infatti, una difficoltà insormontabile in questa direzione neppure considerare (come ormai si è soliti fare dopo gli studi del Marongiu sul probabile redattore della Carta de Logu[148]) derivata dal diritto canonico, piuttosto che dal diritto romano, quella massima che vuole «agentes et consentientes pari poena puniuntur»[149].

Ad essere più precisi, la massima inserita come citazione letterale nel testo del capitolo III della Carta de Logu si direbbe provenire dalle Decretales Gregorii IX, dove si legge:

 

Lib. I, Tit. XXIX (De officio, et potestate iudicis delegati), c. I: Alexander III Londonensi Episcopo (an. 1165). Quia quaesitum est, quid faciendum sit de potestatibus, quae, cum praecipimus alicui iustitiam exhiberi, minis, ac terroribus conquerentes filere compellunt, et sic mandatum nostrum eluditur: sic tibi respondemus, quod sicut agentes, et consentientes pari poena (Scripturae testimonio) puniuntur: sic tam eos, qui trahuntur in causam, quam principales eorum fautores (si eos manifeste cognoveris iustitiam impedire) districtione Ecclesiatica poteris coercere.

 

Lib. V, Tit. XXXIX (De sententia excommunicationis), c. XLVII: Innoc. III (an. 1214). Quantae praesumtionis, et temeritatis exsistat in Rectores Ecclesiae manus iniicere violentas. Ne autem solos violentiae huiusmodi auctores aliquorum praesumtio existimet puniendos, facientes, et consentientes pari poena plectendos catholica condemnat auctoritas. Eos delinquentibus favere interpretamur, qui cum possint, manifesto facinori desinunt obviare[150].

 

Mi pare difficile, sulla base del riscontro testuale, negare che in questo caso il rinvio a sas leges sottenda un richiamo del diritto canonico; per quanto bisognerebbe riflettere più attentamente sui dubbi manifestati dallo stesso Marongiu nel formulare la sua tesi circa la provenienza canonistica della citazione: «si tenga presente – aveva scritto lo studioso – che, per quel che ne sappiamo, non vi è alcun precedente di norme statutarie le quali diano al diritto canonico l’autorità di fonte superiore di diritto: ossia di fonte per eccellenza, a preferenza del diritto romano»[151].

Si tratta, a mio avviso, di intendere l'espressione «nara(n)t sas leges» del capitolo III della Carta de Logu riferita (oltre che al diritto romano) anche al diritto canonico: l’uso del plurale sembra suggerire, infatti, una simile interpretazione, già fatta propria peraltro dai giuristi del XVI secolo[152].

Può costituire un ulteriore e decisivo argomento, a favore della tesi qui sostenuta, la constatazione che nelle c.d. Questioni giuridiche esplicative alla Carta de Logu, l'espressione «narat sa lege» appare sempre riferita, senza alcuna possibilità di dubbio, al diritto romano; del resto, anche il Marongiu rilevava come «circostanza singolarissima» il fatto che nel caso del citato capitolo III della Carta de Logu la parola sa lege non si riferisse «alla legge per eccellenza, che doveva essere il diritto romano»[153].

 

 

9. – Conscii et ministri. A proposito di D. 48.9.6 e C.I. 1.3.53(54).5

 

Basterà citare soltanto alcuni casi attinenti alla regolamentazione romana del concorso di più persone al reato, per rendersi conto del fatto che la stessa regola[154] risulta attestata inequivocabilmente sia nelle opere dei giuristi romani, sia nelle costituzioni imperiali ordinate nel Codex Iustinianus.

Il primo esempio è costituito da un breve frammento tratto dal libro VIII de officio proconsulis di Ulpiano[155], che ora leggiamo nel titolo de lege Pompeia de parricidis del XLVIII libro dei Digesta Iustiniani.

 

D. 48.9.6 (Ulpianus libro octavo de officio proconsulis): Utrum qui occiderunt parentes an etiam conscii poena parricidii adficiantur, quaeri potest. Et ait Maecianus etiam conscios eadem poena adficiendos, non solum parricidas. Proinde conscii etiam extranei eadem poena adficiendi sunt[156].

 

Il giurista affrontava, in questo frammento, una problematica assai controversa, relativa all’estensione della pena prevista per il parricidio anche alla semplice compartecipazione dei conscii, cioè di coloro i quali fossero risultati a conoscenza del crimine, pur non avendo partecipato materialmente all’esecuzione di esso. Ulpiano, come risulta dal testo, si orientava in senso positivo[157], fondando la sua opinione sull’autorità del giurista L. Volusio Meciano[158]; il quale aveva sostenuto che dovevano essere sottoposti alla medesima pena inflitta ai parricidi etiam conscii[159].

Il secondo esempio consiste in una costituzione dell’imperatore Giustiniano, data nell’anno 533 d.C. e poi raccolta nel libro I, titolo III, del Codex Iustinianus.

 

C.I. 1.3.53(54).5 (Imp. Iustinianus A. Hermogeni magistro officiorum): Poenas autem, quas praediximus, id est mortis et bonorum amissionis, constituimus non tantum adversus raptores, sed etiam contra eos, qui hos comitati in ipsa invasione et rapina fuerint. Ceteros autem omnes, qui conscii et ministri huiusmodi criminis reperti et convicti fuerint vel eos susceperint vel quamcumque opem eis intulerint, sive masculi sive feminae sunt, cuiuscumque condicionis vel gradus vel dignitatis, poenae tantummodo capitali subicimus, ut huic poenae omnes subiaceant, sive volentibus sive nolentibus sanctimonialibus virginibus seu aliis supra dictis mulieribus tale facinus fuerit perpetratum[160].

 

Come risulta dal testo appena citato, in questa sua costituzione, riprodotta pressoché nella stessa forma in C.I. 9.13.1.3 [161], l’imperatore Giustiniano comminava la stessa pena, prevista adversus raptores, anche a coloro i quali di quel medesimo crimine fossero stati semplicemente conscii et ministri[162].

 

 

10. – Suggestioni romanistiche: «su bene dessa re plubigha sardisca», «su utili cummoni» e altri motivi ispiratori della legislazione dei sovrani del Giudicato di Arborea

 

Voglio concludere con alcune suggestioni romanistiche. Finalità dichiarate della Carta de Logu de Arborea furono, come risulta dal prologo[163], quelle di affrenare e constringhere «sa superbia dessos reos et malvagios hominis», al fine di consentire «quisos bonos et puros et innocentes pozant viver et istare inter issos reos ad seguritades pro paura dessas penas»[164]. In tal modo Eleonora d’Arborea, «per issos bonos capidulos» della Carta de Logu, si proponeva di porre fermo ed efficacissimo rimedio alla deteriore condizione della sua epoca, in cui – come ancora oggi, del resto – «ciaschuno est plus inquenivili assu malu fageri qui non assu bene dessa re plubigha sardischa»[165].

Mette conto rilevare, a questo proposito, come il citato richiamo «assu bene dessa re plubigha sardischa» lasci intravedere, una volta di più, il solido riferimento alla cultura giuridica coeva da parte degli ignoti compilatori della Carta de Logu de Arborea; mi pare, infatti, possibile percepire distintamente, per quanto riguarda l’utilizzazione del concetto di respublica, sia la consapevolezza della relazione sintagmatica fra populus e respublica, già postulata dai glossatori più antichi[166]; sia la conoscenza dei vari significati della parola respublica, così come erano schematizzati nella Glossa accursiana[167].

La legislatrice arborense volle altresì ricollegare le norme della Carta de Logu ai motivi ispiratori dell'opera riformatrice del padre, Mariano IV di Arborea[168]; fra i quali primeggiava la difesa intransigente delle attività agricole[169] contro le frequenti invasioni dei pastori[170], perseguita da questo giudice con l'emanazione del cosiddetto "Codice rurale"[171], che non a caso fu poi introdotto, fin dalla prima edizione a stampa, nella Carta de Logu di Eleonora[172]: «L’economia terriera sarda, nella “Carta” di Eleonora – ha scritto al riguardo Carlo Guido Mor – ci appare imperniata, quasi, sul duello fra cultura e pastorizia, ma la legislatrice ci si palesa nettamente favorevole alla prima, difesa energicamente di fronte all’invadenza degli armenti»[173].

Fra i motivi ispiratori del grande giudice arborense non trascurerei il riferimento più generale alla suprema finalità del potere sovrano di legiferare, espresso dalla frase «provvideri a su utili cummoni et bonu istadu de sa gente nostra»[174], che possiamo leggere nel prologo del citato “Codice rurale”[175]. In questo puntuale riferimento a su utili cummoni, quale finalità primaria della legislazione dei Giudici d’Arborea, mi pare possibile intravedere sottesi quei quaedam publice utilia[176], che la giurisprudenza romana aveva concepito come elementi caratterizzanti dello ius publicum:

 

D. 1.1.1.2 (Ulpianus, libro primo institutionum): Huius studii duae sunt positiones, publicum et privatum. Publicum ius est quod ad statum rei Romanae spectat, privatum quod ad singulorum utilitatem: sunt enim quaedam publice utilia, quaedam privatim[177].

 

Elementi che furono poi recepiti anche dai compilatori costantinopolitani dei Digesta dell’imperatore Giustiniano, per concettualizzare le due positiones dello ius (pubblico e privato)[178].

 

 



 

[Un evento culturale, in quanto ampiamente pubblicizzato in precedenza, rende impossibile qualsiasi valutazione veramente anonima dei contributi ivi presentati. Al fine della pubblicazione, questo scritto è stato valutato “in chiaro” dalla direzione di Diritto @ Storia e da studiosi della materia presenti nel comitato scientifico internazionale]

 

[1] Con questo titolo è stato pubblicato nei primi anni del Novecento l’unico manoscritto esistente della Carta de Logu, posseduto dalla Biblioteca Universitaria di Cagliari: E. Besta-P.E. Guarnerio, Carta de Logu de Arborea. Testo con prefazioni illustrative, Estratto dagli “Studi Sassaresi” 3, 1905.

A distanza di oltre un secolo, con iniziativa assai opportuna, ne è stata predisposta una nuova edizione dal filologo dell’Università di Sassari Giovanni Lupinu: Carta de Logu dell’Arborea. Nuova edizione critica secondo il manoscritto di Cagliari (BUC 211) con traduzione italiana, a cura di G. Lupinu, con la collaborazione di G. Strinna, Istituto Storico Arborense / Centro di Studi Filologici Sardi - S’Alvure Editrice, Oristano 2010; per l’esplicazione dei criteri metodici utilizzati e delle nuove acquisizioni conseguite nella ricerca filologico-testuale, rinvio alla Introduzione del Curatore, 3-25; dove, peraltro, si leggono pagine fondamentali anche riguardo alla storia delle diverse edizioni a stampa della Carta de Logu, 4 ss.

Su questo ultimo aspetto, da segnalare alcuni lavori precedenti, in particolare il saggio ben documentato di Tiziana Olivari, Le edizioni a stampa della “Carta de Logu” (XV-XIX sec.), in “Medioevo. Saggi e rassegne” 19, 1994, 159 ss.; ma sono da vedere anche Barbara Fois, Sulla datazione della ‘carta de Logu’, ibidem, 133 ss.; e Giuseppina Cossu Pinna, La Carta de Logu dalla copia manoscritta del XV secolo custodita presso la Biblioteca Universitaria di Cagliari alla ristampa anastatica dell’incunabolo: bibliografia aggiornata e ragionata, in Società e cultura nel Giudicato d’Arborea e nella Carta de Logu. Atti del Convegno internazionale di studi, Oristano 5-8 dicembre 1992, a cura di G. Mele, Comune di Oristano, Oristano 1995, 113 ss.

[2] Sulla giudicessa-reggente e sulla sua attività legislativa (ancora significativi i vecchi lavori di G.C. Del Vecchio, Eleonora d'Arborea e la sua legislazione, coi tipi di Giuseppe Bernardoni, Milano 1872, con particolare riguardo al contenuto e al valore giuridico della Carta de Logu; M. Fuortes, Eleonora d'Arborea e la Sardegna medioevale del suo tempo, tip. Carpigiani e Zipoli, Firenze 1921), vedi ora l’ampia sintesi di F.C. Casula, La Sardegna aragonese, 2. La Nazione sarda, Chiarella, Sassari 1990, 413 ss.

Buoni spunti per un ripensamento critico dei problemi storiografici ancora aperti in A. Mattone, v. Eleonora d’Arborea, in Dizionario Biografico degli Italiani, vol. XLII, Istituto dell’Enciclopedia Italiana, Roma 1993, 410 ss. (con la bibliografia più aggiornata sul personaggio); dello studioso sassarese vedi anche il saggio Un mito nazionale per la Sardegna. Eleonora d’Arborea nella tradizione storiografica (XVI-XIX secolo), in Società e cultura nel Giudicato d’Arborea e nella Carta de Logu, cit., 17 ss.

Alla vera effigie di Eleonora d’Arborea (assai diversa, invero dalla visione agiografica tradizionale dell’eroina sarda) è dedicato il saggio di F.C. Casula, La scoperta dei busti in pietra dei re o giudici d’Arborea: Mariano IV, Ugone III, Eleonora con Brancaleone Doria, in “Medioevo. Saggi e Rassegne” 9, 1984, 9 ss.; in cui si sostiene che Eleonora sarebbe da identificare con la figura femminile «scolpita insieme a quella del padre, del fratello e del marito, in uno dei peducci pensili – e precisamente quello di destra – dell’arco trionfale dell’abside della chiesetta conventuale di San Gavino martire, nell’antico villaggio di San Gavino Monreale, oggi in provincia di Cagliari, ma che nel Medioevo era capoluogo della curatoria arborense di Bonorzuli, vicino al castello di Monreale (Sardara)».

[3] Riguardo alla definizione del genus documentario Carta de Logu, di cui quella di Arborea costituisce il modello più completo che ci è dato conoscere, faccio riferimento, anche per la mirabile chiarezza di sintesi, a quanto ha scritto A. Era, Le ‘Carte de Logu’, in “Studi Sassaresi”, II serie, 29, 1962, 15: «La legge giudicale è un “ordinamentu” che consta di uno [...] o più capitoli [...] riguardanti però un’unica materia; Carta de logu è il complesso di più “ordinamentus” ciascuno di materia diversa e non si presenta come una codificazione finita, sibbene aperta ad innovazioni ed ampliamenti, ottenuti mediante l’aggiunta di altri “ordinamentus” singoli o plurimi e, a differenza dei codici moderni che sono dedicati ad una singola materia e chiusi, abbraccia materie varie, come gli statuti medievali, e consente successive stratificazioni come un editto romano o longobardo». Cfr. anche A. Solmi, Studi storici sulle istituzioni della Sardegna nel medio evo, Società Storica Sarda, Cagliari 1917, 281: «Quei documenti ora riportati aiutano anche a risolvere il problema del senso giuridico della espressione “Carta de logu”, che ebbe in Sardegna così frequente uso. Essa non indica la legge d'eccezione, con valore territoriale, che vigesse di fronte al diritto comune, reputato a base della vita giuridica di Sardegna; ma rappresenta la speciale intitolazione che, nel linguaggio locale, si dava alla legge del territorio o del giudicato. A differenza del breve e degli statuti cittadini, che contengono le norme relative alla vita sociale di un gruppo urbano, la Carta de logu rappresenta la legge relativa alla vita rurale di tutto il territorio, specialmente nelle materie attinenti al governo delle ville e derivanti dalla consuetudine locale. E non altro è il senso della Carta de logu d'Arborea».

[4] Nelle citazioni della Carta arborense, ho seguito di norma il testo dell’edizione incunabola: Carta de Logu. Riproduzione dell’edizione quattrocentesca conservata nella Biblioteca Universitaria di Cagliari, a cura di Antonina Scanu, T.A.S., Sassari 1991; confrontandolo con Le Costituzioni di Eleonora giudicessa d'Arborea intitolate Carta de Logu. Colla Traduzione Letterale dalla Sarda nell'Italiana Favella e con copiose Note, del Consigliere di Stato e Referendario Cavaliere Don Giovanni Maria Mameli De' Mannelli, presso Antonio Fulgoni, Roma 1805 [rist. an., Edizioni 3T, Cagliari 1974]; col manoscritto pubblicato nel 1905 da E. Besta-P.E. Guarnerio, Carta de Logu de Arborea. Testo con prefazioni illustrative, cit. supra in nt. 1; nonché con l’edizione del 1995 curata da F.C. Casula, La “Carta de Logu” del regno di Arborèa. Traduzione libera e commento storico, Carlo Delfino Editore, Sassari 1995. Quando ho utilizzato il testo del manoscritto, ho quasi sempre accettato la nuova edizione curata da G. Lupinu, Carta de Logu dell’Arborea, cit. in nt. 1.

[5] Carta de Logu, cap. LXXVII (De chertos dubitosos): Volemus et ordinamus: cum cio siat causa qui in sas coronas nostras de loghu et ateras qui se tenent pernos per issu armentagiu nostru, multas boltas advenit que inter issos lieros que sunt in sas ditas coronas est adivisioni discordia, o ver differentia in su iuygare que faghint supra alcuno chertu et desiderando nos qui ciascuna dessas terras nostras siant mantesidas et observadas in iusticia et in r(ax)one et pro defectu dessa dita divisione, o ver discordia non perdat nen manquit alcuna raxone sua. Ordinamus et bolemus qui si in alcuna dessas ditas coronas pervengiat alcunu chertu quesseret grosso et dubitosu, de su quali sos lieros dessa dita corona esserent perdidos et divisidos insu iuigari issoro, qui incusso casu su armentargiu nostru de loghu over atero officiali nostru quest assu presenti, o chat essere per inantes, sia tenudo dessu chertu et dessu iuighamentu cant faghire sos ditos lieros supra su dictu chertu, de avirende consigiu cum sos savios dessa corte nostra et cum alcunos dessos lieros de sa corona qui pargiant sufficientes ad elect(i)one dessu ditu armentargiu, o ver officiali cat reer sa corona, et icussu qui pro issos o per ipsa maiore parti de(i)ssos sat deliberari de raxione siat defaghire dessu dito chertu, su armentargiu o ver officiali nostru fazat leer et publicare in sa predicta corona in presentia de ambas partis pro sentencia diffinitiva et mandit ad executione, si appellado non est infra tempus legittimu de dies deghi comenti comandat sa lege, non infirmando pero sa carta de loghu. Cap. LXXVIII (De appellationibus): Constituimus et ordinamus: qui ciascuna persona qui si sentirit agravada de alcuna sententia quilli esseret dada incontra subra alcuno chertu de alcuna questione qui avirit daenante de qualuncha officiali si pozat si bolet appellare si infra su tempus ordinadu daessa ragione duas boltas, secundu quest naradu de subra, cio est de una de questione non usit et non si pozat appellari plus et in casu qui plus boltas si appellarit ultra sas secundas duas non silli deppiant amittere nen acceptare.

Per l’analisi e la discussione sulle implicazioni romanistiche dei due capitoli, rinvio a F. Sini, Comente comandat sa lege. Diritto romano nella Carta de Logu d’Arborea [Università degli Studi di Sassari - Pubblicazioni del Seminario di diritto romano del Dipartimento di Scienze Giuridiche, 11], Giappichelli, Torino 1997, 119. Cfr. inoltre: Id., Diritto romano nella Carta de Logu d'Arborea: i capitoli De appellationibus e De deseredari, in Giudicato d’Arborea e Marchesato di Oristano: proiezioni mediterranee e aspetti di storia locale. Atti del 1° Convegno Internazionale di Studi, Oristano 5-8 dicembre 1997, a cura di Giampaolo Mele, [ISTAR - Istituto Storico Arborense per la Ricerca e la Documentazione sul Giudicato d'Arborea e il Marchesato di Oristano - Subsidia 2/2], vol. II, S’Alvure Editrice, Oristano 2000, 983-1012 [consultabile on line in UnissResearch < http://eprints.uniss.it/5713/1/Sini_F_Diritto_romano_nella_Carta.pdf >]; Id., Diritto romano nella legislazione della Sardegna medioevale: il capitolo 3 della Carta de Logu de Arborea «Qui ochirit homini», in “Ius Antiquum – Древнее право” 2-VIII, Moskva 2000, 148-182 [consultabile on line in UnissResearch < http://eprints.uniss.it/5711/1/Sini_F_Diritto_romano_nella_legislazione.pdf >]; Id., Influssi del diritto romano sulla «Carta de Logu» di Arborea, in La Carta de Logu d’Arborea nella storia del diritto medievale e moderno, a cura di I. Birocchi e A. Mattone, Laterza, Roma-Bari 2004, 50-96; Id., Droit écrit et droit coutumier dans la Sardaigne médiévale: Carta de Logu de Arborea et droit romain, in “Méditerranées. Revue de l’association Méditerranées”, Publié par le Centre d’Études Internationales sur la Romanité et avec le concours de la Faculté de Droit de la Rochelle, N° 37, 2004, 137-179 [pubblicato anche in “Diritto @ Storia. Rivista internazionale di Scienze Giuridiche e Tradizione Romana” 3, on line maggio 2004 = http://www.dirittoestoria.it/3/TradizioneRomana/Sini-Carta-de-Logu-Fr.htm ; consultabile inoltre – sempre on line – in UnissResearch < http://eprints.uniss.it/8862/1/Sini_F_Droit_ecrit_droit_coutumier.pdf >].

Autorevoli storici, con varietà di modi e sfumature, hanno espresso un sostanziale consenso alle tesi esposte nella monografia o nei saggi appena citati: cfr., fra gli altri, A. Mastino, Persistenze preistoriche e sopravvivenze romane nel Condaghe di San Pietro di Silki, in “Diritto @ Storia” 1, on line maggio 2002 = http://www.dirittoestoria.it/tradizione/SILKI.htm [consultabile anche in UnissResearch < http://eprints.uniss.it/74/1/Mastino_A_Articolo_2002_Persistenze.pdf >], § 10 Il diritto romano nell'età giudicale («Francesco Sini ha indicato alcuni precisi riferimenti testuali della Carta de Logu che lasciano intravedere l’evidente derivazione romanistica e ancor più richiamano forme e contenuti del diritto romano, come a proposito della non punibilità dell’omicidio commesso a scopo di legittima difesa. In particolare l’espressione narat sa lege sembra sempre riferita proprio al diritto romano, così come (con riferimento a precise scadenze giudiziarie) la frase infra su tempus ordinadu daessa ragione. Anche in materia processuale, in relazione ai tempi ed alle modalità dell’appello, la Carta de Logu aderisce strettamente alla legislazione tardo-antica de appellationibus di una novella giustinianea del 536. Altri rinvii impliciti al diritto romano, considerato come vigente a tutti gli effetti, potrebbero essere individuati nelle norme a proposito della successione ereditaria e più precisamente nei 14 modi attraverso i quali può essere ammessa la pratica di diseredare un erede legittimo: elementi che, pur non presenti nella Carta de Logu, sono comunque elencati esattamente negli Statuti sassaresi»); J. Lalinde Abadía, La «Carta de Logu» nella civiltà giuridica della Sardegna medievale, in La Carta de Logu d’Arborea nella storia del diritto medievale e moderno, cit., 21 («La presenza del diritto romano nella Carta de Logu è stata analizzata da Cortese e di recente da Francesco Sini»), 45 nt. 76; G.G. Ortu, «Carta de Logu» e «cartae libertatis»: in tema di giurisdizioni nella Sardegna del Trecento, ibidem, 97-106, specialmente 102: «Sembra dunque persistere, per quanto insidiata dall’emergenza dei poteri signorili, l’antica vocazione centralistica dei Giudicati sardi, riecheggiante, come ha osservato Francesco Sini, anche nell’“indiscutibile valenza precettiva” e imperativa dei verbi “comandare” e “ordinare” utilizzati nella formulazione dei capitoli della Carta de Logu»; A. Castellaccio, Alle radici della statualità del Regno di Arborea: la Carta de Logu ed altre manifestazioni di valenza sovrana, in “Annali della Facoltà di Lettere e Filosofia dell'Università di Sassari” 1, 2009, 247-268, in particolare 266 e nt. 59: «Forte vi è anche, e non a caso, il retaggio del diritto romano, che fa da sostanziale sfondo conduttore al Codice arborense».

[6] Carta de Logu, cap. XCVIII (De coyamentos): Constituimus et ordinamus qui, si alcuna persona coiarit figia sua a dodas, qui non siat tenudu de lassareli nen darelli in vida nen in morte sua si non cussu quillat aviri dadu indodas si non a voluntadi sua. Salvu qui si isse non avirit ateru figiu quilli deppiat laxare sa parte sua secundu raxione, contadu illoy in cussa parte cat deber avire sas dodas cat aviri appidu daenante. Et simigiante si intendat pro tottu sos dixendentes suos et totu satero quillat romanne inde possat faguere cussu quillat plaghere et in casu qui morret ab intestadu sussedat sa figia femina coiada cus sus ateros fradis et sorris suas iscontandu daessa parti sua cunssa doda qui at aviri appidu. Cfr., F. Sini, Comente comandat sa lege. Diritto romano nella Carta de Logu d’Arborea, cit., 137 ss.

[7] Sui compilatori della Carta de Logu, vedi A. Marongiu, Sul probabile redattore della Carta de Logu, in “Studi Economico-Giuridici dell'Università di Cagliari” 27, 1939, ora in Id., Saggi di storia giuridica e politica sarda, CEDAM, Padova 1975, 60 ss. Per gli aspetti generali della cultura (principalmente di stampo italiano) del Giudicato di Arborea nell’età della compilazione di Eleonora, da vedere invece F.C. Casula, La cancelleria sovrana dell’Arborea dalla creazione del “Regnum Sardiniae” alla fine del giudicato (1297-1410), in “Medioevo. Saggi e Rassegne” 3, 1977, 75 ss.; Id., Cultura e scrittura nell'Arborea al tempo della Carta de Logu, in Aa. Vv., Il mondo della Carta de Logu, Edizioni 3T, Cagliari 1979, 71 ss.; ed alcuni saggi pubblicati nel 1995 in Società e cultura nel Giudicato d’Arborea e nella Carta de Logu. Atti del Convegno internazionale di studi, cit., con particolare riferimento ai contributi di L. Cicu, Il latino nel Giudicato d’Arborea (121 ss.) e di G. Mele, Culto e cultura nel Giudicato d’Arborea. Aspetti storici e tradizione manoscritta (253 ss.).

[8] Mutuo l’espressione da E. Blasco Ferrér, Storia linguistica della Sardegna, Niemeyer, Tübingen 1984, 64, al quale rinvio anche per una più puntuale definizione del concetto: «Preme rilevare, dapprima, che il concetto stesso di sardo antico, inteso come struttura linguistica volgare indipendente, non aderisce ad una realtà letteraria autosufficiente, in quanto veicolo di una larga tradizione orale; si tratta piuttosto di un complesso imponente, ma limitato, di dati linguistici appartenenti ad un registro cancelleresco»; cfr. inoltre Id., La lingua sarda contemporanea. Grammatica del logudorese e del campidanese, Edizioni Della Torre, Cagliari 1986, 70 s.

[9] Al tema sono dedicate anche alcune pagine, assai ben informate, di A. Mattone, La storiografia giuridica dell’Ottocento e il diritto statutario della Sardegna medievale, in “Materiali per una Storia della Cultura Giuridica” 26, 1996, 67 ss., più in particolare 96 ss.

[10] Al di là della valutazione complessivamente positiva – pur denunciandone una «singolare arretratezza» compilatoria – espressa da G. Vismara, Momenti della storia della famiglia sarda, in “Studi Sassaresi”, III serie, 2, 1971, 190 ss.; la storiografia giuridica contemporanea ha dedicato, stranamente, solo «qualche breve accenno», alla consolidazione feliciana: cfr., M. Da Passano, Delitto e delinquenza nella Sardegna sabauda (1823-1844) [Pubblicazioni della Facoltà di Giurisprudenza dell'Università di Sassari. Serie storica, 3], A. Giuffrè, Milano 1984, 1 ss. (con ampia rassegna della bibliografia precedente).

[11] Si veda, al riguardo, l’orgoglioso compiacimento “nazionalistico” di G.M. Mameli de’ Mannelli, Le Costituzioni di Eleonora giudicessa d'Arborea intitolate Carta de Logu, cit., 7: «Quanta compiacenza mai io provo, ogni qualvolta rivolgo in mente il vantaggio, che ha recato alla mia Patria la non interrotta osservanza delle sue leggi antiche, e particolarmente di questo Codice, che conta già oltre a’ quattrocent’anni, dacché sono persuaso, che da ciò in gran parte dipenda l’uniformità de’ costumi mantenutavisi fin ora pressoché interamente, e la venerazione pe’ suoi propj Statuti, ed il più fedele attacamento a’ suoi legittimi Sovrani; le quali cose l’anno preservata dal gettarvi radici lo spirito convulsivo, che in questa nostra età ha invaso una gran parte dell’Europa, e l’anno animata ad opporre la più valida resistenza a’ terribili sforzi della più imponente forza nemica, con ammirazione fin di quelli, che non si son dati il pensiero d’imitarla».

[12] Non è dunque da condividere, a questo proposito, il giudizio di F. Schupfer, Manuale di storia del diritto italiano, 4ª ed. riveduta e riordinata, Loescher, Città di Castello-Firenze 1908, 382, per il quale una così lunga vigenza della Carta de Logu «fa fede certamente della bontà intrinseca della legge, ma attesta eziandio l’indole piuttosto stazionaria di cotesti insulani».

[13] Per quanto attiene alle caratteristiche della lingua utilizzata dalla legislatrice arborense (a parte il lavoro ormai classico di P.E. Guarnerio, La lingua della «Carta de Logu» secondo il manoscritto di Cagliari, in E. Besta - P.E. Guarnerio, Carta de Logu de Arborea. Testo con prefazioni illustrative, cit., 69 ss.) sono veramente fondamentali alcuni saggi di A. Sanna, La lingua della Carta de Logu, in Id., Il dialetto di Sassari e altri saggi, Edizioni 3T, Cagliari 1973, 9 ss.; Id., Il carattere popolare della lingua della Carta de Logu, in Aa.Vv., Il mondo della Carta de Logu, Edizioni 3T, Cagliari 1979, 49 ss.

Sul tema vedi anche G. Paulis, Parole e storia nel mondo della ‘Carta de Logu’ e del Giudicato di Arborea, in Studi in onore di Massimo Pittau, I, Università degli Studi di Sassari, Facoltà di Lettere e Filosofia, Sassari 1994, 11 ss.; pubblicato, anche in Società e cultura nel Giudicato d’Arborea e nella Carta de Logu, cit., 133 ss. Più in generale, sugli aspetti storico-linguistici del «sardo antico del periodo giudicale e dei condaghi», vedi E. Blasco Ferrér, Storia linguistica della Sardegna, cit., 64 ss.

[14] Questa peculiarità della Carta de Logu non era sfuggita, del resto, ad A. Pertile, Storia del diritto italiano dalla caduta dell'impero romano alla codificazione, II.2. Storia del diritto pubblico e delle fonti, 2ª ed., a cura di P. DEL GIUDICE, Unione Tipografico-Editrice, Torino 1898, 88-91, il quale ne sosteneva la vigenza ben oltre l’abolizione formale: «essa non perdette ogni valore nell’isola che allorquando vi fu introdotto il codice civile italiano, e con esso si ruppe ogni filo della storia».

[15] Cfr. G. Pazzaglia, L’istituto del barracellato e l’agricoltura della Sardegna, in Atti del secondo Congresso Nazionale di Diritto agrario, Mussolinia-Cagliari-Sassari 16-19 ottobre 1938, Edizioni Universitarie, Roma 1939, 95 ss., in particolare 96: «è certo [...] che nelle carte d’Arborea, in una parte che riproduce le leggi rurali dettate da Mariano IV, padre di Eleonora, ai jurados de logu e jurados de padro o padrargios erano attribuite facoltà e responsabilità non molto dissimili da quelle che vennero ad assumere successivamente durante la dominazione spagnola i barracelli il cui nome pare derivare dallo spagnolo “barrachel”»; ivi si cita anche la tesi di laurea di M. Angioi, L’istituto del barracellato in Sardegna sotto l'aspetto storico, giuridico e amministrativo, Cagliari 1909 (che però non mi è stato possibile vedere).

Fondamentale, con il saggio più approfondito sulla materia, P. Sanna, Origine delle compagnie barracellari e gli ordinamenti di polizia rurale nella Sardegna moderna, in La Carta de Logu d’Arborea nella storia del diritto medievale e moderno, cit., 300-346 [pubblicato anche in “Diritto @ Storia. Rivista internazionale di Scienze Giuridiche e Tradizione Romana” 4, 2005 = http://www.dirittoestoria.it/4/Contributi/Sanna-Origini-compagnie-barracellari.htm ].

[16] Carta de Logu, cap. XXXVIII (de proare sos cavallos): ... Et icussu bestiamen, cant achaptare sos iurados de pardu ispeciadu ade nocte, cio est covallu domado, ebba domada, boe domadu et molent:, siant tenudos dellu tenne[r] et baturellu assa corte. et issos iurados indi appant decussu qui ant a batire a sa corte, sa terza parte dessas tenturas. Et cio si intendat pro boes domados qui in cussu tempus si paschit a muda si tenerent pro qui debent giaghere in sa corte, et appant indi su tersu secundu quest naradu desupra. Cap. CXLII (Qui iscongiarit vigna o orto): ... Et icusso pubillu de vigna o ver orto o armentargiu o homini suo, over iurado electu a sa guardia dessas vingnas et ortos et lavores, quillu achaptarint in alcuna de sas dictas vignas et ortos siat tenudo de accusarellu, comente et issu bestiamini, a sa pena chi si contenit de supra. Cap. CLXVII (De su pardu): Item ordinamus qui sas ebbas qui sant acatari intro dessu pardu desiidu, qui su maiori de pardu et issos iurados de pardu siant tenudos de maxellari de sas dictas ebbas, over quillis fassat tentura, de sa quali tentura depiant levari soddos X a su pubillu de sas ebbas. Ma bolemus qui non deppiat maxedari si non abastat ad ebbas X insusu et si non abastant ad ebbas X qui depiant levari su mayore de pardu cum sos compangios soddos I per pegus. Cfr. anche i capp. CLXXI e CXCIV.

[17] Così sosteneva, ad esempio, G. Zirolia, Ricerche storiche sul governo dei Giudici in Sardegna e relativa legislazione, Gallizzi, Sassari 1897, 174: «Il maggiore e i giurati avevano speciale incarico di sorvegliare e di fare osservare le leggi agrarie di Mariano, ed erano chiamati responsabili dei danni quante volte sfuggivano alla responsabilità penale coloro che per le leggi vigenti avrebbero dovuto subire condanna, o fossero scampati a sicura morte per inavvedutezza degli stessi majores che li avessero colti in fragrante (sic!) reato. Vediamo adombrato in queste prescrizioni l’istituto dei barracelli che vige tuttora in Sardegna e dal quale si hanno non pochi benefici effetti». Da vedere anche Eleonora Mura, Responsabilità e garanzia collettive nella legislazione statutaria sarda, in “Archivio Storico e Giuridico Sardo di Sassari”, Nuova serie, 3, 1996, 72 ss.

[18] Fra queste cfr., giusto a titolo di esempio, Ordinanza Regionale antincendi 1997 [= Decreto del Presidente della Giunta della Regione Autonoma della Sardegna 25 marzo 1997, n. 1], dal cui prologo traspare l’incombente presenza del fuoco nella quotidianità dell’Isola: «Il Presidente della Giunta Regionale, Considerato che nelle decorse stagioni estive si sono verificati gravi danni causati dagli incendi nei boschi e nelle campagne della Sardegna; Ritenuto necessario, per evitare ed attenuare la recrudescenza del fenomeno, predisporre per tempo, approssimandosi la stagione estiva, misure idonee atte a prevenire, per quanto possibile, l’insorgere e il diffondersi degli incendi [...] decreta: Art. 1: Ai sensi dell’art. 9 della Legge 1.3.1975, n. 47, dal 1° giugno al 15 ottobre vige lo “stato di grave pericolosità” di incendi per le zone boscate della Sardegna».

[19] Sugli aspetti generali della repressione degli incendi nella Sardegna giudicale (con puntuali riferimenti alla Carta de Logu), vedi la rapida sintesi di R. Di Tucci, Il diritto pubblico della Sardegna nel Medio Evo, in “Archivio Storico Sardo” 15, 1924, 112 s.; ed ora anche F. Artizzu, La disciplina dell’acqua e del fuoco negli Statuti medioevali sardi, in Id., Società e istituzioni nella Sardegna medioevale, Deputazione di Storia Patria per la Sardegna, Cagliari 1995, 133 ss.

[20] Ordinanza Regionale antincendi 1997, cit., art. 14: «L’ANAS, le Amministrazioni ferroviarie, le Province e i Comuni dovranno provvedere entro il 30 giugno […] all’eliminazione di fieno, sterpi o altro materiale infiammabile lungo la viabilità di propria competenza e nelle rispettive aree di pertinenza e mantenere tale situazione per tutto il periodo in cui vige lo Stato di Grave Pericolosità di cui al precedente art. 1».

[21] Cfr. Carta de Logu, cap. XLIX (De foghu): Constituimus et ordinamus qui sas villas qui sunt usadas de faghere sa doha proguardia dessu foghu deppiant illa fagher sa doha secundu qui fudi usadu per temporale. Ciaschaduna villa in sa habitationi sua. Et qui nolat aviri fata per Sanctu Pedru de lampadas paghit soddos X per homini et issa villa qui lat faghire: fazat illa qui foghu non la barighit sa doha, et si foghu illa barighat et faghit perdimentu, paghit sa villa soddos X per homini secundu quest usadu et issu curadore lliras X assa corte. Et si su curadore comandarit assus iurados, o ver a sus ateros hominis dessa villa de faghere sa dicta doha et non la fagherent paghint comonalimenti sa pena qui deviat paghare su officiali et icussu officiali siat liberu.

[22] Cfr. Carta de Logu, cap. XLV (Ordinamentos de fogu): Volemus et ordinamus: qui nexuna persona deppiat ne pozat ponne fogu infini ad passadu sa festa de sancta Maria qui est a dies VIII de capudanni et qui contra fagherit paghit de maquicia.llrs XXV et ultra so paghit su dannu cat fagher acuyu ad esser. Et de cussa die inantes ciascaduna persona pozat ponne fogu a voluntadi sua guardando si pero no fazat dannu ad atere, et si fagheret damno paghit pro maquicia liras X, et issu dannu ad qui l'at aver factu. Et si no ad de qui ndi pagare cussu qui ad esser condemnadu in liras x istit in pregione ad voluntadi nostra. Et issus jurados de sa villa hue ponne su fogu siant tenudos de prouare et tenne sos malefactores predictos et de representarellos a sa corte nostra infra XV dies. Et si nò los tenint in su dictu tempus sus dictos jurados cum sos hominis dessa villa paghit de maquicia cio est sa villa manna liras XXX et issa villa pizina liras XV et issu curadores de ciascuna de cussa villas paghit ssz.C, et de sos benes cant lassari: cio est sos cant essere fuidos et inculpadussi deppiant pagare su dannu ad cuy ad esser et issu remanente decussus benes si deppiant contari in su pagamentu qui ant fagher sos hominis dessa villa.

Carta de Logu, cap. XLV (Ordinamentos de fogu) [trad. italiana]: «Vogliamo ed ordiniamo che nessuna persona debba né possa abbrucciare stoppie fino a dopo la festa di Santa Maria, che è il giorno 8 settembre, e chi agirà in senso contrario paghi di multa lire 25 ed inoltre paghi il danno che può aver fatto a colui che lo ha subito. Da quel giorno in poi ognuno potrà appiccare fuoco a sua volontà, facendo attenzione a non danneggiare altri, se invece avrà provocato qualche danno paghi per multa lire 10 ed il valore del danno al danneggiato. Se non ha di che pagare la multa di 10 lire, stia in prigione a volontà nostra. Ed i giurati del villaggio, dove sarà appiccato il fuoco, siano tenuti a trovare le prove e catturare i malfattori ed a portarli davanti alla nostra corte entro quindici giorni. E se non li catturano nel tempo prescritto detti giurati e gli uomini di quel villaggio paghino di multa, se è un villaggio grande 30 lire, se è un villaggio piccolo 15 ed il curatore di ciascuno di questi villaggi paghi 100 soldi, e dai beni che lasceranno, cioè quelli che saranno fuggiti ed incolpati si dovrà risarcire il danneggiato; mentre la parte rimanente di quei beni si dovrà computare nel pagamento che faranno gli uomini del villaggio».

[23] Ordinanza Regionale antincendi 1997, cit., art. 10: «I proprietari e i conduttori di terreni, non compresi tra i boschi e le macchie di cui al precedente art. 2, possono, sotto la propria diretta responsabilità penale e civile, procedere all’abbruciamento di stoppie, frasche, cespugli, residui di colture agrarie e di altre lavorazioni, di pascoli nudi, cespugliati o alberati, nonché di incolti, anche nel periodo dal 1° giugno al 30 giugno e dal 15 settembre al 15 ottobre, purché muniti di apposita autorizzazione da rilasciarsi dalla Stazione Forestale e di V.A. competente per il territorio nel quale dovranno effettuarsi gli abbruciamenti»; da vedere anche gli artt. 11 e 12.

[24] Carta de Logu, cap. 94 (De sotzus): Volemus et ordinamus qui alcunu terarmangiesu cat dare iuo suo assardu pro iuargiu o pro soci, non appat ad cherre at perunu homini salvu aquillu ad aviri dadu. Ed issu iuargiu istit assa usansa dessa terra. Brevi commenti al testo in G.M. Mameli De’ Mannelli, Le Costituzioni di Eleonora giudicessa d'Arborea intitolate Carta de Logu, cit., 107 nt. 158; C.G. Mor, Le disposizioni di diritto agrario nella Carta de logu di Eleonora d'Arborea, in Aa.Vv., Testi e documenti per la storia del Diritto agrario in Sardegna, pubblicati e coordinati con note illustrative da Gino Barbieri, Vittorio Devilla, Antonio Era, Damiano Filia, Carlo Guido Mor, Aldo Perisi, Francesco Pilo Spada, Ginevra Zanetti, sotto la direzione di Antonio Era, Gallizzi, Sassari 1938, 39; F.C. Casula, La "Carta de Logu" del regno di Arborèa, cit., 266.

[25] Sul punto, vedi in particolare C.G. Mor, Sul commento di Girolamo Olives Giureconsulto sardo del sec. XVI alla Carta de logu di Eleonora d'Arborea, in Testi e documenti per la storia del Diritto agrario in Sardegna, cit., 66: «Il contratto di società (parziaria) invece consiste nella cessione dell'uso di animali per l'aratura e la semina, e in genere per i lavori agricoli, con partecipazione agli utili (1/2, 1/3, 1/4 secondo i patti) oppure ponendo in comune un socio la terra, l'altro il bestiame o le opere manuali proprie e talvolta di altri (braccianti, famigli, ecc.). E malgrado la lettera della legge, che parla solo di apporto da parte di un forestiero del bestiame necessario al lavoro, questo capitolo ha valore anche se il contratto intercorre fra sardi. La società, creata dal consenso, si scioglie quando tutti i soci manifestano volontà univoca di recedere dai reciproci impegni, mentre il dissenso di una parte non porta a queste conseguenze, salvo che non appaia una giusta causa che legittimi il recesso di un socio, come stabiliscono le leggi romane, nel tit. pro socio (D. 17, 2)».

[26] Carta de Logu, capp. CLX-CLXV [= capp. 132-137 ed. BESTA-GUARNERIO]. Su questi capitoli, resta ancora assai utile il commento di G.M. Mameli De’ Mannelli, Le Costituzioni di Eleonora giudicessa d'Arborea intitolate Carta de Logu, cit., 200 ss., in part. nnt. 299-306. Cfr. anche E. Besta, La Sardegna medioevale, 2. Le istituzioni politiche, economiche, giuridiche, sociali, Reber, Palermo 1909 [rist. an., A. Forni, Bologna 1979], 206; C.G. Mor, Le disposizioni di diritto agrario nella Carta de logu di Eleonora d'Arborea, in Testi e documenti per la storia del Diritto agrario in Sardegna, cit., 39 s. Più in generale, vedi G.G. Ortu, L’economia pastorale della Sardegna. Saggio di antropologia storica sulla «soccida», Edizioni Della Torre, Cagliari 1981.

[27] A. Pigliaru, La vendetta barbaricina come ordinamento giuridico, A. Giuffrè, Milano 1959, ora in Id., Il banditismo in Sardegna. La vendetta barbaricina come ordinamento giuridico, Nuova edizione, con una introduzione di L.M. Lombardi Satriani e altri scritti inediti dell’autore, A. Giuffrè, Milano 1993, 85 s.; 168 ss. Da vedere anche, più di recente, l’efficace sintesi di V. Mura, v. Pigliaru, Antonio, in Dizionario biografico dei giuristi italiani (XII-XX secolo), vol. II. Lev-Z, diretto da I. Birocchi, E. Cortese, A. Mattone, M.N. Miletti, Il Mulino, Bologna 2013, 1585-1586; da condividere la notazione sull’opera ivi proposta: «La sua opera principale, - scrive Virgilio Mura – un libro particolarmente innovativo nel campo della filosofia del diritto, è senza dubbio La vendetta barbaricina come ordinam. giur. (Milano 1959), a torto considerato, riduttivamente, come una semplice ricostruzione, in chiave antropologica o demologica, dell'ambiente culturale e del sistema normativo in cui agisce il banditismo sardo. La Vendetta è qualcosa di più: è il tentativo, riuscito, di dimostrare la possibilità, fino ad allora soltanto teorizzata, della compresenza su un medesimo territorio di una molteplicità di ordinamenti giuridici non coordinati gerarchicamente, ma anzi tanto autonomi da entrare in conflitto tra loro. Il libro ha un retroterra teorico che affonda le proprie radici in un lungo dibattito sul pluralismo giuridico, che era iniziato, in Italia, nel lontano 1918 con la pubblicazione del volume di Santi Romano L’Ordinamento giuridico e che era proseguito fino agli anni Trenta, coinvolgendo i principali filosofi del diritto e molti autorevoli giuspubblicisti, per poi scemare e spegnersi gradualmente col consolidarsi dello Stato fascista. L’opera chiude, dunque, una lunga stagione di intensi dibattiti specialistici sulla natura del diritto e il ruolo dello Stato in relazione all’autonomia degli ordinamenti minori. Serve anche a capire le peculiarità del fenomeno del banditismo sardo, che inquadra entro la cornice dei suoi presupposti culturali, ma non è un libro sul banditismo sardo, è un libro sulla dottrina del pluralismo giuridico».

[28] Cfr. M.A. Cattaneo, Antonio Pigliaru: la figura e l’opera [testo della commemorazione tenuta il 25 giugno 1969 nell’Aula Magna dell’Università di Sassari], in Famiglia e società sarda [= “Studi Sassaresi”, Serie III, 2, 1968-1969], A. Giuffrè, Milano 1971, XXV ss.; nello stesso volume: Bibliografia di Antonio Pigliaru, a cura di F. Sechi, 661 ss.

[29] Il ruolo di “intellettuale sardo” svolto da Antonio Pigliaru e la sua ferma coerenza nell’impegno civile, sono ben documentati nel libro di S. Tola, Gli anni di ‘Ichnusa’. La rivista di Antonio Pigliaru nella Sardegna della rinascita, Etiesse - Iniziative culturali, Pisa-Sassari 1994.

[30] Per una visione d’insieme sulla vita dell’insigne studioso, cfr. la biografia di Mavanna Puliga, Antonio Pigliaru. Cosa vuol dire essere uomini, Etiesse - Iniziative culturali, Pisa-Sassari 1996.

[31] Al riguardo, basterà soltanto menzionare alcune altre sue opere: Persona umana e ordinamento giuridico, A. Giuffrè, Milano 1953; Meditazioni sul regime penitenziario italiano, in appendice Saggio sul valore morale della pena, Gallizzi, Sassari 1959; La piazza e lo Stato, Ichnusa, Sassari 1961; Struttura, soprastruttura e lotta per il diritto, CEDAM, Padova 1965; Scritti sul fascismo, a cura di Marina Addis Saba e Mavanna Puliga, Etiesse - Iniziative culturali, Pisa-Sassari 1983.

A riprova della perdurante attualità delle sue opere, vedi i saggi pubblicati in Unità dello Stato e pluralismo degli ordinamenti. Organizzazione del potere, autonomie e comunità locali nella riflessione giuridica e filosofica di Antonio Pigliaru. Atti del convegno di Torino, 3-4-5 dicembre 1993, a cura di P.A. Bianco, A. Ruzzu, S. Sechi, L. Tavera, Iniziative culturali, Sassari 1994.

[32] A. Pigliaru, Il banditismo in Sardegna. La vendetta barbaricina come ordinamento giuridico, cit., 85: «Ora è da dire che l’esperienza colta del diritto sardo, che ebbe nella Carta de Logu il suo dato fondamentale, è un’esperienza a sua volta influenzata dall’esperienza romanistica, ma è un’esperienza che nella legge scritta riprende visibilmente i termini di quell’esperienza fondamentale che era l’esperienza consuetudinaria, seppure elevandola a forme giuridiche più elaborate e più facilmente riducibili in termini colti».

[33] A. Pigliaru, Il banditismo in Sardegna. La vendetta barbaricina come ordinamento giuridico, cit., 85-86: «La Carta de Logu, per dire il testo legislativo che più è stato presente alla storia del diritto sardo, appare infatti, a vederla bene, come un testo legislativo interamente pensato in rapporto alla necessità di articolare sistematicamente le consuetudini giuridiche sarde, però opponendosi talvolta ad esse nello sforzo di certificare ulteriormente l’azione giuridica, sottraendola ora al libito e alle dispersioni cui l’abbandono a se medesimo pareva esporle e le aveva esposte mentre durava quel periodo di torbidi interni ed esterni che aveva preceduto l’opera giudicale di Mariano e quindi l’azione riordinatrice di Eleonora».

[34] A. Pigliaru, Il banditismo in Sardegna. La vendetta barbaricina come ordinamento giuridico, cit., 171 ss.

[35] Carta de Logu, cap. VI (De tenne su malefactore): Volemus et ordinamus qui si alcuna persona esseret morta in alcuna villa deforas, o inconfines et habitationes de sa villa, siant tenudus sus iuradus dessa dita villa, de provare et de tenne su malufactore et dellu batire tentu assa corti nostra infra unu mese: pro faghirende sa iusticia. Et in casu que su malu factore non tenerent et nolu batirent assa corti nostra. Infra su dictu tempus, paghint sos iurados totu et issos hominis dessa dita villa pro sa maquicia et prosa negligentia issoro pro que non tensierunt su homini llrs. ducentas, si est sa villa manna. Et issa villa pixia paghit llrs. C. Et si cussu homini qui avirit mortu su homini fuirit et non si poderet aviri infra su dito tempus de uno mese siat isbandidu daesas terras nostras et issos benes suos totu siant confiscados assa corte nostra. Reservando pro sas ragiones de sas mugeres et de sos figios que avirint dae atera mugere qui non avirint appidu sa parti pertinenti ad issos pro parti de sa prima mugheri. Et similimenti si intendat salvas sas ragiones de sos creditores qui avirent ad ricivir supra sos benes decussos. Et si per alcuno tempus cussu homini qui avirit mortu su homini beneret in forza nostra non esendo fidado siat illi tagiada sa testa per modu quindi morgiat. Et niente de minus ogne persona illu pozat offendere in persone et dareli morte senza incurrere pena ne maquicia alcuna duranti su dictu tempus de su isbandimentu suo.

[36] A. Pigliaru, Il banditismo in Sardegna. La vendetta barbaricina come ordinamento giuridico, cit., 171.

[37] A. Pigliaru, Il banditismo in Sardegna. La vendetta barbaricina come ordinamento giuridico, cit., 173; significativo, infine, anche quanto si legge alle pagine 175-176: «Così invece ciò che ora giova è prendere atto d’un’altra circostanza, quella per cui nella Carta de Logu, alla sottilissima costruzione del reato corrisponde una sottilissima costruzione della pena, in questa pena prevedendosi di norma (e quando la natura del rapporto reato-pena lo consente) una progressione in alternativa che fa pensare molto da vicino al precetto barbaricino per cui la vendetta deve essere adeguata proporzionata e progressiva, come ad un precetto appreso, oltre che da un senso immediato della giustizia, fors’anche dall’esperienza che le comunità sarde han fatto dentro lo schema della legislazione giudicale».

[38] Hieronymi Olives sardi, Commentaria et Glosa in Cartam de Logu. Legum, et ordinationum Sardarum noviter recognitam, et veridice impressam, ex typographia nobilis D. D. Petri Borro administr. per Gaspar. Nicolaus Garimberti, Sassari MDCXVII, 5.

Su Girolamo Olives (1505?-1569), giurista di elevata cultura e avvocato fiscale presso il Consiglio Superiore d’Aragona, sono davvero scarne le notizie biografiche che ci sono pervenute: cfr. P. Martini, Biografia Sarda, vol. II, Reale Stamperia, Cagliari 1837-38, 339 ss.; e P. Tola, Dizionario biografico degli uomini illustri di Sardegna, ossia storia della vita pubblica e privata di tutti i sardi che si distinsero per opere, azioni, talenti, virtù e delitti, vol. III, Tipogr. di Chirio e Mina, Torino 1838, 29 ss.; A. Mattone, v. Olives, Girolamo, in Dizionario biografico dei giuristi italiani (XII-XX secolo), diretto da I. Birocchi, E. Cortese, A. Mattone, M.N. Miletti, vol. II. Lev-Z, cit., 1455; infine, GIULIA MURGIA, Un “sociolinguista” cinquecentesco: Girolamo Olives e i suoi Commentaria et Glosa in Cartam de Logu (1567), in “RHESIS. International Journal of Linguistics, Philology, and Literature” 5.1, 2014, 79-112, la quale corregge, convincentemente, anche la data della morte (ivi 80).

[39] Cfr., per tutti, la classica opera del cavaliere Giuseppe Manno, Storia di Sardegna, III, Alliana e Paravia, Torino 1826 [rist. an., A. Forni, Bologna 1973], 126; ma anche F. Sclopis, Storia della legislazione italiana, II, Unione Tipografico-Editrice, Torino 1863, 190.

[40] G.M. Mameli De' Mannelli, Le Costituzioni di Eleonora giudicessa d'Arborea intitolate Carta de Logu, cit., 14 nt. 4: «Esser dovrebbe il giorno di Pasqua del 1395 anno, in cui fu pubblicata la Carta de Logu, e pare, che ciò si debba dedurre dai capitoli 19 e 20 ne’ quali si nomina sempre in primo luogo la Corona di San Marco, e dal cap. 105 in cui si prefigge il termine in quel primo anno, per prendere i Tavernaj le misure del vino, sino alla Corona di San Marco prossima ventura; e per contro in detti capitoli la Corona delle Palme, ch’è l’immediatamente precedente al giorno di Pasqua, vien nominata in ultimo luogo».

Nello stesso senso vedi ancora G. Zirolia, Ricerche storiche sul governo dei Giudici in Sardegna e relativa legislazione, cit., 175 nt. 1. Ma questa datazione è accettata anche in qualche importante manuale del Novecento: F. Calasso, Lezioni di storia del diritto italiano. Le fonti del diritto (sec. V-XV), rist. riveduta, A. Giuffrè, Milano 1948, 241: «la figlia, la giudicessa Eleonora, fu però quella che riuscì a dare all’opera paterna quella sistemazione, che doveva essere definitiva, ed imporsi col tempo come il codice generale di tutta l’isola: fu la così detta Carta de logu de Arborea, promulgata nella Pasqua del 1395».

[41] E. Besta, La Carta de Logu quale monumento storico-giuridico, in E. Besta - P.E. Guarnerio, Carta de Logu de Arborea. Testo con prefazioni illustrative, cit., 3 ss.; in particolare 17 s.

[42] E. Besta, La Carta de Logu quale monumento storico-giuridico, cit., 18. Cfr. inoltre Id., La Sardegna medioevale, 2. Le istituzioni politiche, economiche, giuridiche, sociali, cit., 154. Alla datazione proposta dal Besta mostrava di aderire, fra gli altri, A. Marongiu, Sul probabile redattore della Carta de Logu, in Id., Saggi di storia giuridica e politica sarda, cit., 70; Id., Delitto e pena nella Carta de logu d’Arborea, in Studi in onore di Carlo Calisse, I, A. Giuffrè, Milano 1940 = Saggi, cit., 76 e nt. 10.

[43] A. Era, Le così dette questioni giuridiche esplicative della Carta de Logu, in Studi di storia e diritto in onore di Enrico Besta per il XL anno del suo insegnamento, II, A. Giuffrè, Milano 1939, 395: «Come però avevo conchiuso nel mio Corso di storia delle istituzioni sarde, effettivamente queste questioni giuridiche non sono affatto esplicative della Carta de Logu. Occorreva però chiarire la constatazione e precisare, come preciserò qui con una limitazione, per poi discuterla ed eliminarla, che le questioni non spiegano affatto la Carta de Logu a noi pervenuta e cioè quella di Eleonora di Arborea dell’a. 1386 circa».

[44] A. Era, Le ‘Carte de logu’, in Università degli Studi di Sassari. Annuario per l’anno accademico 1959-60, Gallizzi, Sassari 1960, 17 ss.; il testo, integrato con apparato critico di note, fu ripubblicato conservando il medesimo titolo in “Studi Sassaresi”, II serie, 29, 1962, 1 ss. In questo saggio lo studioso, ritenendo di dover premettere «qualche dato cronologico orientativo» per la chiarezza della successiva trattazione, scriveva quanto segue: «Mariano regnò dal 1346 al 1375, il figlio Ugone III o IV, dal 1375 al 1383, [...]. Precisa Eleonora nel prologo che la carta emanata dal padre Mariano era rimasta per 16 anni senza alcun ritocco. Detraendo dal sedicennio gli otto anni del regno di Ugone si ricava che la carta di Mariano ebbe una data compresa tra il 1367 che porta al 1383 la redazione di Eleonora e il 1375 che porta la redazione di Eleonora al 1391» (12). Nello stesso senso, vedi ora Barbara Fois, Sulla datazione della ‘carta de Logu’, cit., 141 ss.

[45] E. Cortese, L’opera di Antonio Era nella storiografia giuridica. - Nel ricordo di Antonio Era: una proposta per la datazione della “Carta de Logu” d'Arborea, Università degli Studi di Sassari - Facoltà di Giurisprudenza, Sassari, 9 dicembre 1982, 29 = Id., Nel ricordo di Antonio Era. Una proposta per la datazione della “Carta de Logu” d'Arborea, in “Quaderni Sardi di Storia 3, 1983, 25 ss.: «Nel suo ultimo studio Era, prudentemente, si limita a ricondurre la compilazione di Eleonora al lasso di tempo compreso tra il 1383, quando inizia il suo governo, e il 1391, allorché scade il sedicennio dalla morte di Mariano. Sarebbe poi molto interessante conoscere i ragionamenti in base ai quali egli aveva lanciato nel ‘39, senza spiegazioni, la data del 1386: aveva forse in mente la prima convenzione con re Pietro? Certo, quest’episodio apre un lungo periodo, fino all’estate ‘91, in cui interventi normativi sembrano in linea di massima possibili: ma resta, a mio parere, che i mesi di gran lunga più propizi son quelli che si succedono dalla primavera alla fine del ‘90, o tutt’al più all’inizio ‘91».

[46] E. Cortese, Il diritto nella storia medievale, II. Il basso medioevo, Il Cigno Galileo Galilei, Roma 1995, 350.

[47] F.C. Casula, La “Carta de Logu” del regno di Arborèa, cit., 240; può essere di un qualche interesse leggere le restanti argomentazione proposte dallo studioso nel seguito della nota: «Secondo noi, i precisati “sedici anni” si riferiscono alla data di morte di Mariano IV nel 1376 (mentre gli “oltre sedici anni” sarebbero l’indicazione generica dell’ultima edizione mariana che, in nota al capitolo I, individuiamo intorno al 1369). Per cui, sommando i 16 anni dichiarati da Eleonora d’Arborea all’anno del decesso di Mariano IV nel 1376, si giunge all’ipotizzato 1392. A sostenere questa probabile datazione, interviene la fine del governo luogotenenziale di Eleonora che rende impossibile un’edizione posteriore della Carta de Logu della juighissa de fattu, in quanto nel 1392/93 il figlio Mariano V, raggiunta la maggiore età, assunse la pienezza dei poteri giudicali relegando la madre a vita privata. Altrettanto dubbia sarebbe un’edizione precedente il 1391/92, perché solo in questo periodo siamo in armonia col quadro politico del regno indigeno, dal momento che Brancaleone Doria, marito di Eleonora, era nuovamente libero dopo più di sei anni di prigionia a Castel di Cagliari, ed aveva ripreso la guerra irredentista contro i Catalano-Aragonesi del regno di Sardegna, estendendo a quasi tutta l’isola gli istituti giuridici arborensi, come si evince dall’afflato generale del Codice legislativo».

Peraltro lo studioso aveva espresso tale convinzione anche in alcuni suoi precedenti lavori: F.C. Casula, Cultura e scrittura nell'Arborea al tempo della Carta de Logu, in Aa.Vv., Il mondo della Carta de Logu, cit., 107 ss.: «Certamente, l'edizione principe del 1392 era un codice pergamenaceo scritto in bella gotica libraria, con iniziali miniate o, quanto meno, ornate; non dissimile, per esempio, dal "Breve di Villa di Chiesa" conservato nella Biblioteca del Comune di Iglesias» (108); Id., La Sardegna aragonese, 2. La Nazione sarda, cit., 457 («Il 1392 fu caratterizzato da altri due avvenimenti importanti: l’impresa siciliana del fratello del re, Martino, e la promulgazione della famosa Carta de logu di Arborea») e 458 («Secondo il parere degli storici più accreditati, in quell’anno, forse il giorno di Pasqua, uscì pure l’edizione principe del codice manoscritto voluto da Eleonora “per issa gracia de Deus juyghissa de Arboree, contissa de Gociani e biscontissa de Basso”»).

[48] F. Brandileone, Lezioni di storia del diritto italiano, Athenaeum, Roma 1922; alla Sardegna, in particolare, sono dedicate le pagine 134 ss.

[49] F. Brandileone, Lezioni di storia del diritto italiano, cit., 136-137: «I giudicati, fino al secolo XIV, erano stati regolati assai più dalla consuetudine che dalle leggi scritte. Le compilazioni giustinianee e qualcuna almeno delle seguenti compilazioni bizantine, fino al secolo VIII, non sembra dubbio che vi siano state promulgate; ma l'uso e il vigore di esse si può solo dedurre da indizi molto posteriori. Dopo non molto tempo però dalla loro introduzione, la diretta conoscenza di esse s'era dovuta venir facendo sempre più scarsa, a causa della completa mancanza di un qualche centro di coltura locale che ne mantenesse viva la comprensione e l'applicazione, ed aveva dovuto cedere il posto a pratiche ed usanze derivate non solo da quelle legislazioni, ma anche, e forse in parte non piccola, da quelle influenze nuove alle quali si è già accennato». Sempre del Brandileone, cfr. anche il saggio Note sull'origine di alcune istituzioni giuridiche in Sardegna durante il medioevo, in “Archivio Storico Italiano”, V Serie, 30, 1902, 275 ss. = Id., Scritti di storia giuridica dell'Italia meridionale, a cura di C.G. MOR, Società di Storia Patria per la Puglia, Bari 1970, 163 ss.

[50] A. Solmi, Prefazione, in Testi e documenti per la storia del Diritto agrario in Sardegna, cit., VII-VIII: «Quando i primi documenti campidanesi o logudoresi consentono, sul principio del secolo XII, di spingere uno sguardo sicuro sulla vita giuridica sarda del medio evo, noi troviamo ancora intatte le forme del diritto romano, rese soltanto più semplici e più rozze da una costituzione sociale meno complessa, rimasta per alcuni secoli quasi isolata, ma fedele alle sue tradizioni e alla sua origine. Il fenomeno offerto dal linguaggio, per cui il campidanese o il logudorese dei secoli xii e xiii si rivela come diretta derivazione dal latino, in forme semplificate e volgarizzate, si riproduce esattamente nel campo del diritto, che si presenta come una filiazione diretta del vecchio e glorioso diritto romano, fatto più semplice e rozzo dalle contingenze di una società che conduce una vita meno complessa e di minori esigenze, pur rimanendo sempre fondamentalmente ordinata e civile». Sempre riguardo alla diffusione del diritto romano in Sardegna, del Solmi vedi anche: La Sardegna e gli studi storici, in “Archivio Storico Sardo” 1, 1905, 13 («Ma la bella tradizione latina, accolta così e congiunta per virtù di salde e tenaci affinità nell'intima fibra dell'anima isolana, non fu poi più spenta. Lo spirito fortemente conservatore del popolo sardo se ne fece geloso depositario e custode, e modellò su quella le forme delle sue manifestazioni sociali; [...] Mentre nel tempo, che segna il passaggio dall'evo antico all'evo medio, gran parte dell'Italia soggiace a una lunga, trasformativa dominazione germanica, la Sardegna è invece fra le scarse regioni italiane, che ne restarono quasi pienamente immuni, e dà così un nuovo, singolare atteggiamento alla sua storia, che continua una lenta e spontanea elaborazione degli elementi indigeni e latini»); Studi storici sulle istituzioni della Sardegna nel medio evo, cit., 261-262 («Ma un profondo rinnovamento si iniziava nel secolo XII, con la colonizzazione e con le conquiste genovesi e pisane. [...] Tra le gravi conseguenze sociali di questo rinnovamento è anche, per la Sardegna, l'accoglimento delle leggi e del diritto romano. Perché la tradizionale opinione, accolta da alcuni storici, che designa la Sardegna come la terra privilegiata, che, immune quasi dalla dominazione germanica, serbò vivi il culto e l'uso del diritto romano, non rappresenta che una strana illusione, trasmessa senza critica dai vecchi commentatori dell'età aragonese. Invece è certo che la conoscenza e l'uso del diritto romano penetrarono in Sardegna soltanto con gli elementi tutti della civiltà comunale italiana, per opera e per effetto di questa»).

[51] Per approfondimenti biografici esaustivi su questo giurista, vedi ora A. Mattone, v. Dexart, Giovanni, in Dizionario Biografico degli Italiani, XXXIX, Roma 1991, 617 ss.

[52] Ioannis Dexart, Capitula sive Acta Curiarum regni Sardiniae, ex Typographia doctoris don Antonij Galcerin apud Bartholomaeum Gobettum, Carali 1645, I, 4, 3, num. 6-7: «summa profecto ratione mentio in eo tantum, sit de iure communi; id est Romanorum. […] In nostra Sardinia contrarium servatur, idque non ex particulari aliqua ipsius constitutione, vel saltim et iure scripto: sed ex non scripto, mediante veteri consuetudine, et continua observantia, iuxta quam ab immemorabili tempore, ita quotidie practicari, expertus sum». Cfr. anche G. Manno, Storia di Sardegna, II, Placido Maria Visaj, Torino 1824 [rist. an., A. Forni, Bologna 1973], 398, il quale si era invece limitato ad asserire che «le reminiscenze dell’antica giurisprudenza romana si veggono nell’isola anche nei tempi più tardivi».

[53] Su questo studioso cfr., brevemente, A. Mattone, La storiografia giuridica dell’Ottocento e il diritto statutario della Sardegna medievale, cit., 99 s.

[54] A. Pertile, Storia del diritto italiano dalla caduta dell'impero romano alla codificazione, II.2, cit., 89.

[55] A. Pertile, Storia del diritto italiano dalla caduta dell'impero romano alla codificazione, II.2, loc. cit. in nt. precedente.

[56] A. Pertile, Storia del diritto italiano dalla caduta dell'impero romano alla codificazione, II.2, cit., 89-90: «Il codice d'Eleonora che, ove si prescinda dall'ordine di cui ha gran difetto, vuol qualificarsi siccome ottimo e assai progredito, fatta ragione del tempo, consta di 198 articoli, nei quali si statuisce pene per delitti, si regola il modo d'amministrare la giustizia nei tribunali, si danno norme intorno al diritto di famiglia, alle tutele, alle successioni ed ai più frequenti contratti, principalmente a quei di bestiame; essa da inoltre disposizioni di diritto amministrativo e di polizia, segnatamente circa i campi e gli orti, anzi si può dire si chiuda (133-198) con una specie di codice rurale. Questa parte è dovuta certamente al giudice Mariano, di cui porta in fronte il nome e un proemio; ma quanto ci sia di lui nella restante legge e quale sia veramente l'opera di sua figlia, non può determinarsi».

[57] F. Ciccaglione, Manuale di storia del diritto italiano, II, Vallardi, Milano 1901, 56 ss. In alcune pagine dedicate alle «leggi di Eleonora» questo studioso, mostrando peraltro di conoscere assai bene anche i più recenti studi sulla materia, affermava con risoluta convinzione che «il sostrato delle leggi di Eleonora è tutto romano, come era stato il sostrato delle consuetudini, anche nel campo del diritto penale e della procedura, dove però esercitò il diritto canonico la sua influenza, che si scorge anche in altri punti» (59).

[58] F. Schupfer, Manuale di storia del diritto italiano, cit., 380 s.: «Sullo scorcio del secolo XIV, precisamente il giorno di Pasqua del 1395, fu nell’isola di Sardegna pubblicata una legge, che ebbe il vanto di essere tenuta per segno di un grande perfezionamento sociale, da cui altre e più vaste contrade del continente italiano erano ancora lontane. Intendiamo accennare al volume di costituzioni e ordinazioni sardesche, conosciuto sotto il nome di Carta de logu, cioè statuto o legge speciale del luogo, ossia giudicato di Arborea. Questa carta era stata bandita da Mariano IV, che regnava nella provincia d’Arborea; ma parve non corrispondere ai bisogni del tempo e del popolo. Così Eleonora sua figlia, […] dopo sedici anni si fece a correggerla, compiendo in modo illustre l’opera legislativa cominciata dal padre. Allora ebbero stabili norme i riti giudiziari, la ragione civile e criminale e la pubblica economia. La carta è scritta in dialetto sardo, che certo era il modo più acconcio per avvicinarla alla intelligenza del popolo. E anche la sua concisione le valse meritati encomi. Non proemi ridondanti di lodi, alcuna fiata sterili e sempre immature; non ragioni di legge, a cui la logica ingannevole del foro potesse trovare materia di controversie; non eccezioni, che rendessero vano o enigmatico l’ordinamento principale».

[59] C. Calisse, Storia del diritto italiano, I. Le fonti (1891), nuova edizione, G. Barbera, Firenze 1930, 333 s.: «A questo riguardo, prevalse sugli altri il giudicato di Arborea. La carta più antica che si ricorda fu quella del giudice Mariano IV (1353-1373), il cui esempio fu seguito da Ugone suo figlio (1377-1383): ma il disegno, con assai più larga veduta, fu ripreso, dopo 16 anni, dalla figlia di Mariano, Eleonora, col nome della quale il codice restò nella storia. Si compone di articoli o capitoli, tutti in una serie, scritti in dialetto sardo, in forma di comando. Il diritto penale è la parte più ampiamente trattata, e vi si mostra superiore in confronto di leggi precedenti ed anche di altrove, sia nella considerazione degli elementi del reato, sia nella determinazione delle pene, ordinariamente più miti; v’ha luogo il procedimento giudiziario, riveduto e migliorato; e la parte più scarsa è quella che si riferisce al diritto privato, poiché molto ne resta alle consuetudini, ed al diritto comune, specialmente al romano».

Fra i manuali, per il particolare rilievo dato alle basi romanistiche e all’originalità delle elaborazioni giuridiche sarde, merita un cenno anche G. Salvioli, Storia del diritto italiano (1890), 8ª ed., Unione Tipografico-Editrice Torinese, Torino 1921, 77: «Durante questo periodo la Sardegna fu retta da consuetudini territoriali (non conobbe, cioè, le professioni di legge), le quali hanno loro base nel diritto romano-volgare che quindi trova nei documenti sardi un filo conduttore per la sua ricostruzione. Queste consuetudini non sussidiate da conoscenza di leggi o da cultura scientifica si svolsero fuori da ogni influenza bizantina o franca (come poi ispanica) in sviluppo autoctono secondo le esigenze di quella società in gran parte pastorale e secondo l’assetto quasi primitivo della proprietà fondiaria. Tale è l’usus sardinee terre di cui parlano le carte, nel quale il fondo è romano con sovrapposizione di principii ecclesiastici. Se ne fecero raccolte, ma la più antica conosciuta di tali consuetudini è del secolo XIV, ed è dovuta ad Eleonora, figlia a Mariano iv, sposa a Brancaleone Doria, la quale investita del titolo ereditario di giudichessa di Arborea compì l’opera di legislazione inaugurata dal padre, pubblicando nel 1395 il libro delle costituzioni ed ordinanze sarde, detto Carta de logu, ossia legge territoriale divisa in 198 capitoli scritti in lingua sarda, consacrati al diritto di famiglia, alle successioni, ai principali contratti e alla polizia rurale».

[60] E. Besta, La Carta de Logu quale monumento storico-giuridico, in E. Besta - P.E. Guarnerio, Carta de Logu de Arborea. Testo con prefazioni illustrative, cit., 3 ss.

[61] E. Besta, La Carta de Logu quale monumento storico-giuridico, cit., 19: «è la Carta de logu stessa che in varî capitoli accenna alla autorità generale del diritto romano che s’intende sotto l'espressione di leges o di rexione nei capitoli 3, 67, 68 [ma 77, 78], 98, 99: che non fossero citazioni ad pompam, ma rispondessero a condizioni reali risulta dalle Expositiones de llege che furono con la legge pubblicate nella prima, nella seconda e nella quarta edizione ed ebbero esse stesse valore di legge, non sappiamo se per sanzione sovrana o per forza di consuetudinaria osservanza. E non in Arborea soltanto le romane erano le leges per eccellenza».

[62] E. Besta, Il diritto sardo nel medioevo, Stab. tip. Fratelli Pansini fu S., Bari 1898, 24: «La costituzione della famiglia restò pur essa fondamentalmente romana: forse più rigido che altrove si mantenne il concetto della patria potestas. Il padre poteva infatti ferire il figlio e la moglie per redarguirli e punirli; a lui era lecito diseredare la prole ingrata e irriverente. E la condizione della donna rimase pur sempre inferiore a quella dell'uomo: poteva però essere tutrice dei propri figli o nipoti e non le era negato di avere un'azienda propria».

Sul potere punitivo del padre, cfr. Carta de Logu, cap. IX, in cui si dichiarano non punibili il marito, il padre o il fratello che abbiano procurato ferite a mugeri o figiu o fradi carrali o sorre o nebodi de fradi o ver de sorri o ver famigiali suo chi istarit ad imparare, poiché rientrava nel potere di quegli uomini batteri e castigare acconzadamenti. Per quanto riguarda la diseredazione della prole, cfr. Carta de Logu, cap. XCVIII, che però conosceva una serie di limitazioni al potere di diseredare i propri discendenti.

[63] E. Besta, La Sardegna medioevale, 2. Le istituzioni politiche, economiche, giuridiche, sociali, cit., 152 ss.

[64] E. Besta, La Sardegna medioevale, 2. Le istituzioni politiche, economiche, giuridiche, sociali, cit., 161: «L'influenza continentale e soprattutto quella della giurisprudenza – scriveva in proposito l’insigne studioso – importò poi che anche in Sardegna il diritto giustinianeo avesse valore di ius comune. Non vorrei dire che ciò fosse avvenuto fin dal secolo duodecimo quando, a poco più di cinquant'anni da un trattato che anche nelle cause tra Genovesi e Sardi volea osservati gli usus Sardinee terre, altri trattati vollero che queste fossero giudicate secondo le leges romanae in primo luogo e poi secondo le bonae consuetudines: ma nel secolo decimoterzo quella interessante recezione dovea essersi già avverata. Alle leggi romane si richiamano gli statuti sassaresi e gli iglesiensi e la stessa Carta de logu».

[65] A. Marongiu, Aspetti della vita giuridica sarda nei Condaghi di Trullas e di Bonarcado (secoli XI-XIII), in “Studi Economico-Giuridici dell'Università di Cagliari” 26, 1938, 624 ss. [= Id., Saggi di storia giuridica e politica sarda, cit., 13 ss.]; Sul probabile redattore della Carta de Logu, cit. [= Id., Saggi, cit., 61 ss.]; Delitto e pena nella Carta de logu di Arborea, in Studi in onore di Carlo Calisse, I, A. Giuffrè, Milano 1940, 107 ss. [= Id., Saggi, cit., 75 ss.]. Su tutti questi lavori, vedi ora le riflessioni dello stesso autore: A. Marongiu, I miei studi di storia sarda, in “Archivio Storico Sardo di Sassari” 1, 1975, 153 ss.

[66] A. Marongiu, Aspetti della vita giuridica sarda nei Condaghi di Trullas e di Bonarcado (secoli XI-XIII), ora in Id., Saggi di storia giuridica e politica sarda, cit., 21: «Questa partecipazione del popolo alle funzioni di governo – scrive il Marongiu –, questa specie di democrazia diretta, aveva la sua manifestazione più notevole nell'acclamazione del nuovo giudice in caso di vacanza del trono ed era altresì tratto ordinario e caratteristico della composizione degli organi o collegi giurisdizionali sardi, cioè delle corone. Il carattere democratico della politica giudicale si scorge anche in ciò che, pur quando parte in un giudizio fosse stato (non è sempre facile precisare se in difesa di un interesse pubblico o personale) lo stesso Giudice, il corso della lite procedeva normalissimamente, come se le parti fossero entrambe state privati singoli».

[67] Sul quale, a parere di A. Marongiu, Delitto e pena nella Carta de logu di Arborea, ora in Id., Saggi di storia politica e giuridica sarda, cit., 81 s., la legislatrice arborense avrebbe fondato «la affermazione o la esclusione della responsabilità e (naturalmente in relazione anche alle circostanze dei singoli delitti) la commisurazione della pena: ciò in particolare nella ricerca degli estremi del dolo o della colpa e, per i delitti intenzionali e volontari – cioè dolosi –, del movente dell'azione»; di notevole interesse anche quanto si legge di seguito: «La ricerca del contenuto di intenzionalità e volontà, ossia della causalità intellettuale e morale del reato, è evidente dove la pena ordinaria del reato è comminata soltanto per ipotesi in cui il colpevole abbia voluto e l'azione e l'evento, con diretto riferimento alla rappresentazione o previsione e alla volontà di tali elementi del reato. Si manifesta poi anche nei capitoli dove si parla di delitti commessi apensadamenti (cap. 8), ovvero istudiosamenti (capp. 46, 47), scientimenti (capp. 4, 71) o con animo deliberado (cap. 4)».

[68] A. Marongiu, Delitto e pena nella Carta de logu di Arborea, ora in Id., Saggi di storia politica e giuridica sarda, cit., 82 s.: «La stessa ricerca dell'estremo del dolo si aveva anche nel subordinare la punibilità dell'uso di falsa scrittura (cap. 25) alla condizione che questo venisse compiuto maliciosamenti cioè cognoscendo qui esseret falsa. Inoltre nello stabilire la sottrazione alla pena ordinaria (pena capitale) di colui che avesse commesso un omicidio improvisamenti et non cum animo deliberado et non pensadamenti, anti pro casu fortuitu secondu qui solent advene multos disastros (cap. 3) oppure non ... ad boluntadi sua et siat istadu disastru (cap. 4), e nello stabilire norma analoga per il reato di lesioni personali quando alcunu delictu advenit per disastru per non esser fattu apensadamenti (cap. 9). Precetti simili a questi ultimi si avevano in vari Statuti comunali ma, a quanto mi sembra, senza la sistematicità constatata nella legge arborense. In questa tuttavia manca – come, del resto, in qualche teoria moderna – l'individuazione del concetto di colpa rispetto a quello di caso fortuito o disastro: individuazione pure non del tutto ignota al nostro diritto penale statutario. Resta il dubbio se tale mancanza di specificazione costituisca un vero e proprio difetto di tecnica giuridica o piuttosto un espediente di politica criminale, atto ad assicurare la maggiore latitudine possibile nel potere dei magistrati di valutare caso per caso, discrezionalmente, la responsabilità dell'agente, ai fini della determinazione della pena».

[69] A. Marongiu, Delitto e pena nella Carta de logu di Arborea, ora in Id., Saggi di storia politica e giuridica sarda, cit., 85: «S'intende che i legislatori non potessero limitarsi alla considerazione astratta della intenzionalità del reato e avessero dovuto inoltre preoccuparsi non solo delle diverse specie delittuose, ma anche degli altri aspetti e dei modi di essere dell'azione penalmente illecita. In primo luogo, infatti, la carta de logu guardava all'elemento oggettivo, dell'azione ed evento: in specie nei capitoli 5 e 11 in cui accanto ai delitti completi si configuravano dei delitti mancati. Potrebbe, a prima vista, sorprendere che, mentre tali disposizioni puniscono alquanto più mitemente gli autori del tentativo rispetto a quelli del delitto perfetto, il cap. 1 della carta punisse come se avesse perpetrato il crimine anche colui che avesse soltanto "trattato" o "consentito" la esecuzione di esso. Ma si trattava del delitto di lesa maestà, gravissimo fra tutti i delitti, per il quale ben si spiega che la legislatrice arborense avesse adottato il criterio, delle leggi Iulia majestatis, Cornelia de sicariis et veneficiis e della Pompeia de parricidiis, dell'equiparazione quoad poenam del delitto compiuto con quello soltanto tentato o preparato».

[70] Per una rapida visione della biografia, della bibliografia e dei precipui interessi scientifici dell’insigne studioso, vedi il necrologio (redazionale) Antonio Era, in “Studi Sassaresi”, II serie, 29, 1962, 127 ss., ivi anche l’elenco completo delle sue opere (131 ss.); C. Sole, Antonio Era: profilo bio-bibliografico, in Studi storici e giuridici in onore di Antonio Era, CEDAM, Padova 1963, VII ss.; cfr. inoltre Pia Fiori Maciocco, Per un elenco dei docenti di materie storico-giuridiche dal 1880 in poi. VII. Facoltà di Giurisprudenza dell’Università di Sassari (dal 1850), in “Index. Quaderni Camerti di Studi Romanistici” 9, 1980, 314.

[71] A. Era, Le così dette questioni giuridiche esplicative della Carta de Logu, in Studi di storia e diritto in onore di Enrico Besta per il XL anno del suo insegnamento, II, cit., 377 ss.

[72] V. Finzi, Questioni giuridiche esplicative della Carta de Logu, in “Studi Sassaresi” 1, 1901, 125 ss. L’operetta segue il testo della Carta de Logu, sia nel codice miscellaneo della Biblioteca Universitaria di Cagliari (pubblicato per la parte riguardante la Carta dal Besta e dal Guarnerio e da cui è tratta l’edizione del Finzi), dove però è intitolata Exposiciones de sa ‘llege; sia nelle prime edizioni a stampa della stessa Carta, anche in questo caso con un altro titolo: Sequuntur infra Sas leges pro cales si regint in Sardigna: cfr. l’edizione incunabola (Carta de Logu. Riproduzione dell’edizione quattrocentesca conservata nella Biblioteca Universitaria di Cagliari, a cura di Antonina Scanu, cit., 43 ss.) e l’edizione napoletana del 1607 (Carta de Logu, fata et instituida dae sa donna Helionora iuyghissa de Arboree, novamente revista et corretta de multos errores, cun unu breve ispedidu ordine in dogna cabidulu conforme a su chi tratat. Stampado novamente en Napolis, pro Tarquinio Longu, ad istancia de Martine Saba stampador en Calleris, MDCVII, 153 ss.).

[73] A. Era, Le così dette questioni giuridiche esplicative della Carta de Logu, cit., 379-380: «Le Questioni, comunque si vogliano considerare, si presentano come una scelta di “casi”, risolti con regole tratte dal diritto giustinianeo. Ammettere una loro effettiva applicazione in Sardegna, o per sanzione di Autorità o per adozione della pratica, varrebbe constatare, prima facie, che in Sardegna, in un'epoca, che in ogni modo si deve accertare anteriore o molto prossimamente successiva alla redazione della Carta di Eleonora, talune situazioni giuridiche erano regolate alla stregua dei testi giustinianei. Regredire dunque in confronto delle più recenti affermazioni della scienza giuridica, la quale, superando antiche tesi, sostiene l'esclusivo imperio, sino ad epoca relativamente recente (sec. XVI), di una consuetudine territoriale, travasata, con maggiore o minore interezza, nella C. d. L., ritornare a quelle antiche tesi e riconoscere che questa Carta presuppone l'imperio del diritto romano. Sicché, ed in altri termini, le Questioni sono per ora l'unico elemento da cui si possa trarre argomento per risolvere appunto il problema della posizione del diritto romano giustinianeo in Sardegna, immediatamente prima e immediatamente dopo l'emanazione della C. d. L.».

[74] A. Era, Le così dette questioni esplicative della Carta de Logu, cit., 398; dove di seguito si legge: «Intanto nella antica formula con la quale i Regoli sardi promettevano a stranieri amici di giudicarli secondo il diritto romano, questo è indicato non con la sola parola legge per antonomasia, ma con la qualifica legge romana. Barisone di Torres nel 1186 e Ugo d'Arborea nel 1192, s'impegnarono con i genovesi di rendere loro giustizia nel rispettivo Giudicato “secundum leges romanas”. La necessità della specificazione si spiega solo col timore di ingenerare equivoci, sicché in quel tempo in Sardegna con la parola legge non si designava soltanto la legge romana». Lo studioso puntualizzava, tuttavia, che le sue osservazioni non inficiavano in alcun modo la validità di alcuni risultati conseguiti dalla dottrina precedente, in particolare di due proposizioni accettate ed indiscutibili: «e cioè che i compilatori della Carta de logu conoscevano il diritto romano e che nella consuetudine sarda e nel diritto romano vi sono elementi comuni ed analoghi, per quanto questa seconda proposizione possa avere bisogno di ulteriore illustrazione»; anche se il riconoscimento di queste «verità» non avrebbe dovuto, in nessun caso, condurre «ad assumere che i compilatori della Carta de logu ammettessero in Sardegna una conoscenza universa e volgare del diritto romano, simile od equivalente a quella che ne avevano essi stessi e perciò che presupponessero in Sardegna, al loro tempo, in vigore il diritto romano delle collezioni giustiniane, come legge generale ed abbiano inteso di codificare soltanto le divergenze che, in confronto a quello, presentava la consuetudine sarda» (400).

[75] A. Era, Lezioni di storia delle istituzioni giuridiche ed economiche sarde. Parte I e II § 1, Copisteria Velox, Roma 1934.

[76] Con r. d. 20 ottobre 1932, n. 1916, furono sanzionate alcune modifiche allo Statuto dell’Università di Sassari (approvato con r. d. 13 ottobre 1927, n. 2832), volte fra l’altro ad integrare con nuove discipline le materie di insegnamento della Facoltà di Giurisprudenza (cfr. Statuto, art. 20). Della vivissima soddisfazione dell’Università si fece interprete lo stesso Rettore nel corso della solenne cerimonia di apertura dell’anno accademico 1932-1933: «Sono state approvate le modificazioni allo Statuto proposte dalle Autorità accademiche; per esse la Facoltà di Giurisprudenza avrà i nuovi insegnamenti di Storia giuridica ed economica della Sardegna, e di Istituzioni processuali, e la Facoltà di Medicina avrà il nuovo insegnamento di Radiologia» (Relazione del Rettore Prof. Pietro Marogna per l’anno 1931-1932, in Università degli Studi di Sassari. Annuario per l’anno scolastico 1932-33, Tipografia Operaia, Sassari 1933, 11).

[77] A. Era, Lezioni di storia delle istituzioni giuridiche ed economiche sarde, cit., 173.

[78] A. Era, Lezioni di storia delle istituzioni giuridiche ed economiche sarde, cit., 174 s.: «La conoscenza e l’uso delle fonti di diritto romano penetrarono in Sardegna soltanto verso il sec. XII con tutti gli altri elementi della civiltà comunale italiana. Nuclei di popolazione continentale vennero nell’isola e si organizzarono in gruppi autonomi nei nuovi centri di vita comunale che fecero fiorire. Era naturale che questi immigrati diffondessero la conoscenza del diritto romano secondo le fonti giustinianee, già da essi adottate e seguite. Vennero introdotti in Sardegna i libri di diritto romano e canonico che contengono le regole del diritto comune meglio capace di contenere e di seguire le esigenze della vita sociale nei nuovi atteggiamenti assunti. Insieme penetrò in Sardegna lo spirito della cultura italiana e si sparsero per ogni terra i notai continentali, nutriti a quelle fonti a insinuarne le forme».

[79] Cfr. A. Era, Lezioni di storia delle istituzioni giuridiche ed economiche sarde, cit., 321-343.

[80] A. Era, Lezioni di storia delle istituzioni giuridiche ed economiche sarde, cit., 337 s.: «La stessa cosa non si può dire – scriveva lo studioso – per l’opera di Eleonora. Se anche essa si ricollega ad un complesso di norme desunte dagli usi e consuetudini locali, rappresenta anche un vigoroso sforzo per piegare le antiche tradizioni verso nuovi sbocchi indicati dall’esigenza dell’ora storica, ed avvicinarsi alla dottrina e alla pratica del diritto catalano-aragonese che, attraverso la diretta conoscenza del pensiero giuridico romano, si era in parte liberato dalle vecchie forme medioevali. Alcuni persistettero, v. ad esempio il Ciccaglione, II, p. 59 nel ritenere che il substrato della “Carta” sia romano. Bisogna però analizzare se quanto noi troviamo nella C.d.l. che sia ricordo di una regola romana od accoglimento di alcuni principi del diritto romano, sia frutto di diretta conoscenza delle fonti. [...]. Naturalmente su questo argomento non tutti i pareri sono concordi. Mentre il Mameli, il Pertile, il Del Vecchio avevano affermato che la Carta di Eleonora presupponeva l’autorità delle leggi romane, e che le consuetudini sarde avevano valore là dove solo quelle non disponevano, il Solmi oppone che il ricordo, al cap. III di una regola romana e l’accoglimento di alcuni principi dello stesso diritto, dimostrano soltanto che i compilatori avevano conoscenza delle fonti romane, ma che esse non avevano osservanza giuridica. Il Besta dà maggiore importanza a questo influsso, e ritiene che in Arborea venissero considerate come “leges” per eccellenza quelle dell’antico diritto, per quanto non avessero l’autorità attribuita loro dal Pertile, e fossero state diffuse in Sardegna per opera degli elementi liguri e pisani penetrati nell’isola».

[81] A. Era, Le ‘Carte de logu’, cit., 17 ss.; il testo, con apparato di note, fu pubblicato conservando il medesimo titolo dopo la morte dell’autore: Le ‘Carte de Logu’, in “Studi Sassaresi”, II serie, 29, 1962, 1 ss.

[82] E. Cortese, L’opera di Antonio Era nella storiografia giuridica. - Nel ricordo di Antonio Era: una proposta per la datazione della “Carta de Logu” d'Arborea, cit. = Id., Nel ricordo di Antonio Era. Una proposta per la datazione della “Carta de Logu” d'Arborea, cit., 25 ss.

[83] E. Cortese, Appunti di storia giuridica sarda, A. Giuffrè, Milano 1964, 119 ss.; per le argomentate critiche alle posizioni di Antonio Era, vedi 128 s.

[84] E. Cortese, Diritto romano e diritto comune in Sardegna, in Id., Appunti di storia giuridica sarda, cit., 121-122: «Ora, quest’affannosa investigazione delle “origini”, in anni in cui la diffusa mentalità positivistica influenzava anche chi non la faceva consapevolmente propria, si atteggiava quasi come una corsa all’individuazione di realtà cronologicamente anteriori che si qualificavan “cause” di realtà cronologicamente posteriori, nella determinazione di un nesso governato, appunto, da un rigoroso principio di causalità arbitrariamente trasposto dal piano della logica su quello della vita. Era proprio il criterio ispiratore della teoria dei cosiddetti “fattori storici” o “elementi costitutivi” del diritto italiano, ch’ebbe un peso così rilevante sulla storiografia giuridica dell’ultimo Ottocento e del primo Novecento. E che nel quadro di tale visione si svolgessero anche i principali studi sul diritto sardo è confermato dagli indirizzi costantemente rivolti – come si è visto – al reperimento dei legami ora con il ceppo giuridico romano, ora con quello germanico, ossia precisamente con i due “fattori” o “elementi costitutivi” dominanti dalla cui combinazione, sul banco di prova dell’Italia continentale, si usava distillare il “prodotto” medioevale».

[85] E. Cortese, Diritto romano e diritto comune in Sardegna, cit., 125: «Ma senza voler proseguire un’analisi, le cui conclusioni risultano abbastanza chiare dal paio di esempi esaminati sopra, vien fatto di osservare che il ripudio di un problema di “origini” è limitato alle sue formulazioni causalistiche più rigide, perché nessuno nega che le consuetudini sarde del Duecento o del Trecento siano almeno in parte l’èsito del lavorio di secoli su un materiale compreso, tanto tempo prima, nel complesso mondo giuridico dello stato romano. Quanto occorre soprattutto stabilire è che l’apporto creativo di decine e decine di generazioni esclude la liceità di immaginare “provenienze” più o meno meccaniche di sistemi normativi da altri sistemi andati in vigore quasi un millennio prima. E inoltre: ricercare una “sopravvivenza” di principî latini e bizantini è un modo affatto unilaterale di chiarire l’ispirazione romana di certi istituti in uso nella Sardegna medievale».

[86] E. Cortese, Diritto romano e diritto comune in Sardegna, cit., 125.

[87] E. Cortese, Diritto romano e diritto comune in Sardegna, cit., 127.

[88] E. Cortese, Diritto romano e diritto comune in Sardegna, cit., 126-127: «è una scarsità di norme (sott. di diritto privato) che colpisce ancora di più qualora la si metta a paragone con la cospicua disciplina penalistica, la cui maturità non è solo segnata dalla moderatezza delle sanzioni – correntemente lodata dagli storici – ma soprattutto dall'articolazione molto varia, in linea di massima del tutto sufficiente ai bisogni della civiltà contemporanea. è vero che la punizione dei reati ha costituito, anche sul continente, una delle preoccupazioni più acute dei vari legislatori medievali, sia nell'ambito più ristretto delle normazioni statutarie, sia in quello più vasto delle codificazioni volute e promulgate da sovrani. Ma appunto in tali ordinamenti di regni e di comuni lo squilibrio determinato dalla minore attenzione concessa alla materia privatistica, e in special modo ai suoi principî generali, era solo apparente […] Sicché lo stesso squilibrio riscontrato nel massimo codice sardo trecentesco ha indotto il Besta ad avanzare sommessamente l'opinione che alle lacune si potesse sopperire, anche nell'isola, ricorrendo a quell'àncora di salvezza ch'era il diritto romano, la suprema ratio scripta dell'Europa medievale».

[89] E. Cortese, Diritto romano e diritto comune in Sardegna, cit., 129: «Ma che talune tuttavia permangano è cosa che lo stesso Era è costretto a riconoscere: né si vede com’egli possa credere di non contraddirsi, da una parte ammettendo quelle testimonianze e dall’altra negando il fenomeno testimoniato»; sempre a proposito delle tesi dell’Era, si legge inoltre: «Quanto poi alle due prime osservazioni [mancato obbligo ai giudicanti di possedere le “leggi” di Giustiniano e di essere esperti di diritto], esse sembrano fondate su argumenta a silentio assai pericolosi, e certo ancora più fragili degli indizi condotti ad avvalorar la tesi criticata. Su di un unico punto è facile concordare: qualche cenno e persino un rinvio al diritto romano da parte del legislatore non presupponeva necessariamente una sua consapevole e diffusa applicazione. Anzi, nulla vieta di supporre che tale applicazione fosse solo sporadica, se non addirittura eccezionale».

[90] E. Cortese, Diritto romano e diritto comune in Sardegna, cit., 134-135: «L'ancoramento della civiltà sarda alla romanità non era dunque lasciato alle "sopravvivenze" bizantine nelle consuetudini, ma era in qualche misura mantenuto vivo da un ius commune destinato a modellare la prassi attivamente. Un ius commune che, per le sue qualità intrinseche di armonia e di ordine, verrà per secoli denominato nella scuola e fuori ratio scripta: quale significato assume in questa luce la diffusione nelle fonti sarde _ se n'è incontrato qualche esempio nel codice arborense _ della singolare qualifica di “ragione”! Anzi, è ben possibile che al tempo di Eleonora lo stesso pensiero dei giuristi - i grandi artefici dell'edificazione di quel ius commune - influenzasse i legislatori locali. Persino nel prologo della Carta de Logu, tanto celebrato dagli storici, non si coglie forse, ancor più del peso della pur trasparente tradizione normativa romano-canonica, la evidente ispirazione proprio dalla scienza bolognese? “... Per issu bonus capidulus sa superbia dessos reos et malvados hominis si infrenet et costringat, ad cio qui sos bonos et puros et innocentes poçant viviri ed istari inter issos reos ad seguridadi per paura dessas penas, et isos bonos pro paura dessa virtudi dessu amori siant tottu hobedientes...”: la frase sembra ricalcata sulle enunciazioni che i glossatori, con monotona insistenza, usavano riprodurre nei proemi delle proprie opere quando, in ottemperanza a note regole retoriche, andavano a ricercar l'intentio e la causa finalis dei libri giustinianei appunto nell'obiettivo di frenare i malvagi per timore della pena, di garantire così ai buoni una vita ordinata, sollecitandoli infine al bene per amore della virtù e del premio».

[91] Cfr. E. Cortese, Il diritto nella storia medievale, II. Il basso medioevo, cit., 348 ss.

[92] E. Cortese, Il diritto nella storia medievale, II. Il basso medioevo, cit., 353.

[93] Sulla materia vedi, ora, Elisabetta Artizzu, L’omicidio nella Carta de Logu, in “Quaderni Bolotanesi” 22, 1996, 157 ss.; per una rapida sintesi del diritto medioevale, cfr. G. Diurni, v. Omicidio (dir. interm.), in Enciclopedia del diritto, vol. XXIX, A. Giuffrè, Milano 1979, 910 ss.

[94] La parola «consentivilis» dell’edizione incunabola si presenta con una leggera variante («consentibilis») nel Manoscritto conservato nella Biblioteca Universitaria di Cagliari (cfr. E. Besta - P.E. Guarnerio, Carta de Logu de Arborea. Testo con prefazioni illustrative, cit., 6); mentre diventa «consentientes» nel testo tradito nel commento di G. Olives alla Carta arborense: cfr. Hieronymi Olives, Commentaria et Glosa in Cartam de Logu. Legum, et ordinationum Sardarum noviter recognitam, et veridice impressam, cit., 9.

[95] Diversa la lezione del Manoscritto: «pro qui narat sa lege: Facientes e consencientes pari pena pariuntur». Dunque, il testo manoscritto della Carta de Logu ha sa lege al singolare, sostituisce ad agentes dell’edizione incunabola il termine facientes, infine il verbo puniuntur diventa nel manoscritto pariuntur; ma gli editori correggono, a ragione, pariuntur con puniantur: cfr. E. Besta - P.E. Guarnerio, Carta de Logu de Arborea, cit., 6.

[96] La forma improvisadamenti del Ms. mi parrebbe più affidabile e quindi da preferire rispetto all’inprovisamente dell’edizione incunabola, sebbene entrambi i termini possano avere il senso dell’italiano «improvvisamente, imprevedutamente, inaspettatamente»: cfr. le vv. improvvisàda e improvvìsu, in G. Spano, Vocabolariu sardu-italianu et italianu-sardu, compiladu dai su canonigu Johanne Ispanu, I, Imprenta Nationale, Kalaris MDCCCLI, 246.

[97] Ho preferito mantenere la lezione «ma pro causa fortunabili» dell’edizione incunabola (seguita anche in Hieronymi Olives, Commentaria et Glosa in Cartam de Logu, cit., 9; G.M. Mameli De' Mannelli, Le Costituzioni di Eleonora giudicessa d'Arborea intitolate Carta de Logu, cit., 16; F.C. Casula, La “Carta de Logu” del regno di Arborèa, cit., 36), rispetto alla forma «anti pro casu fortuitu» del Ms. Per quanto la forma testé citata appaia più precisa dal punto di vista tecnico-giuridico (sembrerebbe, infatti, ricalcata sul sed casu fortuito di C.I. 1.9.16.4), la lezione «ma pro causa fortunabili» mi pare, tuttavia, assai più significativa; in quanto costituisce un caso esemplare di adattamento linguistico – frutto quindi di interpretatio giurisprudenziale – di un testo latino al linguaggio “popolare” scelto dalla legislatrice arborense per la sua compilazione. Più in generale, su questo ultimo aspetto, cfr. A. Sanna, Il carattere popolare della lingua della Carta de Logu, cit., 49 ss.

[98] Carta de Logu, cap. III (Qui ochirit homini) [trad. italiana]: «Vogliamo ed ordiniamo che se alcuna persona uccide un uomo, e lo confessa in giudizio, oppure venga accertato (il suo crimine), secondo quello che l’ordine della ragione comanda, sia decapitato nello stesso luogo dov'è stato condannato, in modo che ne muoia. E che nessuno si salvi col denaro, a meno che il suddetto (omicida) non abbia ucciso per difendere se stesso. La qual difesa debba provare e dimostrare con la testimonianza di uomini onorati entro quindici giorni a partire dal giorno stabilito dal nostro armentariu de logu, oppure da qualche altro nostro ufficiale, a cui la detta causa è stata commessa. E nel caso sia provato che la persona abbia ucciso per difendersi, come detto sopra, non sia uccisa, né patisca alcuna pena, né paghi qualcosa. E se per avventura accadesse che più persone fossero in compagnia, ed una di loro uccidesse qualche altro uomo, e gli altri non colpevoli della detta morte non venissero entro tre giorni alla Corte (di giustizia) per discolparsi legittimamente dichiarandosi non consenzienti nella morte di quel tale uomo, siano puniti e condannati a morte come colui che ha perpetrato il crimine, perché dicono le leggi: “agentes et consentientes pari pena puniuntur (“sia punito con la stessa pena chi agisce e chi acconsente”). Mentre nel caso che qualcuno ammazzi un altro uomo improvvisamente, senza deliberazione e premeditazione ma per causa fortuita, come sogliono accadere molte disgrazie, vogliamo che allora stia, e debba stare, ad arbitrio e correzione nostra».

Ampio commento al capitolo in Hieronymi Olives, Commentaria et Glosa in Cartam de Logu, cit., 9 ss.

[99] Per una visione generale della disciplina romanistica riguardo alle diverse fattispecie criminose sanzionate nel capitolo III della Carta de Logu, si vedano U. Brasiello, Sulla ricostruzione dei crimini in diritto romano. Cenni sull’evoluzione dell’omicidio, in “Studia et Documenta Historiae et Iuris” 42, 1976, 246 ss.; B. Santalucia, v. Omicidio (diritto romano), in Enciclopedia del diritto, vol. XXIX, A. Giuffrè, Milano 1979, 886 ss. [= Id., Studi di diritto romano, G. Bretschneider, Roma 1994, 107 ss.; Diritto e processo penale in Roma antica, 2ª ed., A. Giuffrè, Milano 1998, 262 ss.]; A. Biscardi, L’imputabilità dell’atto delittuoso in diritto romano, in “Apollinaris” 52, 1979, 150 ss.; L. Rodríguez Alvarez, La tentativa de homicidio en la jurisprudencia romana, in “Anuario de Historia del Derecho Español” 49, 1979, 5 ss.; A. Wacke, Fahrlässige Vergehen in römischen Strafrecht, in “Revue Internationale des Droits de l’Antiquité” 26, 1979, 505 ss.; Evelyn Höbenreich, überlegungen zur Verfolgung unbeabsichtigter Tötungen von Sulla bis Hadrian, in “Zeitschrift der Savigny-Stiftung für Rechtsgeschichte. Rom. Abt.” 120, 1990, 249 ss. Cfr. anche, in una prospettiva più ampia, G. Pugliese, Linee generali dell’evoluzione del diritto penale pubblico durante il principato, in Aufstieg und Niedergang der römischen Welt, II.14, W. de Gruyter, Berlin-New York 1982, 722 ss.; V. Giuffrè, La ‘repressione criminale’ nell’esperienza romana. Profili, 3ª ed., Jovene, Napoli 1993; A.D. Manfredini, Crimini e pene da Augusto ad Adriano, in ‘Res publica’ e ‘princeps’. Vicende politiche, mutamenti istituzionali e ordinamento giuridico da Cesare ad Adriano. Atti del Convegno internazionale di diritto romano. Copanello 25-27 maggio 1994, a cura di F. Milazzo, Edizioni Scientifiche Italiane, Napoli 1996, 219 ss.

[100] Su dolo, colpa e caso fortuito, vedi A. Marongiu, Delitto e pena nella “Carta de logu” d’Arborea, ora in Id., Saggi di storia giuridica e politica sarda, cit., 75 ss., in particolare 82 s. Più specificamente sul dolo, risulta di grande utilità vedere il bel libro che il penalista Gian Paolo Demuro ha dedicato allo studio del concetto; vi si leggono pagine di notevole interesse anche per gli storici del diritto, in riferimento al «dolo nel diritto penale romano» e al «dolo nel diritto comune»: G. Demuro, Il dolo. I. Svolgimento storico del concetto [Università di Sassari. Pubblicazioni del Dipartimento di Scienze Giuridiche, 14], A. Giuffrè, Milano 2007, rispettivamente 23 ss. e 79 ss.

[101] Per quanto attiene alla legislazione penale e al sistema punitivo della Carta de Logu, a parte il saggio del Marongiu citato nella nota precedente, vedi G. Zirolia, Ricerche storiche sul governo dei Giudici in Sardegna e relativa legislazione, cit., 181 ss.; E. Besta, La Carta de Logu quale monumento storico-giuridico, in E. Besta-P.E. Guarnerio, Carta de Logu de Arborea, cit., 38 ss.; Id., La Sardegna medioevale, 2. Le istituzioni politiche, economiche, giuridiche, sociali, cit., 210 ss.; R. Di Tucci, Il diritto pubblico della Sardegna nel Medio Evo, cit., 99 ss.

[102] F. Brandileone, Lezioni di storia del diritto italiano, cit., 139-140: «Le leggi penali, avuto riguardo alla condizione dei tempi, sono assai notevoli; e nella comminazione delle pene più gravi vi si legge questa solenne espressione: “e per somma qualunque di danaro il reo non iscampi”. È la condanna del sistema delle composizioni; e in questa materia la legislazione di Eleonora si innalza su non poche altre del suo secolo, che riducevano tuttavia il supplizio ad una maniera di traffico per chi poteva redimersene».

[103] A. Marongiu, Delitto e pena nella “Carta de logu” d’Arborea, ora in Id., Saggi di storia giuridica e politica sarda, cit., 81 s.

[104] Cfr. Gabriella Olla Repetto, I «boni homines» sassaresi ed il loro influsso sul diritto e la società della Sardegna medievale e moderna, in Gli Statuti sassaresi. Economia, Società, Istituzioni a Sassari nel Medioevo e nell'Età Moderna. Atti del convegno di studi. Sassari, 12-14 maggio 1983, a cura di A. Mattone e M. Tangheroni, Chiarella, Sassari 1986, 355 ss., in particolare 358: «La Carta de Logu su questa struttura comunitaria incentra l’organizzazione periferica del Giudicato d’Arborea e porta a sublimazione l’istituto dei boni homines, concedendo loro l’attribuzione della funzione giudiziaria, appena enunciata negli Statuti sassaresi».

[105] Su questo alto funzionario del Giudicato d’Arborea, con particolare riferimento alle sue competenze amministrative e giudiziarie, vedi E. Besta, La Sardegna medioevale, 2, cit., 61 («Il posto del sacellarius fu forse tenuto in Arborea dall’armentariu de logu che non va confuso cogli armentarios preposti alle singole ville del giudice: agendo in qualche modo da advocatus fisci, era il supremo tutore delle ragioni del rennu, dirigeva e controllava l’esazione dei tributi e delle multe facendosene render ragione dai curatores e dai maiores de villa») e 96 («La competenza giudiziaria dell’armentariu de logu, che non è ricordata né in Cagliari né in Torres, dovette avere un ambito: ma neppur dalla Carta de logu, che ripetutamente accenna alle sue funzioni come tutore dell’erario, risulta chiara. Avea egli una giurisdizione propria? o era un giudice delegato che agiva solo in quanto il giudice gli accommendava le proprie veci? È difficile escludere senz’altro la prima ipotesi quantunque non sembri che rappresentasse un grado normale intermedio tra il curatore e il giudice»). Cfr. anche G.M. Mameli De' Mannelli, Le Costituzioni di Eleonora giudicessa d'Arborea intitolate Carta de Logu, cit., 16 nt. 7; A. Solmi, Studi storici sulle istituzioni della Sardegna nel medio evo, cit., 72; e più di recente Gabriella Olla Repetto, L'ordinamento costituzionale-amministrativo della Sardegna alla fine del '300, in Aa. Vv., Il mondo della Carta de Logu, cit., 111 ss.; ma soprattutto 140 ss.; F.C. Casula, La “Carta de Logu” del regno di Arborèa, cit., 247 s.

[106] C. Ferrini, Diritto penale romano, Ulrico Hoepli Edit., Milano 1889, 31 ss.; Id., Diritto penale romano. Esposizione storica e dottrinale, Estratto da Enciclopedia del Diritto Penale Italiano, rist. an., Società editrice libraria, Roma 1976, 84 ss.; Th. Mommsen, Römisches Strafrecht, Duncker & Humblot, Leipzig 1899, 620 s. [= Id., Le droit penal romain, trad. di J. Duquesne, II, A. Fontemoing, Paris 1907, 334 ss.]; J. Caroï, La violence en droit criminel romain, Plon, Paris 1914, 27 ss.; E. Costa, Crimini e pene da Romolo a Giustiniano, Zanichelli, Bologna 1921, 69, 152; G.I. Luzzatto, Procedura civile romana. Parte I. Esercizio dei diritti e difesa privata, dalle lezioni tenute nell’Università di Modena (Anno Accademico 1945-46), ristampa, Upeb, Bologna s.d., 184 ss.; C. Gioffredi, I principi del diritto penale romano, Giappichelli, Torino 1970, 90 ss.; G. Longo, Sulla legittima difesa e sullo stato di necessità in diritto romano, in Sein und Werden im Recht. Festgabe für U. von Lübtow, Dunker & Humblot, Berlin 1970, 321 ss.

Per quanto riguarda, invece, la legittima difesa nella scienza giuridica medioevale cfr. C. Pecorella, Cause di giustificazione, circostanze attenuanti e aggravanti del reato dalla Glossa alla c.d. riforma del diritto penale, in “Studi Parmensi" 7, 1957, 303 ss.; J.M. García Marín, La legítima defensa hasta fines de la Edad Media. Notas para su estudio, in “Anuario de Historia del Derecho Español” 50, 1980, 413 ss.

[107] Riguardo ai contenuti e alle caratteristiche dello ius naturale cfr., fra gli altri, C.A. Maschi, La concezione naturalistica del diritto e degli istituti giuridici romani, Vita e Pensiero, Milano 1937, in part. 284 ss.; E. Levy, Natural Law in Roman Thought, in “Studia et Documenta Historiae et Iuris” 15, 1949, 1 ss. [= Id., Gesammelte Schriften, I, Böhlau, Köln-Graz 1963, 1 ss.]; J. Gaudemet, Quelques remarques sur le droit naturel à Rome, in “Revue Internationale des Droits de l’Antiquité” 1, 1952, 453 ss.; M. Villey, Deux conceptions du droit naturel dans l’Antiquité, in “Revue Historique de Droit Français et étranger” 31, 1953, 475 ss.; A. Burdese, Il concetto di ‘ius naturale’ nel pensiero della giurisprudenza classica, in “Rivista Italiana per le Scienze Giuridiche”, Serie III, 7, 1954, 407 ss.; G. Nocera, ‘Ius naturale’ nella esperienza giuridica romana, A. Giuffrè, Milano 1962; G. Grosso, Problemi generali del diritto attraverso il diritto romano, 2ª ed., Giappichelli, Torino 1967, 99 ss.; D. Nörr, Rechtskritik in der römische Antike, Verl. der Bayer. Akad. der Wiss., München 1974, 21 ss., 89 ss.; Ph. Didier, Les diverses conceptions du droit naturel à l’œuvre dans la jurisprudence romaine des IIe et IIIe siècles, in "Studia et Documenta Historiae et Iuris" 47, 1981, 195 ss.; F. Sini, Bellum nefandum. Virgilio e il problema del “diritto internazionale antico”, Libreria Dessì Editrice, Sassari 1991, 216 ss.; L.C. Winckel, Einige Bemerkungen über ius naturale und ius gentium, in Festschrift für Wolfgang Waldstein zum 65. Geburtstag, Steiner, Stuttgart 1993, 443 ss.; W. Waldstein, Ius naturale im nachklassischen römischen Recht und bei Juristen, in "Zeitschrift der Savigny-Stiftung für Rechtsgeschichte (Rom. Abt.)" 111, 1994, 1 ss. Nuovi interessanti percorsi nel bel libro di Pietro Paolo Onida, Prospettive romanistiche del diritto naturale, Jovene, Napoli 2012.

[108] Sulle peculiarità dell’opera cfr., fra gli altri, S. Brassloff, v. Florentinus, in Real-Encyclopädie der classischen Altertumswissenschaft, VI, J.B. Metzler, Stuttgart 1909, 2755 s.; P. Krüger, Geschichte der Quellen und Litteratur des römischen Rechts, 2ª ed., Dunker & Humblot, München und Leipzig 1912, 215; M. Villey, Recherches sur la littérature didactique du droit romain, Les éditions Domat-Montchrestien, Paris 1945, 42; F. Wieacker, Doppelexemplare der Institutionen Florentins, Marcians und Ulpians, in "Revue Internationale des Droits de l’Antiquité” 3, 1949, 275 ss.; F. Casavola, Actio petitio persecutio, Jovene, Napoli 1965, 32 ss.; F. Schulz, Storia della giurisprudenza romana, trad. ital. a cura di G. NOCERA, con presentazione di P. DE FRANCISCI, Sansoni, Firenze 1968 [rist. 1975], 281 ss.; D. Liebs, Römische Provinzialjurisprudenz, in Aufstieg und Niedergang der römischen Welt, II.15, W. de Gruyter, Berlin-New York 1976, 348 s.; H.L.W. Nelson, Überlieferung, Aufbau und Stil von Gai Institutiones, E.J. Brill, Leiden 1981, 372 ss.; J. Gaudemet, Tentatives de systématisation du droit à Rome, in “Index” 15, 1987, 89; Lauretta Maganzani, Gli incrementi fluviali in Fiorentino VI inst. (D. 41.1.16), in “Studia et Documenta Historiae et Iuris” 49, 1993, 207 ss.; M. Bretone, Storia del diritto romano, 5ª ed., Laterza, Roma-Bari 1995, 401 ss.; Serena Querzoli, Il sapere di Fiorentino. Etica, natura e logica nelle ‘Institutiones’, Loffredo, Napoli 1997, in particolare 11 ss.

[109] Forse, appare eccessivamente severo il giudizio di P. BONFANTE, Storia del diritto romano, II, rist. 4ª ed. riveduta dall’Autore a cura di G. BONFANTE e di G. CRIFÒ, A. Giuffrè, Milano 1959, 132: «Le Istituzioni di Fiorentino si caratterizzano inoltre per la ricchezza di definizioni, di etimologìe e di regole; conforme allo scopo didattico sembra che nulla contenessero di originale, il che spiega perché non si trovino mai ricordate da altri giuristi».

[110] Fine analisi del frammento, con pregevoli riflessioni sulle propensioni universalistiche della cultura del giurista, nel lavoro di Serena Querzoli, Il sapere di Fiorentino. Etica, natura e logica nelle ‘Institutiones’, cit., 132 ss.

[111] In questo senso cfr., fra gli altri, L. Aru, Appunti sulla difesa privata in diritto romano, in “Annali del Seminario Giuridico dell’Università di Palermo” 15, 1936, 122 s.; C.A. Maschi, La concezione naturalistica del diritto e degli istituti giuridici romani, cit., 44; G. Nocera, ‘Ius naturale’ nella esperienza giuridica romana, cit., 23; G. Longo, Sulla legittima difesa e sullo stato di necessità in diritto romano, cit., 330; W. Waldstein, Entscheidungsgrundlagen der klassischen römischen Juristen, in Aufstieg und Niedergang der römischen Welt, II.15, W. de Gruyter, Berlin-New York 1976, 85 s.; Ph. Didier, Les diverses conceptions du droit naturel à l’œuvre dans la jurisprudence romaine des IIe et IIIe siècles, cit., 256 s.; M. Kaser, ‘Ius publicum’ und ‘ius privatum’, in "Zeitschrift der Savigny-Stiftung für Rechtsgeschichte (Rom. Abt.)” 116, 1986, 95 s.; Yang Zhenshan, La tradizione filosofica del diritto romano e del diritto cinese antico e l’influenza del diritto romano sul diritto cinese contemporaneo, in “Index” 21, 1993, 527.

[112] Così, ad esempio, F. Beduschi, Osservazioni sulle nozioni originali di ‘fas’ e ‘ius’, in “Rivista Italiana per le Scienze Giuridiche”, Nuova serie, 10, 1935, 247; e F. Sini, Bellum nefandum. Virgilio e il problema del “diritto internazionale antico”, cit., 226 s.

[113] M. Pohlenz, Die Stoa. Geschichte einer geistigen Bewegung, Vandenhoeck & Ruprecht, Göttingen 1959, qui citato nella trad. ital.: La stoa. Storia di un movimento spirituale, I, La Nuova Italia, Firenze 1967, 547.

Più in generale, sull’influenza della dottrina stoica sulla cultura giuridica romana, cfr. ora il saggio di P.A. Vander Waerdt, Philosophical Influence on Roman Jurisprudence? The Case of Stoicism and Natural Law, in Aufstieg und Niedergang der römischen Welt, II.36.7, W. de Gruyter, Berlin-New York 1994, 4789 ss.

[114] B. Biondi, La concezione cristiana del diritto naturale nella codificazione giustinianea, in “Jus” 1, 1950, ora in Id., Scritti giuridici, I. Diritto romano. Problemi generali, A. Giuffrè, Milano 1965, 583 s.

[115] Sul concetto di naturalis ratio e sulle peculiarità del suo impiego da parte dei giuristi romani, fra l’ampia bibliografia cfr. J.J. de Koschembahr-Lyskowsji, Naturalis ratio en droit classique romain, in Studi in onore di Pietro Bonfante, III, F.lli Treves, Milano 1930, 467 ss.; C.A. Maschi, La concezione naturalistica del diritto e degli istituti giuridici romani, cit., 235; G. Lombardi, Sul concetto di ‘ius gentium’, A. Giuffrè, Milano 1947, 148 ss.; R. Voggensperger, Der Begriff des «Ius naturale» im römischen Recht, Helbing & Lichtenhahn, Basel 1952, 100 ss.; D. Nörr, Rechtskritik in der römische Antike, cit., 98 ss.; P. Stein, The Development of the Notion of Naturalis Ratio, in Daube Noster. Essays in Legal History for David Daube, Scottish Ac. pr., Edinburgh and London 1974, 305 ss.; G.G. Archi, «Lex» e «natura» nelle istituzioni di Gaio, in Festschrift für Werner Flume zum 70. Geburtstag, I, O. Schmidt, Köln 1978, 3 ss. [= Id., Scritti di diritto romano, I. Metodologia e giurisprudenza. Studi di diritto privato, 1, A. Giuffrè, Milano 1981, 139 ss.]; F. Casavola, Giuristi adrianei, Jovene, Napoli 1980, 213 ss.; M. Kaser, Ius gentium [Forschungen zum römischen Recht, 40], Bohlau Verlag, Köln-Weimar-Wien 1993, 98 ss.

[116] Fra la dottrina romanistica sul frammento gaiano, vedi H. Wagner, Studien zur allgemeinen Rechtslehre des Gaius (Ius gentium und ius naturale in ihrem Verhältnis zum ius civile), Terra publishing, Zutphen 1978, 110; O. Diliberto, Considerazioni intorno al commento di Gaio alle XII Tavole, in “Index” 18, 1990, 416; O. Behrends, Anthropologie juridique de la jurisprudence classique romaine, in “Revue Historique de Droit Français et étranger” 68, 1990, 345 nt. 27; Serena Querzoli, Il sapere di Fiorentino. Etica, natura e logica nelle ‘Institutiones’, cit., 153 ss.

[117] G. Longo, Sulla legittima difesa e sullo stato di necessità in diritto romano, cit., 329 s.

[118] M. Bartošek, Sulla concezione “naturalistica” e materialistica dei giuristi classici, in Studi in memoria di Emilio Albertario, II, A. Giuffrè, Milano 1953, 480.

[119] Per la biografia di Gaio Cassio Longino vedi, fra gli altri, P. Jörs, v. Cassius, in Real-Encyclopädie der classischen Altertumswissenschaft, III.2, J.B. Metzler, Stuttgart 1899, coll. 1736 ss.; P. Krüger, Geschichte der Quellen und Litteratur des römischen Rechts, cit., 168 ss.; L. Wenger, Die Quellen des römischen Rechts, Holzhausen, Wien 1953, 502; R. Orestano, v. Cassius Longinus, in Novissimo Digesto Italiano, II, UTET, Torino 1958, 1161; W. Kunkel, Herkunft und soziale Stellung der römischen Juristen, 2ª ed., Böhlau, Graz-Wien-Köln 1967, 130 s.; F. D’Ippolito, Ideologia e diritto in Gaio Cassio Longino, Jovene, Napoli 1969; D. Nörr, Zur Biographie des Juristen C. Cassius Longinus, in Sodalitas. Scritti in onore di Antonio Guarino, VI, Jovene, Napoli 1984, 2957 ss.; R.A. Bauman, Lawyers and Politics in the Roman Empire. A study of relations between the Roman jurists and the emperors from Augustus to Hadrian, C.H. Beck, München 1989, 76 ss. (con altra bibliografia).

[120] Cfr. nello stesso senso D. 9.2.45.4 (Paulus libro decimo ad Sabinum): Qui, cum aliter tueri se non possent, damni culpam dederint, innoxii sunt: vim enim vi defendere omnes leges omniaque iura permittunt; D. 4.2.12.1 (Ulpianus libro undecimo ad edictum): Quaeri poterit, an etiam ei qui vim fecerat passo vim restitui praetor velit per hoc edictum ea quae alienavit. Et Pomponius scribit libro vicensimo octavo non oportere ei praetorem opem ferre: nam cum liceat, inquit, vim vi repellere, quod fecit passus est. Quare si metu te coegerit sibi promittere, mox ego eum coegero metu te accepto liberare, nihil esse quod ei restituatur.

[121] Brevemente, sono da vedere anche M. Balzarini, Ricerche in tema di danno violento e rapina nel diritto romano, CEDAM, Padova 1969, 105 nt. 42; G. Longo, Sulla legittima difesa e sullo stato di necessità in diritto romano, cit., 331; C. Gioffredi, L’elemento intenzionale nel diritto romano, in Studi in onore di Giuseppe Grosso, III, Giappichelli, Torino 1970, 52 s. = Id., I principi del diritto penale romano, cit., 92 s.; U. Manthe, Die libri ex Cassio des Iavolenus Priscus, Dunker & Humblot, Berlin 1982, 96 s.; Ph. Didier, Les diverses conceptions du droit naturel à l’œuvre dans la jurisprudence romaine des IIe et IIIe siècles, cit., 254; Serena Querzoli, Il sapere di Fiorentino. Etica, natura e logica nelle ‘Institutiones’, cit., 151 s.

[122] A. Mantello, 'Beneficium' servile - 'debitum' naturale. Sen., ‘de ben.’ 3.18.1 ss. - D. 35.1.40.3 (Iav., 2 ‘ex post. Lab.’), I, A. Giuffrè, Milano 1979, 382.

[123] A. Mantello, 'Beneficium' servile - 'debitum' naturale, cit., 382 nt. 322.

[124] J.L. Murga, La ‘preclusio locatoris’ como ‘vis privata legittima’, in "Revue Internationale des Droits de l’Antiquité" 34, 1987, 256 nt. 45.

[125] Legami che non vennero mai del tutto meno, neppure nei momenti di più violento contrasto, come ha dimostrato Luisa D’Arienzo, I possessi catalani dei giudici d'Arborea, in “Studi Sardi” 21, 1968-70 [ma 1971], 134 ss.

[126] Cfr. A. Iglesia Ferreirós, La creación del derecho en Cataluña, in “Anuario de Historia del Derecho Español” 47, 1977, 142 s.

[127] Cfr., in generale, E. Albertario, Concetto classico e definizioni postclassiche del ‘ius naturale’ (1924), ora in Id., Studi di diritto romano, V, Storia metodologia esegesi, A. Giuffrè, Milano 1937, 277 ss., per il quale i riferimenti alla natura sono un fenomeno episodico nella lingua dei giuristi, e soprattutto tardivo. Sul testo di Fiorentino, vedi G. Beseler, Beiträge zur Kritik der römischen Rechtsquellen, III, J.C.B. Mohr, Tübingen 1913, 62; V. Devilla, Studi sull’«obligatio naturalis», in “Studi Sassaresi”, II serie, 18, 1939, 69 s. Pensava, invece, a possibili interpolazioni del testo gaiano S. Perozzi, Istituzioni di diritto romano, II, G. Barbera, Firenze 1908, 260 nt. 4 («Il diritto di uccidere il ladro nei casi veduti non fu perciò abolito; ma acquistò il carattere di una discriminante di un fatto che altrimenti sarebbe caduto sotto le sanzioni penali delle leggi Cornelia de sicariis ed Aquilia. I giuristi classici furono in generale a partire dall’età adrianea avversi a codesto diritto. Vedi Coll. 7, 3, §§ 2, 3. Ma è giustinianea la riduzione del diritto stesso entro i limiti della necessaria difesa; in l. 4 pr., D. 9, 2, è interpolato insidiantem mihi e nam … se defendere»). Quanto alle supposte interpolazioni di D. 43.16.1.27, vedi Index interpolationum quae Iustiniani digestis inisse dicuntur, curaverunt E. Levy - E. Rabel, Tomus III ad libros digestorum XXXVI-L pertinens, H. Böhlaus, Weimar 1935, col. 290.

[128] G. Lombardi, Sul concetto di ‘ius gentium’, cit., 132 nt. 1 (riguardo al frammento di Gaio D. 9.2.4 pr. lo studioso non ritiene genuina proprio la parte relativa alla giustificazione fondata sulla naturalis ratio); 154 ss. (del frammento di Fiorentino D. 1.1.3 il Lombardi contesta la genuinità della parte da et cum nos fino a nefas esse: «Sono stati viceversa i giustinianei che hanno voluto riportare il principio al ius gentium; e nel farlo hanno presumibilmente aggiunto al tempo stesso la seconda parte del frammento»); 200 nt. (per quanto attiene a D. 43.16.1.27, lo studioso scrive che «il riferimento a natura – e tutto l’inciso a costruzione singolarissima idque ius natura comparatur – risulta con ogni verosimiglianza non classico»).

[129] A. Burdese, Il concetto di ‘ius naturale’ nel pensiero della giurisprudenza classica, cit., 415.

[130] Sulla datazione dell’opera, rinvio ai lavori di G. Calboli (a cura di), Cornifici Rhetorica ad Herennium. Introduzione, testo critico e commento, Patron, Bologna 1969, 12 ss.; e di C. Achard, L’auteur de la “Rhétorique à Herennius”?, in “Revue des études Latines” 63, 1985 [ma 1987], 56 ss., il quale però ritiene poco probabile l’attribuzione a Cornificio.

[131] Sempre di Cicerone, vedi ancora De leg. 1.18: Lex est ratio summa, insita in natura, quae iubet ea quae facienda sunt, prohibetque contraria. Eadem ratio cum est in hominis mente confirmata et perfecta, lex est. 2.10: Erat enim ratio, profecta a rerum natura, et ad recte faciendum inpellens et a delicto avocans, quae non tum denique incipit lex esse quom scripta est, sed tum cum orta est. Orta autem est simul cum mente divina.

Sui due ultimi passi: interpretazione, commento e bibliografia precedente in K.M. Girardet, Die Ordnung der Welt: ein Beitrag zur philosophischen und politischen Interpretation von Ciceros Schrift ‘De legibus’, Steiner, Wiesbaden 1983, 65 ss.; ma anche in Michèle Ducos, Les Romains et la loi. Recherches sur les rapports de la philosophie grecque et la tradition romaine à la fin de la République, Les Belles Lettres, Paris 1984, 231 ss. Cfr. inoltre T. Mayer-Maly, Gemeinwohl und Naturrecht bei Cicero, in Festschrift für A. Verdross, Fink, Wien 1960, 195 ss.; M. Kaser, Ius gentium, cit., 54 ss.; Serena Querzoli, Il sapere di Fiorentino. Etica, natura e logica nelle ‘Institutiones’, cit., 138 ss.

[132] Epist. 15.3.33; 15.52. Sui testi cfr. E. Levy, Natural Law in Roman Thought, cit., 8 nt. 63.

[133] Molto significativa appare l’adesione a questo principio da parte della legislatrice arborense, soprattutto perché esso, di norma, risulta ignorato dalla tradizione giuridica germanica: cfr. A. Cavanna, Nuovi problemi intorno alle fonti dell’Editto di Rotari, in “Studia et Documenta Historiae et Iuris” 34, 1968, 323 s.: «è noto come, nel campo delle cause di giustificazione, la conoscenza di questa particolare scriminante, quanto all’omicidio, vada esclusa per moltissime leggi barbariche: le più pure e antiche consuetudini germaniche, ove opera indiscriminatamente la faida, ignorano normalmente la legittima difesa, così come non la riconoscono poi in genere le legislazioni rimaste più sostanzialmente fedeli al diritto primitivo, nelle quali sono riconosciute ben poche cause di giustificazione tali da eliminare il carattere antigiuridico di un’azione e da escludere il pagamento della multa o del guidrigildo. Quanto alla legge longobarda essa mostra di conformarsi, in via generale, alla regola che l’omicidio compiuto da chi, costretto dalla necessità di difendere se medesimo, abbia reagito contro l’aggressore, non va esente da compositio».

[134] In merito a questo frammento, avanza forti dubbi sul fatto che possa attribuirsi al rescritto originale anche l’espressione «vel quemcumque alium» S. Solazzi, Costituzioni glossate o interpolate nel ‘Codex Iustinianus’, in “Studia et Documenta Historiae et Iuris” 24, 1958, 76: «‘Vel quemcumque alium’ generalizza la decisione del rescritto. Ma, benché limitata dal requisito che l’omicidio sia commesso ‘in dubio vitae discrimine’, la generalizzazione con quemcumque è pericolosa e non mi arrischio di attribuirla a Gordiano».

[135] Riguardo al dato semantico e alla nozione giuridica di latro e latrocinium, vedi A. Milan, Ricerche sul ‘latrocinium’ in Livio. I. ‘Latro’ nelle fonti preaugustee, in “Atti dell’Istituto Veneto di Scienze, Lettere e Arti” 138, 1979-1980, 171 ss. (sul quale cfr. la ‘nota’ di V. Giuffrè, in “Labeo” 27, 1981, 250 ss.); Id., Ricerche sul ‘latrocinium’ in Livio. Il ‘latrocinium’ di Perseo, in Sodalitas. Scritti in onore di Antonio Guarino, III, Jovene, Napoli 1984, 1037 ss.; V. Giuffrè, «Latrones desertoresque», in “Labeo” 27, cit., 214 ss.; Silvana Morgese, Taglio di alberi e ‘latrocinium’: D. 47, 7, 2, in “Studia et Documenta Historiae et Iuris” 49, 1983, in particolare 160 ss.; J. Burian, Latrones. Ein Begriff in römischen literarischen und juristischen Quellen, in “Eirene” 21, 1984, 17 ss.

Quanto al diritto intermedio, vedi da ultimo L. Lacchè, Latrocinium. Giustizia, scienza penale e repressione del banditismo in antico regime, A. Giuffrè, Milano 1988, con particolare riferimento a 83 ss.; 171 ss.

[136] La costituzione era stata raccolta in precedenza anche nel Codex Gregorianus, sotto il titolo ad legem Corneliam de sicariis et veneficis, come attesta Collat. 1.8. pr.-1: Item Gregorianus libro IIII sub titulo ad legem Corneliam de sicariis et veneficis talem constitutionem ponit: Imperator Antoninus A. Aurelio Herculano et aliis militibus. Frater vester rectius fecerit, si se praesidi provinciae optulerit: cui si probaverit non occidendi animo Iustam a se percussam esse, remissa homicidii poena secundum disciplinam militarem sententiam proferet. Proposita prid. kal. Febr. Laeto bis cons. Analisi del testo in A. Wacke, Fahrlässige Vergehen in römischen Strafrecht, cit., 536 s.

[137] Per la discussione sul testo di questa importante costituzione (rescritto o epistula?), che contrappone la voluntas al casus fortuitus nella determinazione dell’evento criminoso, rinvio ai lavori di A. Dell’Oro, ‘Mandata’ e ‘litterae’. Contributo allo studio storico degli atti giuridici del ‘princeps’, Zanichelli, Bologna 1960, in part. 88 ss.; N. Palazzolo, Le modalità di trasmissione dei provvedimenti imperiali nelle province (II-III sec. d.C.), in “Iura” 28, 1977 [ma 1980], 79 s.; A. Wacke, Fahrlässige Vergehen in römischen Strafrecht, cit., 539 s.; W. Turpin, ‘Adnotatio’ and Imperial Rescript in Roman Legal Procedure, in “Revue Internationale des Droits de l’Antiquité” 35, 1988, 298 s.

Anche questa costituzione dioclezianea risultava già raccolta nel Codex Gregorianus, da esso, infatti, l’aveva trascritta l’anonimo compilatore della «Lex Dei quam praecepit Dominus ad Moysem» (cfr. Collat. 1.10.1); per una valutazione complessiva dello stato della dottrina in relazione a quest’opera, con accurato ed esaustivo studio dell’età della composizione, delle fonti, dell’ambito redazionale e delle diverse recensioni, vedi la monografia di G. Barone Adesi, L’età della ‘lex Dei’, Jovene, Napoli 1992, in particolare. 175 ss.

[138] Sul tipo di documento e sul genere di attività normativa imperiale legata ai rescripta, vedi ora il saggio di D. Nörr, Zur Reskriptenpraxis in der hohen Prinzipatszeit, in “Zeitschrift der Savigny-Stiftung für Rechtsgeschichte (Rom. Abt.)” 111, 1981, 1 ss.; e il libro di T. Honoré, Emperors and lawyers, Clarendon Press, Oxford 1981, con particolare riferimento a 24 ss., dedicate proprio ad analizzare «The Rescript System».

[139] A tale commento e, più in generale, al pensiero del giurista Marciano sull’incidenza della voluntas e del casus nella qualificazione del reato, è dedicato il lavoro di G. Polara, Marciano e l’elemento soggettivo del reato (Delinquitur aut proposito aut impetu aut casu), in “Bullettino dell’Istituto di Diritto Romano” 77, 1974, 110 ss., dove lo studioso analizza, con grande finezza e in maniera esaustiva, tutte le problematiche esegetiche e dottrinali derivanti dall’interpretazione del frammento.

[140] Sull’impianto complessivo dell’opera istituzionale del giurista severiano, rinvio invece alla ricerca di L. De Giovanni, Per uno studio delle ‘Institutiones’ di Marciano, in “Studia et Documenta Historiae et Iuris” 49, 1983, 91 ss.; ripubblicato con lievi modifiche in Id., Giuristi severiani. Elio Marciano, M. D’Auria, Napoli 1989, 13 ss. Non sfugge, naturalmente, allo studioso napoletano l’importanza dei frammenti relativi alla lex Cornelia de sicariis conservati nei Digesta di Giustiniano (137 = 66): «ma soprattutto significativa, per comprendere lo schema col quale il giurista commenta le leggi, appare la lettura dei frammenti intorno alla lex Cornelia de sicariis et veneficiis e alla lex Pompeia de parricidiis: dapprima Marciano espone, in termini brevi ma precisi, il contenuto originario della legge, quindi si sofferma particolarmente sulle modifiche e i completamenti prodotti da rescritti e senatusconsulta fino all’epoca severiana ("hodie", come si esprime D. 48.8.3.5)».

[141] Sulla legge cfr. C.G. Bruns, Fontes Iuris Romani Antiqui. Leges et negotia, editio sexta cura Theodori Mommseni et Ottonis Gradenwitz, J.C.B. Mohr, Friburgi in Brisgavia et Lipsiae 1893, 92; G. Rotondi, Leges publicae populi Romani, rist. an., G. Olms, Hildesheim 1962, 357 s. Un tentativo di ricostruzione palingenetica della legge in questione, risalente com’è noto all’età sillana, è quello proposto da J.-L. Ferrary, Lex Cornelia de sicariis et veneficiis, in “Athenaeum” 79, 1991, 417 ss.; ivi accurata analisi delle testimonianze ciceroniane e dei testi dei giuristi classici.

[142] Il rescritto dell’imperatore Adriano figura, inoltre, con lievi modifiche rispetto al testo di Marciano, sia in Collat. 1.6.1-4: Distinctionem casus et voluntatis in homicidio servari rescripto Hadriani confirmatur. Verba rescripti: ‘Et qui hominem occidit absolvi solet, sed si non occidendi animo id admisit: et qui non occidit, sed voluit occidere, pro homicida damnatur. E re itaque constituendum est: ecquo ferro percussit Epafroditus? Nam si gladium instrinxit aut telo percussit, quid dubium est, quin occidendi animo percusserit? Si clave percussit aut cucuma aut, cum forte rixaretur, ferro percussit, sed non occidendi mente. Ergo hoc exquirite et si voluntas occidendi fuit, ut homicidam servum supplicio summo iure iubete affici (la citazione è tratta dal libro VII de officio proconsulis di Ulpiano); sia in Pauli Sent. 5.23.3: Qui hominem occiderit, aliquando absolvitur, et qui non occidit, ut homicida damnatur: consilium enim uniuscuisque, non factum puniendum est. Ideoque qui, cum vellet occidere, id casu aliquo perpetrare non potuit, ut homicida punitur: et is, qui casu iactu teli hominem imprudenter occidit, absolvitur.

[143] Per altre valutazioni specifiche sul rescritto, vedi J.-Cl. Genin, La répression des actes de tentative en droit criminel romain (Contribution à l’étude de la subjectivité répressive à Rome), Thèse pour le Doctorat, Lyon 1968, 100 s.; J.D. Cloud, The Primary Purpose of the «lex Cornelia de sicariis», in “Zeitschrift der Savigny-Stiftung für Rechtsgeschichte (Rom. Abt.)” 86, 1969, 265 ss.; C. Gioffredi, L’elemento intenzionale nel diritto romano, cit., 49; F. Casavola, Cultura e scienza giuridica nel II secolo d.C.: il senso del passato, in Aufstieg und Niedergang der römischen Welt, II.15, W. de Gruyter, Berlin-New York 1976, 146 nt. 25; A.D. Manfredini, Contributi allo studio dell’«iniuria» in età repubblicana, A. Giuffrè, Milano 1977, 245; L. Rodríguez Alvarez, La tentativa de homicidio en la jurisprudencia romana, cit., 9; G. Pugliese, Linee generali dell’evoluzione del diritto penale pubblico durante il principato, cit., 761 s.; M. Balzarini, Appunti sulla «rixa» nel diritto criminale romano, in “Labeo” 28, 1982, 20 ss.; Id., «De iniuria extra ordinem statui». Contributo allo studio del diritto penale romano dell’età classica, CEDAM, Padova 1983, 41 ss.; Evelyn Höbenreich, überlegungen zur Verfolgung unbeabsichgter Tötungen von Sulla bis Hadrian, cit., 296 ss.; O. Milella, Il consensus del ‘dominus’ e l’elemento intenzionale nel furto, in “Bullettino dell’Istituto di Diritto Romano” 91, 1988 [ma 1992], 415 ss.

[144] G. Gualandi, Legislazione imperiale e giurisprudenza, II, A. Giuffrè, Milano 1963, 78.

[145] V. Marotta, ‘Multa de iure sanxit’. Aspetti della politica del diritto di Antonino Pio, A. Giuffrè, Milano 1988, 298 ss.

[146] V. Marotta, ‘Multa de iure sanxit’, cit., 300.

[147] Nel commentare la parte finale del capitolo III, Gerolamo Olives (Hieronymi Olives, Commentaria et Glosa in Cartam de Logu, cit., 14) ha sottolineato due aspetti, relativamente importanti, per la corretta applicazione della norma. Il primo riguarda la titolarità del giudizio, che nell’interpretazione del giurista si configura come un atto esclusivo delle prerogative sovrane: «Ex quo apparet, quod ista poena debet arbitrari per Dominum, et non per eius Officialem». Il secondo aspetto concerne, invece, l’entità della pena demandata all’arbitrium del sovrano: in ogni caso essa «debet esse semper minor, quam ipsa ordinaria, quae veniret imponenda pro delicto».

[148] A. Marongiu, Sul probabile redattore della Carta de Logu, in Id., Saggi di storia giuridica e politica sarda, cit., 61 ss.

[149] A. Marongiu, Sul probabile redattore della Carta de Logu, in Id., Saggi di storia giuridica e politica sarda, cit., 62 s.: «Se però si guarda al diritto penale romano la massima su riportata resta introvabile. È vero che varie costituzioni imperiali punissero di pari pena il responsabile principale e colui che auxilium praebuerit e qualche altra disposizione anche i consocios, consocios criminis o facti ed è pur noto che nell’editto di Teodorico si legge che ministri et conscii sono pariter puniendi; ma nessuno di questi testi reca la massima letteralmente riprodotta dal legislatore arborense. Bisogna quindi cercarla altrove, fuori dai testi romani, in un’altra fonte generale, cioè nel diritto canonico, sebbene questo orientamento non possa, a prima vista, non apparire arbitrario quando si tenga presente che, per quel che ne sappiamo, non vi è alcun precedente di norme statutarie le quali diano al diritto canonico l’autorità di fonte superiore di diritto: ossia di fonte per eccellenza, a preferenza del diritto romano. è però proprio nel diritto canonico che si riscontra la massima in questione: precisamente nel “Decreto” di Graziano (c. 5, C. XVII, qu. 4) in cui si legge par … pena et agentes et consentientes comprehendit e nelle Decretali (c. 1, Alex. III, I, XXIX) in cui si trova detto, proprio come ripeterà la carta arborense, che agentes et consentientes pari poena scripturae testimonio puniuntur». Naturalmente lo studioso non nega la fortissima influenza di norme di diritto romano sulla legislazione penale della Carta de Logu: cfr. A. Marongiu, Delitto e pena nella “Carta de logu” d’Arborea, in Id., Saggi di storia giuridica e politica sarda, cit., 85.

[150] Cfr. anche Decretum Gratiani, I, Dist. LXXXVI, c. III: Facientis culpam proculdubio habet, qui, quod potest corrigere, negligit emendare. Scriptum quippe est: Non solum, qui faciunt, sed etiam qui consentiunt facientibus: participes iudicantur. Et libat Domino prospera, qui ab afflictis pellit adversa. Et negligere, cum possis deturbare perversos; nihil aliud est, quam fovere. II, C. II, q. I, c. X: Notum sit tuae fraternae charitati, iste presbyter pauper, nomine Christophorus de sua angustia ad nostram clementiam lacrymabiliter sit conquestus: dicens se falsis criminibus impetitum, et ab ecclesia sua non convinctum, neq; confessum, irrationabiliter fuisse eiectum. Nam, ut ipse refert, tua diligentia per tres vices inquisitione facta, nulla se neque de fornicationis crimine, neq; de homicidij consensione (de quibus impetebatur) reperiri potuit culpa: nisi quia suae pauperitatis causa, quae petebantur, aut consentire noluit, aut implere non potuit. Quae suus tamen aemulus ultroneus egit, qui iniuste illius ecclesiam praeripuit. Idcirco magnopere monemus reverentiam tuam, ut etiam quae, te forte ignorante, gieziaca cupiditate peracta esse videntur, tuae fraternitatis censura celeri emendatione corrigantur; scilicet restituendo ecclesiae proprie iam dictum sacerdotem, atque ei reddendo tua pietate pristinum, quem perdidit, honorem; et nullatenus canonica instituta alicuius temeritate contemni permittas: quia facientem et consentientem par poena constringit.

[151] A. Marongiu, Sul probabile redattore della Carta de Logu, ora in Id., Saggi di storia giuridica e politica sarda, cit., 62 s.

[152] Cfr. Hieronymi Olives, Commentaria et Glosa in Cartam de Logu, cit., 13-14: «Nota secundum istum text. duo. Primum est, quod agentes, et consentientes pari poena debent puniri, secundo ex isto tex. notatur, dum dicit secundum leges, quod de iure communi est idem. Quaero ergo an hoc sit verum, quod de iure communi agentes, et consentientes pari poena puniuntur, et circa hoc reperiuntur varia iura».

[153] A. Marongiu, Delitto e pena nella “Carta de logu” d’Arborea, ora in Id., Saggi di storia giuridica e politica sarda, cit., 78 e nt. 16.

[154] Sulla regolamentazione romana del concorso di più persone al reato, vedi C. Ferrini, Diritto penale romano. Esposizione storica e dottrinale, cit., 107 ss.; L. Chevailler, Contribution à l’étude de la complicité en droit pénal romain, in “Revue Historique de Droit Français et étranger” 31, 1953, 200 ss.; C. Gioffredi, Principi del diritto penale romano, cit., 111 ss.; V.M. Amaya García, Coautoria y complicidad: estudio historico y jurisprudencial, Dykinson, Madrid 1993, ivi in particolare vedi 15 ss.

[155] Per quanto riguarda le caratteristiche e la ricostruzione del quadro complessivo dei libri de officio proconsulis di Ulpiano, vedi F. Schulz, Storia della giurisprudenza romana, cit., 439 ss.; per una puntuale analisi dei frammenti superstiti di ciascun libro, vedi invece A. Dell’Oro, I ‘libri de officio’ nella giurisprudenza romana, A. Giuffrè, Milano 1960, 117 ss.; resta naturalmente indispensabile O. Lenel, Palingenesia iuris civilis, II, Ex officina Bernhardi, Tauchnitz, Leipzig 1888, coll. 966 ss.

Più in generale, sulla complessa figura del giurista, anche in rapporto alla sua produzione letteraria, cfr. P. Frezza, La cultura di Ulpiano, in “Studia et Documenta Historiae et Iuris” 34, 1968, 363 ss.; G. Crifò, Ulpiano. Esperienze e responsabilità del giurista, in Aufstieg und Niedergang der römischen Welt, II.15, W. de Gruyter, Berlin-New York 1976, 708 ss. (sul quale, però, vedi i rilievi di M. Talamanca, Per la storia della giurisprudenza romana, in “Bullettino dell’Istituto di Diritto Romano” 80, 1977, 236 ss.); T. Honoré, Ulpian, Clarendon Press, Oxford 1982.

[156] Sul frammento ulpianeo vedi C. Ferrini, Diritto penale romano. Esposizione storica e dottrinale, cit., 122; A. Dell’oro, I ‘libri de officio’ nella giurisprudenza romana, cit., 163; J.D. Cloud, Parricidium: from the lex Numae to the lex Pompeia de parricidiis, in “Zeitschrift der Savigny-Stiftung für Rechtsgeschichte (Rom. Abt.)” 83, 1971, 53 s.; Lucia Fanizza, Il parricidio nel sistema della ‘lex Pompeia’, in “Labeo” 25, 1979, 288 s.; E. Nardi, L’otre dei parricidi e le bestie incluse, A. Giuffrè, Milano 1980, 6 nt. 3. Per gli aspetti più generali relativi al parricidio, cfr. H. Kupiszewski, Quelques remarques sur le ‘parricidium’ dans le droit romain classique et post-classique, in Studi in onore di Edoardo Volterra, IV, A. Giuffrè, Milano 1971, 602 ss.

[157] Lo stesso insegnamento viene riproposto nelle ‘Istituzioni’ di Giustiniano: Inst. 4.18.6: Alia deinde lex asperrimum crimen nova poena persequitur, quae Pompeia de parricidiis vocatur. Qua cavetur, ut, si quis parentis aut filii aut omnino adfectionis eius, quae nuncupatione parricidii continetur, fata properaverit, sive clam sive palam id ausus fuerit, nec non is, cuius dolo malo id factum est, vel conscius criminis existit, licet extraneus sit, poena parricidii punietur.

[158] Sulla biografia e sulla carriera del giurista vedi, ora, Lucia Fanizza, Giuristi crimini leggi nell’età degli Antonini, Jovene, Bari 1982, 104 ss.; e A. Ruggiero, L. Volusio Meciano tra giurisprudenza e burocrazia, Jovene, Napoli 1983, 9 ss., il quale dedica un intero capitolo della sua monografia ad esaminare «Il problema biografico di L. Volusio Meciano»; cfr. anche G. De Cristofaro, Note di prosopografia e bibliografia, in F. Casavola, Giuristi adrianei, cit., 328 ss.

[159] Per quanto riguarda la determinazione della provenienza del testo di Meciano, citato nel frammento ulpianeo, T. Honoré, Ulpian, cit., 221, pensa che potrebbe trattarsi di una citazione dal de iudiciis publicis: «In his work on the office of proconsul Ulpian refers to Maecianus when dealing with the lex Pompeia de parricidiis. The reference is probably to Maecianus’ fourteen book work on iudicia publica».

Inquadra invece, con puntuali osservazioni, «la figura del conscius» nella riflessione penalistica del giurista Meciano Lucia Fanizza, Giuristi crimini leggi nell’età degli Antonini, cit., 87 ss.: «La decisione, di particolare severità, si iscrive nella linea del pensiero di Meciano, e va letta in parallelo alla soluzione adottata circa l’applicabilità ai servi impuberi ministri vel partecipes caedis delle disposizioni del senatoconsulto Silaniano. [...] Nell’ipotesi dei conscii la valutazione dell’elemento intenzionale è portata alle estreme conseguenze: almeno per i crimini di maggiore rilievo sociale, il comportamento omissivo produce gli stessi effetti della compartecipazione attiva. Secondo una metodologia ormai consolidata, l’interprete costruisce una sistematica della repressione che ruota intorno alle reali intenzioni dell’agente, comunque esse vengano manifestate».

Infine, per una analisi più ampia sulle problematiche relative al rapporto tra «tecnica e diritto nell’opera di L. Volusio Meciano», vedi A. Ruggiero, L. Volusio Meciano tra giurisprudenza e burocrazia, cit., 31 ss.; brevemente, cfr. anche F. Amarelli, Consilia principum, Jovene, Napoli 1983, 88 s.

[160] Sul testo citato cfr. C. Ferrini, Diritto penale romano. Esposizione storica e dottrinale, cit., 122 s.; A. Wacke, Notwehr und Notstand bei der aquilischen Haftung, in “Zeitschrift der Savigny-Stiftung für Rechtsgeschichte (Rom. Abt.)” 119, 1989, 487.

[161] C.I. 9.13.1.3 (Imp. Iustinianus A. Hermogeni magistro officiorum): Poenas autem quas praediximus, id est mortis et bonorum amissionis, non tantum adversus raptores, sed etiam contra eos qui hos comitati in ipsa invasione et rapina fuerint constituimus. Ceteros autem omnes, qui conscii et ministri huiusmodi criminis reperti et convicti fuerint vel eos susceperint vel quamcumque opem eis intulerint, sive masculi sive feminae sunt, cuiuscumque condicionis vel gradus vel dignitatis, poenae tantummodo capitali subicimus, ut huic poenae omnes subiaceant, sive volentibus sive nolentibus virginibus seu aliis mulieribus tale facinus fuerit perpetratum.

[162] Quanto poi all’influenza di queste costituzioni giustinianee sulla prassi giuridica dell’età intermedia e del rinascimento, vedi G.P. Massetto, I reati nell’opera di Giulio Claro, in “Studia et Documenta Historiae et Iuris” 45, 1979, 471 ss.; ma anche A. Laingui, La théorie de la complicité dans l’ancien droit penal, in “Tijdschrift voor Rechtsgeschiedenis” 45, 1977, 43 ss.

[163] Carta de Logu, Prologo: Cum ciò siat causa qui su acrescimentu et exaltamentu dessas provincias, rexiones et terras descendent et bengiant dae sa iusticia et qui per issos bonos capidulos sa superbia dessos reos et malvagios hominis si affrenent et constringhant ad cio quisos bonos et puros et innocentes pozant viver et istare inter issos reos ad seguritades pro paura dessas penas eissos bonos prossavertudi dessu amore siant tottu hobedientes assos capidulos et ordinamentos de custa carta de loghu. Impero, Nos Elionora proissa gracia de deus iuyghissa de Arbaree, contissa de Ghociani et biscontissa de Basso. Desiderando qui sos fideles et subdictos nostros dessu rennu nostru de Arbaree, siant informados de capidulos et ordinementos prossos quales pozant vivere et si pozant conservare in sa via dessa viridadi et dessa iusticia et in bono pacifichu et tranquillu istadu. Ad honore de deus omnipotente et dessa gloriosa virgini Madonna sancta Maria mama sua, et pro conservare de iusticia et pacifichu tranquillu et bonu istadu dessu pobulu dessu rennu nostru predicto et dessas ecclesias, regiones ecclesiastigas et dessos lieros et bonos hominis et pobulu tottu dessa dicta terra nostra et dessu rennu de Arbaree, fachimus sas ordinationes et capidulos infra scriptos sos qualis bolemus et comandamus expresamenti qui si deppiant attenne et osservare pro legie per ciaschaduno dessu iuyghadu nostru de Arbaree perdittu in iudiciu et extra. Sa cartha de loghu sa quali cum grandissimo et providimento fudi facta per issa bona memoria de iuyghi Margiani padre nostru in qua directu iuyghi de Arbaree, non essendo correcta per ispaciu de XVI annos passados, commo per multas varietadis de tempus bissognando de necessitadi corrigirela et mendari. Considerando sa veridadi et mutacione dessos tempos qui suntu istadus seghidus poscha et issa conditione dessos hominis qui est istadu dae tandu innoghi multu per mutada, et plus per qui ciaschuno est plus inquenivili assu malu fageri qui non assu bene dessa re plubigha sardischa. Cum deliberadu consigiu illa corrigemus et fagemus et mutamus dae bene in megius et comandamus qui si deppiant observare integramente daessa sancta die innantes per issu modo infra scripto cio est.

Carta de Logu (Prologo) [trad. italiana]: «Affinché le provincie, le regioni e le terre s'inchinino e si sottopongano alla Giustizia per meglio accrescere ed elevarsi, e che per i buoni articoli di legge venga frenata e repressa la superbia dei rei e dei malvagi, sì che i buoni, i puri e gli innocenti possano vivere tranquilli e sicuri dai colpevoli per il timore che essi hanno delle pene, e che le stesse buone persone, per opera dell’amore, siano tutte obbedienti ai capitoli e alle ordinanze di questa Carta de Logu, per tutto ciò, Noi Eleonora per grazia di Dio giudicessa di Arborea, contessa del Goceano e viscontessa di Bas, desiderando che i nostri fedeli e sudditi del nostro regno di Arborea siano disciplinati dai capitoli ed ordinanze grazie ai quali possano vivere e mantenersi nella via della verità e della Giustizia, ed in buono, pacifico e tranquillo stato, ad onore di Dio onnipotente e della gloriosa vergine madonna Santa Maria sua madre, e per preservare la Giustizia ed il pacifico, tranquillo e buono stato del popolo del suddetto nostro regno, delle chiese, delle diocesi, dei liberi e dei probi uomini e di tutto il popolo della suddetta nostra terra e del regno di Arborea, facciamo le ordinanze ed i capitoli infrascritti che vogliamo e comandiamo espressamente siano rispettati ed osservati quale legge, sia in giudizio che fuori, da ogni persona del detto Giudicato nostro Arborea. La Carta de Logu con grande senno e provvidenza era stata fatta da nostro padre, il giudice Mariano di buona memoria, in quanto legittimo giudice di Arborea, non essendo stata rettificata da oltre sedici anni, e perciò necessitando di correggerla ed emendarla per il mutare dei tempi ad essa susseguiti, e per la condizione degli uomini che da allora l'ha molto cambiata, tanto più che ciascuno è maggiormente incline ad operare il male piuttosto che il bene della ‘repubblica’ sarda, con deliberato consiglio la correggiamo, la facciamo e la mutiamo di bene in meglio, ed ordiniamo che si debba osservare integralmente dal giorno sopra indicato in poi nella maniera suddetta, e cioè».

[164] Sui principi fissati dalla sovrana arborense e sulla partizione del citato prologo, vedi A. Era, Lezioni di storia delle istituzioni giuridiche ed economiche sarde. Parte I e II § 1, cit., 326 s.; Id., Le ‘Carte de logu’, cit., 15 ss. Dello studioso è da vedere anche la traduzione italiana del prologo della Carta de Logu, predisposta per il manuale di F. Calasso, Medioevo del diritto, A. Giuffrè, Milano 1954, 449 nt. 69.

[165] All’analisi del concetto di res publica, nelle fonti romane e nella scienza giuridica del periodo che precede la nascita dei Comuni, è dedicato il saggio di F. Crosara, Republica e respublicae. Cenni terminologici dall’età romana all’XI secolo, in Atti del Congresso Internazionale di diritto romano e di storia del diritto, Verona 27-29 XI 1948, a cura di G. MOSCHETTI, IV, A. Giuffrè, Milano 1953, 227 ss. Sull’uso del termine in rapporto a Civitas e a Commune, vedi fra gli altri: P. Costa, Iurisdictio. Semantica del potere politico nella pubblicistica medievale (1100-1433), A. Giuffrè, Milano 1969, 232 ss.; M. Staszków, ‘Civitas’ et ‘Respublica’ chez les glossateurs, in Studi in onore di Edoardo Volterra, III, A. Giuffrè, Milano 1971, 605 ss.; O. Banti, «Civitas» e «Commune» nelle fonti italiane dei secoli XI e XII, in Id., Studi di storia e di diplomatica comunale, Il Centro di Ricerca, Roma 1983, 1 ss. Cfr. inoltre J. Gaudemet, La contribution des romanistes et des canonistes médiévaux à la théorie moderne de l’état, in Diritto e potere nella storia europea. Atti in onore di Bruno Paradisi, I, L.S. Olschki, Firenze 1982, 17 ss.; da ultimo anche I. Birocchi, v. Persona giuridica nel diritto medioevale e moderno, in Digesto delle discipline privatistiche, XIII, UTET, Torino 1996, 407 ss.; Id., Contratto e persona giuridica pubblica. Spigolature su “causa”, “communis utilitas” e diritto dei privati nell’età del diritto comune, in I rapporti contrattuali con la pubblica amministrazione nell’esperienza storico-giuridica. Atti del Congresso internazionale della Società Italiana di Storia del Diritto, Torino 17-19 ottobre 1994, Jovene, Napoli 1997, 239 ss.

[166] Cfr. Irnerio, Glo. ad l. Lex est, ff. De legibus (= D. 1, 3, 1), v. reipublicae [ed. E. Besta, L’opera d’Irnerio. Contributo alla storia del diritto italiano, II. Glosse inedite d’Irnerio al Digestum Vetus, Loescher, Torino 1896, 5]: (reipublicae) scilicet populi, quod unum et idem est re ipsa; secundum diversas inspectiones hec nomina recipit; populus universitatis iure precipit, idem singulorum nomine promittit et spondet.

[167] Glossa, Reipublicae, in Authenticum, De haeredibus et Falcidia (= Nov. 1, praef.): Reipublicae, idest totius imperii. Sic in prooemio ff. in princip. Et nota quod tribus modis respublica dicitur. Primo Romanorum, ut hic. Item pro civitate Romana tantum: et tunc proprie: ut ff. de verbo. signific. l. eum qui. Item pro qualibet civitate: et tunc improprie: ut C. de offic. eius qui vicem al. iu. obt. l. j. Ponitur et quarto pro quolibet municipio: ut ff. de pub. et vec. l. sed et hi. § penult.

[168] Per una visione d’insieme sul personaggio, presenta ancora non poco interesse la consultazione del libro di R. Carta Raspi, Mariano IV, conte del Goceano, visconte di Bas, giudice d'Arborea, Edizioni della Fondazione Il nuraghe, Cagliari 1934, in particolare 149 ss.: «L’opera legislativa»; in appendice il testo del Codice rurale di Mariano IV, 197 ss. Più di recente, alla figura e all'opera del grande giudice arborense sono state dedicate molte pagine dei due volumi di F.C. Casula, La Sardegna aragonese, 1. La Corona d’Aragona, Chiarella, Sassari 1990, 263 ss.; 2. La Nazione sarda, cit., 377 ss.; sempre del Casula, cfr. anche Cultura e scrittura nell'Arborea al tempo della Carta de Logu, cit., 88 ss. Da vedere, inoltre, il bel lavoro di G. Mele, Un manoscritto arborense inedito del Trecento. Il codice 1bR del Monastero di Santa Chiara di Oristano, S’Alvure Editrice, Oristano 1985; in particolare, 22 ss.

[169] Sulle caratteristiche intrinseche della protezione giuridica riservata ai terreni coltivati, vedi le penetranti osservazioni di I. Birocchi, La consuetudine nel diritto agrario sardo, riflessioni sugli spunti offerti dagli Statuti sassaresi, in Gli Statuti sassaresi. Economia, Società, Istituzioni a Sassari nel Medioevo e nell'Età Moderna, cit., 344: «A questo punto si può forse comprendere come sia falsata l'ottica di chi ricerchi nei documenti antichi le prove “dell'esercizio del diritto di proprietà”, sebbene sia agevole trovare testimonianze di forme di proprietà, individuale e collettiva, espresse in epoca risalente, come già nei condaghi; ma quell'ottica è fuorviante perché proietta nel passato la moderna prospettiva che vede il diritto come un'emanazione del soggetto e non come un prodotto che scaturisce dall'oggetto. In realtà l'ordinamento tutelava non tanto il diritto di proprietà, bensì la destinazione agraria della terra, ossia la sua utilitas nell'ambito del sistema dato: prima che il diritto astratto sul fondo proteggeva il fondo stesso. Ed ecco, allora, la spiegazione della maggior severità stabilita a protezione delle terre coltivate rispetto alle altre terre che si riscontra nelle fonti legislative a noi note ma che costituisce già un corollario implicito dell'ordinamento agrario: e infatti già i condaghi esprimevano una tale maggiore protezione».

[170] Bisogna, tuttavia, sottolineare che in Sardegna le radici del conflitto agricoltura/pastorizia sono assai più antiche dell’epoca giudicale. Già durante la dominazione romana, ad esempio, contrasti anche violenti tra pastori e contadini si verificavano con una certa frequenza nelle campagne della Sardegna centrale, come attesta la documentazione epigrafica di età imperiale: cfr. La Tavola di Esterzili. Il conflitto tra pastori e contadini nella 'Barbaria' sarda. Convegno di Studi. Esterzili 13 giugno 1992, a cura di A. Mastino, Gallizzi, Sassari 1993; con particolare riferimento, fra i saggi ivi pubblicati, alle relazioni del curatore: ‘Tabularium principis’ e ‘tabularia’ provinciali nel processo contro i ‘Galillenses’ della 'Barbaria' sarda, 99-117; e di S. Schipani, La repressione della ‘vis’ nella sentenza di ‘L. Helvius Agrippa’ del 69 d.C. (Tavola di Esterzili), 133-155.

Per la “continuità” di tale conflitto nel corso dell’età moderna e contemporanea, vedi le pagine dedicate alla Sardegna centrale da M. LE LANNOU, Pâtres et paysans de la Sardaigne, Arrault, Tours 1941, qui citato in traduzione italiana: Pastori e contadini di Sardegna, a cura di M. BRIGAGLIA, Edizioni Della Torre, Cagliari 1979, 167 ss.

[171] Edizioni critiche di A. Era, Il codice agrario di Mariano IV d'Arborea, in Aa.Vv., Testi e documenti per la storia del Diritto agrario in Sardegna, cit., 15 ss.; e Barbara Fois, Il "Codice rurale" di Mariano IV d'Arborea, in “Medioevo. Saggi e Rassegne” 8, 1983, 41 ss.

[172] Significativamente il citato “codice rurale” non compare nel manoscritto cagliaritano della Carta de Logu: cfr. E. Besta, La Carta de Logu quale monumento storico-giuridico, cit., 13: «E già da questa esposizione risulta una prima differenza importantissima a paragone della forma sotto la quale la Carta de logu ci fu tramandata nelle precedenti edizioni, che tutte offrono infatti una serie di 198 capitoli. Il ms. cagliaritano s’accorda bensì con le edizioni nei primi 130 capitoli … ma poi i capitoli 132-140 del ms. corrispondono ai cap. 160-168; i capitoli 144, 145 ai cap. 172, 173; i cap. 146-156 ai capitoli 183-193 e non hanno raffronto con le edizioni i capitoli 142, 145, 158, 161 del ms. mentre d’altro canto quelle offrono in più i cap. 131-159, 170, 171, 174-182, 194-198»; A. Era, Il codice agrario di Mariano IV d'Arborea, cit., 5: «è certo, più che probabile, che Eleonora non volle inserirlo nella sua Carta de logu, poiché altrimenti avrebbe coordinato con esso le disposizioni date per l’agricoltura, evitando ripetizioni e, tanto per non scendere a particolari, avrebbe, ad esempio, pretermesso di dettare il suo cap. CXII»; da ultimo, E. Cortese, Il diritto nella storia medievale, II. Il basso medioevo, cit., 350.

[173] C.G. Mor, Le disposizioni di diritto agrario nella Carta de logu di Eleonora d'Arborea, in Testi e documenti per la storia del Diritto agrario in Sardegna, cit., 35; cfr. anche lo l'agricoltura stava acquistando una notevole importanza nell'economia sarda, e che i giudici di Arborea vedevano in essa una precipua fonte di benessere: il che non è in contrasto con quanto ci documentano anche i condaghi più antichi, se pur ci presentino un'economia ancora ad uno stadio arretrato».

[174] Più in generale, sulla definizione di questi concetti, assimilabili a quelli di causa publica utilitas e di bonum commune, nella scienza giuridica coeva, vedi alcuni rapidi cenni in I. Birocchi, Contratto e persona giuridica pubblica. Spigolature su “causa”, “communis utilitas” e diritto dei privati nell’età del diritto comune, cit., 260 ss.

[175] Nelle edizioni a stampa della Carta de Logu di Eleonora, il prologo del “Codice rurale” segue il cap. CXXXII: Nos Marianus proissa gracia de deus iuyghi de Arbaree, conpte de Gociano et bisconti de Basso, considerando sos multos lamentos continuamente sunt istados et sunt per issas terras nostras de Arbaree et de Loghudore prossas vignas ortos et lavores que si disfaghint et consumant perissa pocha guardia et cura qui si dat a su bestiamen cussos de qui est et quillu at in guardia, prossa quali causa multas vignas et ortos sunt eremadas et multas personas si romanent de lavorare qui lavorari ant pro dubidu qui ant de non perdere cusso quillo ant fagheri et bolendo nos providere a su utili cummoni et bonu istadu de sa gente nostra amus deliberado de faghere et faghemus sos infrascriptos ordinamentos pro qui cussos observando et mantenendo sas vignas et ortos et lavores ant romane[r] et istare in su gradu issoro et megiorare et avansare cussas de qui ant essere, et issu bestiamen indat esser megius gubernadu mantesidu et guardadu.

[176] Più in generale sull’utilitas, con ampia raccolta di testi giuridici romani, vedi F.B. Cicala, Il concetto di "utile" e sue applicazioni in diritto romano, Fratelli Bocca, Milano-Torino-Roma 1910; per lo studioso «il concetto dell'utilitas signoreggia in tutto il campo del diritto romano» al punto da potersi affermare «senza tema di esagerare, che una delle rappresentazioni generali meglio delineate e più vive nella coscienza di tutta la giurisprudenza romana, è appunto quella, che poggia l'intero edifizio del diritto sulle profonde basi dell'utile individuale e collettivo» (9).

Cfr. inoltre A. Steinwenter, Utilitas publica - utilitas singulorum, in Festschrift Koschaker, I, Böhlau, Weimar 1939, 84 ss.; U. von Lübtow, De iustitia et iure, in “Zeitschrift der Savigny-Stiftung für Rechtsgeschichte (Rom. Abt.)" 66, 1948, 458 ss.; J. Gaudemet, Utilitas publica, in "Revue Historique de Droit Français et étranger" 29, 1951, 465 ss.; H. Ankum, Utilitatis causa receptum. Sur la méthode pragmatique des juristes romains classiques, in "Revue Internationale des Droits de l'Antiquité" 15, 1968, 119 ss.; G. Longo, Utilitas publica, in "Labeo" 19, 1972, 7 ss.; Pia Fiori Maciocco, D. 1, 3, 16 = Paulus liber singularis de iure singulari, in "Archivio Storico e Giuridico Sardo di Sassari", Nuova serie, 3, 1996, 31 ss.

[177] Riguardo al frammento di Ulpiano, mi pare che possano ormai considerarsi superate sia le affermazioni contrarie alla genuinità del testo (F. SCHULZ, I principii del diritto romano, trad. it. a cura di V. ARANGIO-RUIZ, Le lettere, Firenze 1949, 23 nt. 33; U. von Lübtow, Das römische Volk. Sein Staat und sein Recht, Klostermann, Frankfurt am Main 1955, 618), sia dubbi e perplessità (B. Albanese, Premessa allo studio del diritto privato romano, Tip. S. Montaina, Palermo 1978, 192 nt. 295); cfr., fra gli altri, G. Nocera, Ius publicum (D. 2, 14, 38). Contributo alla ricostruzione storico-esegetica delle regulae iuris, Ed. italiane, Roma 1946, 152 ss.; F. Wieacker, Doppelexemplare der Institutionen Florentins, Marcians und Ulpians, in Mélanges De Visscher, II, Office International de Librarie, Bruxelles 1949, 585; P. Catalano, La divisione del potere in Roma (a proposito di Polibio e di Catone), in Studi in onore di Giuseppe Grosso, VI, Giappichelli, Torino 1974, 676; C. Nicolet, Notes complémentaires, in Polybe, Histoires, Livre VI, a cura di R. Weil, Les Belles Lettres, Paris 1977, 149 s.; F. Sini, Documenti sacerdotali di Roma antica, I. Libri e commentarii, Libreria Dessì Editrice, Sassari 1983, 213 s. Per una rassegna completa degli studi, cfr. Giuseppina Aricò Anselmo, ‘Ius publicum’ - ‘ius privatum’ in Ulpiano, Gaio e Cicerone, in “Annali del Seminario Giuridico dell’Università di Palermo” 27, 1983, 455 ss.

[178] Cfr. nello stesso senso anche le Istituzioni di Giustiniano (Inst. 1.1.4: Huius studii duae sunt positiones, publicum et privatum. Publicum ius est, quod ad statum rei Romanae spectat, privatum, quod ad singulorum utilitatem pertinet. Dicendum est igitur de iure privato, quod est tripertitum: collectum est enim ex naturalibus praeceptis aut gentium aut civilibus). Per l’analisi del frammento ulpianeo nella prospettiva che qui interessa, vedi F. Stella Maranca, Il diritto pubblico romano nella storia delle istituzioni e delle dottrine politiche, in Id., Scritti vari di diritto romano, Cacucci, Bari 1931, 102 ss.; Silvio Romano, La distinzione fra ius publicum e ius privatum nella giurisprudenza romana, in Scritti giuridici in onore di Santi Romano, IV, CEDAM, Padova 1940, 157 ss.; A. Carcaterra, L’analisi del ‘ius’ e della ‘lex’ come elementi primi. Celso, Ulpiano, Modestino, in “Studia et Documenta Historiae et Iuris” 46, 1980, 272 ss.; H. Ankum, La noción de "ius publicum" en derecho romano, in “Anuario de Historia del Derecho Español” 53, 1983, 524 ss.; F. Sini, Bellum nefandum. Virgilio e il problema del “diritto internazionale antico”, cit., 223 nt. 112; P. Stein, Ulpian and the Distinction between ius publicum and ius privatum, in Collatio iuris Romani. études dédiées à Hans Ankum à l’occasion de son 65ème anniversaire, II, J.C. Gieben, Amsterdam 1995, 499 ss.