A SETTANT’ANNI DAL NOMOS DELLA TERRA.
RIFLESSIONI SULLA FILOSOFIA DEL DIRITTO INTERNAZIONALE DI CARL SCHMITT
Università di Firenze
«Il problema giuridico del ‘dove’», ha scritto Natalino Irti, «si presenta con terribile gravità». Se la sfera della politica e del diritto resta «individuata dai confini, racchiusa in antiche mura», la globalizzazione economica invece, «sciogliendosi da ogni vincolo e alleandosi con la tecnologia elettronica», produce nuovi spazi lisci ed uniformi in cui i flussi di capitali scorrono come masse liquide[1]. Ha fatto eco Maria Rosaria Ferrarese rilevando come questo possente sommovimento, al contempo, nega le categorie che hanno caratterizzato il diritto territoriale, promuovendo un inedito ordine giuridico artificiale e pervasivo: «ci troviamo di fronte a un diritto che diventa ‘sconfinato’, ossia restìo a lasciarsi segnare da qualsiasi limite o confine territoriale». Privo di legami spaziali definiti, questo diritto «pur ricevendo applicazione su determinati territori, tende a prescindere da questi, a essere territorialmente absolutus»[2].
Concretezza e liquidità, finitezza e illimitatezza. Le coppie dicotomiche che emergono da queste considerazioni impongono di coinvolgere un altro interlocutore ancora: Carl Schmitt. Nel settantennio della pubblicazione di Der Nomos der Erde, lo zenit di un’attività scientifica prolungatasi ben tre quarti di secolo, le sue riflessioni conservano una impressionante attualità[3]. La sua sensibilità per il tema dello spazio territoriale è tutt’altro che scontata nella letteratura filosofico-giuridica novecentesca che ha preferito piuttosto seguire altri percorsi, dismettendo la questione perché ritenuta priva di un’adeguata caratura scientifica. Non era stato forse Hans Kelsen a concepire la giurisprudenza come scienza dello spirito, da indagare attraverso una dottrina depurata da ogni elemento naturalistico?[4] Lo spazio territoriale, in questa ottica, al più rilevava in quanto elemento del «contenuto normativo» dell’ordinamento statale: infatti «come la norma è valida in qualche tempo, così essa è valida in qualche luogo»[5]. Il territorio, dunque, era semplicemente l’ambito di validità della norma. «Che la norma valga», si legge in Lineamenti di dottrina pura del diritto, «significa sempre che vale per un determinato spazio e per un determinato tempo, cioè che si riferisce a fatti che possono soltanto succedere in un qualche luogo e in un qualche tempo»[6].
Eppure, a fronte dei processi di globalizzazione, di cui la emergenza sanitaria in atto non è che una secante, proprio la questione spaziale risulta decisiva, sia dal punto di vista ermeneutico, sia da quello assiologico: quel fenomeno di contrazione delle distanze e di interconnessione delle diverse regioni del mondo, di cui ha parlato Anthony Giddens, può essere pienamente compreso solo se pensato in relazione alla dimensione territoriale[7]. Come ha sottolineato del resto Ian Clark nel suo ormai classico Globalization and Fragmentation, la globalizzazione, intesa come fenomeno socioeconomico, «designa mutamenti relativi sia alla intensità che alla dimensione spaziale delle relazioni internazionali». Là dove, ha precisato Clark, «per il primo aspetto la nozione di globalizzazione include concetti come integrazione, interdipendenza, multilateralismo, apertura e interpenetrazione funzionale». Invece, in relazione al secondo aspetto la globalizzazione «rinvia alla diffusione geografica delle tendenze sopra indicate, e incorpora concetti come compressione spaziale, universalizzazione e omogeneizzazione»[8].
Il Nomos der Erde, dunque, si offre come un punto di osservazione privilegiato, come una falesia da cui scrutare i marosi inquieti della globalizzazione. La metafora è tutt’altro che forzata: al lettore di Schmitt l’accostamento di questo fenomeno alla dimensione talassica risulta tutt’altro che inopportuna, là dove in chiave genealogica l’avvio della globalizzazione coincide con la conquista degli oceani che ha inaugurato la modernità. Ma la connessione con il mare non è meno forte sul piano concettuale nel momento in cui l’ordinamento è prima di tutto espressione di un Ur-akt, di una localizzazione legata alla terra[9]. Ecco allora che, se l’ordine giuridico statale è ‘tellurico’, identificandosi perfino in termini naturalistici con un ambito territoriale definito e con uno spazio normativo circoscritto, l’ordinamento transnazionale imposto dalla globalizzazione, per richiamare Ferrarese, non può che essere riferito al mare in virtù del suo carattere sconfinato e de-territorializzato.
Da una parte, dunque, un diritto tellurico, fortemente connotato sul piano spaziale, che si fonda nella «presa di terra». Dall’altra parte un ‘diritto oceanico’ che trova il suo momento fondativo nella Seenahme avvenuta già a partire dalla prima età della scoperta. Si tratta di una dialettica – di cui è appena possibile rammentare la matrice hegeliana –[10], che ha informato la storia del mondo e che nella globalizzazione ha il suo diapason.
Non ci sono dubbi sul fatto che la «occupazione del mare» appartenga alla modernità, anzi ne sia la sua cifra più autentica. Il Mar Oceano fino all’autunno del Medioevo rimase un non-luogo: si trattava di una estensione vuota e fondamentalmente avvertita come minacciosa. Odisseo, il più celebre navigatore dell’antichità, nel corso delle sue prolungate peregrinazioni si guarda bene dall’oltrepassare le Colonne d’Ercole[11]. E quando questo avviene, il viaggio finisce in tragedia. Lo ricorda già Ovidio nelle Metamorfosi e lo ribadisce Dante nel XXVI Canto dell’Inferno in cui la temeraria impresa di Ulisse finiva per assumere anche un valore escatologico: una volta oltrepassata «quella foce stretta; dov’Ercule segnò li suoi riguardi», lo attendeva la dannazione eterna[12].
Come sottolineava Schmitt, quelle che noi storicamente cataloghiamo come talassocrazie, in realtà si svilupparono entro ambiti ben definiti: mari chiusi, popolati di isole, ricchi di ripari e di sorgitori, per cui valgono le parole sferzanti del Socrate del Fedone: «viviamo intorno a questo nostro mare come formiche o come rane intorno a uno stagno»[13]. L’epos marinaresco dei Fenici, lo spregiudicato navalismo di Cartagine, la grandezza talassocratica dell’Atene di Pericle si appannano: «tutti gli ordinamenti preglobali erano essenzialmente terranei», si legge nel Nomos der Erde, «anche se comprendevano domini marittimi e talassocrazie»[14]. Si potrà dunque parlare di civiltà continentali, potamiche, tutt’al più talassiche, ma certo non di civiltà oceaniche, riconoscendo implicitamente la radicalità della Raumrevolution innescatasi con le esplorazioni atlantiche.
Il canone della esperienza giuridica premoderna, dunque, era la terra: prevaleva una concezione tellurica saldamente ancorata alla Landnahme, alla suddivisione dello spazio, alla sacralizzazione dei confini. I flutti marittimi, nella loro liquida dinamicità, non solo erano alieni al dominium, ma anche all’imperium. Se Ulpiano attestava che «mari quod natura omnibus patet, servitus imponi privata lege non potest», Meciano ricordava come Antonino Pio avesse riconosciuto che la legge del princeps si arrestava di fronte alle distese marine[15]. Si trattava di una condizione di anomia che la cultura giuridica medievale, certo, non era in grado di superare. Tanto l’auctoritas del papa, quanto la potestas dell’imperatore incontrarono enormi difficoltà nella gestione di questi spazi: al di là di formulazioni che, essenzialmente a carattere dottrinario e scolastico, avevano ben pochi riscontri nei fatti, al di là di interventi molto circoscritti, come ad esempio la repressione delle pratiche piratesche, la dimensione talassica finiva per eccedere quella giuridica. Là dove il diritto marittimo era semplicemente il frutto di prassi ben consolidate tra i sabedores de mar, ovvero coloro che avevano scelto le professioni marittime: raccolte celebri come gli Ordinamenta maris di Trani, le Rôles d’Oléron, il Livre noir de l’Amirauté o il più tardo Libre de Consolat de Mar, non sono altro che la formalizzazione di risalenti consuetudini[16].
Piuttosto, ancora agli albori della modernità, le distese marine erano uno spazio altro in cui ogni regola era sovvertita, ogni consuetudine era capovolta. In questo senso, i rapidi mutamenti di identità e gli altrettanto repentini disvelamenti erano la regola. Il mercante che pacificamente solcava il mare con il proprio carico poteva con estrema disinvoltura vestire i panni del pirata, come testimonia la vicenda di Landolfo Rufolo narrata da Boccaccio nella seconda giornata del Decamerone. In un contesto, come quello medievale, in cui la identità era misura dell’appartenenza, questo ambiguo mimetismo non può che provocare stupore[17]. Il mare, evidentemente, era un far-away place anche sotto il profilo delle categorie giuridiche e morali. Ancora un umanista come Andrea Alciato potrà permettersi di osservare che «pirata minus delinquit, quia in mari delinquit, quod nullae subicitur legi»: una considerazione che Alberico Gentili – ma ormai siamo nella modernità – non esiterà a fare sua nelle Hispanicae advocationes[18].
Il ritorno di Colombo dall’avventuroso viaggio che lo aveva portato al di là dell’Atlantico ebbe un effetto dirompente. I primi a percepire con lucidità le implicazioni connesse al descubrimiento furono i sovrani iberici, gli stessi che avevano finanziato la impresa. Iniziò così un’attività diplomatica convulsa, di cui noi abbiamo però solo una eco soffusa. Era necessario contrastare quella sorta di monopolio sulle esplorazioni che, grazie ai buoni uffici dei pontefici, la corona lusitana si era garantita già alla metà del Quattrocento. Meno di due mesi dopo il rientro di Colombo in Castiglia, papa Alessandro VI emanava una serie di bolle che, in sostanza, ripartivano tra i due regni iberici le aree di espansione, stabilendo come linea di confine il meridiano passante a cento miglia a occidente dalle Azzorre. Si trattava di una determinazione ambigua, che solo il trattato di Tordesillas del luglio dell’anno successivo avrebbe definitivamente risolto spostando ad occidente la raya[19].
Non è il caso di approfondire la valenza giuridica delle bolle alessandrine, né, tanto meno, di approfondire le asimmetrie esistenti con la disciplina pattizia[20]. Quello che mi preme piuttosto rilevare, seguendo ancora una volta la lectio schmittiana, riguarda la novità insita nel concetto di raya. Si era trattato di una innovazione assoluta sul piano del rapporto tra spazio e diritto là dove ogni specificità orografica era negata e si celebrava quello che Schmitt ha definito come «pensiero per linee globali»[21]. Certo la frattura con il passato non era ancora completa. La semantica di questa precoce regolazione legata alle scoperte di Colombo presenta ancora un forte debito con la tradizione universalistica e ierocratica del Medioevo. Questo, a partire dall’appello all’auctoritas del successore di Pietro che rispondeva alla specifica esigenza di fondare l’ordine spaziale su di una legittimità condivisa. A ben vedere, la intera vicenda della Conquista può essere interpretata come un processo di omologazione, di reductio ad unitatem del diverso del tutto coerente alla tradizione aristotelico-tomista. Non è un caso che, tanto nelle Università che negli ambienti di corte uno dei temi più discussi – ed il dibattito interno alla Seconda Scolastica lo dimostra – riguardasse proprio la possibilità di adattare a las Indias le categorie giuridiche e politiche della respublica Christiana[22]. La stessa organizzazione istituzionale su cui si reggeva l’impero coloniale spagnolo, manifestava questa volontà di omologazione: anche solo un rapido sguardo alla legislazione coloniale rivela lo sforzo spasmodico di adattare istituti e modelli normativi propri della tradizione giuridica ispanica ad un contesto irrimediabilmente altro[23].
Il fatto che, come ha suggerito Schmitt, le rayas finissero per disconoscere ogni specificità alla dimensione oceanica, non distinguendo tra presa di terra e occupazione di mare, è assolutamente emblematico[24]. Malgrado la novità di un confine tracciato more geometrico – ovvero ricorrendo ai meridiani e non, come era avvenuto nel passato, alle caratteristiche salienti del territorio che si andava a ripartire –, nonostante la «occupazione del mare», la svolta è stata meno incisiva di quanto ci si sarebbe potuti attendere. Le rayas, in questo senso, erano semplicemente uno strumento di ripartizione ‘quantitativa’ dello spazio territoriale e non tenevano in alcun pregio la sua ‘qualità’.
Rispetto a questo archetipo spaziale, il successivo «pensiero
per linee globali» ha avuto un carattere fortemente innovativo, determinando
una vera e propria rivoluzione nella sintassi dell’ordinamento internazionale.
In antitesi alle rayas, incapaci di cogliere
la specificità degli spazi oceanici, il nuovo nomos
che già alla metà del Cinquecento si stava progressivamente affermando
trovava nella distinzione tra Landnahme e
Seenahme il suo fondamento. Dalla separazione
tra terraferma e mare promanava quella specifica concezione degli spazi marini
come totalmente liberi che ha informato la modernità. Là dove, però, questa
libertà si traduceva in agonalità. In altri termini
le distese marine erano libere non perché sottratte alla sovranità statale,
quanto piuttosto perché prive di una regolazione condivisa, in balìa
all’anarchia e alla competizione[25]. Un carattere, annotava Schmitt, già
evidente a partire dalle amity lines[26]. La vicenda che ha portato
all’affermazione di questa prassi geo-giuridica è nota. Nel 1559, con la pace
di Cateau-Cambrésis, si era finalmente posto termine
al prolungato conflitto tra l’impero asburgico e il regno di Francia che aveva
travagliato gli assetti politici dell’intera Europa. Le delegazioni coinvolte
nei negoziati fecero enormi sforzi per stabilizzare i confini europei, ma non
ritennero opportuno estendere alle Indie l’efficacia del trattato. Fu così che ad oriente del primo meridiano valeva quanto disposto a Cateau-Cambrésis, mentre a occidente «might should make right, and violence done by
either party to the other should not be regarded as in contravention of
treaties»[27].
La prassi era innovativa quanto disgregatrice: la sua fortuna, rimarcava Schmitt, fu però notevole. «No peace beyond the line» era la considerazione unanime che accomunava le cancellerie europee: una volta oltrepassata, valeva la legge del più forte[28]. D’altra parte in una Europa traumatizzata dallo scisma religioso l’assenza di un’auctoritas e di un ordo condiviso impediva soluzioni alternative a quella di una sostanziale anomia. Le contestazioni più radicali alla legittimità della Conquista, ci ricorda Schmitt, non erano forse provenute proprio dall’Inghilterra e dalle Province Unite che avevano entusiasticamente abbracciato la Riforma?[29] Né certo era casuale il fatto che, a partire da Gentili e da Grozio, i grandi promotori della libertà dei mari furono di confessione protestante[30]. E, certo, la questione trascendeva l’ambito diplomatico e dottrinario. «Il calvinismo era la nuova religione guerriera», si legge in Land und Meer, «l’impulso elementare verso il mare lo catturò quale fede a esso più consona». Fu così che, già a partire dalla seconda metà del Cinquecento, furono gli Ugonotti francesi a sfidare sulle acque dell’Atlantico l’impero coloniale spagnolo al grido «mare sit commune»[31]. La Riforma, d’altra parte, era saldamente radicata sulla costa atlantica – La Rochelle fu l’ultima piazzaforte ugonotta a cadere – ed il monopolio commerciale esercitato dalla Casa de contrattacion di Siviglia costituiva un fattore altamente polemogeno, tanto sotto il profilo della competizione economica, quanto sotto quello della contrapposizione confessionale[32]. In definitiva, provando a sintetizzare una vicenda estremamente complessa che ha dato adito ad interpretazione storiografiche tra loro anche molto distanti, con Schmitt si può sostenere che la prolungata conflittualità legata alla Raumrevolution che ha inaugurato la modernità, era dovuta a due concezioni dello spazio antitetiche: l’una fondata sulla continuità, l’altra sulla differenza.
Nel valutare le reazioni alle pretese monopolistiche asburgiche ci si può chiedere in che misura la rivendicazione della libertà dei mari non si fondasse anch’essa su di una retorica della continuità, ispirata al paradigma che fin dall’età di mezzo aveva caratterizzato i traffici mercantili marittimi. Occorre però grande cautela nello stabilire analogie con l’ordinamento marittimo premoderno. Per il giurista medievale educato al corpus iuris civilis le distese marine erano res communes omnium: tutti avevano il diritto di sfruttarne le risorse e di solcarne le acque. Al contrario la Ordnung che iniziava ad emergere a partire da Cateau-Cambrésis concepiva il mare come uno spazio privo di regole, in cui gli uomini potevano dare libero sfogo alle proprie passioni acquisitive. A partire dalle amity lines, l’unica legge valida era quella del più forte: era, come Schmitt suggerisce, il trionfo dello stato di natura hobbesiano, di un’antropologia segnata dall’homo homini lupus che aveva il proprio archetipo nella figura del pirata[33]. In questo senso è sufficiente rammentare la protezione accordata alla Confrérie de la côte dagli avversari dell’impero asburgico: almeno fino al trattato di Utrecht del 1713, la pirateria era al tempo stesso fenomeno criminoso e strumento di pressione politica e militare[34]. Sui tavoli della politique politicienne la filibusta si rivelava una pedina decisiva nel quadro di una conflittualità endemica e pulviscolare. Questo nel momento in cui Alberico Gentili – solo per richiamare un parere particolarmente autorevole – ispirandosi alla nozione medievale di hostis humani generis, dubitava perfino che il pirata potesse essere soggetto alla lex naturalis[35]. Se dunque gli Stati del Vecchio Continente potevano agire non solo in violazione dei canoni del bellum iustum, ma perfino dei principi più sacri della legge naturale, la giustificazione va trovata nel carattere eccezionale, assolutamente eversivo accordato dalle amity lines agli spazi marittimi e terrestri del Nuovo Mondo.
A partire dalla pace di Vestfalia, per altro, la prassi delle linee di amicizia iniziò a venire meno. D’altra parte la Spagna era avviata ad una lenta ma inarrestabile decadenza, mentre gli insediamenti anglofrancesi nel Nuovo Mondo erano divenuti realtà solide tanto sul piano giuridico quanto su quello politico. Da parte loro, Londra e Parigi erano consapevoli delle potenzialità economiche dei territori acquisiti al di là dell’Atlantico: la espansione verso l’interno del Nordamerica si stava faticosamente avviando e, certo, una conflittualità endemica avrebbe pregiudicato ogni sforzo. Il trattato franco-spagnolo di Ratisbona del 1684 costituisce un eccellente esempio di questo cambio di passo, nel momento in cui prevedeva espressamente la cessazione di ogni ostilità «in et extra Europam, tam cis quam trans lineam»[36]. Questo nuovo clima incoraggiò una rinnovata riflessione sugli strumenti giuridici da adottare nella gestione dei territori del Nuovo Mondo. Nell’epoca dei fasti del giusnaturalismo, l’ideologia delle frontiere naturali largamente prevalente nei trattati dei giuristi, così come nella prassi delle cancellerie, fu entusiasticamente riproposta anche per le Americhe. Aggiornata nelle forme e nelle tecniche normative rifioriva così la immagine di una occupazione per divisione, di un limes ancorato alla orografia.
Differente, invece, fu il destino degli spazi oceanici: il carattere anarchico impresso dalle amity lines continuò a contraddistinguere il regime dei mari. Questo però non significò assecondare il carattere anomico degli spazi marittimi, negare al mare qualsiasi regola. Come ha suggerito Schmitt, ancora fino a buona parte dell’Ottocento, le distese marine avevano piuttosto un carattere giuridicamente neutro, essendo poste al di fuori di ogni ordinamento sovrano. Non essendo territorio statale, né spazio coloniale, né tanto meno un ambito liberamente occupabile, gli oceani erano situati al di là dell’orizzonte dello Stato sovrano[37]. Le vie marittime però erano ritenute sempre più decisive per il Vecchio Continente e, pertanto, occorreva trovare un assetto stabile, una cornice giuridica ai traffici mercantili che si svolgevano nelle distese oceaniche. Fu così che nella età dei Lumi, accanto allo jus publicum Europaeum, sorse un altro ordinamento che, simmetrico e distinto da esso, era dotato dei medesimi attributi: anch’esso era un universale, anch’esso riconosceva validità ad istituti giuridici fondamentali dello jus belli, a partire dal diritto di preda. Anch’esso, come sottolineava Schmitt, era consapevole del valore della libertà[38].
A comprendere tutte le implicazioni di questa dialettica tra terra e mare, e non poteva essere altrimenti, fu l’Inghilterra che divenne la depositaria di una precisa consapevolezza spaziale, la custode dell’equilibrio tra questi due spazi[39]. Si trattava di un equilibrio che non intaccava la supremazia navale inglese destinata a rappresentare, quanto meno a partire dalla metà del Settecento, una costante geopolitica. Questa egemonia, alla luce delle considerazioni di Schmitt, aveva come baricentro il binomio freedom of trade / freedom of war, vero e proprio paradigma della politica di potenza anglosassone, là dove questo binomio era destinato a manifestarsi nella sua pienezza proprio sui mari, assurgendo al tempo stesso a causa ed effetto della talassocrazia inglese.
Vinto il confronto con la Spagna prima, e con l’Olanda e la Francia poi, l’Inghilterra «divenne il veicolo del mutamento spaziale verso un nuovo nomos della terra e persino – potenzialmente – il campo in cui si sarebbe verificato il balzo successivo nella totale perdita di luogo della tecnica moderna»[40]. Nel momento in cui si era affermata l’egemonia marittima inglese, dunque, si era cristallizzato un ordine nichilistico e de-spazializzato, dirompente nella sua radicale opposizione a qualsiasi archetipo precedente. Era il trionfo della Utopia, citando ancora Schmitt, intesa come negazione di ogni localizzazione, di qualsiasi determinazione territoriale[41]. In questa prospettiva la uniformità, la liquida indeterminatezza delle distese marittime negava qualsiasi specificità. Il mare era una superficie liscia ed uniforme che esigeva regole giuridiche prive di riferimenti concreti promuovendo un ordine delocalizzato, ma tendenzialmente globale.
Il quadro tracciato da Schmitt aveva una formidabile coerenza: ad uno spazio spoliticizzato e de-statualizzato corrispondeva una Ordnung proiezione degli interessi privati. Nell’età del trionfo della sovranità assoluta, infatti, la dimensione talassica rappresentava una barriera apparentemente impenetrabile: al di là vigevano soltanto le risalenti consuetudini degli operatori commerciali affinate dai giurisperiti, gli usi di mare, la lex mercatoria. Sui mari risaltava piuttosto il ruolo di attori privilegiati come la East India Company, in grado non solo di coordinare gli scambi intercontinentali e transoceanici e di promuovere uno specifico assetto normativo, ma perfino di orientare le dinamiche coloniali[42]. Il ruolo dello Stato era davvero residuale: doveva garantire la protezione degli interessi privati, in conformità ad una visione mercantilistica già matura nel Navigation Act voluto da Cromwell nel 1651, il cui titolo completo, An Act for Increase of Shipping, and Encouragement of the Navigation of this Nation, rivelava le istanze protezionistiche[43]. Al più, nel caso in cui il carattere agonale degli spazi oceanici fosse aumentato di intensità, lo Stato doveva impiegare il proprio potenziale militare per garantire la sicurezza delle rotte. Come ha rilevato con crudo realismo Christopher Connery, la libertà dei mari auspicata da Grozio in realtà aveva la sua ragion d’essere nelle artiglierie dei vascelli di linea[44].
Solo a partire dal trattato di Parigi del 1856 il carattere agonale degli spazi oceanici, in cui le vicende della competizione commerciale si annodavano in maniera inestricabile con lo ius predae, fu progressivamente superato[45]. È qui appena possibile richiamare il fatto che proprio questa prerogativa al tempo stesso fosse stata uno degli istituti giuridici più peculiari della Ordnung talassica e uno dei cardini della politica marittima inglese: se le disposizioni dell’Ammiragliato ancora nei lunghi anni delle guerre napoleoniche avevano fatto riferimento al diritto di preda, è altrettanto significativa la freddezza con cui tanto la diplomazia quanto la scienza giusinternazionalistica inglese avevano accolto il principio del free ship free goods che avrebbe dovuto tutelare il traffico neutrale nel corso delle ostilità[46].
Si tratta di una vicenda conclusa? Questa singolare ibridazione tra uno spazio spoliticizzato ed un ordinamento deterritorializzato va relegata ai trascorsi del diritto internazionale? Non credo. Pur stando bene attento ad evitare pericolosi anacronismi, mi preme sottolineare come l’ordine talassico vigente a partire dalla modernità prefiguri l’immagine di un diritto transnazionale fortemente destrutturato. In quest’ottica, la lettura del Nomos der Erde, quanto meno, è un importante punto di partenza per riflettere sul rapporto tra il diritto globale e l’ordine nato dal disfacimento dello jus publicum europaeum. Si tratta di un ordine in cui l’oceano sembra prevalere sulla terra, in cui il diritto liquido dei mercati pare prendere il sopravvento su quello tellurico degli Stati. Questa analogia può risultare meno arrischiata se, tenendo ferma la immagine suggestiva di un diritto globale epigono di quello dei mari, si esamina la evoluzione della talassocrazia anglosassone[47]: la dottrina strategica inglese, fondata sul dogma del commercio oceanico quanto sulle bordate dei vascelli di linea trovò un sostenitore assolutamente entusiasta nel contrammiraglio Alfred Thayer Mahan. Araldo del sea power statunitense e padre della geopolitica navalista. tanto da essere ricordato come «the Evangelist of Sea Power», Mahan esercitò una straordinaria influenza non solo sugli ambienti militari, ma anche sui circoli politici di Washington[48].
Sea power: questa era la chiave della supremazia secondo Mahan. Si trattava di una ricetta particolarmente semplice, perfino banale: da un lato una potente flotta mercantile posta sotto la protezione delle bocche da fuoco della marina da guerra, dall’altra un esercizio del potere marittimo diretto a interdire le rotte commerciali agli avversari, almeno quanto a spazzare via le squadre navali avversarie. E il monopolio delle sea lanes doveva concretizzarsi in primo luogo nel controllo delle vie di accesso alle blue waters, al mare aperto, da attuarsi secondo il realista Mahan sia attraverso il diritto internazionale sia ricorrendo alle artiglierie della marina da guerra[49]. A decretare l’immediata fortuna del libro di Mahan fu Theodore Roosevelt – lui stesso attento studioso di politica navale –, che nel corso della sua presidenza avrà modo di metterne in pratica le indicazioni strategiche e geopolitiche, allestendo quella che era conosciuta come the Great White Fleet[50].
Qual è il giudizio di Schmitt sull’autore che per primo ha saputo cogliere i fondamenti della potenza statunitense? La risposta non è scontata. Se si ripercorrono le pagine del Land und Meer – il libro di Schmitt «più bello, anzi, più importante» secondo la nota opinione dello storico Nicolaus Sombart che di Schmitt fu intimo –[51], si tratta di una presenza ingombrante: tanto che il testo schmittiano può addirittura essere considerato una replica a Mahan, fortemente ispirata alla filosofia hegeliana[52]. Il ‘tellurico’ Schmitt, in altri termini, si contrapponeva all’‘oceanico’ Mahan, secondo uno stile di pensiero per altro condiviso con quella Geopolitik che tanta influenza aveva esercitato sulla Germania della tarda età guglielmina. Nel più tardo Nomos der Erde, però, ogni riferimento alle tesi di Mahan è sfumato, occultato: Schmitt gli dedica infatti solo una sintetica nota relativa alla trasformazione della egemonia statunitense e agli sviluppi della Monroe Doctrine[53]. Vale la pena riflettere su questa variazione di registro. Di Mahan, in Land und Meer Schmitt aveva elogiato la lucida caratterizzazione della geopolitica navalista anglosassone. Eppure – il passaggio è cruciale –, l’ammiraglio statunitense aveva mancato di cogliere uno snodo fondamentale: ovvero «che il sovvertimento prodotto dall’industria» alterava in maniera irrimediabile «il rapporto elementare dell’uomo con il mare»[54]. Si trattava di una critica drastica: le tesi mahaniane avevano avuto il merito di formalizzare in termini concettuali quelli che erano i fondamenti della egemonia marittima anglosassone. Ma nel momento in cui Mahan, sondando il passato, procedeva in chiave genealogica non si era accorto delle profonde conseguenze che la dottrina del Sea Command implicava. In altri termini, le riflessioni mahaniane, nel momento stesso in cui erano formulate, finivano per molti versi per risultare obsolete: Mahan spostando il fuoco della egemonia dalla terra al mare, enfatizzava il ruolo della tecnologia e della industrializzazione, ovvero di quei fattori destinati non solo a modificare il modo in cui il potere impatta la dimensione geografica, ma perfino la stessa relazione tra l’uomo e lo spazio fisico che abita. In definitiva Mahan, non diversamente da tante voci del realismo politico, sforzandosi di descrivere la realtà dei rapporti geopolitici, ne avallava il mutamento.
Le pagine che Schmitt aveva dedicato al trionfo della macchina sull’uomo sono tra le più suggestive di Land und Meer, se non altro per il loro vigore epico e per la potenza delle immagini adottate, là dove l’irruzione della tecnica nella definizione degli spazi – per usare il lessico schmittiano – aveva radicalmente sovvertito il rapporto tra il pesce-balena ed il pescatore armato di arpione. Alla luce del cambio di registro, del ridimensionamento del peso di Mahan, si può ipotizzare che lo Schmitt del Nomos der Erde, fosse ormai consapevole che la parabola si era conclusa. Di fronte alle macerie fumanti delle città tedesche, di fronte all’avvento del potere aereo e della dottrina del bombardamento strategico, le tesi di Mahan legate al dominio del mare e ai calibri delle squadre navali appaiono obsolete. Eppure, occorre evitare precipitose conclusioni. Schmitt ci invita a tenere presenti due fatti: in primo luogo, il potere aereo fondato sul dominio della tecnica si originava dalla sublimazione dello spazio marittimo[55]. È appena il caso di insistere oltre sul fatto che la dimensione talassica abbia determinato le condizioni per la irruzione della tecnica nell’orizzonte umano. «Essendo il mare (i grandi oceani) il primo elemento antinomico (disordinato, delocalizzato, illimitato, sradicato) in quanto anti-terraneo» ha rilevato un attento lettore di Schmitt come Giovanni Gurisatti, la nave si configura come «l’agente originario» della «‘tecnica scatenata’, destinata (come in Spengler e Heidegger), nel suo impulso global-universalistico, a distruggere, con la sua Machenschaft, ogni limite e confine, quindi ogni nomos terraneo»[56]. In questa prospettiva, l’avvento dell’aeromobile ha un significato storico circoscritto, limitandosi ad attribuire maggiore intensità ad un processo iniziato sui mari.
C’è però un altro fattore di cui tenere conto: ovvero che l’affermazione del potere aereo – un potere dotato di un potenziale distruttivo prima impensabile, come la distruzione di Hiroshima e Nagasaki hanno mostrato – è stato possibile grazie al primato industriale, scientifico e tecnologico statunitense[57]. Là dove questo primato è profondamente intrecciato con quella Raumrevolution che, ancora una volta, aveva investito gli spazi atlantici: seguendo le indicazioni di Schmitt occorre riavvolgere la pellicola andando al 3 ottobre 1939, alla conferenza panamericana promossa da un altro Roosevelt, Franklin Delano, a poco più di un mese dalla deflagrazione della Seconda guerra mondiale. Qui, in un contesto comprensibilmente allarmato e su pressante sollecitazione dello stesso presidente statunitense, gli Stati americani disposero la neutralizzazione delle acque del c.d. Western Hemisphere: a questo fine venne tracciata una safety belt passante a trecento miglia dalle coste americane, interrotta solo dal Canada che era parte belligerante nel conflitto[58]. Questa ‘territorializzazione’ degli spazi atlantici infrangeva i limiti sanciti dalla consuetudine e dai trattati internazionali: di più, si trattava di una vera e propria Seenahme che, nuovamente, riproduceva l’opposizione fa anomia e conflitto da una parte, diritto e pace dall’altra. Come ha sottolineato Schmitt ancora una volta «la linea globale che viene tracciata qui è dunque una sorta di linea di quarantena, di cordone sanitario che divide una regione contaminata da una sana»[59]. Ed era una Seenahme fondata su salde basi ideologiche: quelle della unicità dell’America come luogo della giustizia e della pace, come già anticipato nella dottrina Monroe[60]. Analogamente a quanto era avvenuto nel corso della prima Raumrevolution, in un’ottica teologico-politica si trattava della manifestazione di una sorta di religione civile che, ha suggerito Schmitt, aveva le proprie radici nel senso di predestinazione del calvinismo professato dai Padri Pellegrini e che era stata rinnovata e rinvigorita dalle aspettative dei milioni di europei in fuga dal vecchio continente, «per iniziarvi una nuova vita in condizioni verginali»[61].
Non è questo il punto decisivo, però. Per Schmitt, piuttosto, occorre mettere a fuoco lo spazio e il modo in cui è stato ripartito. Là dove, la scansione tra zones of law e zones of violence, per richiamare una distinzione ben nota ai cultori della Atlantic History, in passato era stata il frutto di una mediazione, di un accordo tra i diversi attori[62]. La decisione di Franklin Delano Roosevelt, invece per Schmitt è stata un atto di puro imperio, la manifestazione di un’opzione politica e militare, che finiva per determinare un vero e proprio discrimine etico-morale. La linea dell’Emisfero Occidentale ebbe vita breve: il coinvolgimento statunitense nel conflitto era imminente. Gli spazi neutralizzati nel 1939, due anni dopo divennero il campo su cui si combatteva la decisiva battaglia dell’Atlantico. Nel Maelström dell’ultimo conflitto mondiale la Dichiarazione di Panama rischia quindi di apparire un mero accidente, oggetto dell’erudita attenzione degli storici delle relazioni internazionali. Non è così. Accogliendo i suggerimenti di Schmitt, occorre piuttosto sottolineare la portata dirompente di questa nuova linea globale. Occorre evidenziare, in particolare, come «la linea dell’emisfero occidentale» sia il cardine ed il discrimine di un nuovo ordine giuridico, segnando una volta per tutte la presa di coscienza da parte degli Stati Uniti della propria natura di global power, assiologicamente fondato sul controllo dei mari e delle rotte.
La vicenda può dirsi conclusa? Anche se la prassi delle linee appare oggi desueta – ma questa medesima considerazione, probabilmente, l’avrebbe potuta fare uno studioso di diritto internazionale che avesse trattato questa prassi prima della conferenza panamericana del 1939 –, le pagine del Nomos der Erde mantengono una sorprendente freschezza. L’oceano, infatti, è qualcosa di più di un concetto geografico: è una potente metafora per indicare uno spazio liscio, uniforme, privo di barriere in cui il nomos diviene geometria. In questo senso, lo si è accennato, i cieli sono partecipi della medesima natura dell’oceano, così come lo sono quegli spazi siderali che la tecnologia ha dischiuso e che oggi rappresentano per l’umanità al tempo stesso una sfida ed un destino[63]. Ma soprattutto la natura talassica è propria di quegli spazi che la tecnica stessa ha creato, il cyberspace e quello, reticolare e proteiforme, dei flussi finanziari e delle transazioni economiche.
Oggi la dialettica tra gli spazi si è dilatata investendo piani molto differenziati: se come scrive Irti da un lato «ci sono gli antichi luoghi, stretti a difesa di storicità e identità», dall’altra ci sono spazialità plurime ed eterogenee[64]. L’antagonismo ‘elementare’, dunque è tutt’altro che negato, ma, al contrario si dilata su di una scala infinitamente più ampia. Occorre allora domandarsi quale intensità potrà assumere questa contrapposizione e quali forme di inimicizia potranno manifestarsi. La sfida che, ineluttabilmente, si prefigura provoca smarrimento: all’orizzonte ci aspettano infatti nuove linee e sconosciuti ordinamenti spaziali. Nella consapevolezza, però, che le pagine del Nomos der Erde continueranno a lungo ad essere decisive.
The Nomos of the Earth in the International Law of Jus
Publicum Europaeum in many ways is Carl Schmitt’s scientific masterpiece.
Seventy years after its first edition, it can be rated as one of the very few
classics of twentieth century legal science. The relevance given to the bond
between law and space, without any doubt, is one of the most thought-provoking
features of The Nomos of the Earth. Thanks to this awareness, reading Schmitt’s magnum
opus is particularly relevant for grasping the history of modern
international law. At the same time, the book is no less useful in considering
how to regulate the new spaces opened up by technology and globalization.
Il nomos della terra nel diritto internazionale dello ‘Jus publicum europaeum’ per molti versi ha rappresentato il punto più alto della intensa produzione scientifica di Carl Schmitt e, a settant’anni dalla pubblicazione, può essere considerato uno degli autentici classici della scienza giuridica novecentesca. Uno dei tratti più originali del volume consiste nella rilevanza attribuita al rapporto tra il fenomeno giuridico e la dimensione spaziale. Grazie a questa sensibilità, la lettura del magnum opus schmittiano non solo consente di cogliere le linee evolutive del moderno diritto internazionale, ma rappresenta uno strumento molto efficace per riflettere su come poter regolare gli spazi che la tecnologia e la globalizzazione hanno dischiuso.
Per la pubblicazione degli articoli della sezione “Contributi” si è applicato, in maniera rigorosa, il procedimento di peer review. Ogni articolo è stato valutato positivamente da due referees, che hanno operato con il sistema del double-blind.
Nel corso delle mie ricerche ho goduto del sostegno del Prin 2015 Soggetto di diritto e vulnerabilità: modelli istituzionali e concetti giuridici in trasformazione e del Programa Estatal de I+D+i Orientada a los Retos de la Sociedad, 2017, El logos de la guerra. Normas y problemas de los conflictos armados actuales. Sono poi grato a Giuseppe Perconte Licatese per i suggerimenti ricevuti.
[1] N. Irti, Norma e luoghi. Problemi di geo-diritto, Roma-Bari 2006, 121.
[2] M.R. Ferrarese, Diritto sconfinato. Inventiva giuridica e spazi nel mondo globale, Roma-Bari 2006, 25.
[3] C. Schmitt, Der Nomos der Erde im Völkerrecht des Jus Publicum Europaeum, Berlin 1950, trad. it., Il nomos della terra nel diritto internazionale dello ‘jus publicum Europaeum’, Milano 2006.
[4] Sul punto per tutti G. Fassò, Storia della filosofia del diritto. III. Ottocento e Novecento, Bologna 2007, 275.
[5] H. Kelsen, Das Problem der Souveränität und die Theorie des Völkerrechts: Beitrag zu einer reinen Rechtslehre, Tübingen 1920, trad. it., Il problema della sovranità e la teoria del diritto internazionale. Contributo per una dottrina pura del diritto, Milano 1989 105.
[6] H. Kelsen, Reine Rechtslehre. Einleitung in die rechtswissenschaftliche Problematik, Leipzig-Wien 1934, trad. it., Lineamenti di dottrina pura del diritto, Torino 1952, 52.
[7] A. Giddens, The Consequences of Modernity, Cambridge 1990, trad. it., Le conseguenze della modernità: fiducia e rischio, sicurezza e pericolo, Bologna 1994, 71.
[8] I. Clark, Globalization and Fragmentation. International Relations in the Twentieth Century, Oxford 1997, trad. it., Globalizzazione e frammentazione. Le relazioni internazionali nel XX secolo, Bologna 2001, 10.
[9] C. Schmitt, Il nomos della terra, cit., 19 ss.
[10] Mi sia concesso rinviare a F. Ruschi, Spazio. La questione del territorio statale, in Dimensioni del diritto, a cura di A. Andronico, T. Greco, F. Macioce, Torino 2019, 345 ss.
[11] Sulla figura archetipica di Odisseo e con particolare riferimento ai temi oggetto del mio contributo cfr. P. Levy, L’intelligence collective: Pour une anthropologie du cyberespace, Paris 1997, trad. it., L’intelligenza collettiva. Per un'antropologia del cyberspazio, Milano 2002, 185 ss. Con un respiro più ampio quanto meno P. Boitani, L’ombra di Ulisse. Figure di un mito, Bologna 2012. Sul significato delle Colonne d’Ercole per tutti G. Amiotti, Le Colonne d'Ercole e i limiti dell’ecumene, Milano 1987. È qui appena possibile ricordare come i riferimenti alla Odissea siano ricorrenti in Schmitt, già a partire da C. Schmitt, Die Kernfrage des Völkerbundes, Berlin 1926, trad. it., La Società delle Nazioni. Analisi di una costruzione politica, Milano 2018. Sono grato a Giuseppe Perconte Licatese – curatore della edizione italiana del testo di Schmitt – per aver richiamato la mia attenzione su quella che finisce per essere quasi una sorta di autoidentificazione con il re di Itaca.
[12] Per tutti M. Picone, Dante, Ovidio e il mito di Ulisse, in Lettere italiane 43, 1991, 500 ss.
[13] Platone, Fedone 109 B.
[14] C. Schmitt, Il nomos della terra, cit., 28.
[15] D. 8.4.13pr. (Ulp. VI opin.) e D. 14.2.9. Per un inquadramento generale M. Fiorentini, Fiumi e mari nell’esperienza giuridica romana. Profili di tutela processuale e di inquadramento sistematico, Milano 2003.
[16] W.G. Grewe, Epochen der Völkerrechtsgeschichte", Baden-Baden 1984, engl. trans. The Epochs of International Law, Berlin 2013, 129 ss. Si veda anche G. CAMARDA, S. CORRIERI, T. SCOVAZZI, La formazione del diritto marittimo nella prospettiva storica, Milano 2010.
[17] Per contestualizzare le vicende del mercante di Ravello un buon punto di partenza resta J.H. Pryor, Geography, Technology, and War: Studies in the Maritime History of the Mediterranean, Cambridge 1992, 135 ss. Circa la complessa natura della corsa medievale si veda D. Heller-Roazen, Dialectic of the Medieval Course, in Rethinking the New Medievalism, eds R.H. Bloch, A. Calhoun, J. Cerquiglini-toulet, J Küpper, J. Patterson, Baltimore (Md.) 2014, 69-84. Se una opera di sintesi sul tema della corsa medievale deve ancora essere pubblicata, non mancano eccellenti case studies in grado di offrire spunti di riflessione anche al di là della dimensione strettamente storiografica: si veda ad esempio A. Rovere, Un procedimento di rappresaglia contro Rodi (1388-1390), in Atti della Società Ligure di Storia Patria 23, 1983, 68-97.
[18] In C. Schmitt,
Il nomos della terra, cit., 212. In merito al
passo di Alciato, da ultimo E. Gelabert, Pirata minus
delinquit, quia in mare delinquit. Comercio,
corso y piratería en el mar de Poniente a fines del siglo XVI, in Fisco, legitimidad y conflicto en los reinos
hispánicos: (siglos XIII-XVII): homenaje a José Ángel Sesma Muñoz, coord.
por C. Laliena Corbera, M. Lafuente Gómez, A. Galán Sánchez, Zaragoza 2019,
253.
[19] C. Schmitt, Il nomos della terra, cit., 85 ss. Mi sia poi concesso rinviare a F. Ruschi, Questioni di spazio. La terra, il mare, il diritto secondo Carl Schmitt, Torino 2012, ove bib.
[20] Mi sia concesso rinviare a F. Ruschi, Questioni di spazio, cit., 250 ss.
[21] C. Schmitt, Il nomos della terra, cit., 83.
[22] Questo a partire dallo statuto dei nativi, su cui da ultimo L. Baccelli, Bartolomé de Las Casas. La conquista senza fondamento, Milano 2016.
[23] Si tratta di considerazioni già presenti in C. SCHMITT, Land und Meer. Eine weltgeschichtliche Betrachtung, Stuttgart 1954, trad. it., Terra e Mare, Milano 2002, in particolare 78 ss. In merito si vedano quanto meno A.A. Cassi, Ius commune tra vecchio e nuovo mondo: mari, terre, oro nel diritto della Conquista (1492-1680), Milano 2004, e L. Nuzzo, Il linguaggio giuridico della conquista. Strategie di controllo nelle Indie spagnole, Napoli 2004.
[24] C. Schmitt, Il nomos della terra, cit., 89.
[25] Ivi, 93.
[26] Ivi, 223, su cui quanto meno
P. Stirk, No Peace Beyond the
Line, in Spatiality, Sovereignty and Carl Schmitt. Geographies of the Nomos,
ed. S. Legg, Abingdon
2011, 276 s. Sulla prassi delle linee di amicizia cfr. da ultimo M. Netzloff, Lines of Amity. The
Law of Nations in the Americas,
in Cultures of Diplomacy and Literary Writing in the Early Modern World,
eds T.A. Sowerby, J. Craigwood, Oxford 2019, 54 ss.
[27] F.G. Davenport,
European treaties bearing on the history of the United States and its
dependencies, I, Washington 1917, 220, citato in W.G. Grewe, The Epochs of International
Law, cit., 55.
[28] C. Schmitt, Il nomos della terra, cit., 90 ss.
[29] C. Schmitt, Terra e mare, cit., 81 ss.
[30] C. Schmitt, Il nomos della terra, cit., 211 ss.
[31] W.G. Grewe,
The Epochs of International Law, cit., 260.
[32] Sul sistema economici imperiale si veda il
grandioso affresco contenuto in F. Braudel,
La Méditerranée et le Monde méditerranéen
à l’époque de Philippe II, Paris 1949, trad. it., Civiltà e imperi del Mediterraneo nell’età di
Filippo II, voll. I-II, Torino, 2002. La
storiografia, per altro, sembra confermare la interpretazione schmittiana, cfr. M. Acerra, G.
Martinière (dir.), Coligny, les Protestants
et la mer, Paris 1997, nonché P. Villiers, Les Corsaires du littoral: Dunkerque, Calais, Boulogne, de Philippe II à
Louis XIV (1568-1713), Villeneuve-d'Ascq 2000, 27 ss.
e, ancora, M. Augeron, D. Poton, B. Van Ruymbeke (dir.), Les huguenots et l'Atlantique, voll. I-II, Paris 2007. In chiave teologico-politica si veda poi O. Abel, L’ océan,
le puritain, le pirate,
in Esprit 356, 2009, 104 ss. ed ancora Id., Essai sur la prise. Anthropologie
de la flibuste et théologie radicale protestante, ivi, 111 ss.
[33] Sul nesso tra prassi delle linee di amicizia e stato di natura hobbesiano, C. Schmitt, Il nomos della terra, cit., 95 ss. In relazione al fenomeno della pirateria atlantica ed ai suoi risvolti sul piano storico-giuridico e filosofico-giuridico oltre a W.G. Grewe, The Epochs of International Law, cit., 304 ss. si vedano quanto meno D. Heller-Roazen, The Enemy of All. Piracy and the Law of Nations, New York 2009, trad. it., Il nemico di tutti. Il pirata contro le nazioni, Macerata 2009 e A. Policante, The Pirate Myth. Genealogies of an Imperial Concept, London 2015. Mi permetto di rinviare anche a F. Ruschi, Communis hostis omnium. La pirateria in Carl Schmitt, in Quaderni fiorentini per la storia del pensiero giuridico moderno, t. II, 38, 2009, 1228 ss. e a Id., Spazi anomici e nemici assoluti. Un itinerario di filosofia del diritto internazionale, in Quaderni fiorentini per la storia del pensiero giuridico moderno 47, 2018, 745 ss.
[34] Il significato storico del trattato, per altro, era ben più ampio, si veda C. Schmitt, Il nomos della terra, cit., 220.
[35] A. Gentili, De iure belli libri tres, II, 4. In merito si vedano M. Chadwick, Piracy and the Origins of Universal Jurisdiction. On Stranger Tides?, Leiden 2019, F. Iurlaro, Pirati, barbari e pastori. Tre figure al limite dell’humanitas nel pensiero di Alberico Gentili (1552-1608), in Historia et ius. Rivista di storia giuridica dell’età medievale e moderna 10, 2016, 1 ss.
[36] W.G. Grewe, The Epochs of International Law, cit., 160.
[37] C. Schmitt, Il nomos della terra, cit., 207.
[38] Ivi, 222 ss.
[39] Schmitt aveva già avuto modo di caratterizzare il ruolo storico dell’Inghilterra in Id., Terra e mare, cit., 53 ss.
[40] C. Schmitt, Il nomos della terra, cit., 215.
[41] Ivi, 216.
[42] Ivi, 148, ma si veda anche W.G. Grewe, The Epochs
of International Law, cit., 298 ss. Sul tema, un buon punto
di partenza è K. Stapelbroek,
Trade, Chartered Companies, and Mercantile Associations, in The
Oxford Handbook of the History of International Law, eds
B. Fassbender, A. Peters, Oxford 2012, 338 ss.
[43] La rilevanza del Navigation
Act non sfuggì al padre della geopolitica
navalista, Alfred Mahan. Nel classico The Influence of Sea Power Upon History,
1660-1783, si ricorda
come: «A century and a quarter later we find Nelson, before his famous career
had begun, showing his zeal for the welfare of England’s shipping by
enforcing this same act in the West Indies against American merchant-ships». Si
veda A.T. Mahan,
The Influence of Sea Power Upon History, 1660-1783, Boston 1890, 60. In merito alla figura
di Mahan infra § 4.
[44] Si veda C.L. Connery, Ideologies of Land and Sea:
Alfred Thayer Mahan, Carl Schmitt, and the Shaping of Global Myth Elements,
in Boundary 2. an international journal of literature and culture 28,
2001, 173 ss. ed in particolare
183.
[45] C. Schmitt, Il nomos della terra, cit., 207.
[46] S. Mannoni, Potenza e ragione. La scienza del diritto internazionale nella crisi dell'equilibrio europeo (1870-1914), Milano 1999, 206 ss.
[47] Da ultimo si veda G.A. Frei,
Great Britain, International Law, and the Evolution of Maritime Strategic
Thought, 1856-1914, Oxford 2020.
[48] M. Tuttle Sprout, Mahan: Evangelist of Sea Power, in Makers of Modern Strategy: Military Thought from Machiavelli to Hitler, eds E.M. Earle, G.A. Craig, F. Gilbert, Princeton 1943, 415. Di Mahan occorre quanto meno ricordare oltre al già citato A.T. Mahan, The Influence of Sea Power Upon History, cit. quanto meno anche Id., The Influence of Sea Power Upon the French Revolution and Empire, 1793-1812, Cambridge 1892. Su Mahan esiste una letteratura ingente, limitatamente alla produzione in lingua italiana e in riferimento alle ricerche più recenti cfr. P. Chiantera-Stutte, Il pensiero geopolitico. Spazio, potere e imperialismo tra Otto e Novecento, Roma 2014, 67 ss. e F. Lando, Per una storia del moderno pensiero geografico. Passaggi significativi, Milano 2020, 103 ss. Con particolare attenzione allo Schmitt lettore di Mahan cfr. M. Chiaruzzi, ‘Fas est et ab hoste doceri’. Motivi e momenti della prima geopolitica anglosassone, in Filosofia politica 25, 2011, 45 ss. e R. Laudani, Mare e Terra. Sui fondamenti spaziali della sovranità moderna, in Filosofia politica 29, 2015, 513 ss. In generale sul concetto di geopolitica navalista C. Jean, Guerra, strategia e sicurezza, Roma-Bari 1997, 138 ss.
[49] In merito alla influenza esercitata da Mahan sul dibattito giusinternazionalistico, S. Mannoni, Potenza e ragione, cit., 184 ss.
[50] T. Roosevelt,
The Naval War of 1812, New York 1882. Per
altro proprio Roosevelt nel 1898, allo scoppio della guerra con la Spagna, era Assistant
Secretary of the Navy.
Dal momento però che il suo diretto superiore, John Long, era afflitto da gravi
problemi di salute, Roosevelt, nei fatti si trovò ad avere la responsabilità
politica della marina statunitense. In merito al navalismo rooseveltiano cfr.
quanto meno H. Hendrix, Theodore
Roosevelt’s Naval Diplomacy. The
U.S. Navy and the Birth of the American Century, Annapolis 2014, nonché
E.J. Marolda (ed.), Theodore Roosevelt, the U.S.
Navy and the Spanish-American War, New York-Basingstoke 2016.
[51] In merito
al rapporto con Schmitt si veda l’autobiografico N. Sombart, Jugend
in Berlin, 1933-1943: ein Bericht,
Frankfurt a. M. 1991, parziale trad.
it., Passeggiate con Carl Schmitt,
Bologna 2011; ma anche M. Tielke (hrsg.), Schmitt und
Sombart. Der Briefwechsel von
Carl Schmitt mit Nicolaus, Corina und Werner Sombart, Berlin 2014. Sul rapporto tra Schmitt e Nicolaus Sombart si veda quanto
meno R. Mehring, Carl Schmitt.
Aufstieg und Fall. Eine Biographie, München 2009, engl. trans. Carl Schmitt. A Biography, Cambridge 2014, in
particolare 433-436, 475-477 e 517-518. Al pensiero schmittiano,
accusato di essere vittima di quel sentimento di Männerbund
che ha caratterizzato larga parte della Kultur
dell’età guglielmina, Sombart dedicherà N. Sombart, Die deutschen
Männer und ihre Feinde. Carl
Schmitt, ein deutsches Schicksal zwischen Männerbund und Matriarchatsmythos, 2a ed.,
Frankfurt a. M. 1997.
[52] Sulla componente hegeliana nel pensiero schmittiano per tutti C. Galli, Genealogia della politica, Bologna 2010.
[53] C. Schmitt, Il nomos della terra, cit., 384.
[54] Id., Terra e mare, cit., 104.
[55] Cfr. C. Schmitt, Terra e mare, cit., 99 ss. Sul rapporto tra tecnica e spazio si veda quanto meno C. Schmitt, Gespräch über den neuen Raum, in AA.VV., Estudios de Derecho Internacional en homenaje a Barcia Trelles, Santiago de Compostela 1958, trad. it., Dialogo sul nuovo spazio, in C. Schmitt, Stato, Grande spazio, Nomos, Milano 2015, 303 ss. Mi sia poi concesso rinviare anche a F. Ruschi, Questioni di spazio, cit., 239 ss. Su Schmitt e la verticalizzazione del potere determinata dall’avvento dell’aeromobile utili considerazioni in E. Sferrazza Papa, Nuovi spazi, nuove armi, vecchi nemici. Carl Schmitt e la critica filosofica del potere aereo, in Jura gentium. Rivista di filosofia del diritto internazionale e della politica globale 13, 2016, 1, 39 ss.
[56] G. Gurisatti, Dalla macchina di produzione alla macchina di comunicazione. Appunti sulla macchinazione tecnica tra Konservative Revolution e Kulturkritik, in Filosofia politica 32, 2018, 450.
[57] Sul nichilismo innescato dalla guerra nucleare si veda il classico N. Bobbio, Il problema della guerra e le vie della pace, Bologna 1979.
[58] C. Schmitt, Il nomos della terra, cit., 370 ss.
[59] Ivi, 381.
[60] E’ qui appena possibile richiamare quanto la dottrina espressa dal Presidente James Monroe nel 1823 abbia rappresentato una forte suggestione per Schmitt: questo a partire da C. Schmitt, Völkerrechtliche Formen des modernen Imperialismus, in Königsberger Auslandsstudien 8, 1933, poi in ID., Positionen und Begriffe im Kampf mit Weimar - Genf - Versailles, 1923-1939, Hamburg 1940, 162-180, trad. it., Forme internazionalistiche dell’imperialismo moderno, in C. Schmitt, Posizioni e concetti. In lotta con Weimar-Ginevra-Versailles 1923-1939, Milano 2007, 265 ss. e, più ampiamente, in C. SCHMITT, Völkerrechtliche Grossraumordnung mit Interventionsverbot für raumfremde Mächte. Ein Beitrag zum Reichsbegriff im Völkerrecht, Berlin-Wien-Leipzig 1941 trad. it., L’ordinamento dei grandi spazi nel diritto internazionale con divieto di intervento per potenze straniere. Un contributo sul concetto di impero nel diritto internazionale, in C. Schmitt, Stato, Grande spazio, Nomos, Milano 2015, 101 ss. Infine cfr. C. Schmitt, Il nomos della terra, cit. 368 ss. Per altro non era stato solo Schmitt a restare suggestionato da questa dottrina, cfr. P. Chiantera, Una dottrina Monroe per la Mitteleuropa. L'imperialismo tedesco tra l'età guglielmina e il nazismo, in Filosofia politica 4, 2015, 3, 427 ss.
[61] C. Schmitt, Il nomos della terra, cit., 383.
[62] E.H. Gould,
Zones of Law, Zones of Violence. The Legal Geography of the British
Atlantic, circa 1772, in The William and Mary Quarterly 60, 2003,
471 ss.
[63] Mi sia concesso rinviare a F. Ruschi, Ascesa e declino del corpus iuris spatialis. Un itinerario di filosofia del diritto internazionale, in Dirittifondamentali.it 9, 2020, 121 ss.