Note-&-Rassegne-2018

 

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Mura-V-presideLa Filosofia del diritto nella storia della Facoltà di Giurisprudenza dell'Università di Sassari [1]

A proposito del recente libro di Antonello Mattone sulla Facoltà giuridica sassarese[2]

 

 

VIRGILIO MURA

già Professore ordinario di Filosofia politica

e Preside della Facoltà di Scienze politiche

nell’Università di Sassari

 

 

1. – Il libro di Antonello Mattone è ponderoso e molto accurato, ricco di dati, d’informazioni e anche di testimonianze. Ponderoso in un duplice senso: nell’accezione letterale del termine, perché la carta pesa e il libro consta di oltre 1000 pagine; ma ponderoso anche in senso figurato per l’impegno che l’autore ha profuso nel portare a termine un’opera monumentale (e la fatica che indubbiamente gli è costata), perché è impressionante la mole dei documenti consultati e degli scritti esaminati.

storia-giurisprudenza - CopiaMi chiedo se sia stato dettato da una precisa scelta editoriale o da un’esigenza storiografica chiudere il libro alla fine degli anni ’60, perché gli ultimi tre decenni del XX secolo sono stati per la Facoltà di Giurisprudenza anni di crescita e di sviluppo, che andrebbero analizzati e ricordati. Basti pensare all’istituzione del corso di laurea in Scienze politiche, all’ampliamento e ringiovanimento dell’organico che ne è derivato, alla vivacità culturale che caratterizzò quel periodo e che riguardò anche il delicato tema dell’innovazione della governance interna (i famosi Consigli di Facoltà allargati). Basti pensare al livello e alla qualità del corpo docente e al fatto singolare che nei primi anni settanta insegnarono contemporaneamente tre giuspubblicisti – Gustavo Zagrebelsky, Valerio Onida e Ugo De Siervo – ognuno dei quali sarebbe poi diventato Presidente della Corte  costituzionale. Un primato che non so quante altre facoltà di giurisprudenza possano vantare. Senza contare che gli anni Settanta furono anni di semina, d’investimento nelle risorse umane, che diedero frutti nei decenni successivi. Mai la facoltà di giurisprudenza aveva avuto tanti professori ordinari locali quanti ne ebbe a partire dalla metà degli anni Ottanta.

Questa, beninteso, non è una critica, ma un invito a continuare e un augurio a completare l’opera.

 

2. – Per molti secoli, praticamente fino alla seconda metà del XIX secolo, l’insegnamento del diritto nella Facoltà di giurisprudenza, secondo tradizione, era riservato (o ridotto, scegliete voi) al diritto romano e al diritto canonico, cui si aggiunsero nel tempo il diritto commerciale e il diritto penale (p. 184).

Per avere un piano di studi organico e coerente bisogna aspettare il Regolamento universitario emanato nel 1876, che articolava il corso di laurea in quattro anni accademici e prevedeva il superamento di diciotto esami fondamentali, fra cui la filosofia del diritto, che però, osserva Mattone, «veniva considerata una disciplina secondaria» (p. 337), il cui insegnamento in quegli anni a Sassari era affidato per incarico a professori di altre materie, neppure affini: al civilista Antonio Piras (1871-73) e al docente di Scienze delle finanze Girolamo Pitzolo dal 1876 al 1878.

La storia della filosofia del diritto nella Facoltà di Giurisprudenza dell’Università di Sassari ha dunque poco più di un secolo, anzi meno di un secolo se ci atteniamo alla periodizzazione del libro di Mattone.

Per la verità, c’è pure un periodo di breve preistoria prima degli anni ’70 del XIX secolo, che, secondo M., sono anni di vita di grama per la Filosofia del Diritto che rischia perfino di scomparire per incorporamento o assorbimento in una strana disciplina denominata Introduzione enciclopedica delle scienze giuridiche (Ibidem).

La preistoria comincia (e finisce) con Pietro Esperson, dapprima incaricato nel 1860 e dall’anno successivo straordinario, che tiene l’insegnamento di filosofia del diritto fino al 1865, quando si trasferisce nell’Università di Pavia per insegnarvi diritto Internazionale. Oggi Esperson è ricordato come uno dei padri fondatori del diritto internazionale in Italia. La filosofia del diritto ha rappresentato nel suo curriculum solo una stazione di transito, in cui effettuare una breve sosta.

C’è da presumere che la vita grama per la disciplina, affidata per incarico a professori di altre materie non necessariamente affini, si sia protratta fino al 1882, quando vinse il concorso a professore straordinario Carmine Soro Delitala, che tenne l’insegnamento fino al 1896, anno in cui ottenne la cattedra di diritto amministrativo e scienza dell’amministrazione, che poi erano le discipline verso le quali aveva principalmente rivolto i propri interessi scientifici nel corso della sua carriera accademica. Soro Delitala insegnava filosofia del diritto, secondo un indirizzo vagamente positivistico, ma studiava le tematiche legate al campo del diritto amministrativo e della scienza dell’amministrazione, cui attengono la maggior parte dei suoi lavori.  Paradossalmente l’unica pubblicazione pertinente rispetto all’insegnamento è la voce “Filosofia del diritto” scritta per l’Enciclopedia giuridica italiana nel 1903-1904, sette anni dopo essere transitato alla cattedra di Diritto amministrativo. Troppo poco per essere etichettato, come riferisce Mattone, come un “filosofo amministrativista”, secondo l’improponibile ossimoro scelto dallo storico del diritto Giulio Cianferotti per definirlo (p. 346).

A Soro Delitala succede Salvatore Fragapane, che tiene la cattedra di filosofia del diritto dal 1900 al 1902.  Filosofo positivista, anzi “positivistissimo” come lui stesso amava definirsi, Fragapane è un rigoroso interprete di quell’indirizzo di pensiero antimetafisico, allora piuttosto diffuso, che concepiva la filosofia come una disciplina non speculativa, orientata a osservare i fatti e a spiegare i fenomeni reali secondo un’ottica e un approccio che ricalcavano, mutatis mutandis, il metodo scientifico. Di qui, fra l’altro, l’accusa di scientismo mossa ai positivisti dai cultori della filosofia tradizionale, ma anche un modo tipico di accostarsi allo studio del diritto, un modo molto simile a quello delle nascenti scienze sociali, tanto che non è azzardato considerare il positivismo come il lontano progenitore della sociologia giuridica, una disciplina che otterrà la piena cittadinanza nel mondo accademico italiano solo nella seconda metà del secolo XX per impulso, soprattutto, di Renato Treves.

La filosofia positivistica del diritto, di cui Fragapane è un’eminente esponente, non va, però, confusa con il positivismo giuridico. Entrambi gli indirizzi di pensiero condividono la medesima istanza antimetafisica e antigiusnaturalistica, ma si collocano agli antipodi per quanto riguarda l’approccio e la definizione dell’oggetto. A differenza della filosofia positivistica del diritto, che considera il fenomeno del diritto in relazione agli altri fenomeni sociali e opera dunque secondo un approccio in senso lato “contenutistico”, il positivismo giuridico si caratterizza invece per l’approccio formale allo studio del diritto e s’identifica, appunto, con il c.d. formalismo giuridico, una concezione monista, in quanto riconosce esclusivamente il diritto positivo, e, dunque, conseguentemente statualistica.

Nel 1900 Mattone registra a Sassari, dove consegue la libera docenza in Filosofia del diritto, la presenza di Francesco Cosentini, una singolare figura di operatore culturale, di matrice positivistica, impegnato su più fronti (da quello delle biblioteche a quello dei licei a quello editoriale); poliedrico e poligrafo, Cosentini appare sostanzialmente un divulgatore affetto da una leggera forma di grafomania.

Nell’a.a. 1904-05, fresco vincitore di concorso, arriva a Sassari Alfredo Bartolomei, che non fa in tempo nemmeno a disfare le valigie. L’anno successivo è già a Messina, anche perché il concorso sassarese era stato nel frattempo annullato per vizi di forma. Lascia, tuttavia, come segno della sua fugace visita, un saggio dal titolo Su alcuni concetti di diritto pubblico generale pubblicato su “Studi sassaresi” nel 1905, nel quale critica il dogma della personalità giuridica dello Stato.

Nel triennio 1906-09 la cattedra di Filosofia del diritto è tenuta da Giorgio  Del Vecchio, un giovane dal luminoso avvenire, destinato a diventare nei decenni successivi l’autentico dominus della filosofia del diritto in Italia.  E non mi riferisco solo, volgarmente, all’influenza che costantemente eserciterà nelle vicende concorsuali, ma soprattutto al fatto che, muovendo da premesse neo-kantiane e rivalutando il giusnaturalismo, fonda su nuove basi la disciplina, sottraendola all’egemonia esercitata dal positivismo. La svolta operata da Del Vecchio è annunciata in tre libri – I presupposti filosofici della nozione del diritto (1905), Il concetto del diritto (1906), Il concetto della natura e il principio del diritto (1908) - tutti pubblicati a cavallo o durante la sua esperienza sassarese. Autore prolifico e aperto al confronto internazionale – la maggior parte dei suoi libri sono tradotti in diverse lingue straniere – Del Vecchio non solo rinnova, ma sprovincializza la filosofia del diritto italiana. Nel 1921 fonda la “Rivista internazionale di filosofia del diritto” che dirigerà fino al 1938, l’anno nel quale per effetto delle leggi razziali sarà sollevato dall’insegnamento universitario, benché fosse un fascista militante. Al 1930 risale la prima edizione a stampa delle Lezioni di filosofia del diritto, un libro che conoscerà ben tredici riedizioni, un autentico manuale adottato nella maggior parte delle facoltà di giurisprudenza, non solo in Italia, sul quale si sono formate per oltre un trentennio intere generazioni di studenti.

Nel 1910 Giorgio Del Vecchio lascia il testimone ad Antonio Falchi, sassarese di nascita, proveniente dalla libera Università di Perugia, che terrà l’insegnamento di Filosofia del diritto fino al 1918. Studioso solido, di grande spessore e dai molteplici interessi culturali, Falchi amplia l’orizzonte della disciplina con frequenti incursioni nel campo della storia delle idee politiche. Inaugura questo filone di ricerca con la pubblicazione nel 1908 di un ponderoso volume intitolato Moderne dottrine teocratiche, nel quale affronta il tema, che sarà poi centrale nella filosofia politica, dei criteri di legittimità del potere e della loro validità o sostenibilità. Falchi continua a coltivare questo filone con studi su Zenone, Grozio e i fisiocratici, fino ad arrivare nel 1933 a dare un ordine sistematico e un quadro d’insieme all’intera materia, pubblicando un volume dal significativo (e impegnativo) titolo: Storia delle dottrine politiche.  Ma l’oggetto principale della riflessione di Falchi è un altro ed è strettamente collegato alla crisi del positivismo, la corrente filosofica alla base della sua formazione. Il tema centrale è lo statuto epistemologico della filosofia del diritto, il problema della sua peculiare identità da cogliere esaminando le connessioni e le differenze con la filosofia in generale, la scienza giuridica, la sociologia. In questo percorso, che lo allontana gradualmente (ma non definitivamente né radicalmente) dall’iniziale positivismo, Falchi propone una concezione non formalistica dello Stato, inteso non semplicemente come ordinamento giuridico, ma, come Stato-collettività, come “organizzata universalità dei cittadini” (un’espressione per la verità poco perspicua). Fermo oppositore del neoidealismo, sia nella versione crociana sia in quella gentiliana, nella ricerca di un nuovo approdo filosofico, Falchi riscopre Gianbattista Vico, che egli interpreta come un filosofo attento alla realtà empirica e allo svolgersi concreto della storia, un pensatore che, a suo giudizio, può essere considerato un antesignano delle moderne scienze sociali. Nel 1918 Falchi si trasferisce, dopo aver vinto l’apposito concorso, nell’Università di Parma, poi nel 1923 in quella di Cagliari e, infine, nel 1925 in quella di Genova dove rimase fino alla pensione. Rara avis. Non sono, infatti, frequenti i casi di professori di ruolo sassaresi che scelgono di proseguire la carriera in altre sedi.

Nell’a.a. 1921-22 è il turno di Benvenuto Donati, proveniente dell’Università di Perugia e con il biglietto già in tasca per Cagliari, dove approda l’anno successivo, prima di trasferirsi nel 1923 nell’Ateneo di Macerata e in seguito, nel 1925, in quello di Modena. Anche Donati, studioso di Ludovico Muratori e di Vico, è in cerca di una nuova strada per allontanarsi dall’iniziale positivismo che lo porta, passando per il criticismo neokantiano, a un’inedita (e poco frequentata) posizione filosofica che egli stesso definisce “idealismo gnoseologico”.

Dal 1922 al 1925 la Filosofia del diritto è priva di titolare: l’insegnamento viene svolto, se così si può dire, per incarico, dapprima dal Preside, Benvenuto Pitzorno, storico del diritto italiano, che si lamenta, come ricorda Mattone, di aver solo uno studente, peraltro neppure in regola con il pagamento delle tasse; poi dal processual-civilista Antonio Segni e infine, impegni permettendo, dal Rettore Giuseppe Castiglia, amministrativista.

Dal 1926 al 1932 l’insegnamento viene affidato per incarico al giovane Tommaso Antonio Castiglia, figlio di Giuseppe, che si fa da parte nel 1933, su sollecitazione del dominus Del Vecchio, per lasciare il posto a Giuseppe Capograssi, fresco vincitore di concorso, che rimane a Sassari fino al 1935.

Capograssi – il “più cristiano dei filosofi cristiani” secondo la definizione di Antonio Pigliaru – arriva in cattedra relativamente tardi, ma ha alle spalle numerose pubblicazioni, fra cui la trilogia che lo renderà celebre fra i giuristi cattolici del Novecento, costituita da Analisi dell’esperienza comune (1930), Studi sull’esperienza giuridica (1932) e Il problema della scienza del diritto, pubblicato nel 1936 ma già in fase di avanzata elaborazione e avviato a conclusione nel corso della breve stagione sassarese. In questo periodo Capograssi scrive  anche un saggio intitolato Alcune osservazioni sopra la molteplicità degli ordinamenti giuridici, pubblicato su “Studi sassaresi” nel 1936, che ripropone, dopo averlo riveduto e corretto, con un nuovo titolo (Note sulla molteplicità degli ordinamenti giuridici) nel 1939 sulla ”Rivista internazionale di Filosofia del diritto”. Si tratta di un saggio importante perché chiude un lungo dibattito incentrato, nella prima parte, sulla natura del diritto e, nella seconda, sul pluralismo giuridico, un dibattito che aveva preso le mosse dalla pubblicazione, all’inizio del secolo, dell’Ordinamento giuridico, il libro in cui Santi Romano espone in forma sistematica la propria teoria del diritto come istituzione, (un dibattito) che aveva coinvolto a più riprese, oltre che Vittorio Emanuele Orlando, la maggior parte dei filosofi del diritto italiani (Alessandro Bonucci, Giuseppe Maggiore, Vincenzo Miceli, Giorgio Del Vecchio, Sergio Panunzio, Angelo Ermanno Cammarata, Widar Cesarini Sforza, Arnaldo Volpicelli, Giacomo Perticone, Franco Asturi, Orazio Condorelli, Ennio Paresce, Vincenzo Viglietti). Capograssi svolge la propria tesi a favore del pluralismo giuridico, cioè della coesistenza all’interno di un medesimo contesto sociale di una molteplicità di ordinamenti giuridici, ma, a differenza dei monisti che ritengono che esista solo un tipo di diritto, quello posto dallo Stato, si scontra con la difficoltà di spiegare e giustificare l’esistenza delle associazioni criminali – che lui chiama eufemisticamente “bande di ladroni” – le quali si danno proprie regole di organizzazione e di condotta. Capograssi indica la soluzione nell’individuazione di un ordinamento universale, che contiene in sé l’intera esperienza giuridica e, dunque, valorizza il principio dell’unità, in base al quale sia possibile stabilire la compatibilità, la comparabilità e la gerarchia fra i singoli e diversi ordinamenti. In questo modo è possibile, secondo Capograssi, giustificare la soppressione da parte dello Stato delle organizzazioni criminali, che costituiscono una contraddizione vivente perché dal momento in cui nascono allo stesso tempo riconoscono e negano il valore dell’ordinamento universale. Questo è il loro peccato originale, perché l’ordinamento universale appartiene all’ordine naturale delle cose. Non è, quindi, difficile scorgere nella soluzione proposta da Capograssi l’impronta del giusnaturalismo tomista.

Dall’a.a. 1935-36 all’a.a. 1966-67 la cattedra di Filosofia del diritto è tenuta da Tommaso Antonio Castiglia, sul quale mi soffermerò tra poco, che ritorna a Sassari dopo l’esperienza nell’Università di Urbino dalla quale era stato chiamato nel 1934 dopo essere stato ternato nel concorso a professore straordinario bandito dall’Università di Ferrara.

Se si eccettuano i casi di Carmine Soro Delitala, Antonio Falchi e, appunto, Tommaso Antonio Castiglia, che detiene il record assoluto di permanenza, gli altri professori di ruolo che si sono succeduti nell’insegnamento di Filosofia del dritto, nel periodo preso in considerazione da Mattone, sono stati, a dir poco, delle meteore. Del resto Sassari era considerata una sede disagiata, difficile da raggiungere. Un conto è, infatti, fare il professore pendolare viaggiando con l’aereo, altro è farlo utilizzando la nave in un tratto di mare dominato dai forti venti occidentali. Inoltre, l’Università non era propriamente accogliente o allettante, come dimostra l’impietosa testimonianza, riportata da Mattone, di Arturo Carlo Jemolo che insegna a Sassari nel triennio 1920-23: Piazza Università poco illuminata e invasa dai cani randagi; l’Istituto giuridico che chiude prima delle 19,00 ed è privo della luce elettrica e del riscaldamento; i colleghi, spesso irreperibili, che discutono solo di concorsi e aumenti stipendiali; pochissimi studenti e massimamente restii alla frequenza – noto per inciso che niente fa sentire più inutile un professore della mancanza di un uditorio – in compenso molte vacanze: un mese per Natale, un mese per il carnevale, un mese per pasqua. Insomma, c’erano tutte le condizioni per scoraggiare la permanenza e per attivare le manovre per un rapido trasferimento. Ma non tutte le meteore sono uguali. Alcune, indirettamente e magari preterintenzionalmente, hanno lasciato un segno profondo e prodotto effetti duraturi. E’ il caso di Del Vecchio, attraverso Castiglia, e quello di Capograssi, attraverso Antonio Pigliaru.

 

3. – Di Tommaso Antonio Castiglia - TAC, come lo chiamavano affettuosamente gli studenti – Mattone ricostruisce minuziosamente le tappe della carriera accademica. Sottolinea l’importanza del periodo post-laurea trascorso a Berlino per specializzarsi sotto la guida di Rudolf Stammler, riferisce dell’adesione alla scuola di Del Vecchio e delle vicende concorsuali, descrive la genesi e il contenuto delle sue pubblicazioni e, en passant, ricorda anche alcuni atteggiamenti bizzarri o stravaganti legati allo svolgimento dell’attività didattica e al giudizio magnanimo sull’esito degli esami degli studenti. Fra questi atteggiamenti, l’abitudine di far lezione stando zitto. Citando la testimonianza di Mario Segni, relativa all’a.a 1959-60, Mattone racconta che Castiglia andava in aula con un magnetofono portatile, il famoso Geloso dai tasti colorati, in cui aveva registrato le lezioni e che poi si limitava a premere l’apposito tasto d’avvio invitando gli studenti a imitarlo, cioè ad ascoltare in silenzio. Posso confermare la veridicità del resoconto perché anch’io nell’a.a. 1963-64 ho vissuto la medesima esperienza.  Se non avessi avuto in seguito occasione di sentirlo dal vivo, avrei conservato la falsa impressione che il prof. Castiglia avesse una voce gracchiante.

Dei tre libri scritti da Castiglia il più importante è sicuramente Stato e diritto in Hans Kelsen, pubblicato nel 1932 (e ristampato nel 1936).  Il pregio maggiore del libro consiste nel fatto che è la prima monografia sul pensiero di un autore, destinato a diventare uno dei massimi esponenti della teoria del diritto nel Novecento, che in Italia è, però, se non totalmente ignorato, ancora pressoché sconosciuto. Il suo limite principale, ma Castiglia non ne ha colpa, è che si tratta di un libro che esce nel momento sbagliato. Kelsen, infatti, pubblica nel 1933 in diverse lingue (compreso l’italiano) la prima edizione della Reine Rechtslehere, l’opera che completa e definisce compiutamente la sua teoria del diritto. Quando Castiglia nel 1936 ristampa il suo libro (e in questo caso ha qualche responsabilità), il libro è già vecchio, già superato. Il secondo lavoro monografico di Castiglia è del 1934 ed è intitolato L’esperienza giuridica e il concetto di Stato, un’opera costruita intorno alle linee teoriche tracciate da Del Vecchio e perciò considerata scarsamente originale, più espositiva che critica. Il terzo libro è in realtà un lungo saggio che esce nel 1938, col titolo L’esperienza giuridica e le regole della vita, che avrà scarsa circolazione, come spiega lo stesso Castiglia, “per le circostanze dipendenti dal periodo prebellico e bellico”. Lo scritto, come del resto indica il titolo, contiene continui ed espliciti rinvii all’opera di Capograssi. Su suggerimento di Del Vecchio, Castiglia nel 1958 lo ripropone tale e quale, tranne il titolo che diventa Studi sulla realtà giuridica, sulla RIFD, rinviando a un secondo volume, che non uscirà mai, l’aggiornamento bibliografico e premettendo, secondo me con un pizzico di sana autoironia, che si tratta di un lavoro che è il frutto «di venti anni di meditazione» e di «un sofferto pensare su gli stessi problemi perenni della filosofia giuridica».

A proposito di questo libro ho un aneddoto da raccontare, che mi coinvolge, ma che rivela anche un aspetto non secondario della personalità di Castiglia. L’episodio risale ai primi giorni di novembre del 1967. Castiglia era andato fuori ruolo l’1 novembre ed io dovevo laurearmi il 6. Il mio relatore era Antonio Pigliaru, che però era stato ricoverato a Roma, al Gemelli, ed era perciò impossibilitato a intervenire alla seduta di laurea. Pigliaru pregò Castiglia di sostituirlo e Castiglia accettò di buon grado. Andai a casa sua per portargli copia della tesi che riguardava, guarda il caso, Il concetto dello Stato in Capograssi. Dopo i primi convenevoli prese la tesi, lesse il titolo e mi domandò a bruciapelo: “Mi hai citato?”. Rimasi di sasso, ero convinto di aver fatto un lavoro molto accurato, anche dal punto di vista bibliografico, ma non lo avevo citato, che avesse scritto su Capograssi mi era sfuggito. Imbarazzatissimo farfugliai delle scuse, ma Castiglia, leggendomi in viso lo sgomento, m’interruppe dicendomi di non preoccuparmi. Per la verità non disse proprio così, anche se il concetto era lo stesso. Usò una colorita espressione sassarese, mi disse: “affuttidinni”. Poi prese un estratto dello scritto incriminato, vi appose una dedica e me lo donò. Mi disse in sassarese di non preoccuparmi, non tanto per tranquillizzarmi, certo anche per questo, quanto e soprattutto per comunicarmi che lui rimaneva indifferente rispetto alla mia disattenzione, insomma che si sentiva superiore a certe piccolezze che il vanitoso mondo accademico in genere non perdona.

 

4. –  Mattone dedica un intero capitolo del suo libro, l’ultimo, a illustrare la figura di Antonio Pigliaru, filosofo del diritto, organizzatore di cultura, testimone del tempo.

Pigliaru diventa assistente ordinario di Filosofia del diritto nel 1950 - e bisogna dare atto a Castiglia per la scelta oculata – e nel 1965 professore straordinario di Dottrina dello Stato, disciplina che insegnava per incarico dal 1963. Muore nel 1969, alle soglie della maturità, a soli 46 anni.

Sono intervenuto sul pensiero e l’opera di Pigliaru in molte e diverse occasioni. Qui, oggi, mi limito a ribadire che è stato uno studioso esemplare, lucido e penetrante, un intellettuale eticamente e generosamente impegnato sul piano civile, come testimoniano le lotte ideali e le numerose iniziative culturali che l’hanno visto protagonista, a conferma di una sensibilità e un’apertura non comuni verso i più delicati problemi del proprio tempo.

 Questi tratti della figura di Pigliaru sono presenti nel profilo che ne traccia Mattone, che è molto accurato e pressoché esauriente. Per integrare il quadro posso riferire di alcuni episodi che riguardano il mio personale rapporto con Pigliaru, scusandomi se dovrò ancora parlare anche di me, episodi che né Mattone né altri conoscono, perché non sono riportati in nessun documento ufficiale, ma che possono essere utili per meglio cogliere la misura della sua statura intellettuale e morale.

All’indomani della laurea, dopo la sua dimissione dall’ospedale, nel corso di un cordiale colloquio Pigliaru mi chiese che cosa intendessi “fare da grande”. Gli risposi, senza rendermi conto che potevo dargli un dispiacere, che desideravo andare a Torino per studiare filosofia con Norberto Bobbio. Mi rispose: “La filosofia la può studiare anche qui, con noi”. Lo disse con un sorriso che non era di circostanza, ma di compiacimento. Non si era sentito né offeso né sminuito dalla mia scelta e, anzi, scrisse una lettera di presentazione da consegnare brevi manu a Bobbio, senza la quale, probabilmente, il mio rapporto con Bobbio non sarebbe mai nato. Mi sono sempre chiesto quale altro professore, nella medesima circostanza, sarebbe stato capace di avere lo stesso atteggiamento e di fare altrettanto.

Non solo non si sentì ferito nell’orgoglio professionale, ma nel 1968 Pigliaru si adoperò per farmi ottenere un assegno biennale di addestramento didattico e scientifico, sapendo che avrei continuato a fare la spola fra Sassari e Torino e che l’assegno costituiva un supporto finanziario necessario per consentirmi, appunto, di continuare a fare la spola. Nell’autunno dello stesso anno mi propose di scrivere un lavoro insieme, l’ultimo progetto di ricerca, in ordine di tempo, elaborato da Pigliaru. Si trattava di comparare le due edizioni del saggio di Capograssi sulla molteplicità degli ordinamenti giuridici, dal quale Pigliaru aveva tratto ispirazione per l’elaborazione della Vendetta barbaricina come ordinamento giuridico, il suo libro più famoso. A me spettava di registrare tutte le varianti, anche quelle minute, anche quelle ortografiche. Lui si era riservato il compito, una volta esaminate le varianti, di scrivere “un capo” e “una coda”. Avevo cominciato a realizzare le prime schede quando Pigliaru venne a mancare. Chiusi la cartella e la riposi in un cassetto, anche perché non avevo idea di quali fossero “il capo” e “la coda” che Pigliaru aveva in mente. Ho ripreso il lavoro di schedatura molti anni dopo, l’ho concluso e ho aggiunto un “capo” e una “coda”, presumibilmente lontani dal modo in cui Pigliaru li avrebbe scritti. Ma non è detto che, solo per questo, li avrebbe disapprovati. Era abituato (e abituava) a pensare liberamente; ed era coerente con se stesso nel rispettare la libertà e il pensiero altrui.  Ho pubblicato il lavoro nel 1979, nel decennale della sua morte. Mi pareva di doverglielo.

Nel caratterizzare la presenza e il peso che molti professori di filosofia del diritto hanno avuto nel loro transito sassarese ho fatto ricorso a una metafora astronomica: ho parlato di meteore. Per tentare un confronto, continuando nella metafora, a proposito di Pigliaru si dovrebbe ricorrere alla categoria delle stelle fisse. Infatti, com’è noto, la luce emessa dalle stelle fisse continua a essere visibile ancora per molti anni dopo la loro scomparsa.

 

 

 



 

[1] Relazione presentata al convegno scientifico tenutosi il 4 maggio 2018 nell'Aula Magna dell'Università degli studi di Sassari.

[2] ANTONELLO MATTONE, Storia della Facoltà di Giurisprudenza dell’Università di Sassari (secoli XVI-XX), [Studi e ricerche sull’università – Collana del Centro interuniversitario per la storia delle università italiane, diretta da Gian Paolo Brizzi], Bologna, Società Editrice il Mulino, 2016, pp. 1037. ISBN 978-88-15-26674-3.