Università di Sassari
La libertas che in legibus
consistit *
SOMMARIO: 1. Tema, tesi e percorso di verifica. – 1.a. Tema. Nesso di libertà e legge nella
organizzazione collettiva. – 1.b. Tesi. Il vero «römischer
Freiheitsbegriff» è non “la libertà la cui essenza
è la limitazione, data dalla legge” ma “la libertà la
quale consiste nella legge”. – 1.c. Percorso
di verifica. Individuazione
degli elementi costitutivi della dottrina contemporanea e suo esame, per la
riapertura della riflessione. – 2.
’700. Ricostruzione
scientifica e riproposizione normativa del «modello» giuridico
romano nella dialettica rivoluzionaria. – 2.a. Obiettivo. Ricerca della libertà in relazione alla legge nella
organizzazione collettiva. – 2.b. Metodo
scientifico comune. Individuazione della
alternativa tra due «modelli» giuridici-storici di organizzazione
collettiva: «inglese-moderno» e «romano-antico». – 2.c. Risultati scientifici contrapposti. Giudizi di valore su ciascuno dei due
«modelli», e loro rispettive ricostruzioni – 2.d. Risultati normativi contrapposti. Conseguenti proposizioni di due tipi di
Costituzione: «rappresentativa» e «democratica» – 3. ’800.
Costruzione scientifica dell’ «heutiges römisches Recht»
per l’ordine unico post- e contro-rivoluzionario. – 3.a. Obiettivo. Affermazione di un unico concetto
possibile di libertà, di legge e, dunque, di organizzazione collettiva. – 3.b. Metodo. Progressive cancellazione del modello giuridico-storico romano-antico
e assolutizzazione di quello inglese-moderno. – 3.c. Primo risultato (storiografico). Affermazione della ineluttabilità
della «libertà dei moderni» contro la
ri-proponibilità della «libertà degli antichi». – 3.d. Ulteriore
risultato (giuridico/romanistico). Affermazione della necessità della
«persona giuridica» astratta per la concezione unitaria della
organizzazione collettiva e – quindi – della
«rappresentanza» come suo regime. – 4. ’900. Applicazioni
normative e romanistiche (con qualche voce dissenziente) della costruzione
scientifica ’800esca. – 4.a. Prima
applicazione normativa (sul piano della concezione della collettività). «Juristische Person» del BGB
(1° gennaio 1900) in luogo della «société» del
Code Napoléon. – 4.b. Ulteriore
applicazione normativa (sul piano del
regime della collettività). «Ripudio della sovranità assembleare dei soci»
nell’Aktiengesetz (1937). – 4.c. Insegnamento
romanistico diffuso. Regime
rappresentativo di societates, collegia, res publicae e huiusmodi
corpora, in quanto persone giuridiche astratte. – 4.d. Insegnamento romanistico minoritario. Estraneità al Diritto romano del
regime rappresentativo della collettività e della sua concezione come
persona giuridica astratta. – 5. Per andare oltre. Dalla osservazione storica
della competenza delle assemblee alla sua interpretazione giuridica. – 5.a. Domanda. Nella esperienza romana, il regime delle organizzazioni collettive
è il comando dei “rappresentanti” che limita la
libertà dei “rappresentati” oppure è il comando dei
soci che ne costituisce la libertà? – 5.b. Sorprendente (?) risposta storiografica. Costante competenza
«legislativa» delle assemblee municipali e collegiali. – 5.b.α. Municipia. – 5.b.β. Collegia. – 5.c. Interpretazione giuridica. Scansione dell’atto volitivo (anche)
collettivo, in iussum generale dei soci domini e administratio/negotiatio dei loro
mandatari subalterni, e costruzione della collettività, propriamente
societaria e a più livelli. – Abstract.
La ‘questione’ della libertà non esiste
fuori della organizzazione collettiva e non esiste organizzazione collettiva
senza tale questione. Tra libertà e organizzazione collettiva, il
termine medio è la legge.
Secondo Marc. D.
40.5.53 pr. libertas non privata sed
publica res est[1]. Con Gai. D. 3.4.1, dobbiamo, però,
considerare che la organizzazione collettiva è il luogo privilegiato di
incontro della positio studii del privatum ius con la positio studii del publicum
ius. Come emerge da questo importantissimo testo giurisprudenziale (sul
quale dovremo tornare) la organizzazione “delle societates, dei collegia
e simili” (huiusmodi)
è “ad exemplum rei publicae”
ovverosia “tamquam in re publica”
(cioè, si badi: il municipium).
Nella dottrina romanistica possono trovarsi due opposti
concetti della libertà, i quali sono dati dalle opposte collocazioni
della legge tra libertà e organizzazione collettiva. Li ìndico
sùbito, in prima approssimazione, facendo riferimento a due scritti
novecenteschi.
Il primo «concetto romano di libertà»
(‘primo’ non soltanto in ordine di tempo ma anche, e di gran lunga,
per sèguito e diffusione della sua affermazione romanistica) è
che la essenza della libertà consiste nell’essere
«limitata». Tale concetto è esemplarmente formulata nei Prinzipien des
römischen Rechts (1934) di Fritz
Schulz, secondo cui «Dem römischen Freiheitsbegriff ist die
Begrenzung immanent»[2]. La
«limitazione» è fornita dalla legge.
A indizio – seppure flebile – della esistenza
romanistica di un diverso «concetto romano di libertà» (in
particolare e di un altro concetto di libertà in generale) posso citare
lo scritto giovanile (1973) di un nostro Collega, secondo cui, nella
«pubblicistica dei populares»[3], la libertas è opposta al dominio di
un gruppo oligarchico ed è la effettiva partecipazione dei cittadini alla
vita della Repubblica (per la verità, il nostro Collega scrive
«dello Stato»), garantita dalle leggi, dalle assemblee popolari e
dal tribunato. Tra questa libertà e questa legge corre un rapporto di
(seppure parziale) identità, che qualifica entrambe[4].
In altri termini (come meglio vedremo) ai due diversi
concetti di libertà corrispondono due diversi concetti di legge e quindi
due diverse costruzioni giuridiche. La prima ‘costruzione’ è
che la legge è il comando sui membri della collettività e,
pertanto, comporta la limitazione della loro libertà (e richiede la
propria limitazione). La seconda è che la legge è il comando dei
membri della collettività su se stessi e, pertanto, ne è la
libertà.
La mia tesi è che il nostro Collega –
individuando il ‘secondo’ concetto di libertà – ha
più ragione di quanto egli stesso credesse. Il concetto di
libertà da lui individuato è, infatti, quello che si trova anche
in Cicerone: legum […] omnes servi sumus ut liberi esse possīmus (pro Cluen. 146 [66 a.C.]) e libertas in legibus consistit (de l. agr. 2.102 [63 a.C.]). Ovverosia: essere nella potestà della legge consiste
nell’essere nella propria potestà (rep. 1.47 nulla alia in
civitate, nisi in qua populi potestas summa est, ullum domicilium libertas
habet). Cicerone non appartiene al ‘partito’
dei populares e, pertanto, questo
concetto di libertà (e di legge) si candida sùbito ad essere
quello proprio non soltanto del circoscritto pensiero giuridico di quel
‘partito’ ma di tutto il pensiero giuridico romano.
Per comprendere la- e orientarsi nella contrapposizione
romanistica di nozioni di libertà (nonché di legge e delle
costruzioni giuridiche di cui quelle sono rispettivamente parte) è
necessario tenere conto in maniera complessiva del pensiero e della prassi
giuridici contemporanei. Infatti, il diritto della epoca contemporanea nasce e
si svolge espressamente nella comune impostazione
e nelle diverse soluzioni del problema di soddisfare collettivamente la domanda
di libertà.
Gli elementi costitutivi della dottrina contemporanea su
libertà e legge nella organizzazione collettiva, sono numerosi anche se
il loro apparire non è sincronico. Tali elementi sono, innanzi tutto
– e, quasi, ovviamente – i temi della difesa e dell’esercizio
della libertà, rispettivamente vincolati al contenuto e alla formazione
della legge. Insieme, essi costituiscono il regime (volitivo) della
organizzazione collettiva, a sua volta vincolato alla concezione di questa.
Sono ulteriori elementi della dottrina gli approcci scientifico e normativo a
quei temi, dai punti di vista gius-pubblicistico e gius-privatistico. Possiamo,
quindi, così complessivamente elencare tali ‘elementi’: α) gli aspetti “della difesa della libertà, come contenuto
della legge” e “dell’esercizio della libertà, come
formazione della legge”, β)
i piani del regime volitivo e della
concezione della organizzazione collettiva, γ) gli approcci
scientifico (storico, oltre che giuridico) e normativo, δ) i punti-di-vista
gius-pubblicistico e gius-privatistico. Di tutti questi ‘elementi’
occorre tenere e dare ordinatamente conto.
Inoltre, pure trattandosi di un ‘problema’ (la
soddisfazione collettiva della domanda di libertà) il quale si deve e si
vuole risolvere positivamente, esso è affrontato, in entrambi i primi
due secoli della epoca in esame (’700 e ’800) attraverso lo studio
del Diritto romano: in maniere sempre determinanti ma tra loro profondamente
diverse in ciascuno di tali due secoli. Nella Francia rivoluzionaria del
’700, il Diritto romano è considerato universalmente
«modello» giuridico-storico di democrazia. Per tale (inquietante)
ragione, esso è avversato dal «padre del pensiero liberale»,
il «moderato» Montesquieu[5], e
dai suoi seguaci/epigoni, i quali tutti gli preferiscono il modello
giuridico-storico parlamentare inglese. Per la medesima ragione, il
‘modello giuridico-storico romano’ è, invece,
particolarmente studiato e riproposto dal «padre della democrazia
contemporanea», Jean-Jacques Rousseau[6], e
(se possibile, in maniera ancora più inquietante) tradotto (almeno
tentativamente) dai rivoluzionari Giacobini nella unica «costituzione
democratica contemporanea»[7]. Nella
Germania post-rivoluzionaria dell’ ’800, questa fondamentale
contrapposizione è programmaticamente «dimenticata» dalla
scienza giuridica (tutta rigorosamente romanista) mediante la scrittura di un
Diritto romano «heutig», inedito o inaudito, cui (con grande
raffinatezza) viene fatta assume proprio la fisionomia di
‘precedente’ del proprio antagonista storico e dogmatico.
La soddisfazione
della domanda di libertà resta (e non può essere diversamente) il problema giuridico (variamente
formulato) di questi nostri giorni. La scienza giuridica si riconosce e si
dichiara, però, ora (per la prima volta, dopo tre secoli di ricerca)
incapace di risolverlo: «bloccata»[8]. La
causa del riconosciuto e dichiarato «blocage» è nella
operazione romanistica ’800esca e nella, conseguente, dissociazione
’900esca dello studio del Diritto romano (reso ‘storico’ in
senso deteriore) dai «problemi» di diritto positivo[9]. Per
lo ‘sblocco’ della scienza e della prassi giuridiche cioè
per la riapertura della riflessione (de
iure condito e condendo) sul
problema della libertà, della organizzazione collettiva e della legge,
lo studio del Diritto romano deve tornare a svolgere, oggi, il proprio ruolo
essenziale.
Durante il ’700, l’obiettivo dichiarato e
perseguito della transizione (“rivoluzionaria”) dai culmine e crisi
dell’ ‘Ancien Règime’ della ‘Monarchie
absolue’[10] alla affermazione del nuovo
“règime constitutionnel”[11]
è la libertà.
L’obiettivo della libertà è
prioritariamente e diffusamente individuato nell’aspetto della sua
«difesa», mediante la «limitazione del potere»
considerato nel suo contenuto[12].
Però, una parte della scienza giuridica del
’700 (proprio ricorrendo al Diritto romano) afferma che tale
‘aspetto’ (per quanto importante) è soltanto integrativo
dell’aspetto invece «costitutivo» che è
l’esercizio della libertà come specifico modo di formazione della
«legge». È la ‘parte’ scientifica la quale
ragiona su questo altro aspetto della libertà ad esplicitarne il
«principio» (contrattuale) e la traduzione non soltanto sul piano
del regime ma anche sul piano della concezione della collettività.
Durante l’intero ’700, il metodo utilizzato
nella ricerca della libertà è da tutti condiviso.
Tutta la ricerca avviene all’interno di- ed è
promossa da una cultura, la quale ritiene di trovare nelle istituzioni
giuridiche (e guardando, per ciò, alla loro storia) le soluzioni dei
problemi (che oggi diremmo) ‘socio-economici’. Si tratta di una
cultura la quale comprende e governa (o, quanto meno, tenta di comprendere e
governare) la realtà per mezzo della scienza giuridica in prospettiva
storica.
Tutta la ricerca, inoltre, è dialettica. Nella sua
prima fase, prevalentemente scientifica, la ricerca ricostruisce e confronta
tra loro «modelli» organizzativi giuridici-storici. Questi sono
– secondo tutti i ‘ricercatori’ – due e soltanto due:
il modello della Costituzione inglese-moderna e il modello del Diritto
romano-antico, sulle cui caratteristiche rispettive c’è
sostanziale convergenza. Nella seconda fase, prevalentemente normativa, la
ricerca approda alla costruzione di due conseguenti tipi di
“costituzione”.
Il punto di vista, che anima la ricerca, è, dunque,
‘costituzionale’, cioè eminentemente gius-pubblicistico.
Tuttavia, quando si interroga sul “principio” su cui fondare la
propria ri-costruzione, la ricerca guarda – come si è detto
– alla materia contrattuale, il cui rapporto con il punto di vista
gius-privatistico è evidente.
La unicità dell’oggetto e la condivisione del
metodo della ricerca (sia pure già con specificità non
insignificanti fra le due linee che la animano) sfociano, però, in
divergenza antitetica sui ‘giudizi di valore’ espressi nei
confronti dei due «modelli» giuridici-storici[13].
Nel 1748, il Barone di Montesquieu (nel famosissimo saggio
significativamente intitolato Esprit des
lois) afferma che i Romani hanno ridotto l’Europa in servitù e
ricostruisce e propone, per il ripristino della libertà, il
“modello” inglese-moderno («feudale») di
“costituzione” [14].
Egli ne individua l’elemento essenziale nella difesa della
libertà. Questa consiste nella divisione di tre poteri –
legislativo, esecutivo e giudiziario – tra uomini o gruppi di uomini, tra
loro non diversi per gerarchia ma in un equilibrio interattivo/paritario, senza
del quale «tout serait perdu»[15]. Ciò
significa la limitazione (anche) del potere legislativo, nel suo contenuto, e
ne postula la sottrazione al Popolo e la assegnazione a un gruppo di uomini
«rappresentanti del Popolo», il Parlamento, nella sua formazione[16].
Nel 1762, il Cittadino di Ginevra Jean-Jacques Rousseau
(nel saggio altrettanto famoso e altrettanto significativamente intitolato Contrat social), premesso che «le
seul principe» d’organizzazione il quale non sacrifica la
libertà è il contratto di società[17], afferma che gli
Inglesi credono di essere liberi ma si sbagliano fortemente e ricostruisce e
propone, per il ripristino della libertà, il modello romano-antico
(«repubblicano») di diritto. Egli ne individua l’elemento
essenziale nell’esercizio della libertà. Questo consiste nella
formazione della legge (intesa come comando generale) ad opera dei
soci/cittadini su se medesimi, ai quali è (dunque) inibito il governo
(inteso come esecuzione particolare della legge) assegnato invece a magistrati
subordinati al Popolo[18]. Ciò comporta una istituzione
«non constitutive» (ma tutt’altro che superflua della
Repubblica): la magistratura del tribunato, la quale, collocata con il proprio
potere di «empêcher» nello snodo volitivo tra cittadini-sovrani
e magistrati-governanti, ne conserva l’equilibrio[19].
Come si vede, in entrambe le antitetiche ricostruzioni
scientifiche sono presenti entrambi gli aspetti della libertà (difesa ed
esercizio) e della legge (contenuto e formazione) ma con ordini logici ed
espositivi nettamente diversi in conseguenza di una profonda differenza metodologica.
L’inizio della esposizione montesquieuiana, dalla difesa anzi che
dall’esercizio della libertà, è reso possibile dal fatto
che Montesquieu, limitandosi a descrivere il funzionamento del modello giuridico-storico
inglese-moderno, può indifferentemente iniziarla da qualsiasi suo
elemento. Per ciò, duramente, il costituzionalista Raymond Carré de
Malberg scrive che «la théorie de Montesquieu sur les trois
pouvoirs est, à certains égards, une construction en l'air. Le chapitre de la Constitution d'Angleterre raisonne sur les titulaires de ces
pouvoirs [...] en prenant ceux-ci tels qu'il les trouve historiquement
constitués. Mais,
rationnellement, d'où ces autorités tirent-elles leur
puissance?»[20]. Viceversa, Rousseau ricostruisce il
“modello” giuridico-storico romano-antico con il rigore
argomentativo di un teorema, a partire dal “principio del contratto di
società” (senza il quale la
‘ricostruzione’ cadrebbe e la sua proposizione sarebbe infondata) e
il prodotto primo di tale contratto
è la essenziale competenza auto-normativa dei propri membri.
Tuttavia, «campata in aria» è la
ricostruzione montesquieuiana del modello inglese non il modello stesso. Quando
Montesquieu scrive l’EdL, da
circa un secolo il “sistema rappresentativo” è stato
definito sui piani sia della concezione sia del regime della
collettività e ne è stato fornito il ‘principio’.
Quest’ultimo è il «pactum
unionis», cui, nel 1651, Thomas Hobbes attribuisce la produzione non
di una società concreta ma di una «persona artificialis» astratta: il «Leviathan»,
titolare del potere collettivo esercitato necessariamente (data la astrazione)
dalle persone fisiche sue «rappresentanti»[21]. Non
è, però, questione di nomi ma di regimi. È in polemica con
Hobbes (e con Grotius) che Rousseau attribuisce al «contrat social»
la produzione di un «Corps social» concreto: l’insieme
unitario dei soci, titolari del potere collettivo, che essi posso esercitare ed
effettivamente esercitano (con la «cooperazione» di magistrati ad
essi subalterni). I due “principi” (il pactum unionis e il ‘contrat social’) possono apparire
simili (e, infatti, sono troppo spesso indicati come tali) ma sono
profondamente diversi. Lo dimostrano, i tra loro antitetici concezioni e
– soprattutto – regimi unitari delle collettività
rispettivamente prodotte. La astrazione, operata da Hobbes e dai suoi aventi
causa, della collettività è espressa non nel nome attribuitole[22] ma nella sua necessità di essere
“rappresentata” rovescio della sua impossibilità a volere
essa stessa così come, specularmente, la sua concretezza è
espressa nella sua possibilità di volere essa stessa il cui rovescio
è la impossibilità di essere rappresentata. La buona prassi della
cautela nel ricorso alla categoria “persona giuridica” (e alle sue species tra cui principalmente
“Stato”) a proposito della esperienza giuridica romana è
conseguenza del significato di “astrazione” da tale categoria oramai assunto.
I due, tra loro alternativi, sistemi giuridici, tratti da
due, tra loro alternativi, modelli storici, vengono tradotti – nel corso
della Rivoluzione – in due, sempre tra loro alternativi,
‘tipi’ di “costituzione”. Il primo, in ordine di tempo,
è quello (ancora monarchico) di ispirazione montesquieuiana e di modello
inglese, i cui testi normativi chiave sono la Déclaration des Droits de l’Homme et du Citoyen
dell’’89 e la Constitution
del ’91 [23]. Il secondo (ma il primo
“repubblicano”) è quello di ispirazione rousseauiana e di
modello romano, i cui testi normativi chiave sono la Déclaration des Droits de l’Homme et du Citoyen e la Constitution, entrambi del ’93 [24].
Con questi testi normativi, il percorso del dibattito
’700esco è completato, sebbene non chiuso.
Anche in entrambe le ‘traduzioni
costituzionali’ sono presenti entrambi gli aspetti della libertà,
la sua difesa e il suo esercizio, e i corrispondenti aspetti della legge, contenuto
e formazione. La combinazione di questi ‘aspetti’ costituisce i due
pilastri costituzionali della formazione della legge e del ‘sistema delle
garanzie’.
A proposito della difesa della libertà, la formula,
la quale sintetizza i termini del dibattito scientifico ’700esco e i suoi
sbocchi normativi, è stata enunciata nel ’93 da Maximilien
Robespierre, precisamente illustrando il proprio progetto di Costituzione. Tale
formula, spogliata delle valutazioni politiche del proprio autore e ridotta
alla pura ricostruzione giuridica-storica, è: «Jusqu’ici,
les politiques, pour défendre la liberté, n’ont pu imaginer
que deux moyens […] L’un est l’équilibre des pouvoirs,
et l’autre le tribunat.» Il primo «mezzo» è
proprio del «modello» giuridico-storico inglese, il secondo
«mezzo» è proprio del «modello»
giuridico-storico romano. Robespierre disprezza – credo, a ragione
– il primo mezzo, «combinaisons qui balancent
l’autorité des tyrans», ma neppure si fida – credo, a
torto – del secondo, «[tribuns] hommes faibles ou
corruptibles»[25].
A proposito dell’esercizio della libertà, i
termini del dibattito scientifico ’700esco e i suoi sbocchi normativi
sono invece sintetizzabili nei due contrapposti sillogismi già
annunciati in limine alla presente
riflessione (§ 1.c). Il primo
sillogismo è: la legge è il comando dei rappresentanti sui
cittadini e, pertanto, ne limita la libertà. Il
secondo sillogismo è: la legge è il comando dei soci-cittadini su
se medesimi e, pertanto, ne è la
libertà”.
In effetti, la Dichiarazione
dell’ ’89, agli artt. 4 e 5, pone la «limitazione»
(«les bornes») dentro la definizione stessa della libertà e
individua la provenienza di tale limitazione nella legge (la libertà
consiste nel fare ciò che non è «proibito dalla
legge»)[26]. La Costituzione del ’91 attribuisce il potere/dovere di fare la
legge esclusivamente al Parlamento[27]. La
stessa Costituzione è opera esclusiva di rappresentanti[28].
Invece, la Dichiarazione
del ’93, agli artt. 6 e 9,
rimuove la idea della ‘legge limite della libertà’[29]. La
coeva Costituzione attribuisce il
potere/dovere di fare la legge esclusivamente al Popolo dei Cittadini,
riuniti nelle “Assemblee
primarie” dei (alla epoca circa 44.000) Comuni della Repubblica[30]. La
stessa Costituzione è
approvata da tali Assemblee[31].
Tra le due Costituzioni,
quella di «modello» inglese e quella di «modello»
romano, la differenza – incentrata sulla libertà – è,
come si vede, sostanziale: si tratta
delle traduzioni normative di due «sistemi» giuridici tra loro
propriamente alternativi.
Lo scontro tra i sostenitori dei due tipi di costituzione
si svolge anche materialmente, sia con il “Terrore” sia con le
“guerre di Napoleone” («Robespierre à
chéval» [secondo M.me de Staël] e «der letzte Kampf des
revolutionären Terrorismus gegen die gleichfalls durch die Revolution
proklamierte bürgerliche Gesellschaft und deren Politik. [il quale] an die Stelle der permanenten
Revolution den permanenten Krieg setzte» [secondo Karl Marx e Friedrich
Engels][32]).
Il – già menzionato – fenomeno generale della
a-sincronia[33] di elaborazione degli
elementi integranti il ‘discorso’ sulla libertà si manifesta
non soltanto nell’approccio scientifico[34] ma
anche in quello normativo. Dal punto di vista gius-pubblicistico, le due
“soluzioni” si confrontano compiutamente già alla fine del
secolo XVIII, attraverso i due “tipi” costituzionali. Dal punto di
vista gius-privatistico, invece, le due “soluzioni” arriveranno a
confrontarsi compiutamente soltanto nella prima metà del secolo XX. Inizialmente appare il Code Civil del 21 marzo 1804 (30 ventoso dell’anno XII)
voluto da Napoleone (così come il Code
de Commerce del 16/09/1807 - 01/01/1808 e altri) e del quale è nota
(ed è stata anche recentemente ripensata) la matrice romana[35]. La
codificazione privatistica di ascendenza – diciamo in prima
approssimazione – ‘montesquieuiana’ apparirà un secolo
dopo (a coronamento del lavoro scientifico nel quale emerge l’opera di Friedrich Carl von Savigny) con il BGB del 18 Agosto 1896 - 1° gennaio 1900
e, ancora più tardi, con l’Aktiengesetz
del 30 gennaio 1937[36].
All’interno del punto di vista gius-pubblicistico, un
altro fattore di a-sincronia è ravvisabile nella trattazione della
‘federazione’. Nella fase scientifica, tale trattazione è
soltanto accennata ed espressamente rinviata da Rousseau, nella linea sepre
della esperienza romana (e della sua elaborazione, che comprende la dottrina di
Althusius)[37]. Nella fase legislativa, il
“federalismo” introdotto con la Costituzione federale USA (adottata
dalla” Convenzione di Filadefia” il 17 settembre 1787) è il
primo e massimo della esperienza inglese[38]
nonché quello oggi dominante in regime di sostanziale monopolio.
Nell’ ’800, la ricerca dialettica e quindi
dinamica della libertà è soppiantata da una sua affermazione
monista e quindi statica.
Può essere utile, qui, ricordare che, durante
l’ ’800, anche nella Europa continentale – ancora centro del
mondo cosiddetto ‘occidentale’ – la dialettica
‘politicamente’ rilevante si trasferisce dal campo della scienza
giuridica al campo della scienza economica. Questa sottrae a quella lo status di strumento privilegiato per la
comprensione e il governo (ovvero i tentativi di comprensione e governo) della
realtà umana e della sua dinamica. Il diritto è declassato a
«Überbau»[39].
La concezione monista e statica della libertà e, con
essa, di tutto il diritto, che l’ ’800 produce e trasmette, non
è, però, terza rispetto al dilemma oggetto della dialettica
’700esca. Essa (in linea con la nuova dialettica a epistemologia
economica, la quale esclude la opzione giuridica democratica)[40], fa
proprio e assolutizza uno dei due termini di quel dilemma: il
‘termine’ dichiaratamente anti-democratico, costituito dal modello
giuridico-storico inglese-moderno.
I tentativi ’800eschi di continuare la proposizione
normativa del modello giuridico-storico romano-antico attraverso la sua
interpretazione scientifica ’700esca resistono soltanto nel periodo
iniziale del secolo e (forse per il principio di conservazione proprio delle
aree periferiche)[41] in
aree geo-politiche lontane, come l’America Latina di Simón
Bolívar e di José Gaspar de Francia[42].
La transizione dal dibattito rivoluzionario ’700esco
all’ordine ’800esco[43]
inizia già nella fine del ’700, con la liquidazione materiale dei
sostenitori del “modello giuridico-storico romano-antico”.
Robespierre, arrestato il 9 Termidoro del secondo anno della Repubblica (27
luglio 1794) è ghigliottinato l’indomani. 20 anni dopo, il 18
giugno 1815, si conclude, con la sconfitta di Waterloo, l’avventura
napoleonica.
La transizione procede immediatamente con una fase normativa di
diritto pubblico (costituzionale) che, come è stato osservato, è
troppo elementare per meritare la spesa di molte parole[44]. Si tratta semplicemente della abrogazione delle
Dichiarazione e Costituzione del ’93 e del ritorno (a partire già
dalla Dichiarazione e Costituzione del ’95 e sino ad oggi)[45] alla
adozione del modello giuridico-storico inglese-moderno. Nella Repubblica Francese
è vigente la Dichiarazione dell’ ’89. Peraltro, gli Stati
Uniti d’America mai hanno smesso di essere retti dalla Costituzione
dell’ ’87, anche essa di modello inglese-moderno[46].
Né occorrono né vi saranno apporti innovativi sostanziali.
Questi apporti ci saranno invece
– ma un secolo dopo – nella normazione di diritto privato,
preceduti e preparati da una lunga fase scientifica,
proporzionalmente elaborata e importante. Essa ha due momenti, nel primo dei
quali si ricorre prevalentemente alla epistemologia storica e nel secondo
prevalentemente a quella giuridica: operando, pertanto, con strumenti distinti
ma con risultati convergenti.
Nel primo ‘momento’, il modello giuridico-storico
romano-antico è dichiarato obsoleto e il modello giuridico-storico
inglese-moderno è dichiarato attuale, precisamente in materia di
libertà. L’argomento di fondo della operazione è la
ineluttabilità del «progresso» dall’
«antico» al «moderno», anche in tale materia[47].
Nel secondo ‘momento’, il modello
giuridico-storico romano-antico è, addirittura, cancellato con la
tecnica più efficace da sempre (dalle tavolette cerate ai
‘files’ informatici): mediante la sopra-scrittura. L’altro
modello giuridico-storico, quello inglese-moderno, è scritto su di esso.
L’argomento di fondo della operazione è la necessità della
«astrazione» della organizzazione collettiva per la sua concezione
unitaria[48].
Il primo ‘momento’ si esprime, in particolare,
nell’opera di Benjamin Constant e, ancora più in particolare, in
una sua lezione, impartita il 13 febbraio 1819, nel quadro di un corso tenuto
all’Athénée royal di Parigi e intitolata De la liberté des Anciens
comparée à celle des Modernes, la quale diverrà parte
del suo Cours de politique
constitutionnelle.
In tale non ineccepibile
ma fortunatissima lezione, Constant (1767-1830: uomo di formazione
’700sca e oracolo riconosciuto del pensiero liberale dell’
’800) propone una sintesi e un bilancio del dibattito ’700esco
sulla libertà (e, con ciò, sulla legge e sulla organizzazione
collettiva)
introducendovi, però, forti novità.
Con Constant prende forma compiuta e avanza la idea che
l’esercizio collettivo della libertà, come partecipazione al
comando legislativo pubblico, sia incompatibile con la garanzia
dell’esercizio individuale della libertà, come svolgimento dei
negozi privati. Una asserita unilateralità antica, tutta sbilanciata sul
pubblico, è contrapposta a un asserito equilibrio moderno di limitazione
alla libertà individuale da parte della legge, fatta dai rappresentanti,
e di limitazione al potere legislativo di questi a vantaggio dei rappresentati[49].
È rimossa la memoria del paradigma antico (in particolare romano) di
esercizio integrato (collettivo e individuale) della libertà (per mezzo
delle leges publicae e privatae) plasticamente evidente nella
civilizzazione del mercato, collocato nel cuore della Città, e nella
funzionalità di quello alla vita pubblica, manifestata
nell’istituto del trinundinum,
per cui i Cittadini discutono tra loro contestualmente e con uguale autonomia
di leges publicae e di negotia privata.
La novità descrittiva è
‘spiegata’ con la novità interpretativa, per la quale il
giudizio di valore tra le «due libertà» coincide con la loro
relazione temporale («degli Antichi» e «dei Moderni»)
la quale si afferma essere governata dalla regola del «progresso»;
regola non introdotta da Constant[50], ma
cui Constant fa compiere la missione reazionaria per la quale era stato
concepita. Per questa ‘regola’, la «libertà degli
Antichi» diventa, in quanto tale, «antidiluviana» (Karl Marx)[51] e
«morta» (Juan Bautista Alberdi)[52].
Pensare che gli Antichi avrebbero potuto già volere e/o avere la
libertà e la legge dei Moderni o che i Moderni potrebbero ancora volere
e/o avere la libertà e la legge degli Antichi è oramai,
‘storicamente’, inammissibile. La “Storia secondo
Constant” (la «Geschichte des menschlichen Geistes»
dirà Georg Wilhelm Friedrich Hegel nelle Vorlesungen
über die Philosophie der Geschichte) trascorre ineluttabilmente
dall’una all’altra libertà secondo una direzione
indefettibile.
La ‘querelle’ delle “due
libertà” resta fissata nei termini bizzarri propostine da
Constant, sia nella prassi contemporanea (come nella contrapposizione
“Socialismo vs Mercato”) sia nella filosofia contemporanea (come ci
ricordano gli epigoni ’900eschi di Constant, quale Isaiah Berlin: Two Concepts of Liberty, Oxford 1958).
La “lezione” storica di Constant sulle
«due libertà» ha fornito un contributo non soltanto alla
dimenticanza giuridica ’800esca dell’intero dibattito ’700esco
sui due «modelli» costituzionali, ma resta funzionale a tale ‘dimenticanza’.
Nel generale risultato scientifico ’800esco
(di affermazione del “modello” giuridico-storico inglese-moderno e
di liquidazione del “modello” giuridico-storico romano-antico) lo specifico
risultato giuridico segue (nel tempo) ma va oltre (nei contenuti) lo specifico
risultato storiografico.
Nei nuovi testi «di
Pandette», sulla concezione unitaria della organizzazione collettiva come
societas/corpus (societas dunque
concreta: corporalis) viene
sopra-scritta la concezione unitaria della organizzazione collettiva come
«persona giuridica astratta». Corrispondentemente, sul regime
unitario consistente nell’iter
volitivo della societas/corpus, articolato in comando
legislativo della assemblea dei soci e in esecuzione amministrativa/negoziale
dei suoi magistri/magistratus, viene sopra-scritto il
regime unitario consistente nell’atto volitivo dei
«rappresentanti» della persona giuridica.
Come
abbiamo detto, per la concezione unitaria della organizzazione collettiva, il
concetto di persona giuridica astratta (con il nome, si noti, di «persona artificialis»)[53]
già era stata impiegata a metà del ’600, in maniera
determinante, nell’àmbito della riflessione gius-pubblicistica
inglese, in particolare hobbesiana[54].
Tale riflessione (in sintonia forse con l’asserito pragmatismo
anglosassone) appare seguire un percorso il quale va dalla propria teleologia
al proprio postulato. Cioè, in tale riflessione, la affermazione della
necessità del “capo”[55]
per assicurare alla collettività un regime volitivo unitario (ovverossia
la affermazione della necessità della spogliazione dei membri della
collettività del potere decisionale che la concerne) precede la
affermazione della necessità della loro astrazione per conquistarne la
concezione unitaria. La dottrina di Hobbes fornisce la base non soltanto alla
dottrina di Montesquieu[56]
ma anche a quella dei romanisti tedeschi dell’ ’800. Questi
però (in sintonia forse con l’asserito dogmatismo teutonico)
appaiono ordinare il discorso, mettendo il postulato della concezione astratta
della collettività davanti alla teleologia del suo regime
rappresentativo.
Si
tratta, però, di mera ‘apparenza’. Senza il
“principio” del «pactum
unionis» postulato da Hobbes (il quale porta dritto alla
necessità del ‘capo’) la asserzione della necessità
della «astrazione» per conseguire la «unità»
nella concezione della collettività (comunque smentita dal dibattito
’700esco)[57]non
ha più fondamento della
omologa asserzione montesquieuiana.
In ogni
caso, nell’ ’800, tale concezione della collettività
(«smaterializzata» per essere «una» e quindi bisognosa
di un «rappresentante/sostituito» che ne è anche il
«capo»)[58]
viene attribuita già al Diritto romano privato e pubblico (in luogo e a
obliterazione, cioè, del contratto di società, produttivo del
corpo sociale [concreto], operante mediante l’iter volitivo della sua assemblea domina e dei suoi servi
magistri/magistratus).
Per conseguire questo risultato, occorre riscrivere
il Diritto romano fino ad allora noto e, dunque, occorrono romanisti alla
altezza del còmpito. Spiccano tra essi Friedrich Carl von Savigny e Theodor Mommsen.
La operazione di riscrittura è effettuata da
entrambi i punti-di-vista: gius-privatistico e gius-pubblicistico.
A Savigny (System des heutigen römischen Rechts, 1840-48)[59] si
deve, anche e anzi soprattutto dal punto di vista gius-privatistico, lo
sviluppo in termini di assolutizzazione (cioè non più soltanto
come istituto di ascendenza e connotazione germaniche-feudali) della concezione
della collettività come astratta persona giuridica, «soggetto
artificialmente creato dalla legge»[60], con la implicita cancellazione della sua
concezione come concreta “società-corpo”.
A Savigny viene riconosciuta
anche la paternità di un balzo in avanti qualitativo nella teorizzazione
della rappresentanza (del resto, ora necessaria)[61]. Tuttavia, Savigny non si è ancora
sbarazzato della memoria del regime volitivo consistente nell’iter volitivo articolato nel
«comando» (iussum =
Befehl) da parte del dominus al
proprio subalterno e nella conseguente esecuzione (administratio, negotiatio)
da parte di questo[62]. La memoria del regime alternativo a
quello della rappresentanza costituisce una grave falla della complessiva costruzione
dottrinaria di questo stesso giurista. A ‘turare’ la falla
sarà chi (come, ostentando una non-motivata sicurezza, fa Bernhard
Windscheid [1866]) esclude che lo iussum
del pater e/o del dominus possa essere un
«comando» rivolto – in quanto tale – al figlio o al
servo, il quale amministra/negozia per lui, e afferma invece trattarsi
solamente di una «autorizzazione» rivolta – in quanto tale
– a terzi[63]. È notevole che, nello stesso anno
della formulazione della nuova dottrina dello iussum da parte di Windscheid, sia stata formulata la nuova e
omologa dottrina del mandatum da
parte di Paul Laband. Come Windscheid nega il rapporto di primum movens dello iussum del pater/dominus con la administratio/negotiatio del filius/servus, così Laband nega il medesimo
rapporto tra il mandatum e la procura[64]. La “percezione” della novità della
dottrina di Windscheid e Laband si avvantaggia dell’immediato confronto
tra la traduzione da parte di Gluck e Savigny della parola iussum con la parola «Befehl» e la sua negazione da
parte di Windscheid. Per la "comprensione" di tale 'novità' è però più utile
– seppure meno immediato – il suo confronto con dottrina esposta
circa 10 anni prima da Rudolf von Hiering della relazione tra mandante e
mandatario in termini di «cooperazione»: «Mandatar und
Stellvertreter […] bezeichnen sie selbst da, wo beide Begriffen im
einzelnen Fall zusammentreffen, zwei völlig verschiedene Seiten des
Verhältnisses» (R. v. Jhering,
“Mitwirkung für fremde Rechtsgeschäfte” in Jahrbücher
für die Dogmatik des heutigen römischen und deutschen Privatrechts,
Bd. 1, 1857, 313). La
novità – come è stato scritto recentemente da uno
specialista del diritto commerciale positivo – è la
«affermazione dell’autonomia del potere di rappresentanza dal contenuto
di potere gestorio»[65]. Il
ruolo di obliteratore ultimo e decisivo della complessa tecnica democratica
repubblicana è svolto, cioè, da chi, come Windscheid e Laband, si
fa carico di cancellare i segni del suo elemento strutturale e dinamico
più intimo: la divisione/scansione dell’atto di volontà
nell’iter volitivo articolato
in iussum del dominus mandante e administratio/negotiatio del subalterno
mandatario-procuratore. Dalla specola della logica pandettistica, la combinata
precisazione di Windscheid e Laband è una esigenza assoluta ma, dalla
specola della logica tout court, essa
è una forzatura evidente. Tale ‘precisazione’ conclude la
– altrimenti inconclusa: ‘fallata’ – costruzione
savignyana: il mattone-chiave della Baliverna pandettistica.
Nel
System di Savigny, accanto al
prevalente punto-di-vista gius-privatistico, trova spazio pure quello
gius-pubblicistico[66]. Specularmente, nella produzione
scientifica di Mommsen, di cui è anche nota la formazione pandettistica[67], la monumentale opera di ricostruzione del
«diritto dello Stato romano»[68] inizia e finisce
con due scritti, i quali trattano di associazioni essenzialmente private: De collegiis et sodaliciis Romanorum
(1843) e Zur Lehre der römischen
Korporationen (pubblicato postumo: 1904).
Come nel dibattito ’700esco, il percorso
scientifico mommseniano affronta i temi della concezione e del regime della
organizzazione collettiva prendendo le mosse dal tema della libertà,
precisamente dall’aspetto del suo esercizio.
Nel 1849,
all’indomani della dichiarazione dei “Grundrechte des deutschen
Volkes” (da parte della "deutsche konstituierende
Nationalversammlung", riunita nella Paulskirche di Francoforte, dal 18
maggio 1848 sino al 31 maggio 1849)[69] il Mommsen
giovane aveva scritto, in Die Grundrechte
des deutschen Volkes mit Belehrungen und Erläuterungen, che «Was
das freie Versammlungs- und Vereinigungsrecht zu bedeuten hat und wie wichtig
es für die Freiheit ist, weiß ja jedes Kind und ist nicht
nötig, viel davon zu sagen»[70].
Conseguentemente, Mommsen dedica grande attenzione
alla formazione della legge. Nel 1893, il Mommsen anziano
(il quale ha oramai tradotto in compiuta ri-costruzione storica-dogmatica la
affermazione giovanile) scrive, nell’Abriss
des römischen Staatsrecht (l’opera che sostanzialmente conclude
la riflessione romanistica ’800esca e che è pensata per le
esigenze dei giuristi positivi)[71]: «Handlung der Gemeinde ist eine jede,
welche […] von dem Vertreter selbst oder in seinem Auftrag vollzogen wird»[72]; «Entsprechend der lex privata ist die lex
publica die magistratische Festsetzung irgend welchen Inhalts»[73]; «Die Magistratur, die Verkörperung
des Staatsbegriffs und die Trägerin der Staatsgewalt kann hienach nicht
gefasst werden als rechtlich beruhend auf dem Gesammtwillen der Bürgerschaft,
da dieser ja für sich allein überhaupt nicht wirksam werden kann;
vielmehr ist nach der römischen Auffassung die römische Magistratur
älter als die Volksgemeinde, welche sie erst erschafft, und das Mandat,
ohne welches allerdings eine Vertretung überall nicht gedacht werden kann,
geht von dem Vormann an den Nachfolger, welche bei dem Zwischen- Königthum
näher zu erörternde Ordnung sich bis zum Eintritt des Principats auch
thatsächlich ununterbrochen behauptet hat»[74].
Sempre nell’Abriss, anzi nella prima riga della prima pagina, Mommsen scrive
(con il tono solenne confacente alla formulazione del fondamentale postulato da
cui discende l’intero teorema con tutti i suoi corollari): «das römische Staatsrecht […] wie alles
Recht den Staat voraussetzt»[75].
La lunga – oltre che vasta – opera
mommseniana parte dunque dal problema della libertà vista
nell’aspetto dell’esercizio e lo ‘risolve’ nella
concezione astratta e nel regime rappresentativo della organizzazione collettiva.
Su questo ultimo e decisivo elemento si appunta la
critica immediata. Come ha osservato Guglielmo Nocera[76] il
romanista danese Johan Nikolai Madvig, nella “Einleitung” alla
propria Verfassung und Verwaltung des
römischen Staates,1881[77], denunzia la «mancanza
della base indispensabile» di una esposizione del Diritto pubblico romano
la quale (come quella di Mommsen) inizia dalla magistratura lasciando da parte
il Popolo.
Eppure, per compiere questa
costruzione, Mommsen si limita ad applicare il «sistema» di Savigny
con le integrazioni di Windscheid e Laband alla lettura delle fonti del diritto
pubblico romano. Non è forse un caso che, a esempio delle proprie
innovazioni, Mommsen (nel “Vorwort” della prima edizione del Römisches Staatsrecht) menziona
piuttosto la cancellazione della precedente interpretazione romanista
dell’istituto di difesa della libertà, il Tribunato, e la
introduzione di una sua interpretazione assolutamente altra[78].
Preparata dalla elaborazione pandettistica, la
prima traduzione di diritto privato, della
opzione normativa di diritto pubblico impostasi dopo il 1794, coincide con
l’inizio del XX secolo.
Nel BGB -
Bürgerliches Gesetzbuch
(il codice di diritto civile del
Deutsches Reich, frutto di 20 anni di lavoro, sottoscritto il 18 luglio 1896
dal Kaiser Wilhelm II ed entrato in vigore il 1° gennaio 1900) la materia delle
società è posta sotto il titolo “Juristische
Personen” (Titolo 2 del Libro 1 “Allgemeiner
Teil”, Abschnitt 1 “Personen”; il
Titolo 1 è “Naturliche Personen”)[79].
La innovazione
è palese: nel 1804, il Code
Napoléon trattava ancora la materia “Des Engagements des
Associés à l’égard des Tiers” come sezione II
del capo III “Des Engagements des Associés entre eux et à
l’égard des Tiers” del titolo III.IX “Du Contrat de
Société”. In Francia, il tema della
“persona giuridica”, non trattato nel Code Napoléon,
sarà affrontato legislativamente soltanto – si noti –
con la “loi spéciale” del 1° luglio 1901.
Inoltre, è fatto sparire il nesso tra mandato e
procura. Anche qui, per misurare la novità, basta confrontare confronta
l’incipit dell’art. 1984
del Code Napoléon (Titre XIII.
“Du
mandat" - Ch. I.er "De la nature et de la forme du mandat"
– 1984. «Le mandat
ou procuration etc.») con
quello dell’art. 164 del BGB
(Titel 5 "Vertretung und Vollmacht" - § 164 "Wirkung der Erklärung des Vertreters" cpv. 1
«Eine Willenserklärung, die jemand innerhalb der ihm
zustehenden Vertretungsmacht im Namen des Vertretenen abgibt, wirkt unmittelbar
für und gegen den Vertretenen.»). Definirei questa novità come transizione dalla logica
dell’agire per mezzo di altri alla opposta logica dell’agire per
altri.
Innovazione normativa non meno importante e perfettamente
conseguente a quella introdotta nella concezione delle società civili
con il BGB, è quella
introdotta nel regime delle società commerciali con la “Gesetz
über Aktiengesellschaften und Kommanditgesellschaften auf Aktien”.
Nel 30 gennaio 1937, l’Aktiengesetz
riforma l’HGB - Handelsgesetzbuch del 10 maggio1897, sostituendo il
«principio della sovranità assembleare», su cui ancora la
«società per azioni del XIX secolo si era basata», con la
regola della concentrazione del potere deliberativo negli
«amministratori». Nel regime/ordinamento precedente, «i soci
assommavano in sé, riuniti in assemblea, tutti i poteri sociali,
compresi quelli relativi all’esercizio dell’impresa; gli
amministratori erano, per contro, semplici esecutori delle deliberazioni
assembleari, ai quali potevano essere imposte direttive e impartiti ordini su
ogni atto di gestione della società». Con la riforma del
’37, «Gli amministratori tendono ad affrancarsi dalla direzione e
dal controllo degli azionisti, a presentarsi come una
“tecnostruttura” che si auto coopta e che si fa arbitra a propria
discrezione, delle sorti dell’impresa». E’ degno di nota che
«In gran Bretagna e negli Stati Uniti il fenomeno non forma oggetto di
diretta regolazione legislativa» dato «un non più operante
(o non più adeguatamente operante) controllo [da parte] degli
azionisti» e che «l’esautoramento dell’assemblea raggiungerà
l’estremo [?] limite in Olanda, dove la riforma del 1971 priva
l’assemblea del potere di nominare gli amministratori, cui è dato
cooptarsi periodicamente, su semplice proposta dell’assemblea»[80].
Si noti anche qui che il Code de Commerce francese del 1807 (redatto proprio per allineare
la disciplina delle società per azioni ai principi ispiratori del Code Napoléon) affermava
«il principio della “sovranità” dell’assemblea
[dei soci]: in questa è riposta la fonte di ogni potere di direzione
dell’impresa; gli amministratori altro non sono se non “mandatari
temporanei, revocabili, soci o non soci, salariati o gratuiti” (art. 31);
ad essi, come a qualsiasi mandatario, l’assemblea degli azionisti
può imporre direttive e ordini»[81].
La
riforma del ’37 marca la storia e il sistema del diritto commerciale
mondiale. Essa è stata definita «rivoluzione manageriale» ed
è stata descritta come «separazione fra proprietà e
funzione del capitale». Per quanto innovativa sul piano del regime, essa
è lungi dall’entrare in contraddizione con la scienza giuridica
’800esca; anzi, la postula collocandosi in una linea di
«accentuazione della personalità giuridica»[82]. La
riforma del ’37 può essere considerata il punto di arrivo
normativo del processo iniziato quasi esattamente due secoli prima con la
riflessione scientifica dell’EdL,
nel 1748, allineando – cioè infine – il regime volitivo delle organizzazioni
collettive private a quello pubblico ‘di modello inglese’ –
invece già –
perfezionato nel ’700.
Galgano scrive direttamente di «analogie […] fra la
costituzione dello Stato e quella della società per azioni».
Riprendendo una osservazione iniziale (vedi, supra,
§ 1.b) è opportuno rammentare che solo tre anni
prima (nel 1934) erano stati pubblicati i Prinzipien des römischen Rechts di Fritz
Schulz (sorta di condensato in pillole [«Prinzipien»] del System savignyano e dello Staatsrecht mommseniano). In essi, il capitolo dedicato alla “Libertà” inizia attribuendo al concetto romano di
questa la medesima idea di limitazione affermata nella Déclaration del 1789. La novità è che, mentre
i legislatori del 1789 volevano riprodurre il “modello”
costituzionale inglese contro il “modello” giuridico del popolo
romano, il romanista del 1934 scrive di Diritto romano[83]. Corrispondentemente, il regime volitivo societario
sancito nel 1937 espropria i soci del potere decisionale a favore dei
rappresentanti esattamente come nella Costituzione anti-romanista del 1791.
Alla base dell’Aktiengesetz
è però la elaborazione del «diritto romano attuale».
La
scienza romanistica, anche recente, in materia di societates, collegia, res publicae (municipia e coloniae) e huiusmodi corpora, nella trattazione dei
loro organizzazione e funzionamento, appare condividere la riflessione
scientifica ’800esca e corroborarne gli esiti normativi
proto-’900eschi.
Sul
piano della concezione della organizzazione collettiva, ciò è
dimostrato nel modo più evidente proprio dalla dottrina di Riccardo
Orestano, il quale, più che ogni altro, ha, nel secolo scorso, vagliato
la corrispondente riflessione ’800esca. La dottrina di Orestano, resta
perfettamente in linea con lo specifico monismo di quella riflessione,
integrandolo piuttosto di un percorso «evolutivo». Secondo
Orestano, infatti, i giuristi romani, sino al «diritto
giustinianeo», hanno compiuto gran parte del- se non tutto «il
lento e faticoso processo di astrazione
e di unificazione [i corsivi sono
miei] che porta all’idea di una personalità corporativa».
Orestano sostiene questa tesi nel 1959, ma lo fa citando uno scritto di Emilio Betti
del 1935, il quale ripete un concetto già presente – ad esempio
– in Otto Gierke (1902). Orestano è, quindi, ripreso da Francesco
Galgano, nel Trattato di diritto civile,
scritto nel 2010. E’ una continuità degna di nota[84].
La continuità della dottrina ’900esca rispetto
a quella ’800esca appare anche sul piano del regime. Presso la scienza
romanistica del secolo scorso e ancora degli inizi del secolo in corso, gli
studi (i quali, peraltro, si sono recentemente moltiplicati) sulla volizione
delle organizzazioni collettive di tutte le species
del genus associativo (civitates comprese) concentrano la
propria attenzione sul ruolo dei loro magistri
e magistratus, semplicemente e quasi
innocentemente disinteressandosi del ruolo delle loro assemblee. In questo
filone di studi si colloca la dottrina dello «schiavo manager»[85],
soltanto apparentemente alternativa all’istituto della rappresentanza e
in realtà sorta di ‘via romana’ verso di essa (come
già la dottrina di Orestano per l’istituto della persona giuridica).
La dottrina del «servus manager»
(nella quale echeggiano dottrine storiche, giuridiche ed economiche
’8-900sche: la “forma di produzione schiavistica”[86] e la
“rivoluzione manageriale”[87]) ha
il merito di insistere sul dato – trasmessoci dalle fonti antiche –
della natura servile degli amministratori delle imprese collettive romane. La
non-attenzione per la azione volitiva dei soci («smaterializzati»)
conduce però quella dottrina al risultato secondo cui, per il Diritto
romano, la conduzione delle – anche delle più grosse –
imprese collettive sarebbe tout court ‘in mano’ a degli schiavi.
Già nel 1922, un grande romanista prima che grande
sociologo, Max Weber, aveva rilevato: il carattere anti-democratico, la
datazione moderna e la origine geo-culturale inglese della rappresentanza della
volontà. Secondo Weber, infatti, le organizzazioni rappresentative sono
non democratiche ma plutocratiche (come in Inghilterra) perché il
rappresentante regolarmente eletto non è vincolato ad alcuna istruzione
ma è dominus unico della
propria condotta, egli dipende soltanto dal proprio neutro convincimento e non
dagli interessi espressi dai propri deleganti, dei quali è il signore
(Herr) eletto, non il servitore (Diener) e tutto ciò è proprio
della modernità. Questa tesi è trattata da Weber non ampiamente e
credo dipenda dalla rapidità della sua esposizione l’uso della
stessa parola «Repräsentation» per indicare sia la istituzione moderna sia la istituzione
antica, pure asserite totalmente altre tra loro[88]. È, però, una tesi
formulata con forza e, nella interpretazione del Diritto societario romano-antico,
essa appare dare nettamente ragione a Rousseau e torto a Savigny e Mommsen.
Ancora nel 1962, un romanista della Università di
Besançon, Jean Cousin (partecipando, presso la Université de
Dijon, alle giornate di studio per la commemorazione del 200° anniversario
del Contrat social)
«constata», nel proprio contributo, intitolato “J.-J.
Rousseau interprète des institutions romaines dans le Contrat social”, il silenzio della
scienza ’8-900esca su tale interpretazione, che, peraltro, occupa un libro
– il quarto e ultimo – dell’intero Contrat[89]. Nel 1974, però, Pierangelo
Catalano pubblica Populus Romanus
Quirites, che, già nel frontespizio, reca una citazione di J.-J.
Rousseau: «Le Peuple Romain … ce modèle de tous les peuples
libres». Partendo dal contributo rousseauiano, Catalano riscopre il senso
e il valore della «concretezza» del populus Romanus («dei
Quiriti», appunto) e formula la critica demolitoria di «‘Magistrat’
e ‘Volk’ nel pensiero di Mommsen e gli sviluppi della visione dello
“Stato astratto”». Nel 1990, Catalano torna
sull’argomento (“Il populus
Romanus e il problema delle persone giuridiche”[90])
estendendo il proprio discorso a «‘associazioni’ e
municipi», che egli giudica ugualmente concreti, cioè ugualmente
non-persone-giuridiche. La tesi di Catalano (così, almeno, la leggo) non
è che i giuristi romani, nel percorso verso la conquista della
concezione unitaria della collettività, non sono arrivati alla
estrapolazione del concetto di persona giuridica, fermandosi – dunque – prima della
«conquista della unità», ma è che essi, per
conseguire quella conquista, hanno scelto e seguito un percorso di direzione
opposta.
L’insegnamento di Weber, il
quale guarda essenzialmente al piano del regime della organizzazione collettiva, e quello
di Catalano, il quale guarda essenzialmente al piano
della sua concezione (prendendo, però, le mosse dallo studio del
«mezzo per la difesa della libertà»)[91], sono complementari. Essi hanno grandi meriti comuni. Un merito
è la riscoperta della dialettica giuridica pre-’800esca, il cui
oggetto è la concezione e il regime della organizzazione collettiva e i
cui termini sono le esperienze romana-antica e inglese moderna. Altro merito
è l’avallo di tale dialettica, in particolare – in maniera
meno o più esplicita – nella sua parte di formulazione
rousseauiana (il «modello» democratico-repubblicano romano). Sulla
base di questi risultati, occorre ora avanzare nella riflessione e nella
proposta giuridiche.
La contrapposizione di sillogismi inizialmente formulata
per sintetizzare la dialettica ’700esca (vedi, supra, § 1.b) diviene ora la domanda con la quale discutere lo
stato della scienza giuridica (in particolare ma non soltanto) romanistica
«odierna». La ‘domanda’ è: presso i corpi
collettivi romani la assunzione di decisioni è il comando dei “rappresentanti” e, pertanto, limita la libertà dei rappresentati;
oppure: è il comando dei “soci” e,
pertanto, ne è la libertà?
Per
rispondere alla domanda occorre confrontare le due soluzioni contemporanee del
problema della libertà. Queste sono fatte – come abbiamo visto
– di numerosi ‘elementi’. Tuttavia, date le caratteristiche
di coesione interna e specularità esterna delle due soluzioni, ognuno
dei loro elementi è pienamente espressivo della specificità di
ciascuna soluzione nel suo complesso e il suo opposto è rinvenibile
nell’altra soluzione. La presenza del tutto nella parte ci rende ora
possibile la ‘scorciatoia’ dell’esame della parte per il
tutto; l’esame, cioè, anche soltanto di qualcuno di tali elementi,
per poterci pienamente orientare a favore dell’una o dell’altra
soluzione nel suo complesso. Nella economia del nostro discorso, circoscriviamo
dunque questo esame ai soli elementi dell’ “esercizio della
libertà - formazione della legge”(rispettivamente costitutivo e
determinante) e del “regime volitivo della organizzazione
collettiva” rinviando l’esame degli elementi della “difesa
della libertà - contenuto della legge” e della “concezione
della organizzazione collettiva” (rispettivamente «non
costitutivo» e conseguente).
Ci
avvarremo, invece, di entrambi i ‘punti di vista’:
gius-privatistico (con riferimento, cioè, alle
‘associazioni’) e gius-pubblicistico (con riferimento, cioè,
alla res publica ma limitatamente ai
soli municipia, data la
quantità [eccessiva per la economia del presente contributo] della
informazione concernente il populus
Romanus). Circa la omologia (ovvero la intercambiabilità e la integrabilità
reciproche) dei due punti di vista (almeno) nella specifica materia dei corpi
collettivi, rinviamo direttamente alla testimonianza di Gaio (D. 3.4.1.pr.-3 [già evocato in
apertura di questo nostro discorso] e, più in generale, tutto il titolo 3.4)
nonché, prima di lui, di Cicerone (rep.
1.39) e, (molto) dopo di lui, di Mommsen[92],
Kornemann, Daremberg-Saglio[93], de
Robertis etc. etc.
L’esame del regime volitivo collettivo si
limiterà a verificare la esistenza o meno della attività volitiva
(in particolare “legislativa”) delle assemblee di associazioni e Città senza aspirare alla
completezza della sua descrizione analitica. Infatti, il dato della esistenza
di tale attività (anche a prescindere dal dato della sua frequenza,
purché istituzionale e non extra
o contra ius) testimonia ed esprime
una natura di tali assemblee e dei loro membri sostanzialmente diversa anzi
opposta rispetto a quella che le stesse assemblee e i loro membri avrebbero in
sua assenza. Ovviamente: diverse/opposte risultano anche la natura dei loro
magistrati e la relazione tra i soci e questi ultimi.
Per verificare tale ‘esistenza’ sono
sufficienti le informazioni già raccolte dalla scienza romanistica
odierna. Come vedremo, il problema è, piuttosto, la loro
interpretazione.
Sempre più la scienza romanistica prende coscienza
del ‘dato’ che l’Impero romano è, essenzialmente, la relazione
tra le Città, dotate di una autonomia – diciamo –
ragguardevole, e l’Imperatore, al quale spetta ma il quale anche assicura
il governo centrale[94].
Questa ‘dato’ storico, però, è ancora troppo generale
per mettere, di per sé, in discussione – se non in termini
quantitativi – la concezione giuridica mommseniana dell’Impero
quale «autocrazia» (sia pure «temperata»). L’
«Impero municipale», di cui discorre la scienza romanistica
odierna, è, forse, più frammentato; non è, certamente,
più democratico-repubblicano di quello concepito da Mommsen. Ne resta,
infatti, corrente la fondamentale dottrina, secondo cui nelle Città,
anzi: esclusivamente all’interno di ciascuna Città, i pauci (i magistrati con il consiglio dei
decurioni) comandano sulla multitudo
(cittadini), esercitando un potere locale della stessa natura che il potere
generale dell’Imperatore; cioè: altrettanto strutturalmente
concentrato e dinamicamente discendente. Essendo i due poteri (civico/locale e
imperiale/generale) della stessa natura e soltanto quantitativamente diversi,
il potere delle singole élite cittadine può essere più o
meno debole, esso è, soltanto e semplicemente, in concorrenza con il
potere imperiale, il quale può essere, corrispondentemente e
inversamente, più o meno forte; restando così alla scienza
storica-giuridica, soltanto e semplicemente, il còmpito di verificare il
rapporto quantitativo tra quelli che, in definitiva, sono due manifestazioni e
poli del medesimo tipo di potere.
Invece, a partire dal ‘dato’ generale della natura
cittadina/municipale dell’Impero, è possibile e doveroso
riesaminarne il ‘dato’ specifico del regime volitivo di questo
“Impero di Città”. Del regime volitivo devono riesaminarsi
sia entrambi i versanti, interno ed esterno, dei suoi essenziali «elementi
modulari”» le Città[95], sia
il contributo dell’Imperatore. Il riesame può apparire arduo per
la varietà di status delle
Città nonché per le modificazioni temporali e le varietà
spaziali (in particolare tra la parte orientale e la parte occidentale
dell’Impero) di questo regime. In realtà, ci soccorre la
riconosciuta tendenza alla uniformità organizzativa dell’Impero,
suggellata nella costituzione di Caracalla del 212, con la quale viene
formalizzata la uniformità di status
delle Città secondo l’archetipo municipale; sino a perdersi
l’uso della parola tecnica di municipium
(così come di quella di colonia)
sostituita da quella generale di civitas.
Per quanto concerne la volizione ‘municipale’,
l’esame ci consente di- ovvero ci obbliga a fare qualche interessante
constatazione.
La prima constatazione – riguardante il versante
interno della volizione municipale – è che la attività
comiziale presso i Municipi è testimoniata dalle fonti antiche durante
almeno 6 secoli: dal III secolo a.C. al IV secolo d.C.[96] Tra
le competenze originarie dei comizi municipali si è visto essere
attestate addirittura quella «di modificare le leggi introdotte nei
municipi dai magistrati romani» nonché quella «di ratifica
dei trattati» per cui abbisognano della delibera comiziale
«l’ospizio e il patronato che, pur essendo conferiti a cittadini
romani, conservano le forme esterne di un trattato»[97].
Nella parte occidentale dell’Impero, all’interno delle singole
Città, fino almeno alla metà del III secolo «il popolo
conserva un peso non trascurabile con le proprie pressioni o grazie ai
voti»[98]. Nella parte
orientale dell’Impero, la conservazione del tradizionale potere
decisionale delle assemblee delle Città greche è
‘corretto’ (ma non ‘diminuito’ !) soltanto dalla
attribuzione (propriamente repubblicana romana) del diritto/dovere della
presidenza e della iniziativa ai magistrati[99].
La seconda constatazione – riguardante il versante
interno della volizione municipale – è che l’esercizio, da
parte della assemblea di tutti i Cittadini di ciascuna Città, della
normazione – che abbiamo detto – interna a ciascuna Città (e
che è, ovviamente, commisurato alla ‘autonomia’ di ciascuna
Città rispetto alle norme della generalità del Popolo romano)
è manifestazione di un iter
volitivo la cui logica – in quanto logica – lo travalica. La logica
democratica/repubblicana (partecipativa e ascendente ovvero centripeta),
individuata dal ruolo di tutti i cittadini di ciascuna Città nella
normazione interna alla propria Città, postula e deve trovare conferma (risultando, altrimenti, smentita) nel ruolo
di tutte le Città nella normazione generale. Ebbene, la unica logica
della partecipazione popolare appare avere realmente la propria –
necessaria – manifestazione anche nel lato esterno del governo delle
Città. Fortunatamente, ci viene qui in soccorso (evitandoci, più
che la fatica, il rischio della sintesi faziosa della letteratura romanistica)
uno scritto autorevole, recente (2001) e breve intitolato “Sulla
partecipazione popolare ai concilia
provinciali nel tardo impero”. Nel rapido ma incisivo tratteggio dello
stato dell’arte nella materia, l’autore, Remo Martini, osserva,
innanzi tutto, che l’argomento delle «assemblee provinciali
[…] tema estremamente interessante, fino ad oggi non ha riscosso
soverchia attenzione da parte dei romanisti […] di esso non è
praticamente traccia nei manuali [… mentre …] se ne sono occupati
abbastanza gli storici»; da parte dei quali (in particolare, da parte di
Jürgen Deininger) ci si è chiesto se «questi
concilii […] fossero organi rappresentativi e se denunciassero o meno una
tendenza separatista». L’autore rileva, quindi, non essere stato
addirittura “mai affrontato” «il problema […]
della competenza, ossia degli
argomenti giuridici che essi [i concilia]
avrebbero potuto quanto meno discutere e che a loro volta si potrebbero
ricostruire dai provvedimenti imperiali (rescritti o editti) indirizzati ai provinciales o ai vari concilia o anche al prefetto del
pretorio». Ancora l’autore sottolinea
«l’attività di controllo svolta dai concilii sul
comportamento dei funzionari imperiali e specialmente dei governatori
provinciali» per concentrarsi, infine, sulla “composizione” e
sul “funzionamento” «di questi concilia [in particolare] nel IV e V sec. D.C.» Su questo
ultimo punto, l’autore appare accogliere la tesi, di André
Piganiol, che «nel passaggio dal principato al tardo impero
l’assemblea provinciale avrebbe cambiato la sua composizione [… da
…] “burgeois délégués par les
municipalites” [… a …] organo “des propriétaires
fonciers et d’une étroite oligarchie municipale”» nel
quale organo (aggiunge il nostro autore) la “partecipazione
popolare”, desumibile da due costituzioni di Teodosio, sarebbe stata
comunque ancora garantita (con una ratio
giuridica che io, però, non riesco a cogliere) dal libero accesso al
Concilio da parte dei “plebei” della Città ospitante. Ai
fini limitati di questo mio esame, è sufficiente sottolineare, di questo
studio, assieme alle constatazioni negative circa la scarsa attenzione da parte
della dottrina giuridica [!]
contemporanea per tali concilia e
circa il ricorso alla categoria della “rappresentanza” per la loro
interpretazione, anche e soprattutto la ‘sottolineatura’ positiva
della “attività” di ciascuna assise provinciale di delegati
eletti dalle singole Città (quanto meno fino al cosiddetto
“Dominato”) di valutazione della condotta del delegato del
Principe, il Governatore provinciale[100].
Il Concilio provinciale delle Città ha una rilevanza
che si manifesta (e che attende uno studio) nelle molteplici manifestazioni
delle sue straordinarie rilevanza e longevità[101].
Per quanto concerne il
‘contributo’ imperiale a questo iter
volitivo ci limitiamo qui a rammentare che Cicerone – nella propria nota
pre-figurazione del princeps –
gli assegna il compito tecnico di gubernator[102].
Anche a proposito delle ‘associazioni private’,
dobbiamo verificare quanto ‘sappiamo’ del loro regime volitivo.
Come Mommsen osserva già nel proprio studio del
’43, la parola collegium indica
non un genus aggregativo diverso
dalla societas ma una societas a causa perpetua ed
è da questa prima e decisiva specificità che discendono non,
dunque, le differenze ma le ulteriori specificità del collegium rispetto alla societas, a partire dal numero minimo
dei membri (tre della species collegium
contro i due del genus societas) per
proseguire con la organizzazione istituzionale interna (necessaria, quindi,
alla species collegium). Uno studio
dettagliato e decisamente più recente sulle “associazioni popolari
nella Spagna romana” (con attenzione prevalente ma non esclusiva ai
secoli II e III) ha constato che, sia in Italia sia nelle Province, collegium è la parola più
diffusa per indicare le associazioni dotate di apposita organizzazione[103]. In
questo stesso studio si osserva inoltre che (in particolare in Spagna) tra i collegia, la tipologia più
diffusamente attestata è quella funeraria ma la seconda è quella
a finalità economiche e in essa si trovano, oltre i collegi per la
riscossione della annona, i collegi per lo svolgimento di commercio e
industria.
Tutti questi collegia
hanno una attività “legislativa” (ovviamente privata). Nella
loro dinamica organizzativa, secondo le convergenti ricostruzioni risultanti
dallo studio ponderoso e tuttora fondamentale di Jean Pierre Waltzing
(1895-1900) e dalle ‘voci’ dei grandi dizionari di antichistica (E.
Kornemann “Collegium” in
A.F. Pauly - G. Wissowa, Real-Encyclopädie der classischen Altertumswissenschaft, IV.1,
1900, s.v; e la voce "Lex collegii" in Ch. Daremberg, E.
Saglio et E. Pottier, Dictionnaire des
Antiquités grecques et romaines d’après les textes et les
monuments, III.2, 1904, “Lex
collegii”), troviamo la categoria della “legge” sotto due
profili, strettamente interrelati: quella della legge istitutiva del collegio (lex collegii) e quella della sua
attività “legislativa” entrambe, ovviamente, interne ma
entrambe, ancora ovviamente, con rilevanza esterna.
Le “leggi istitutive”, le leges collegiorum sono dette essere le più simili, tra le leges privatae, alle leges rogatae. Occorre una proposta
iniziale, il cui autore assume – con ciò – il ruolo di
fondatore (constitutor). La
“legge”, però, è opera degli stessi associati, meglio
degli associandi: «lex ab ipsis
constituta» <CIL XIV,
2112, l. 6-7>. Tale sorta di “autonomia statutaria”,
costantemente solennemente riconosciuta/attribuita agli associandi/associati
durante almeno dodici secoli, lungo tutto l’arco cioè della
cultura giuridica greco-romana, dalle leggi di Solone al CIC di Giustiniano, transitando per le XII Tavole, si esercita
mediante un pactum (o pactio: His [sodalibus] potestatem facit lex [XII tabularum], pactionem quam velint sibi ferre, dum ne quid ex publica lege
corrumpant; sed haec lex videtur ex lege Solonis translata esse)[104]. Osservo,
per inciso, che è facile qui il confronto con la definizione papinianea
della legge (D. 1.3.1) Lex est […] communis rei publicae
sponsio, ma anche con i versi virgiliani, non a caso posti a
epigrafe del Contrat social (Aen. 11.320 s.): foederis aequas // dicamus
leges. Il pactum è,
quindi, reso vincolante con giuramento o stipulazione aggiuntivi. Questo primo
atto costitutivo del collegium
può essere, poi, modificato da coloro che, proprio in sua virtù,
sono membri a pieno titolo del collegium
e ne formano, quindi, il populus (CIL VI, 10234, l. 4; XIV, 2112, 3, 1,
27; 29671)[105]. Le modificazioni possono
riguardare sia la composizione del collegium
(con la ammissione di nuovi soci [CIL
VI, 10294; 10395])[106] sia
le norme le quali ne regolano la vita (CIL
V, 825)[107].
Oltre la “costituzione” posta in essere con la lex collegii e le sue modificazioni,
anche la legislazione ordinaria, la quale si esprime mediante decreta [collegii], è competenza del “Popolo” ovverossia
della assemblea dei soci (CIL V,
5272; VI, 6660; Bull. della comm.
Archeol. Com. di Roma, 1888, p. 110, n. 1.) Lo specialista italiano di
associazionismo romano, Francesco Maria de Robertis, premesso che
«L’insieme dei membri [dei collegia]
prendeva il nome di populus»
afferma che «esso costituiva l’organo deliberante supremo sia in
materia normativa che elettorale, giudiziaria e amministrativa» e che
«quindi la organizzazione delle associazioni [pur a “carattere
privato” e con “scopi e funzioni private”] rivela una
costituzione schiettamente democratica, modellata su quella cittadina»[108].
E’ stato quindi, più specificamente, osservato
(a proposito, questa volta, delle societates
publicanorum ma non c’è ragione perché la osservazione
non possa avere portata generale) che la competenza della “assemblea
generale” è ad assumere le “decisioni più
importanti” per la società. La fonte di tale ‘più
specifica’ osservazione (formulata un prima volta, parrebbe, da Claude
Nicolet, 1979)[109]
sono alcuni espliciti passi ciceroniani: de
domo 28.74 (publicorum societates
[…] decreta fecerunt); in L. Calp. Pis. 18.41 (decreta publicanorum); pro Sest. 14.32 (societas vectigalium […] decrevisset);
in P. Vat. 3.8 (societatum […] decreta)
e specialmente sec. in Verr. 2.71.173
s., dove la «assemblea generale» è indicata con la locuzione
“multitudo sociorum”[110].
Colpisce l’uso di questa ultima espressione proprio da parte
dell’autore della più famosa definizione di res publica e, quindi, di populus
come coetus multitudinis iuris
consensu et utilitatis communione sociatus (rep. 1.39).
Considerata la omologia organizzativa delle Città (Civitates, Municipia) e delle associazioni private (in particolare i collegia) il ‘dato’, già ricavato dalle fonti romane ad
opera della dottrina storica e giuridica contemporanea e decisivo per il nostro
ragionamento conclusivo, è la competenza normativa/legislativa ovverosia
la capacità volitiva (della assemblea) del “populus” in entrambe i tipi di organizzazioni collettive e,
pertanto, la loro comune “costituzione schiettamente democratica”.
Inoltre e più precisamente: abbiamo visto, a
proposito delle Città, che la “costituzione democratica” si
manifesta in maniera logicamente coerente su entrambi i loro necessari
versanti, interno ed esterno, e, a proposito delle associazioni private, che la stessa “costituzione”
si manifesta in maniera logicamente specifica nella competenza della
“assemblea generale” ad assumere le “decisioni più
importanti”.
Questo ‘dato’ è sorprendente se
confrontato con la odierna (abbondante) dottrina la quale studia l’operare
giuridico di tali organizzazioni e il cui all’atteggiamento è
invece – quasi senza eccezioni – di pressoché assoluta
disattenzione per le loro assemblee e di pressoché assoluta riduzione
del loro operare a quello dei loro “rappresentanti”. Siamo, con
ciò, di fronte alla rotonda contraddizione tra il dato ricavato dalle
fonti antiche e la interpretazione giuridica odierna.
Tale contraddizione emerge con particolare forza quando
è interna a singoli studi giuridici. Essa, ad esempio, è particolarmente
evidente proprio presso il giurista italiano che più ha scritto sulla
materia delle “corporazioni” romane, De Robertis. Questi, nella
stessa opera, coniuga in maniera impattante la (già menzionata)
constatazione che il “populus”
dei collegi e delle Città è «l’organo deliberante
supremo» di «una costituzione schiettamente democratica» con
la affermazione (citando Orestano) della “vocazione” già di
epoca repubblicana «all’astrazione necessaria per attingere al
concetto di persona giuridica e in particolare per attribuire propria
individualità ai complessi di persone organizzati in
associazione», cui necessariamente consegue la consegna del potere di
esprimere la volontà di tale “persona” ai suoi
“rappresentanti”.
Tuttavia, tale contraddizione è resa, se possibile,
persino più palese da quei giuristi i quali – proprio per
sottrarvisi – hanno tentato di sbarazzarsi del ‘dato’: sia
sorvolando su di esso, sia provando a negarlo. Del primo atteggiamento è
esemplare la non-trattazione dei concilia
provinciali delle Città[111].
Come esempî del secondo, menziono il grande Mommsen, per il punto di
vista gius-pubblicistico, e Alvaro D’Ors, per il punto di vista
gius-privatistico. Mommsen, avendo affermato che la parola populus – quando
indica il sovrano – significa non l’insieme dei cittadini ma la
persona giuridica Stato, ha conseguentemente provato a fare sparire i comizi
municipali, insieme a quelli generali del Popolo romano, già
all’inizio del Principato. La sua tesi, troppo chiaramente piegata alle
esigenze del suo pre-giudizio dogmatico, non ha séguito come non ha
séguito la tesi di D’Ors[112], il
quale (con la stessa logica di Mommsen applicata al diritto privato) ha provato
(in maniera decisamente più circoscritta) a ‘spiegare’ il
dato epigrafico di una deliberazione di età augustea, con la quale i
membri (e non i magistrati !) di una
associazione spagnola di pescatori e commercianti di pesce decidono di rendere
un omaggio a tal Caio Letilio, duumvir
quinquennalis di Carthago Nova (CIL II, Supp. 5.929), con la ipotesi che
la deliberazione precedesse la costituzione formale della associazione. Anche
tale spiegazione, puramente ipotetica, non è accolta dagli altri
studiosi, i quali continuano a riconoscere in quella dedica «una delle
funzioni della assemblea di ogni collegio legalmente costituito»[113].
Il modo corretto per sottrarsi alla contraddizione tra il
dato e la sua interpretazione giuridica neppure è, specularmente,
concentrarsi sul primo e sorvolare sulla seconda (come fanno talvolta gli storici
anche delle istituzioni) ma è dotarsi della interpretazione la quale,
anziché coartare il dato, permetta di comprenderlo e – quindi,
anzi – lo valorizzi pienamente.
Ciò che occorre è farsi carico di comprendere
un iter volitivo il quale – a
sua volta – comprende sia la volizione della assemblea dei soci/cives
sia la volizione dei loro magistri/magistratus (tralascio qui il tema
ulteriore della assemblea ristretta dei decurioni).
Il – già citato – massimo storico del
fenomeno associativo antico, Jean-Pierre Waltzing, non potrebbe essere, a
questo proposito, più chiaro[114]. Secondo la sua ri-costruzione, sino
dalla epoca più risalente «L’administration se partageait
entre l’assemblée et les chefs» ma
«L’assemblée générale de tous les membres
était ordinairement souveraine, comme dans la cité» e
ancora nel secolo V d.C. «Il semble […] que l’organisation
collégiale soit restée démocratique […]
L’assemblée générale rendait toujours ses
décrets pour gérer les affaires de la corporation […] ses
chefs ne faisaient qu’exercer ses décisions.»[115] È notevole la ingenuitas
dello storico, il quale registra la ‘obbedienza’ dei
«capi» senza vacillare né chiedersi come ciò fosse e
sia possibile[116].
La difficoltà se non la incapacità della
scienza giuridica odierna a farsi carico del potere delle assemblee
“popolari” pubbliche e private romane, può, forse, spiegarsi
– un po’ brutalmente – con un condizionamento
atecnico/politico: la propensione (propria, secondo Hans Kelsen, di anche «eminenti»
esponenti di tale scienza) a servire il potere politico del momento[117]. Esiste, però, certamente, un
condizionamento tecnico/giuridico. In effetti, oggi, giganteggia la corale,
diuturna e – almeno in apparenza – poderosa costruzione scientifica
’800esca della necessità – sul piano della concezione della
collettività – della sua astrazione per conseguirne la
unità e della logicamente conseguente necessità – sul piano
del suo regime – della sua rappresentanza per consentirne la volizione.
Al contrario, la costruzione scientifica della possibilità – sul
piano della concezione della collettività – di conseguirne la
unità senza farla rinunziare alla concretezza e alla logicamente
conseguente possibilità – sul piano del suo regime – della
partecipazione dei suoi membri all’esercizio della volizione è
ancora soltanto un disegno a grandi linee.
La conclusione negativa è che dobbiamo denunziare la
non romanità della dominante ricostruzione romanistica della
“libertà che sussiste nei limiti della legge”, intesa
– questa ultima – come comando dei “rappresentanti” sui
“rappresentati”. Ricostruzione la quale neppure consente di
concepire la risposta alla – pur percepita – richiesta di
partecipazione del “rappresentato”, per definizione invece
«smaterializzato» e quindi «sostituito» dal
“rappresentante”.
La conclusione positiva è che dobbiamo procedere
alla ricostruzione della “libertà che consiste nella legge”.
Ciò signifca procedere alla ricostruzione del regime volitivo (anche)
collettivo romano. La ipotesi (anzi «ìpo-tesi») di lavoro
(che abbiamo già formulato)[118] è quella della scansione dell’atto volitivo
in due atti volitivi, ovverosia in un iter
volitivo articolato nella partecipazione signorile dei soci (rectius: della loro assemblea) e nella
«cooperazione» («Mitwirkung»)[119]
servile dei loro magistrati. Nella ricostruzione di tale regime sarà
necessario ricordare costantemente che esso postula la concezione al contempo
unitaria e concreta della collettività. Questa, nella esperiena romana
generale, è costituta esclusivamente come societas[120], e in quella specificamente pubblica, assume la forma
della Città, combinazione indissolubile di urbs e civitas[121]. La
necessaria «crescita»[122] del popolo della Città (anzi della
«piccola Città»)[123] a grande popolo – tendenzialmente – universale
è ottenuta mediante il ricorso alla associazione di ulteriore livello,
la società di società.
Le « Römischer
Freiheitsbegriff » (voir Schulz, Prinzipien,
1934) de « la liberté qui existe dans les limites de la loi
», entendue – cette dernière – comme « le commandement
des représentants sur les représentés » n’est
pas romain: il est romanistique.
Il est la synthèse d'une
conception spécifique et du régime connexe de l'organisation
collective et, plus généralement, d'une culture juridique
programmatiquement non-dialectique, respectivement, développés et
produite dans le XIXe siècle et – avec très peu
d'exceptions – généralement et régulièrement
suivis dans le XXe siècle.
Retrouver le « concept romain de
la liberté » avec les correspondants conception et régime
collectifs et rétablir la dialectique juridique, de la quelle -
aujourd'hui – on sent lourdement le manque, est une opération
unique. Pour l'accomplir, nous devons récupérer l'opposition
scientifique et normative faite pendant le XVIIIe siècle entre deux «
modèles » de liberté et d'organisation collective: l'ancien
romain et le moderne anglais, en veillant à ne pas se laisser confondre
par la intervenue déformation constantienne de celle « opposition
».
Objet et point de départ de
l’enquête nécessaire (et nécessairement romanistique)
est l'autre notion - attribué pendant le XVIIIe siècle au
« modèle » romain et, surtout, présent dans
sources romaines anciennes – de la « liberté qui consiste
dans la loi », entendue - cette dernière - comme
« commandement des membres de la société sur
eux-mêmes ».
L'objectif spécifique et
ponctuel de l'enquête est la reconstruction, aussi de jure condendo, du régime volitif correspondant.
Il «römischer Freiheitsbegriff» (vedi
Schulz, Prinzipien, 1934) della “libertà che sussiste nei limiti
della legge”, intesa – questa ultima – come “comando
dei rappresentanti sui rappresentati”, in realtà non è
romano: è romanistico.
Esso è la sintesi di una specifica concezione e del
connesso regime della organizzazione collettiva nonché, più
generalmente, di una cultura giuridica programmaticamente non-dialettica,
rispettivamente messi a punto e prodotta nell’ ’800 e – con
poche eccezioni – complessivamente e puntualmente seguiti nel ’900.
Ritrovare il “concetto romano di
libertà” con i corrispondenti concezione e regime collettivi e
ristabilire la dialettica giuridica, di cui è ‒ oggi ‒
pesantemente avvertita la mancanza, è una unica operazione. Per
compierla, dobbiamo recuperare la contrapposizione scientifica e normativa
’700esca tra due «modelli» di libertà e di
organizzazione collettiva: quello antico-romano e quello moderno-inglese,
badando a non farci confondere dalla intervenuta deformazione constantiana di
quella ‘contrapposizione’.
Oggetto e punto di partenza della necessaria (e necessariamente
romanistica) indagine è l’altro concetto – attribuito nel
’700 al «modello» romano e, soprattutto, presente presso sue
fonti antiche – della “libertà che consiste nella
legge”, intesa – questa ultima – come “comando dei soci
su se medesimi”.
Obiettivo specifico e puntuale della indagine è la
ricostruzione, anche de iure condendo, del corrispondente regime volitivo.
[Per la pubblicazione degli articoli della sezione
“Tradizione Romana” si è applicato, in maniera rigorosa, il procedimento
di peer review. Ogni articolo è stato valutato positivamente da due referees, che hanno operato con il
sistema del double-blind]
*
Relazione presentata nel XVII Convegno Internazionale "Libertà ed abuso nel
diritto privato romano", tenutosi nei giorni 1-4 giugno 2014, presso
il Centro Congressi del Villaggio Guglielmo di Copanello Lido, per iniziativa
della Università̀ degli Studi “Magna Græcia” di
Catanzaro, del Dipartimento di Scienze Giuridiche, Storiche, Economiche e
Sociali di Catanzaro, del Dipartimento di Giurisprudenza di Messina, del Centro
di Ricerca “Cultura romana del diritto e sistemi giuridici
contemporanei” di Catanzaro e del Centro Romanistico Internazionale
Copanello (coordinamento: proff. Alessandro
Corbino, Antonino Metro e Isabella Piro).
[1] Su cui W. Wołodkiewicz,
“Libertas non privata sed publica res est” in L. Labruna e C.
Cascione, a cura di, Civis Civitas Libertas, Index per Franco Salerno, Napoli 2011, 216 ss.
[3] C. Venturini,
Libertas e dominatio nell'opera di Sallustio e nella
pubblicistica dei populares, in Studi
per Ermanno Graziani, Pisa 1973, 636 ss.; cfr. Adriana Muroni, Sull’origine della libertas in Roma antica: storiografia annalistica ed elaborazioni
giurisprudenziali, in Diritto@Storia,
anno XII - 2013 - quaderno N. 11
- nuova serie < http://www.dirittoestoria.it/11/tradizione/Muroni-Origine-libertas-Roma-antica.htm >.
[4] Come vedremo meglio, infra,
§ 3.c, la libertà dei Romani non si esaurisce nello iubere legem, ma questo suo segmento ne
è la parte qualificante.
[5]
Montesquieu definisce «modello» la Costituzione inglese ai capp. 7 (“Des monarchies que nous connaissons”) e 8 (“Pourquoi les anciens n'avaient pas une
idée bien claire de la monarchie”) del libro 11 ("Des
lois qui forment la liberté politique dans son rapport avec la
constitution ") dell’EdL.
Per la diffusa
interpretazione di Montesquieu “liberale”, vedi E. Faguet, Politique comparée de Montesquieu, Rousseau et Voltaire
[1902] Geneve 1981; I. Berlin, Montesquieu, in Against
the Current: Essays in the History of Ideas, New York [1955] 1980, trad.
fr. A. Berelowitch, À contre
courant, Paris 1988, 200-235; R. Aron,
Les Étapes de la pensée
sociologique, Paris 1967, cap. 1; T. Pangle,
Montesquieu’s Philosophy of
Liberalism, Chicago 1973; Judith
N. Shklar, Montesquieu and the New Republicanism, in Machiavelli and Republicanism, Cambridge 1990, 265-279; P. Manent, La Cité de l’homme, Paris 1997, capp. 1 e 2; L. Jaume, La Liberté et la Loi. Les origines philosophiques du libéralisme,
Paris 2000, cap. 2; C. Larrère,
Montesquieu and Liberalism. The Question
of Pluralism, in R. Kingston, ed., Montesquieu and his Legacy, New York
2009, 279-301; R. Geenens -
Helena Rosenblatt, edited by, French Liberalism from Montesquieu to the
Present Day, Cambridge 2012. Per un punto di vista parzialmente
critico, Céline Spector, Montesquieu. Liberté, droit et histoire, Paris 2010, 310
pp.
[6] Rousseau definisce «modello»
il Popolo romano nella "Dedicace"
del Discours sur l’origine et
les fondements de l’inégalité parmi les hommes (1754)
«Le peuple romain lui-même, ce modèle de tous les peuples
libres» per poi fare riferimento al suo rispetto scrupoloso per i diritti
(Discours sur l’économie
politique [1758]), alle sue «bellissime leggi» (CS, 1.4, nota "a"), al suo
«governo» (Lettres de la
Montagne, 6 [1764]). Ma,
soprattutto, è rilevante il libro 4 del CS, interamente dedicato alla ricostruzione delle essenziali
istituzioni pubbliche romane.
Nel "compte
rendu" della ponderosa biografia rousseauiana scritta da Raymond
Trousson (Jean-Jacques Rousseau, Paris 2003, 850 p.) Jean-Pierre Gross (Jean-Jacques Rousseau, in Annales
historiques de la Révolution française, 337, 2004, 196-199
["en ligne" dal 15 février 2006]) osserva: «Si la
pensée rousseauiste est naturellement révolutionnaire,
c’est parce qu’elle se fonde, non sur un appel à la
révolte ou aux réformes, mais sur un devoir-être. Chez
Rousseau, comme le souligne son nouveau biographe, la notion de droit
l’emporte sur les faits, ou plutôt il exige d’examiner
«les faits par le droit», selon la formule du Discours sur
l’inégalité. De là le radicalisme du Contrat social
[...] Rousseau est bien le père de la démocratie moderne».
[7] R. Carré
de Malberg, Contribution à
la Théorie générale de l'Etat, II, Paris 1922 (rist.
fotomecc. Paris 1962).
[8] J. Lenoble
et M. Maesschalk, L’action des normes.
Éléments pour une théorie de la gouvernance,
Sherbrooke 2009. In proposito, vedi G. Lobrano e P.P. Onida, Rappresentanza
o/e partecipazione. Formazione della volontà «per» o/e
«per mezzo di» altri. Nei rapporti individuali e collettivi, di
diritto privato e pubblico, romano e positivo, in Diritto@Storia, n. 14 - 2016, < http://www.dirittoestoria.it/14/contributi/Lobrano-Onida-Rappresentanza-o-e-partecipazione.htm >, § I.2.a. “Negazione risalente (XVIII
secolo) e recente (XX secolo) della rappresentabilità”. Cfr. G. Lobrano, Dottrine della ‘inesistenza’ della costituzione e
“modello” del diritto pubblico romano, in L. Labruna, diretto
da, e Maria Pia Baccari - C. Cascione, a cura di, Tradizione romanistica e Costituzione, tomo primo [Collana:
«Cinquanta anni della Corte costituzionale della Repubblica
italiana»] Napoli 2006, 321-363; pubblicato anche in Diritto@Storia, n. 5 - 2006, < http://www.dirittoestoria.it/5/Memorie/Lobrano-Inesistenza-costituzione-modello-diritto-pubblico-romano.htm >, § c. “Constatazione della inesistenza
dell’istituto costituzionale ‘inglese’ dell’equilibrio
dei tre poteri per la difesa dei diritti”.
[9] Propone invece di studiare i grandi “problemi”
giuridici attuali Giuseppe Grosso:
Problemi generali del diritto attraverso
il diritto romano, Torino 1948. Diverso da quello di Grosso è (come
appare già dal titolo) l’approccio di Riccardo Orestano: Il
problema delle fondazioni in diritto romano, Torino 1959, e Il «problema delle persone
giuridiche» in diritto romano, Torino 1968.
Cfr.,
infra, nt. 47, la citazione di Friedrich Nietzsche a proposito della
«historische Krankheit».
[11] Contrappone, ad es., il
«régime constitutionnel» all’ «ancien
régime» Ch.G. Hello,
Du Régime constitutionnel, 2a
ed., Paris 1830, in part. 232.
[12] Maximilien Robespierre, nel discorso Pour la constitution, del 10 maggio
1793, afferma che «Le premier objet de toute constitution doit être
de défendre la liberté publique et individuelle contre le
gouvernement lui-même» (cfr. F. galy,
La notion de constitution dans les
projets de 1793, Paris 1932).
Il 'padre' della scuola italiana di diritto pubblico,
Vittorio Emanuele Orlando (il quale, per spiegare la dualità di
orientamenti che animano la scienza del diritto pubblico della epoca
contemporanea, fa ricorso alla opposizione tra "scuole latine" e
"scuola germanica" del diritto pubblico, l'ultima delle quali
definisce «autoritaria») attribuisce al «campo latino»
la «teoria dei diritti originari della personalità», vale a
dire i «diritti della libertà civile e politica», e –
dunque – la concezione stessa della costituzione come «sistema di
garanzie per difendere quei diritti contro possibili oppressioni da parte del
sovrano» (V.E. Orlando,
"Introduzione generale" a G. Jellinek,
La dottrina generale del diritto dello
Stato, tr.it. di M. Petrozziello, Milano 1949, XIV; cfr. Id., "Prefazione" a G.
Jellinek, Sistema dei diritti pubblici
subiettivi, tr.it. dalla 2a ed. ted. di G. Vitagliano, Milano 1912, VII;
vedi anche il mio Diritto pubblico romano
e costituzionalismi moderni, Sassari 1989, 71 ss., in part. ntt. 8 s.)
[13] P. Catalano,
Constitutionnalisme latin et constitution
de la République romaine de 1848 (à propos du droit public romain
du tribunat), in L. Reverso, sous la direction de, Constitutions, républiques, mémoires. 1849 entre Rome et
la France, Paris 2011, 31 «On oublie facilement que les
modèles constitutionnels tracés par ces deux auteurs de langue
française [scl.: Montesquieu e Rousseau] sont opposés entre eux
et déterminent deux lignes de pensée politique et juridique qui
sont en conflit parfois violent entre elles, notamment pendant la
Révolution française: la ligne de pensée girondine et
libérale contre la ligne jacobine et démocratique».
Anche Nicola Matteucci
(Organizzazione del potere e libertà.
Storia del costituzionalismo moderno, Torino 1976, 175-177) scrive di
«due linee di tendenza che non riescono e non possono amalgamarsi
[…] dopo la morte di Luigi XIV» ma si riferisce a un’altra
distinzione e contrapposizione «una mira alla libertà,
richiamandosi al passato; una mira all’eguaglianza, invocando le riforme.
E’ la pubblicazione nel 1748 dell’Esprit des lois di Charles-Louis de Secondat, barone de la
Brède e di Montesquieu a far esplodere il dibattito».
[14] Montesquieu
così confronta il governo imperiale romano con quello dei «popoli
del Nord»: Lettres persanes,
1721, CXXXI, «L’Europe gémit longtemps sous un gouvernement
militaire et violent […] Cependant une infinité de nations inconnues
sortirent du Nord, se répandirent comme des torrents dans les provinces
romaines […]. Ces peuples étaient libres, et ils bornaient si fort
l’autorité de leurs rois […] les peuples du Nord, libres
dans leur pays, s’emparant des provinces romaines, ne donnèrent
point à leurs chefs une grande autorité.»; EdL, 17.5 «les Goths
conquérant l'empire romain fondèrent partout la monarchie et la
liberté».
La «liberté»
portata dai «Goti» è feudale: EdL, libro 30 “Théorie des lois féodales chez
les Francs dans le rapport qu'elles ont avec l'établissement de la
monarchie” cap. 2 "Des sources des lois féodales" «Les peuples qui conquirent
l'empire romain étaient sortis de la Germanie etc.».
Cfr.,
ora, F. Galgano, La forza del numero e la legge. Storia del
principio di maggioranza, Bologna 2007, 100 «il parlamentarismo inglese
del Seicento era ancora espressione delle istituzioni feudali, sia pure di
istituzioni pervenute ad una loro evoluta espressione».
[15] EdL, libro 11 "Des lois qui forment la
liberté politique dans son rapport avec la constitution" cap. 5
“De l'objet des États
divers” «Il y a aussi une nation dans le monde qui a pour
objet direct de sa constitution la liberté politique. […] Pour
découvrir la liberté politique dans la constitution, il ne faut
pas tant de peine. Si on peut la voir où elle est, si on l'a
trouvée, pourquoi la chercher?»; EdL, 11.6 "De la
constitution d'Angleterre" «Il y a dans chaque État
trois sortes de pouvoirs […] Tout serait perdu si le même homme, ou
le même corps des principaux, ou des nobles, ou du peuple, exerçait
ces trois pouvoirs: celui de faire des lois, celui d'exécuter les
résolutions publiques, et celui de juger les crimes ou les
différends des particuliers».
Sul
“potere di giudicare” vedi V. Piras,
Alcune note e una ipotesi sul
«potere» di giudicare, in Diritto@Storia,
n. 13 - 2015 < http://www.dirittoestoria.it/13/contributi/Piras-Note-e-ipotesi-potere-di-giudicare.htm >; Id., Sui processi di formazione della
volontà collettiva: appunti in tema di «decodificazione» e
«giudice re», in D. D’Orsogna - G. Lobrano - P. P. Onida,
a cura di, Città e Diritto. Studi
per la partecipazione civica. Un «Codice» per Curitiba, Napoli
2016, cui rinvio per la bibliografia precedente.
[16] Montesquieu, indica come differenza di fondo tra la
costituzione inglese e la esperienza giuridica antica la istituzione della
“rappresentanza”: fondamentale presso la prima e assente presso la
seconda. Tale confronto avviene in particolare nei capitoli VI (cit.) e VIII
("Pourquoi les anciens n'avaient pas une idée bien claire de la
monarchie") del libro XI (cit.) dell’EdL. In questi capitoli, Montesquieu richiama – giustamente!
– la attenzione del lettore sul ruolo discriminante del libero mandato
(indicandolo come proprio della «costituzione» inglese) e menziona
come unico, modesto «inconvénient» di questo «bon
gouvernement» ovvero «beau système trouvé dans les
bois» che «le bas peuple y était esclave» (EdL, 11.6).
In
questi due capitoli Montesquieu non usa la parola “Parlement”.
Supplisce Voltaire, il quale così – ironicamente – commenta
la asserita origine nordica-boschiva del sistema di governo inglese
«trouvé […] le parlement d’Angleterre dans le
forêts d’Allemagne?» (Voltaire [Fr.-M.
Arouet] Commentaire sur l’esprit
des lois, 1777, XLII) e «La chambre des pairs et celle des communes,
la cour d’équité, trouvée dans les bois! On ne
l’aurait pas deviné» ("Lois (Esprit de)") in Id., Questions sur l’Encyclopédie, 1770). Cfr. D. Felice,
Voltaire lettore e critico dell’Esprit
des lois, in Id., dir., Montesquieu e i
suoi interpreti, Pisa 2005, 159-190.
Due
secoli prima dell’EdL, la
natura complessivamente rappresentativa del Parlamento era stata già
puntualmente affermata da Thomas Smith
(1513-1577), De Republica Anglorum. The maner of governement or policie of the Realme of
Englande, London 1583
(postumo) The Second Booke - Chap. 1. “Of the Parliament and the
authoritie thereof” «The most high and absolute power of the realme
of Englande, is in the Parliament. For as in warre where the king himselfe in
person, the nobilitie, the rest of the gentilitie, and the yeomanrie is, there
is the force and power of Englande: so in peace and consultation […] For
everie Englishman is entended to bee there present, either in person or by
procuration and attornies, of what preheminence, state, dignitie, or qualitie
soever he be, from the Prince (be he King or Queene) to the lowest person of
Englande. And the consent of the Parliament is taken to be everie mans
consent».
[17] Rousseau teorizza il contratto di
società come l’unico modo di costituire il «corpo
politico» senza sacrificare la libertà individuale e collettiva,
nei capitoli 5 "Qu'il faut toujours remonter à une première
convention" e 6 "Du pacte social" del libro 1 del Contrat social («"Trouver une
forme d'association qui défende et protège de toute la force
commune la personne et les biens de chaque associé, et par laquelle
chacun, s'unissant à tous, n'obéisse pourtant qu'à lui-même,
et reste aussi libre qu'auparavant." Tel est le problème
fondamental dont le Contrat social donne la solution.» [CS, 1.6]) e definisce tale
«contratto» come l’unico «principe» ovvero
«fondement» accettabile nella sesta delle Lettres écrites de la montagne, 1764 («j’ai
posé pour fondement du Corps politique la convention de ses membres;
j’ai réfuté les principes différens du mien»).
[18] CS, 3.15 "Des Députés ou Représentans"
«Le peuple Anglois pense être libre; il se trompe fort, il ne lʼest que durant lʼélection des membres du Parlement; si-tôt quʼils sont élus, il est esclave, il nʼest rien. Dans les courts momens de sa liberté, lʼusage quʼil en fait mérite bien quʼil la perde. Lʼidée des représentans est moderne: elle nous vient
du Gouvernement féodal, de cet inique & absurde Gouvernement dans
lequel lʼespece humaine est dégradée, & où le nom dʼhomme est en déshonneur. Dans les anciennes républiques & même dans les monarchies, jamais le
peuple nʼeut des représentants; on ne connoissoit pas ce mot-là».
La «repubblica» è
«tout Etat régi par des lois, sous quelque forme
d’administration que ce puisse être» e la «legge»
è «quand tout le peuple statue sur tout le peuple» (CS, 2.6).
Per quanto concerne la scansione della
volizione pubblica tra legge e governo, Rousseau comincia con l’avvertire
il lettore di stare particolarmente attento perché l’argomento
è difficile (CS, 3.1 "Du
gouvernement en général" «J'avertis le lecteur que ce
chapitre doit être lu posément, et que je ne sais pas l'art
d'être clair pour qui ne veut pas être attentif. ») quindi
afferma che mentre «la puissance législative appartient au peuple,
et ne peut appartenir qu'à lui […] au contraire […] la
puissance exécutive ne peut appartenir à la
généralité. […] Il faut donc à la force
publique un agent propre qui la réunisse et la mette en oeuvre selon les
directions de la volonté générale […]Voilà
quelle est, dans l'État, la raison du gouvernement, confondu mal
à propos avec le souverain, dont il n'est que le ministre. Etc.».
[19] CS, 4.5 “Du Tribunat” «Quand
l’on ne peut établir une exacte proportion entre les parties
constitutives de l’Etat, ou que des causes indestructibles en alterent
sans cesse les rapports, alors l’on institue une magistrature
particuliere qui ne fait point Corps avec les autres, qui replace chaque terme
dans son vrai rapport, & qui fait une liaison ou un moyen terme, soit entre
le Prince & le peuple, soit entre le Prince & le Souverain, soit
à la fois des deux côtés s’il est nécessaire».
[20] R. Carré
de Malberg, Contribution à la
Théorie générale de l'Etat, II, Paris 1922 (rist.
fotomecc. Paris 1962) 516 nt. 10.
[21] Sull’apporto canonistico, vedi G. Lobrano, La alternativa attuale tra i binomi istituzionali: ‘persona
giuridica e rappresentanza’ e ‘società e articolazione
dell’iter di formazione della volontà’. Una ìpo-tesi
(mendeleeviana), in Diritto@Storia,
n. 10 - 2011-2012 < http://www.dirittoestoria.it/10/D&Innovazione/Lobrano-Persona-giuridica-rappresentanza-societa-formazione-volonta.htm >.
[22] È argomento particolarmente forte della
possibilità di conquistare la «unità» della
collettività senza transitare per la sua astrazione, il Contrat social rousseauiano, il quale
– peraltro – è fortemente intessuto di argomenti
“romani” (vedi, supra,
nt. 6; cfr. nt. 13 e, infra, §
4.d). Rousseau nomina tale «unité», formata dalla
«société» o «association» – oltre
che come «peuple» – come «État», come
«république», come «souverain» come
«corps» politico, morale, collettivo, come «personne»
pubblica e morale. I relativi passi del CS sono
veramente molto numerosi. Ricordo, a titolo di esempi: 1.4 «La guerre
n’est donc point une relation d’homme à homme, mais une
relation d’État à État»;
1.5 «Il y aura toujours une grande différence entre soumettre une
multitude et régir une société. Que des hommes
épars soient successivement asservis à un seul, en quelque nombre
qu’ils puissent être, je ne vois là qu’un maître
et des esclaves, je n’y vois point un peuple et son chef: c’est, si
l’on veut, une agrégation, mais non pas une association; il
n’y a là ni bien public, ni corps politique.»; 1.6 «au
lieu de la personne particulière de chaque contractant, cet acte
d’association produit un corps moral et collectif, composé
d’autant de membres que l’assemblée a de voix, lequel
reçoit de ce même acte son unité, son moi commun, sa vie et
sa volonté. Cette personne publique, qui se forme ainsi par
l’union de toutes les autres, prenait autrefois le nom de cité, et
prend maintenant celui de république ou de corps politique, lequel est
appelé par ses membres État quand il est passif, souverain quand
il est actif, puissance en le comparant à ses semblables. À
l’égard des associés, ils prennent collectivement le nom de
peuple, et s’appellent en particulier citoyens, comme participant
à l’autorité souveraine, et sujets, comme soumis aux lois
de l’État. Mais ces termes se confondent souvent et se prennent
l’un pour l’autre; il suffit de les savoir distinguer quand ils
sont employés dans toute leur précision»; 2.4 «l’État
ou la cité n’est qu’une personne morale dont la vie consiste
dans l’union de ses membres». Il passo più interessante
è però l’intero capitolo 1.7 "Du Souverain" alla
cui lettura rinvio e che contiene la famosa regola «quiconque refusera
d’obéir à la volonté générale y sera
contraint par tout le corps: ce qui ne signifie autre chose, sinon qu’on
le forcera d’être libre».
Sulla
formazione e modo d’agire del «corpo politico come persona
morale» vedi Gabriella Silvestrini,
Diritto naturale e volontà
generale. Il contrattualismo repubblicano di Jean-Jacques Rousseau, Torino
2010, 102 ss.
[23] Senza dimenticare la – anzi rilevantissima –
Costituzione USA del 1787, su cui vedi, infra,
nt. 38.
[24] La prima stesura della Déclaration
del ’93, approvata dalla Convention nationale il 14 giugno, era stata
presentata da Robespierre alla Société des Jacobins nella
ricorrenza del ‘natale di Roma’, il 21 di aprile, dello stesso anno
(H. Leuwers, Robespierre, Paris 2014, chap. 18, nt. 8).
[25] Robespierre nel suo Discours
sur la Constitution, pronunziato il 10 maggio 1793 alla Convenzione (Le
Moniteur universel, 13 mai 1793, p. 363, e su cui ha richiamato
la attenzione, quasi mezzo secolo fa, P. Catalano,
Tribunato e resistenza, Torino 1971,
72) «Jusqu’ici, les politiques qui ont semblé vouloir faire
quelque effort, moins pour défendre la liberté que pour modifier
la tyrannie, n’ont pu imaginer que deux moyens de parvenir à ce
but. L’un est l’équilibre
des pouvoirs, et l’autre le tribunat.»
[26] Article 4. - La liberté
consiste à pouvoir faire tout ce qui ne nuit pas à autrui: ainsi
l'exercice des droits naturels de chaque homme n'a de bornes que celles qui
assurent aux autres Membres de la Société, la jouissance de ces
mêmes droits. Ces bornes ne peuvent être déterminées
que par la Loi. - Article 5. - La Loi n'a le droit de défendre que les
actions nuisibles à la Société. Tout ce qui n'est pas
défendu par la Loi ne peut être empêché, et nul ne peut
être contraint à faire ce qu'elle n'ordonne pas.
[27] Chapitre III - De l'exercice du pouvoir législatif. Section
première. - Pouvoirs et
fonctions de l'Assemblée nationale législative. Article
1. - La Constitution délègue exclusivement
au Corps législatif les pouvoirs et fonctions ci-après : 1 De
proposer et décréter les lois : le roi peut seulement inviter le
Corps législatif à prendre un objet en considération.
[28] Secondo il diplomatico francese a
Ginevra, l’abate giacobino Jean-Luis-Giraud Soulavie (il quale, nel 1793,
dona una copia della coeva Costituzione francese al ‘Grand Bailli du
Valais’, Jakob-Valentin Sigristen) «A l'exception d’une seule
commune de 120 électeurs, cette constitution […] a été
adoptée par l’unanimité “des 44 mille assemblées
primaires” de toute la République» (P. Guichonnet, Les monts en feu: la guerre en Faucigny, 1793, Annecy 1995, 286).
[29] Introducendo la idea della protezione
dei Cittadini contro il governo e del “limite” non giuridico ma
“morale” della libertà: “Article 6 (la
liberté)” «La liberté est le pouvoir qui appartient
à l’homme de faire tout ce qui ne nuit pas aux droits
d’autrui ; elle a pour principe la nature ; pour règle la justice
; pour sauvegarde la loi ; sa limite morale est dans cette maxime: Ne fais pas
à un autre ce que tu ne veux pas qu’il te soit fait.»;
“Article 9 (la loi)“ «La loi doit protéger la
liberté publique et individuelle contre l’oppression de ceux qui
gouvernent.»
[30] Article 53. - Le Corps
législatif propose des lois et rend des décrets. […]
Article 58. - Le projet est imprimé et envoyé à toutes les
communes de la République, sous ce titre: loi proposée.
Article 59. - Quarante jours après l'envoi de la loi proposée,
si, dans la moitié des départements, plus un, le dixième
des Assemblées primaires de chacun d'eux, régulièrement
formées, n'a pas réclamé, le projet est accepté et
devient loi.
[31] Il 3 settembre 1791, la
Assemblée constituante «déclare
que la Constitution est terminée, et qu'elle ne peut y rien changer»
(Archives parlementaires de 1781 à
1860, T. XXX: "Du 27
août au 17 septembre 1791", 189). La Costituzione è, quindi, accettata dal Re, Luigi
XVI, il 13 settembre 1971; il giorno dopo, la accettazione è reiterata e
il Re sottoscrive la Costituzione (G. Glénard,
L’exécutif et la Constitution de 1791, Paris 2010,
Première Partie “L’exécutif monarchique et
constitutionnalisé”, Chap. I. “L’acceptation de la
constitution”).
[32] K. Marx
- F. Engels, Die heilige Familie oder Kritik der kritischen Kritik gegen Bruno Bauer
und Konsorten, 1844-1845, VI. "Die absolute kritische Kritik oder die
kritische Kritik als Herr Bruno", 3. "Dritter Feldzug der
absoluten Kritik“, c. "Kritische Schlacht gegen die
französische Revolution“.
[35] G. Lobrano, Code Napoléon e Diritto romano: lo
stato della riflessione scientifica (con qualche integrazione), in Bicentenaire du Code Napoléon
[Atti del Seminario internazionale, Corte (Corsica), 1-2 novembre 2004] in
Françoise Bastien-Rabner et J.-Y. Coppolani, par le soin de, Napoléon et le Code civil,
Ajaccio 2009 (ivi rinvii ai contributi, su questo tema, di Pierangelo Catalano
e Sandro Schipani).
[36] Gesetz über Aktiengesellschaften und Kommanditgesellschaften auf
Aktien, su cui vedi, infra, § 4.b.
[37] P. Catalano,
Tribunato e resistenza, cit., 58
«Il pensiero di Rousseau si collega a quello dell’Althusius»;
cfr. ibidem, 39.
[38] Vedi G. Lobrano,
Il dovere della memoria storica e della
riflessione giuridica. La ‘Costituzione di Cadice’: tra
‘liberalismo metropolitano’ e ‘democrazia americana’
(1812-2012), in Roma e America.
Diritto romano comune, n. 33, anno 2012 (ma pubblicato nel 2013) 85-123, sulla
diversità delle soluzioni federali USA e girondina, da una parte, e
giacobina, dall’altra.
[39] Questa operazione viene dagli Illuministi scozzesi, i
quali subordinano il diritto alle esigenze e alla logica della economia (ma certamente
non se ne disinteressano: Maria Pia Paganelli,
The Scottish Enlightenment and public
governance of the economic system, in Aa.Vv., Idee e principi costituzionali dell’Illuminismo scozzese = Giornale di Storia Costituzionale, n.
20, 2/2010, 135 ss.; C. Martinelli,
Profili costituzionalistici dello
Scottish Enlightenment, in Id., a cura di, La Scozia nella costituzione britannica. Storia, idee, devolution in
una prospettiva comparata, Torino 2016, 106). Il primo a formulare la
contrapposizione tra «Struktur»
e «Überbau» è, però, Karl Marx (prefazione a Per la critica dell’economia politica,
1859).
[40] Sulla
«incompatibilità» di «socialismo» e
«mercato»: T. Andreani,
Le socialisme de marché:
problèmes et modélisations, in J. Bidet, E. Kouvelakis, Dictionnaire Marx Contemporain, Paris
2001, 222 ss., cap. primo "Socialisme et marché sont-ils
incompatibles?".
[42] G. Lobrano, Esiste un «pensiero
político-giuridico Latino-Americano»? Caratteristiche e
attualità del pensiero democratico: federalismo vero contro federalismo
falso tra Europa e America, in V. Giménez Chornet e A. Colomer
Viadel, ed., I Congreso Internacional
América-Europa, Europa-América, Valencia 2015, 47 ss.;
ripubblicato in lingua portoghese Existe
um «pensamento político-jurídico latino-americano»? O pensamento democrático-republicano da independência
latino-americana: federalismo verdadeiro (municipal) versus federalismo falso
(estadual) entre Europa e América, in J. Pizzi e Maria das
Graças Pinto de Britto, Orgs., Constitucionalismos,
democracias e educação: o presente e o futuro da América
Latina [Coleção: Diálogo Crítico Educativo,
volume VIII], Pelotas 2016.
[43] T. Detti e
G. Gozzini, Storia contemporanea. I. L’Ottocento,
Milano 2000, § “Interpretazioni della rivoluzione francese”,
64, sintetizzano la interpretazione marx-engelsiana dell’esito della
Rivoluzione come «instaurazione di un nuovo ordine liberistico in
economia e costituzionale-parlamentare in politica».
[44] N. Matteucci,
Organizzazione del potere e
libertà. Storia del costituzionalismo moderno, Torino,
1976, 239 «Con la Rivoluzione francese era terminata la
grande fase costituente della storia occidentale, nella quale vennero stabilite
determinate procedure e offerti modelli di costituzione, ai quali si
ispireranno le forze politiche durante l’800 e il 900, senza però
presentare nuove invenzioni e prospettare nuovi modi di organizzazione del
potere».
[45] Sempre salva qualche notevole eccezione. Si pensi alle
Costituzioni imperiali napoleoniche o alla Costituzione della Repubblica romana
del 1849.
[47] M.J. Baelen, Positions
générales de Benjamin Constant en matière politique et
sociale, in P. Cordey et J.-L. Seylaz, éd., Benjamin Constant. Actes du congrès Benjamin Constant de
Lausanne (octobre 1967), Genève 1968, 24, «Toutes les
positions prises par Benjamin Constant en matière politique et sociale
eurent ce point commun que ce furent des positions novatrices, hardies, des
positions d’homme de progrès. Pour être un homme de
progrès, il faut croire à ce progrès, il faut croire le
progrès possible. Or, tout le système philosophique de Constant
postule ce progrès, en dépit de fréquents et très
naturels accès de pessimisme». Cfr.
G. Lanaro, L’evoluzione, il progresso e la società industriale. Un profilo di Herbert Spencer, Firenze 1997.
Friedrich Nietzsche
parlerà di «historische Krankheit»: Betrachtungen. Zweites Stück: Vom Nutzen und Nachtheil der Historie für das Leben, 1874, Kapiteln
4-8; Menschliches, Allzumenschliches: Ein Buch für freie
Geister, II, 1886, Vorrede: «Und was ich
gegen die‚ historische Krankheit‘ gesagt habe, das sagte ich als
einer, der von ihr langsam, mühsam genesen lernte und ganz und gar nicht
Willens war, fürderhin auf ‚Historie‘ zu verzichten, weil er
einstmals an ihr gelitten hatte.»; Ecce
homo. Wie man wird, was man ist,
1888, Kapitel "Die Unzeitgemässen" (A. Di Dedda, Historische Krankheit. Wiederkunft und Gefühl bei Friedrich Nietzsche, Hamburg 2014).
[48] Una – peraltro logica –
‘asincronia’ (vedi, supra,
§§ 1.c e 2.b e c) è rilevabile anche all’interno della
riflessione scientifica ottocentesca sulla libertà. Tale riflessione non
soltanto prende le mosse dalla epistemologia storiografica per svilupparsi con
la epistemologia giuridica ma inoltre, all’interno di questa, prende le
mosse dal punto di vista gius-privatistico, dal piano della concezione della
collettività e dall’aspetto dell’esercizio della
libertà per completarsi con il punto di vista gius-pubblicistico, con il
piano del regime della collettività e con l’aspetto della difesa
della libertà. Non costituisce una reale eccezione a questo ordine
cronologico la riflessione sul tribunato romano, condotta in varie opere da Johann Gottlieb Fichte, il quale è esponente dell’ultimo
pensiero ’700esco oltre (e, forse, più) che del primo
’800esco (in proposito, P. Catalano, Tribunato e
resistenza, cit., 90 ss. e G. Lobrano,
Res publica res populi. La legge e la
limitazione del potere, Torino 1996, 310 ss.).
Una ulteriore – e sempre
logica – asincronia corre tra la riflessione scientifica e la sua
traduzione normativa (gius-privatistica, perché quella
gius-pubblicistica è già perfezionata nel ’700, vedi, supra, nt. 44).
[49] De la liberté des anciens comparée à celle des
modernes: «Chez les modernes […]
l'individu, indépendant dans sa vie privée, n'est même dans
les états les plus libres, souverain qu'en apparence. Sa
souveraineté est restreinte, presque toujours suspendue; et si, à
des époques fixes, mais rares, durant les quelles il est encore
entouré de précautions et d'entraves, il exerce cette
souveraineté, ce n'est jamais que pour l'abdiquer.» Fin qui siamo
alla ripetizione della tesi rousseauiana. La novità constantiana
è che «chez les anciens, l'individu, souverain presque
habituellement dans les affaires publiques, est esclave dans tous les rapports
privés».
Smentisce lo schema di Constant la Déclaration giacobina del
’93 (di «modello» romano): art. 26 «Il y a oppression
contre corps social lorsqu’un seul de ses membres est opprimé. Il
y a oppression contre chaque membre lorsque le corps social est
opprimé» e l’auspicio del giacobino Saint Just
«Qu’on mette de la différence entre être libre et se déclarer
indépendant pour faire le mal. Que les hommes révolutionnaires
soient des Romains et non point des Tartares» (discours du 26 germinal de
l’an II – 15.IV.1794).
Sul pensiero giuridico di Constant,
vedi P. Catalano, Tribunato e resistenza, cit., 9 s. e 69
e L. Hecketsweiler, La liberté romaine comme autonomie en
1849, in L. Reverso, La
république romaine de 1849 et la France, Paris 2008, 47 ss. Vedi
anche L. Ferry, Philosophie politique. I. Le droit: la nouvelle querelle des anciens
et des modernes, 2a ed.,Paris 1999 [1a ed. 1984] (sulla persistenza del
pensiero di Constant); P. Pasquino,
Emmanuel Sieyes, Benjamin Constant et le
gouvernement des modernes, Contribution à l’histoire du concept de
représentation politique, in Revue
française de science politique, 37e année, n° 2, 1987,
214-229 (a proposito della forte corrispondenza del pensiero di Constant con
quello di Sieyès); L. Fezzi,
Il rimpianto di Roma. Res publica,
libertà ‘neoromane’ e Benjamin Constant agli inizi del terzo
millennio, Milano 2012 (con una ricostruzione
dello stato della dottrina).
[50] Vedi Jean-Antoine-Nicolas Caritat Marquis de Condorcet, Esquisse
d'un Tableau historique des progrès de l'esprit humain, scritto nel
1794 e pubblicato postumo nel 1795.
[51] Der achtzehnte Brumaire des Louis
Napoleon, 1852, §
I. «Die neue Gesellschaftsformation einmal
hergestellt, verschwanden die vorsündflutlichen Kolosse und mit ihnen das
wieder auferstandene Römertum – die Brutusse, Gracchusse,
Publicolas, die Tribunen, die Senatoren und Cäsar selbst.» Questa concezione, in linea con la contrapposizione
constantiana della «libertà degli Antichi» e della
«libertà dei Moderni», appare però sottoposta a
profondo ripensamento critico dal Marx che lavora alla stesura del Capitale. Tale ripensamento appare dagli
appunti redatti per quella stesura e noti con il titolo di Grundrisse der
Kritik der politischen Ökonomie,
soprattutto dal loro frammento noto con il titolo Formen die der kapitalistischen Produktion vorhergehen, del quale si
veda la ed. in lingua italiana (Forme
economiche precapitalistiche) con la utile “Prefazione” di Eric
J. Hobsbawm. Nelle Formen, Marx
recupera il valore politico della forma di produzione antica e in particolare
romana al di là di ogni pretesa regola evolutiva. Sulle Formen non mancano i contributi dei
romanisti italiani, cui rinvio.
[52] Juan
Bautista Alberdi, Peregrinación de Luz del Día
o Viajes y aventuras de la Verdad en el Nuevo Mundo, 1871: §. 3.15.
“El dilema de la libertad en Sud-América” «Si la América
antes española prefiere ser la 'América de la poesía', a
ser la 'América de la libertad', puéblese entonces con las
inmigraciones de la Europa latina. La raza latina la traerá naturalmente
su 'libertad latina', libertad muerta, como la lengua latina, libertad
arqueológica, que practicó la difunta República romana, y
que sólo vive hoy como vive su lengua, la vida de los fósiles, en
los museos y biblotecas de los eruditos, no en los parlamentos que la
antigüedad latina no conoció.»; §. 3.16. “Índole y
condición de la libertad latina” «La libertad moderna es
antirromana, antilatina por esencia. La libertad viva y palpitante (que es el
gobierno del hombre por sí mismo, como se practica en Inglaterra y en la
América del Norte), 'ha salido', como dice Montesquieu, 'de los bosques
de la Germania', no del viejo 'Latium', ni de la antigua Roma. Ella es sajona y
germánica de origen, anglo-americana de presente y porvenir. Es la
libertad del hombre dividida en dos partes, o ejercida de dos modos: una para
formar el fondo común de libertades unidas, que se llama 'autoridad o
gobierno'; otra que cada hombre se reserva para garantía de la que
delega, y se llama 'libertad individual'.» Alberdi
cambierà idea in occasione della guerra, mossa al Paraguay tra il 1864 e
il 1870 dalla “Triple alianza” della Argentina, Brasile e Uruguay. Scrive Alberdi, elogiando il Paraguay
e prendendone le difese: «El Paraguay es una república hecha en un
molde, que se asemeja más al de las repúblicas de la
antígüedad que al de las repúblicas de Estados Unidos y
Suiza. Puede no tener las libertades brillantes y ostensibles de las
repúblicas del día, pero tíene otras, derivadas de un
orden social, que mucho se asemeja al que formaba el fondo de las
repúblicas antiguas. [...] El ejército paraguayo es numeroso
relatívamente al pueblo, porque no se distingue del pueblo. Todo
ciudadano es soldado; y como no hay un ciudadano que no sea propietario de un
terreno cultivado por él y su familia, cada soldado defiende su
interés propio y el bienestar de su familia en la defensa que hace de su
país. [...] Diez libertades de la palabra no valen una Libertad de
acción, y solo es libre en realidad el que vive de lo suyo» (Id., Escritos Póstumos, IX. Ensayos
sobre la sociedad, los hombres y las cosas de Sud-América, Buenos Aires 1899, 432 ss.; cfr. G. Lobrano, El esquema de la contraposición de ‘romanos-latinos' con
‘germanos-anglosajones' y el modelo constitucional romano en el
pensamiento jurídico moderno, in Revista
de la Pontificia Universidad Católica del Ecuador. Número
monográfico de Jurisprudencia, año XVI, n. 50, octubre 1988 -
Quito - Ecuador, 245-296, in part. 292 s.; più recentemente L. Pomer, La Guerra del Paraguay: estado, política y negocios, Buenos
Aires 2008).
[53] Certamente importante se non decisivo il passaggio del
concetto di “rappresentanza” da «finzione» ad
«artificio», compiuto di Hobbes nei confonti – diciamo
– di Sinibaldo dei Fieschi e ripreso da Savigny.
Th. Hobbes, Leviathan or
the Matter, Forme and Power of A Commonwealth Ecclesiastical and Civil by
Thomas Hobbes of Malmesbury, London 1651, Part I. "Of Man", Chap. I6.
“Of Persons, Authors, and things Personated” «A Multitude of
men, are made One Person, when they
are by one man, or one Person, Represented; so that it be done with the consent
of every one of that Multitude in particular. For it is the Unity of the Representer, not the Unity of the Represented, that maketh
the Person One. And it is the
Representer that beareth the Person, and but one Person: And Unity, cannot otherwise be understood in
Multitude».
Fr. C. von Savigny, System des
heutigen Römischen Rechts, Zweyter Band, Berlin 1840, 235:
§. 85. "Juristische Personen. Begriff" «Die Rechtsfähigkeit wurde oben dargestellt
als zusammenfallend mit dem Begriff des einzelnen Menschen (§ 60). Wir
betrachten ſie jetzt als ausgedehnt auf künstliche, durch bloße
Fiction angenommene Subjecte. Ein solches Subject nennen wir eine juristische Person,
d. h. eine Person welche bloß zu juristischen Zwecken angenommen wird. In
ihr finden wir einen Träger von Rechtsverhältnissen noch neben dem
einzelnen Menschen».
[54] Leviathan, cit., Part II.
“Of Commonwealth”, § XVII “Of the Causes, Generation,
and Definition of a Commonwealth” «… This done, the
multitude so united in one person is called a Commonwealth; in Latin, Civitas.
This is the generation of that great Leviathan, or rather, to speak more
reverently, of that mortal god to which we owe, under the immortal God, our
peace and defence. […] And he that carryeth this person is called
sovereign, and said to have sovereign power; and every one besides, his
subject». Vedi anche Chap. XVIII.
[55] Si confronti l’ordine espositivo dei capitoli 16
(che conclude la prima parte [sull’ uomo]) e 17 s. (che aprono la seconda
parte [sul ‘Commonwealth’]) del Leviathan
e dei libri II e III del System.
Ma
è solo una differenza di ordine. È equivocata la tesi secondo cui
«L'espressione 'persona giuridica' usata dalla teoria tradizionale [di
Savigny e immediati epigoni] ha dunque un significato del tutto diverso
dall'espressione 'persona finta o artificiale' usata da Hobbes»
perché «capovolgendo […] la tesi di Hobbes, essa ritiene che
è l'unità del gruppo di individui rappresentati, e non già
l'unicità del rappresentante, a far sì che il gruppo possa essere
considerato come una persona» (così, ad. es., E. Gliozzi, “Persona
giuridica” in Enciclopedia Treccani
delle scienze sociali, 1996). La specificità della dottrina di
Savigny consiste (ben al di là della differenza di ordine espositivo con
la dottrina di Hobbes) nella differenza di concezione della
«persona» collettiva unitaria: astratta secondo Savigny (e Hobbes)
e pertanto assolutamente bisognosa del rappresentante/capo ma concreta secondo
Rousseau (vedi, supra, nt. 22) e
pertanto refrattaria ad esso.
[59] Nella
traduzione inglese di William Holloway (giudice della “High Court”
di Madras [India] editore J. Higginbotham, 1867) l’aggettivo
«heutiges» diventa «modern»: System of the Modern Roman Law. Vedi J. Duncan M. Derrett, The
role of Roman Law and continental laws in India, in Zeitschrift für ausländisches und internationales Privatrecht,
XXIV/4, 1959, 657 ss., quindi in Id.,
Essays in classical and modern hindu Law,
II. Consequences
of the intellectual exchange with the foreign powers, Leiden 1977, 166 ss., in part. § II. “Holloway
J.’Career at Madras” 179-191.
[60] System des heutigen römischen
Rechts, Zweyter
Band, Berlin 1840, § 85.I "Juristische Personen. Begriff", 235
ss. in part. 236 (ivi la definizione).
La presenza della espressione «juristische Person» è
stata segnalata – già prima che nel System savignyano – presso Gustav Hugo, (Lehrbuch des
Naturrechts als einer Philosophie des positiven Rechts, Berlin 1798, 445) e
Georg Arnold Heise (Grundriß eines Systems
des allgemeinen Civilrechts zum Behuf von Pandekten-Vorlesungen, Heidelberg
1807, Buch I, Kap. IV “Von
den Personen” § III “Von den jurischen Personen”, ivi
[nota 15] la definizione: «Juristische Person ist Alles außer den
einzelnen Menschen, was im Staat als ein eignes Subject von Rechten anerkannt
ist»; cfr., per una bibliografia, H.-Y. Song, "Die Verselbständigung der juristischen
Person im deutschen und koreanischen Recht“ in Schriften
zum Internationalen Privatrecht und zur Rechtsvergleichung, Band 5,
Osnabrück 1999, 25: «Den Terminus “Juristische Person”
kann man zuerst bei dem im Jahre 1789 erschienenen Naturrechtslehrbuch von
Gustav Hugo finden [nt. 14: «Das ist eine einhellige Meinung
…»]. Aber er verwendete ihn noch für die Körperschaft.
Der Begriff »Juristische Person« im Sinne von einem Gegenstand, mit
dem sich die deutsche Rechtswissenschaft im 19. Jahrhundert tiefgehend
befaßte, wurde zuerst im Jahre 1807 in dem “Grundriß eines
Systems des gemeinen Zivilrechts” von Georg Arnold Heise verwendet. Unter
den Begriff “Juristische Person” faßte er neben der
Körperschaft auch Anstalten und selbständige Stiftungen zusammen.
Seine Lehre hat sich schnell durchgesetzt und liegt auch der
einflußreichen Darstellung von Savigny im zweiten Band seines Systems
zugrunde».
[61] Maria Miceli,
Studi sulla rappresentanza nel diritto
romano, I volume, Milano 2008, 10 nt. 24; 35 nt. 7; 259 nt. 75.
[62] F.C. von Savigny, System des
heutigen römischen Rechts, Dritter
Band, Berlin 1840, §. 113. II. "Freye Handlungen. -
Erweiterung durch Stellvertreter", 90 ss. in part. 93, nt. "f":
«Wenn also der Herr dem Sklaven befahl, für ihn eine Schuld zu
contrahiren, so wurde dennoch der Herr nach altem Recht nicht Schuldner;
deswegen führte hier der Prätor eine eigene Klage ein, quod jussu».
Così faceva anche Christian
Friedrich von Glück, nel suo
monumentale trattato di Pandette in 34
voll., 1790-1830: Ausführliche Erläuterung der
Pandecten nach Hellfeld ein Commentar, Erlangen 1813, Lib. XV. Tit. IV.
“Quod iussu”. §.
919. 423 s. “Begriff und Natur der actio
quod iussu" «Ohne alle Rücksicht auf ein Pekulium, oder auf
nützliche Verwendung haftet der Vater aus dem Contract seines Sohn
alsdann, wen er ihm den Befehl gab, das Geschäft zu schließe, aus
welchem er belangt wird. […] Die actio
quod iussu setzt also voraus, I) daß ein Familienvater einer unter
seiner Gewalt stehenden Person, also seinem Sohne, oder Tochter, oder welches
bey den Römern ein noch gewöhnlicherer Fall war, seinem Sklaven, ohne
Unterschied des Geschlechts einen Befehl gegeben habe, mit einem Dritten einen
Contract zu Schließen. Befehl heißt hier der Wille, den ein
Familienvater solchen Personen zu erkennen gibt, die unter seiner Gewalt
stehen, daß sie etwas thun sollen. Ein solcher iussus ist also von einem Auftrage (mandatum) wohl zu unterscheiden, denn diesen ertheilt man solchen Personen
die nicht in unserer Gewalt sind». Cfr. G. Seazzu, Sui processi di formazione della
volontà collettiva: appunti in tema di iussum e negozi con il terzo, in D. D’Orsogna - G. Lobrano - P. P.
Onida, a cura di, Città e Diritto.
Studi per la partecipazione civica. Un
«Codice» per Curitiba, cit., 231 ss. in part. 259.
[63] «Das Wort iussus hat hier den technischen Sinn, welcher in § 412 Note
8° bezeichnet worden ist; es bedeutet nicht Befehl, sondern Verweisung,
Anweisung. Indem man diese technische Bedeutung von iussus verkannte und zu gleicher Zeit in’s Auge fasste, dass
die actio quod iussu auf den Fall
berechnet ist, wo Jemand durch Gewaltunterworfene Personen verpflichtet werden
will (Note 10), hat man die Behauptung aufgestellt, dass der iussus an den Gewaltunterworfenen
gerichtet werden müsse, oder doch, dass dies der Normalfall der actio quod iussu sei […] Die
Quellen sprechen fasst allein von einem iussus
and der Dritten […] und die einzige stelle […] in welcher der iussus unzweifelhaft auf den
Gewaltunterworfenen bezogen wird, 1.2. D.
quod cum eo 14.5, hat nicht die
Absicht die Voraussetzungen gerade der actio
quod iussu anzugeben» (B. Windscheid,
Lehrbuch des Pandektenrechts,
Frankfurt a. M. 1862-70; sechste verbesserte und vermehrte Auflage, zweiter
Band, Frankfurth a. M. 1887, 859 nt. 6. La
novità della negazione della natura di comando allo «iussus» (almeno nella materia
delle actiones a. q.) è
già posta da Windscheid nella prima edizione del libro IV del proprio Lehrbuch [“Das Recht der
Forderungen”] la quale è del 1866).
[64] P. Laband,
Die Stellvertretung bei dem Abschluβ von Rechtsgeschäften nach dem Allgemeinen deutschen
Handelsgesetzbuch, in ZHR - Zeitschrift für
Handelsrecht, 10, 1866, 183 ss.
[65] M. Campobasso,
Il potere di rappresentanza degli
amministratori di società di capitali nella prospettiva
dell’unità concettuale delle forme di rappresentanza negoziale e
organica, in Amministrazione e
controllo nel diritto delle società. Liber amicorum Antonio Piras, Torino 2010, 452: il
«processo evolutivo comune alle varie forme di rappresentanza di cui la
rappresentanza delle società costituisce il punto più avanzato
[… consiste nella …] progressiva affermazione dell’autonomia
del potere di rappresentanza dal contenuto di potere gestorio che lega il
rappresentante al rappresentato. Uno sviluppo di cui si possono rintracciare le
lontane origini fin dal XIX secolo, nell’insegnamento del LABAND secondo
cui la procura è negozio autonomo dal mandato» (cfr. Id., L’imputazione di conoscenza nelle società, Milano
2002, 172 ss.)
[66] In particolare il tema delle fonti del diritto
nel Libro I, dei trattati internazionali nel Libro III e del rapporto tra
diritto e territorio nel Libro VIII
(cfr. Angela Trombetta, Savigny e il sistema. Alla ricerca dell’ordine
giuridico, Bari 2008, 72 ss.)
[67] M. Troper, Per una teoria giuridica dello stato
[trad. di Pour une théorie
juridique de l’État, Paris 1994] Napoli 1998,
“Prefazione” 18 s.: «è prendendo esempio sul metodo
dei pandettisti, cioè costruendo un sistema di concetti fondati su
alcuni principi, che Mommsen cercò di fondare una scienza del diritto
pubblico o scienza dello Stato».
[68] Secondo U. von Lübtow, Das
römische Volk. Sein Staat und sein Recht, dedicato a «Theodoro
Mommsen immortali» (Frankfurt am Mein 1955) 312 i giuristi romani
«wandten sich den mit ganzer Kraft dem Ausbau des Privatrechts zu. Das
römische Staatsrecht blieb ungeschrieben, bis fast zweitausend Jahre später.
Theodor Mommsen durch seine großartige geistige Nachschöpfung dieses
Rechts aus dem Geist des Römertums die Lücke geschlossen hat.
Allerdings: Die geschichtliche Erscheinung des römischen Staatswesens
spottet im Grunde einer systematisch-begrifflichen Zusammenfassung, wie Mommsen
sie geben wollte».
[69] Vedi Carla Masi
Doria, “Nota di lettura” a Th. Mommsen, De collegiis et sodaliciis Romanorum
e Zur Lehre von den römischen
Korporationen [= Antiqua, 92] Napoli 2006, XVII ss.
[71] Abriss des römischen Staatsrechts,
Leipzig 1893, incipit del “Vorwort”: «Der mir von
massgebender Seite geäusserte "Wunsch, das römische Staatsrecht
in übersichtliche und für Juristen, die nicht zugleich Philologen
sind, ausreichende Gestalt gebracht zu sehen, hat mich ver- anlasst diesen
kurzen Abriss desselben zu entwerfen».
[72] Abriss, cit., § 2.1 “Der Amtsbegriff”: «Insofem diese Vertretung der Gemeinde
durch deren Verfassung, Gemeinde- sei es allgemein, sei es in bestimmter
Begrenzung, einer einzelnen Person zugewiesen wird, ist ein solcher
Gemeindevertreter Magistrat; Handlung der Gemeinde ist eine jede, welche
innerhalb der hiedurch gezogenen Schranken von dem Vertreter selbst oder in
seinem Auftrag vollzogen wird. Regelmässig wird für die
Gemeindehandlung eine fest geordnete Vertretung gefordert; nur in gewissen
Fällen, namentlich bei einer der Gemeinde zugefügten Schädigung,
ermächtigt die Verfassung jeden Bürger zur Vertretung der Gemeinde,
und insofern kommt ausnahmsweise auch eine nicht magistratische
Gemeindevertretung vor».
[73] Abriss, cit., § 5.3 “Competenz der
Comitien”: «Entsprechend der lex privata ist die lex publica die magistratische Festsetzung irgend welchen Inhalts, mag
dies ein administrativer Act sein oder was wir Gesetz nennen, die Feststellung
einer von der bestehenden abweichenden Rechtsnorm sei es für einen
einzelnen Fall (privilegium), sei es
allgemein für alle zukünftig eintretenden gleichartigen».
[74] Abriss, cit., § 2.1; § 5.3 «Unter der Competenz der Comitien verstehen wir ihre
zu gewissen magistratischen Acten erforderliche Zustimmung.»
perché «Entsprechend der lex privata ist die lex
publica die magistratische Festsetzung irgend welchen Inhalts, mag dies ein
administrativer Act sein oder was wir Gesetz nennen, die Feststellung einer von
der bestehenden abweichenden Rechtsnorm sei es für einen einzelnen Fall
(privilegium), sei es allgemein für alle zukünftig eintretenden
gleichartigen. Der Magistrat ist befugt diese Festsetzung zu treffen entweder
kraft seiner Amtsgewalt (lex data) oder nur nach Befragung und mit Einwilligung
der Bürgerschaft (lex rogata)».
Ancora
uno dei ‘padri costituenti’ italiani, il costituzionalista Egidio
Tosato, afferma a proposito della Costituzione della Repubblica italiana, che
«l’ordinamento appare informato a due principî – della
personalità dello Stato e della sovranità popolare – che si
presentano reciprocamente contraddittori» così che «tutti i
tentativi che si sono susseguiti nella dottrina per conciliare i due
principî sono riusciti vani» (31 s.) E. Tosato, "Sovranità del popolo e sovranità
dello Stato" [1957] ora in Id.,
Persona, società intermedie e
Stato. Saggi, a cura di A. e G.L. Tosato, Milano 1989, 31 s. Vedi anche il
commento di Costantino Mortati
all’art. 1 in G. Branca, a cura di, Commentario
della Costituzione italiana, 1975. Mortati, premesso che, secondo la
lettera della Costituzione, «La sovranità appartiene al popolo, che
la esercita nelle forme e nei limiti della Costituzione» stessa e che
«i limiti imposti al suo esercizio non possono giungere fino al punto da
rendere solo apparente tale conferimento» come invece occorre, conclude
che «Il regime di poliarchia effettivamente vigente viene pertanto a
realizzare una forma di sovranità del Parlamento».
[75] Abriss, cit. § I.1.a “Geschlecht
und Gemeinde”. Si noti che, a differenza della
traduzione italiana («il diritto pubblico romano, […] come ogni diritto,
presuppone lo stato») la espressione originale tedesca contiene una tautologia
così evidente da apparire irridente.
[76] G. Nocera, Il potere dei comizi e i suoi limiti, Milano 1940, “Avvertenza” viii nt. 1 e 24 nt. 2.
[77] J.N. Madvig,
L'état romain, sa constitution et son
administration, trad. di Ch. Morel, I, Paris 1882,
“Introduction”.
[78] Contro la
interpretazione secondo la quale il tribunato è specificamente dotato
della facoltà/potere di «empêcher» (su cui concordavano Montesquieu [EdL, 11.6] e Rousseau
[CS, 4.5]) Mommsen (Römisches Staatsrecht, I, 3a ed., Leipzig 1887, rist. anast. Graz 1952, VIII s.) scrive: «Wie
in der Behandlung des Privatrechts der rationelle Fortschritt sich darin
darstellt, dass neben und vor den einzelnen Rechtsverhältnissen die
Grundbegriffe systematische Darstellung gefunden haben, so wird auch das
Staatsrecht sich erst dann einigermassen ebenbürtig neben das […]
Privatrecht stellen dürfen, wenn, wie dort der Begriff der Obligation als
primärer steht über Kauf und Miethe, so hier Consulat und Dictatur
erwogen werden als Modificationen des Grundbegriffs der Magistratur.
Beispielsweise führe ich die Lehre von der Cooperation und dem Turnus bei
den Amtshandlungen und die von der Intercession ein; eine klare Darstellung der
ersteren lässt sich unmöglich geben, wenn die einzelnen Notizen bei
den verschiedenen Magistraturen untergebracht werden, und die übliche
Abhandlung der Intercession bei der tribunicischen Gewalt giebt sogar ein
durchaus schiefes Bild».
Sulla
operazione ’800esca di «dimenticanza» dello specifico potere
tribunizio vedi P. Catalano, Tribunato e resistenza, Torino 1971; Id., Un concepto olvidado: «poder negativo» [1980], in
Aa.Vv., Costituzionalismo latino, I
[= Progetto Italia-America Latina. Ricerche giuridiche e politiche, Materiali,
IX/1] Sassari s.d., 40 ss.
[79] La stessa operazione sarà compiuta, nel 1942, dagli
autori del Codice Civile: Libro Primo. Delle
persone e della famiglia; Titolo I. Delle persone fisiche; Titolo II. Delle
persone giuridiche; Capo II. Delle associazioni e fondazioni.
[80] F. Galgano, Diritto commerciale, II. Le società, 18a ed., ristampa
agg., Bologna 2013, 151-156; cfr. 161-164.
[81] F. Galgano, Lex
mercatoria, 4a ed.,
Bologna, 2001, 159 ss. ricorda che tale modello organizzativo è stato
definito «democrazia azionaria» e che sarà soppiantato
dall’Aktiengesetz tedesco del
1937, in esplicita applicazione del “Führeprinzip”.
[82] Ciò che ha punti di contatto con la transizione
dalla concezione della società come contratto (“teoria
contrattualistica”) alla concezione della società come istituzione
(“teoria istituzionalistica”). Vedi in proposito la sentenza Cass.,
sez. I, 26 ottobre 1995, n. 11151, commentata da
P.G. Jaeger - C. Angelici - A. Gambino - R. Costi
- F. Corsi, Cassazione e contrattualismo societario: un incontro?, in Giurisprudenza
Commerciale, 1996, II, 334 ss. e da P.P. Onida,
Causa del contratto di societas e profili della sua rilevanza esterna,
Napoli 2012, 79 nt. 156 (cfr. Id.,
Specificità della causa del
contratto di societas e aspetti
essenziali della sua rilevanza esterna, in Diritto@Storia, 10,
2011-2012, cap. 2 nt. 20 <http://www.dirittoestoria.it/10/contributi/Onida-Specificita-causa-contratto-societas-rilevanza-esterna.htm>; La causa della societas fra diritto romano e diritto
europeo, in Diritto@Storia, 5, 2006 <http://www.dirittoestoria.it/5/Memorie/Onida-Causa-societas-diritto-romano-diritto-europeo.htm>).
[83] Nel Der achtzehnte
Brumaire des Louis Bonaparte (1852) Karl Marx, a proposito della
Costituzione francese del ’48, aveva denunziato come funzionale alle
«trappole poliziesche» (Polizeifallstricke) la formula
costituzionale secondo la quale la libertà deve essere «beschränkt […] durch
“Gesetze”».
[84] R. Orestano,
Il problema delle fondazioni in diritto romano, cit., 145 ss., in part.
166; cfr. Id., Il «problema delle persone
giuridiche» in diritto romano, cit., 178 ss. (§ 25 “Dal
concreto all’astratto” dove scandisce in 4 successive
«situazioni» storiche e dogmatiche quella «conquista»).
Orestano (il quale continua gli studi
del proprio Maestro, Emilio Albertario [di questo vedi in particolare “Corpus
e universitas nella
designazione della persona giuridica” in Studi di dir. rom.,
Milano 1933, I, 9 ss.]) rinvia a E. Betti,
Diritto romano, I, Padova 1935, 74. Cfr.,
quindi, F.M. De Robertis, Personificazione giuridica e ardimenti
costruttivi nella compilazione giustinianea, in Studi in onore di Francesco Santoro-Passarelli, Napoli 1972, 279
ss.
Invocava
«die Kraft der Abstraktion» quanto meno già Otto von Gierke (Das Wesen der menschlichen Verbände [Rede bei Antritt des
Rektorats, am 15. October 1902] Berlin 1902, in part. 9) «die Kraft der Abstraktion, um
in der Rechtsstellung der Menschen das von einander zu sondern, was sein
Zentrum in seinem Einzeldasein hat und was auf ein Zentrum im Gemeinleben
hinweist.» e 19, dove afferma che «Überall aber, wo wir Leben
setzen, finden wir einen Träger des Lebens, der eigenthümliche Merkmale
aufweist. […] So bilden wir einen Begriff des Lebensträgers und
gebrauchen dafür die auf die eigenartige Struktur der belebten Ganzen
hinweisende Bezeichnung „Organismus“. Dieser Begriff ist genau so
gut wissenschaftlich verwendbar, wie jeder andere Begriff, der durch richtige
Abstraktion von erkannten Thatbeständen gewonnen ist und somit einen
Wirklichkeitsinhalt zutreffende ausdrückt.» Gierke ha il merito
della 'riscoperta' di Althusius ma anche in questa operazione sembra restare
ancorato alla idea della "astrazione“: «Sobald man das Volk im
Sinne des organischen Volksganzen nimmt, das im Staat Person wird, geht der
Begriff der Volkssouveränetät in den Begriff der
Staatssouveränetät über.» (Id., Johannes Althusius
und die Entwicklung der naturrechtlichen Staatstheorien, Breslau 1880,
132).
Orestano
si è interessato in misura e maniera assolutamente prevalenti al tema
della “persona giuridica” (vedi Id.,
Il problema delle persone giuridiche nel diritto romano, I, Torino 1968,
174 ss. dove si parla della «progressiva smaterializzazione» del
“corpus” operata dai
giuristi romani [p. 174] in un processo che va Ǥ 25. Dal concreto
all’astratto» in quattro successive tappe «- concezione
materiale; - concezione totalistica; - concezione corporalistica; - concezione
astratta» [178]) ma, pure in assenza di una trattazione organica, ha
applicato la medesima logica al tema della “rappresentanza”: Id., Rappresentanza. Diritto romano, in NNDI, XIV, Torino 1967: «storia della progressiva attuazione
del principio della rappresentanza diretta»).
Il ricorso alla espressione di Betti-Orestano da
parte di Francesco Galgano è nel Trattato di diritto civile, Volume 1, 2 ed.,
Padova 2010, 183 nt. 20, dove l’autore osserva che Orestano
«Tiene a mettere in evidenza come ancora nello stesso diritto
giustinianeo non manchino testimonianze precise di una certa oscillazione tra
le due concezioni: la “collettiva” e
l’“astratta”» e che «per questo storico “il
lento e faticoso processo di astrazione e di unificazione” che porta
all’idea di una personalità corporativa non solo non può
ritenersi compiuto nell’età classica, ma neppure nello stesso
diritto giustinianeo»).
Senza
assegnare molta importanza né soverchia attenzione alla questione, segue
ora la dottrina della “astrazione” A. Groten, Corpus und
universitas. Römisches Körperschafts- und
Gesellschaftsrecht: zwischen griechischer Philosophie und römischer
Politik, Tübingen
2015, 341 ss. («abstrakte Konstruktion der Personenverbände
[…] völlige Abstraktion der Existenz des Begriffs von dem personalen
Substrat») e 384 (“Sintesi della ricerca. § 4. Astrazione dal substrato personale”)
Infine,
due osservazioni sul magistero di Orestano. La prima osservazione è che
egli usa a ragion veduta espressioni “progressiste/evoluzioniste”;
vedi Id., Idea di progresso, esperienza giuridica romana e
‘paleoromanistica’, [intervento al Convegno su "Lo studio
dei diritti antichi e le origini della sociologia del diritto",
Castelgandolfo, 12-14 febbraio 1982] in Soc.
dir., an. 9, 1982, fasc. 3, «il grande romanista tedesco» Fritz
Schulz perché questi «sostenne vigorosamente […] avere i
giuristi romani ignorato qualsiasi sentimento di evoluzione». Cfr. D. Nörr, I giuristi romani: tradizionalismo o progresso?, in BIDR, 23, 1981, 9-33. La seconda
osservazione è che Orestano (in uno scritto dedicato alla riflessione
per la Costituzione italiana – allora – ancora da scrivere)
esordisce stabilendo un rapporto di identità sostanziale tra
«libertà politica» e «parlamentarismo»: Id., L’Assemblea nazionale francese del 1871, Firenze 1946, Cap. I
“Verso il parlamentarismo”. Questo saggio (non inserito nella
raccolta di scritti di Orestano, 5 volumi, Napoli 1998) è parte di una
collana intitolata “Studi storici per la Costituente”, diretta da
Alberto Maria Ghisalberti, per incarico di Pietro Nenni (pro tempore vice-presidente del Consiglio e ministro per la
Costituente del Governo ‘Parri’: G. Talamo, Ghisalberti
direttore editoriale, in L’età
del Risorgimento. Studi e testi, 1986, 518).
[86] Vedi, ad esempio, A. Giardina
e altri, a cura di, Società romana
e produzione schiavistica, Bari-Roma 1981, in particolare, per gli aspetti
giuridici, il vol. 3 Modelli etici,
diritto e trasformazioni sociali.
[88] «Repräsentativ-Körperschaften sind
nicht etwa notwendig “demokratisch” [...] Im geraden Gegenteil wird
sich zeigen, daß der klassische Boden für den Bestand der parlamentarischen
Herrschaft eine Aristokratie oder Plutokratie zu sein pflegte (so in England)
[…] Der Repräsentant, in aller Regel gewählt [...], ist an
keine Instruktion gebunden, sondern Eigenherr über sein Verhalten. Er ist
pflichtmäßig nur an sachliche eigene Ueberzeugungen, nicht an die
Wahrnehmung von Interessen seiner Deleganten gewiesen […] der von den
Wählern gekorene Herr derselben, nicht: ihr ‘Diener’ ist [...]
Diesen Charakter haben insbesondere die modernen parlamentarischen
Repräsentationen angenommen» (M. Weber, Wirtschaft
und Gesellschaft. Grundriss der verstehenden Soziologie, 5a ed., hrsg v. J.
Winckelmann -Tübingen 1976- lib.I cap.III §21).
La connessione tra l’esercizio
della libertà e la formazione della legge è qui colta in maniera
particolarmente penetrante. La alternativa weberiana è: o il
rappresentante è libero di decidere e allora non sono liberi i
rappresentati o il rappresentante non è libero di decidere e allora sono
liberi i suoi rappresentati. La nostra unica precisazione è che soltanto
per il primo termine di questa alternativa si può parlare correttamente
di “rappresentanza”.
Premessa la riserva metodologica sull’uso della
categoria rappresentanza per la comprensione della esperienza antica, possiamo
osservare che la «rappresentanza» di cui scrive Weber è
quella ‘organica’ o ‘istituzionale’ ma la sua natura
non è sostanzialmente altra dalla rappresentanza
‘volontaria’ o ‘diretta’ (M. Campobasso, Il potere
di rappresentanza degli amministratori di società di capitali, cit.,
451 ss.)
Sulla riflessione weberiana in materia
di "mandato" vedi Ch.
Müller, Das imperative und freie Mandat.
Überlegungen zur Lehre von der Repräsentation des Volkes, Leiden
1966, Erstes Kapitel. Verfassungsrechtliche Problemstellung; A. Auslegung des
freien Mandats; § 6. Die Auffassungen Edmund Burkes über das freie
Mandat; B. Auslegung des imperativen Mandats; § 3. Plebiszitäre Demokratie im Sinne Max Webers). Merita inoltre osservare il nesso della riflessione
strettamente tecnicamente giuridica svolta da Weber sul rapporto padrone-servo
(Herr-Diener) nella “rappresentanza”, con la omologa e più
nota riflessione svolta da Friedrich Hegel sul medesimo rapporto
(“Herrschaft und Knechtschaft”, vedi ID., Fenomenologia dello spirito,1806, ed. it.a cura
di E. Arrigoni, rist. Roma 2007, 55 s., in particolare 74 s.) ed espressamente
ripresa da Karl Marx.
[89] J. Cousin, J.-J. Rousseau interprète des institutions romaines dans le
Contrat social, in Aa.Vv., Études
sur le Contrat social de Jean-Jacques Rousseau. Actes des journées
d’étude organisées à Dijion pour la
commémoration du 200e anniversaire du Contrat social, Paris 1964,
13, constata: «l’interprétation donnée par Rousseau
des institutions de Rome, dont la critique occupe près du quart de
l’ouvrage, n’a fait l’objet d’aucune
enquête».
La ‘constatazione’ è la osservazione
più rilevante di tutto il contributo. Peraltro, anziché
interrogarsi egli stesso (come già Rousseau) sul fondamento dogmatico
degli istituti di partecipazione popolare in Roma (essenzialmente, il ruolo
delle assemblee dei cittadini nella formazione delle leggi) Cousin, in linea
con la cultura della sua epoca, rimprovera a Rousseau la sopravvalutazione
degli istituti giuridici rispetto ai rapporti economici. Per una insospettabile
difesa della autonomia delle istituzioni giuridiche rispetto alla economia, A. Guarino, La democrazia a Roma, Napoli 1979, 12 (ove si sviluppa una
riflessione avviata con La democrazia
romana, in Annali del Seminario giuridico
della Università di Catania, I, 1946-47, 97-107 e La crisi della democrazia romana, in Labeo, 13, 1967, 7-21).
[90] In T. Bertone e O. Bucci, a cura di, La persona giuridica collegiale in diritto romano e diritto canonico.
Aequitas romana ed aequitas canonica [= Atti del III e IV Colloquio
(Roma 24-26 aprile 1980 e 13-14 maggio 1981) Diritto romano - Diritto canonico]
9 ss., in part. 18-24; cfr., Id.,
Diritto e persone. Studi su origine e
attualità del sistema romano, 1, Torino 1990.
[92] Th. Mommsen,
De collegiis et sodaliciis Romanorum, Kiliae [Kiel] 1843, 117 «Collegium
instituitur ad exemplum municipii, qua in re tota eorum natura conclusa est.
Cernitur ea imitatio in minimis etiam; ita quod nemo nescit, tres facere
collegium, cum duo societatem faciant, inde repetendum est. Nam respublica requirit multitudinem,
id est tres pluresve. Idem suadet usus loquendi, qui collegiis attribuit rem
publicam, non societatisbus ne publicis quidem. Deinde, quod supra proprium
esse collegiorum diximus, ut habeant causam perpetuam, ex eodem fonte ductum
est; res publica enim nulla ad diem constituitur».
Mommsen,
sottolinea la distinzione tra collegia
e societates, ne individua tuttavia
le differenze soltanto nella causa perpetua e nel numero minimo di tre membri,
necessari soltanto per i collegia (ma
comunque possibili anche per le societates,
pur come ipotesi più di scuola che reale).
[93] Daremberg et Saglio,
Le Dictionnaire des Antiquités
Grecques et Romaines, Lex collegii, «Les usages suivis pour la
confection de la lex collegii
s'expliquent aisément lorsqu'on se rappelle comment les collèges
étaient organisés. Tous les documents sont d'accord pour attester
que l'organisation des collèges est modelée sur celle des
cités (ad exemplum reipublicae).
Les membres du collège forment le populus;
ils sont répartis en décuries, parfois en centuries
commandées par un décurion ou un centurion. La réunion des
décurions forme le sénat ou conseil du collège (ordo decurionum). La masse des
associés forme la plebs. Comme
la cité, le collège a pour protecteurs des patrons dont il
escompte la générosité et qu'il remercie en lui
érigeant des statues. Comme la cité, le collège a ses
assemblées (conventus), qu'il
tient parfois dans un temple public en vertu d'une autorisation
spéciale, le plus souvent dans un local qui lui appartient en propre, la
schola. Ces assemblées, comme
les comices, ont des attributions électorales, législatives,
judiciaires. Le collège a pareillement ses magistrats élus pour
un an ou pour un lustre (magistri, quinquennales), et qui prêtent
serment, comme les magistrats du peuple romain, à leur entrée en
charge et à leur sortie. Il a aussi ses hommes d'affaires (curatores), ses secrétaires (scribae, tabularii, notarii) et
gens de services (viatores, apparitores, aeditui, etc.). Enfin le collège a sa caisse (arca collegii) avec un trésorier
(quaestor, arcarius), chargé d'encaisser les recettes et d'acquitter
les dépenses, sous la surveillance du magister».
[94] Vedi T. Spagnuolo
Vigorita, Città e Impero. Un seminario sul pluralismo cittadino
romano, Napoli 1996; Giovanna Daniela Merola, Autonomia
locale - governo imperiale.
Fiscalità e amministrazione nelle province asiane, Bari 2001;
L. Capogrossi Colognesi, La genesi dell’Impero municipale,
in Roma e America. Diritto Romano Comune,
18, 2004.
Cfr.
già G.I. Luzzatto, in una
“Lettura” intitolata Impero e
città (Labeo, anno 13,
1967, 377 ss., a proposito di D. Nörr,
Imperium und Polis in der hohen Prinzipatszeit,
München 1966) osservava «Che il problema dei rapporti fra
città e impero sia fondamentale per una adeguata valutazione della
realtà storica e istituzionale di quest’ultimo è ormai
acquisito» e forniva, di séguito, i dati bibliografici, cui
rinvio; più recentemente: Lellia Cracco
Ruggini, La città imperiale,
in E. Gabba e altri, Storia di Roma, IV. Caratteri e morfologie, Torino 1989, 201-266; Ead., Città tardoantica, città altomedievale: permanenze e
mutamenti, in Anabases - Traditions
et réceptions de l’Antiquité, 12, 2010 [= Mélanges Leandro Polverini],
103-118, la quale però (con diffuso errore giuridico) interpreta
l’approccio repubblicano di Cicerone alla autonomia cittadina come un
disconoscimento di questa.
[95] Sulla scia – per così dire – del famoso
elogio di Elio Aristide dell’Impero romano come Impero di Città (A Roma [140 d.C.] 61-65) definisce
correttamente le Città «elementi modulari»
dell’Impero, Lellia Cracco Ruggini,
Città tardoantica, città
altomedievale: permanenze e mutamenti, cit.
Prima
e più di ogni altro elemento, la costituzione in cellule civiche
distingue l’Impero repubblicano dai regna.
Nella propria
ricostruzione della «repubblica», Rousseau scrive: «Tout bien
examiné, je ne vois pas qu'il soit désormais possible au souverain
[cioè, al Popolo] de conserver parmi nous l'exercice de ses droits si la
cité n'est très petite. Mais si elle est très petite elle
sera subjuguée? Non. Je ferai voir ci-après (Note 32) comment on
peut réunir la puissance extérieure d'un grand peuple avec la
police aisée et le bon ordre d'un petit Etat. (Note 32. C'est ce que je
m'étais proposé de faire dans la suite de cet ouvrage, lorsqu'en
traitant des relations externes j'en serais venu aux
confédérations. Matière toute neuve et où les
principes sont encore à établir.)» (CS, 3.15 "Des députés ou
représentants").
[96] J.Fr. Rodríguez Neila, Los comitia municipales y la experiencia
institucional romana, in Clara Berrendonner, Mireille
Cébeillac-Gervasoni et L. Lamoine, sous la dir. de, Le quotidien municipal dans l’Occident romain,
Clermont-Ferrand 2008, 301 ss; cfr. Id.,
Políticos municipales y
gestión pública en la Hispania romana, in Polis. Revista de ideas y formas políticas de la Antigüedad
Clásica, 15. 2003, 161-197.
[98] Ad esempio con F. Jacques,
Le privilège de la liberté.
Politique impériale et
autonomie municipale dans les cités de l’Occident romain (161-244), Rome 1984, 435 «Nous pensons avoir
montré que le peuple garda un poids non négligeable, par ses
pressions ou même grâce à des votes».
[99] Vedi A. La Rocca,
Diritto di iniziativa e potere popolare
nelle assemblee cittadine greche, in F. Amarelli, ed., Politica e partecipazione nelle Città dell’Impero romano,
Roma 2005, 93 ss. La circoscrizione del “diritto di iniziativa” ai
magistrati nella loro dialettica con il Popolo è, in realtà,
manifestazione e prova del perfezionamento giuridico repubblicano romano
operato sulle tecniche normative greche, infatti precisamente criticate da
Cicerone: pro Flacco, 16 Graecorum autem totae res publicae sedentis
contionis temeritate administrantur (si noti che la critica investe la
azione dell’«amministrare» non del «comandare la
legge»).
[100] R. Martini, Sulla partecipazione popolare ai Concilia provinciali nel tardo Impero, in Atti dell’Accademia Romanistica
Constantiniana. XIII Convegno internazionale in memoria di André
Chastagnol, Napoli 2001, 709 ss.
Si
può osservare che l’interesse di Martini per la organizzazione
provinciale ha un lungo excursus, cfr. Id.,
Ricerche in tema di editto provinciale,
Milano 1969.
Conferma
oggettivamente il giudizio di Martini la raccolta di scritti a cura di Dario
Mantovani e Luigi Pellecchi, Eparcheia,
autonomia e civitas Romana. Studi
sulla giurisdizione criminale dei governatori di provincia (II sec. a.C. - II sec. d.C.), Pavia
2010.
[101] Cito, a mero titolo di esempio, tre
‘manifestazioni’.
È
noto che la organizzazione della Chiesa cristiana è
‘ricalcata’ su quella imperiale romana. Da una lettera del III
secolo (254) di Cipriano, Vescovo di Cartagine, sappiamo che i Vescovi si
riuniscono per Concili provinciali (Cyprianus, Epistula LXVII.5 «Fere
per provincias universas […] episcopi eiusdem provinciae prossimi quique
conveniant»). Questi Concili (Sinodi) ecclesiali sono il calco di
quelli ‘civili’. Sappiamo infatti anche (da una consultazione, nel
secolo II, da parte del Vescovo di Roma, delle Chiese locali) che tale Concilio
ecclesiale mancava proprio in Egitto, cioè nella unica Provincia
imperiale non dotata di Concilio ‘civile’. Sulla organizzazione
ecclesiale egiziana, vedi A. Camplani, L’identità del patriarcato alessandrino, tra storia e
rappresentazione storiografica, in Adamantius [Annuario di letteratura
cristiana antica e di studi giudeoellenistici] Pisa, anno XII, 2006, 8 ss.;
cfr. ID., a cura di, L'Egitto
cristiano: aspetti e problemi in età tardo-antica, Roma 1997; cfr.
C. ALZATI, Roma, Nuova Roma, Province,
diocesi ecclesiastiche, comunicazione al XXXVII Seminario internazionale di
studi storici «Da Roma alla Terza Roma» su Le Città dell’Impero da Roma a Costantinopoli a Mosca.
Fondazione e organizzazione, capitale e province, Roma, Campidoglio, 21-22
aprile 2017 [pubblicata ora on line in Diritto@Storia 15, 2017 – Sezione
“Memorie”]. Sulla assenza del Concilio provinciale delle
Città nel solo Egitto tra tutte le Province romane, vedi Th. MOMMSEN, Römische
Geschichte. Fünfter
Band, Die Provinzen von Caesar bis Diocletian, Berlin 1885 = Storia di Roma antica, tr. it. di D.
Baccini, G. Burgisser e G. Cacciapaglia, con “Introduzione” di G.
Pugliese C., Volume terzo, Le province
romane da Cesare a Diocleziano, 3a ed. Firenze 1967 [da cui citiamo] 639: «L’Egitto era formato di un gran numero di
luoghi egizi [nomoi] e di uno minore
di greci [poleis], i quali tutti
difettavano dell’autonomia e tutti stavano sotto l’amministrazione
immediata e assoluta del re e degli ufficiali da lui nominati. Un effetto di questo era che
l’Egitto soltanto tra tutte le provincie romane non ebbe una
rappresentanza generale. La dieta è la rappresentanza complessiva dei
comuni autonomi della provincia. Essa però non esisteva in Egitto; i nomoi erano distretti amministrativi
affatto imperiali o piuttosto regi, e Alessandria non solamente stava quasi
come da sé, ma era del pari senza un vero ordinamento
municipale»).
Nella
provincia sarda dell’Impero romano, la istituzione conciliare si conserva
vitale almeno sino alla fine del secolo XIV, quando in essa si manifesta persino
la antica competenza delle Città alla ratifica dei trattati. Nel 1388,
il più noto e ultimo vero iudex sardo, Eleonora d’Arborea,
sottoscrive con il Re Giovanni I d’Aragona uno storico – almeno per
la Sardegna – trattato di pace e questo è ratificato dal concilio
del ‘Giudicato’, chiamato “Corona de Logu” e composto
dai delegati dei concili minori (“Coronas de Curatorias”) composti
dai delegati delle singole Villae
(“Biddas”). P. TOLA, Codex diplomaticus Sardiniae, I, Torino 1961,
sec. XIV, doc. CL. Aldo Checchini, storico del diritto padovano di
«notevoli attitudini dommatiche», il quale ha insegnato anche
presso la Università di Cagliari e ha studiato la istituzione comunale
romana, ha sostenuto con forza la origine romana delle assemblee popolari sarde.
Premesso lo stretto rapporto tra corona e sinotu
(assemblea popolare della Sardegna giudicale e della quale è notevole la
sinonimia con la istituzione ecclesiale) Checchini scrive: «Le assemblee
sarde, […] riproducono […] perfettamente, non soltanto nel nome, ma
anche nel loro ordinamento e funzionamento, i conventus romani. Il sinotu,
nella sua essenza, è proprio l’assemblea romana della provincia,
adattata, naturalmente, alle nuove e diverse circoscrizioni territoriali. Come
quelle romane, le assemblee sarde venivano convocate in luoghi stabilmente
destinati a tali riunioni […] luoghi nei quali il capo della
circoscrizione si recava, in epoche pure stabilmente determinate».
Checchini concludeva affermando di avere «dimostrato che di origine
romana è l’ordinamento della corona» (A. Checchini,
Note sull’origine delle istituzioni processuali della Sardegna
medioevale, Aquila, 1927, ora in Id.,
Scritti giuridici e storico-giuridici, II, Padova. 1958, 212 ss., in
particolare 217 s. e 224 s.; cfr. la voce “Checchini, Aldo” in Enciclopedia
Italiana Treccani - III Appendice, 1961. Per ulteriori indicazioni
bibliografiche vedi il prgf. conclusivo di G. Lobrano,
“La constitutio Antoniniana de civitate peregrinis danda
del 212 d.C.: il problema giuridico attuale di ri-comprendere scientificamente
la cittadinanza per ri-costruirla istituzionalmente, in M. Barbulescu, E.
Silverio e M. Felici, a cura di, La
cittadinanza tra impero, stati nazionali ed Europa. Studi promossi per il MDCCC
anniversario della constitutio Antoniniana, Roma 2016).
Durante
il dibattito pre-rivoluzionario francese (premesso che tutti – Re
compreso – si rendono conto della necessità di riformare il
centralismo oramai decotto di Luigi XIV) il grande problema istituzionale
è se rinvigorire il regime municipale romano e le connesse assemblee
provinciali conservatesi Francia oppure rilanciare il Parlamento degli Stati
generali. Nel 1737, il Marchese d’Argenson (+ 1757) scrive le Considérations sur le gouvernement
ancien et présent de la France (pubblicate postume nel1764) nelle
quali – in polemica con le tesi del Marquis de Boulainvilliers poi invece
riprese da Montesquieu – sostiene la prima soluzione contro la seconda.
Nel 1776, il ministro Jacques Turgot si propone di realizzare il progetto di
«municipalità autonome che» scrive Matteucci
«sembravano quasi ricordare le antiche libertà delle città
romane difese dal Dubos e teorizzate dal d’Argenson; progetto che venne
poi realizzato dal Necker nel 1778 nelle généralités
di Bourges e di Montauban, e in seguito riproposto dal Calonne nel 1787
all’Assemblea dei notabili e parzialmente attuato da Loménie de
Brienne nel 1788». Progetto, infine, difeso anche dal Marchese di
Condorcet «il quale nell'Essai sur
la constitution et les fonctions des assemblées provinciales (1788)
preferiva la loro organizzazione razionale alle forme “gotiche”
degli antichi stati generali». Sarà, come noto, la aristocrazia a
fare infine prevalere la soluzione parlamentare. Vedi N. Matteucci, Organizzazione del potere e libertà. Storia del
costituzionalismo moderno, Torino 1976, 183 s.; sui tentativi di riforma di
Jacques Turgot, Jacques Necker, Charles Alexandre de Calonne e Loménie
de Brienne, v. J.-L. Harouel, J. Barbey, É. Bournazel, Jacqueline Thibaut-Payen, Histoire des institutions de l'époque franque à la
Révolution, Paris 1987, 536 ss.; cfr. G. Lobrano, Res publica res populi, cit., 177 ss.
[102] E rector:
Cic. rep. libri 4, 5 e 6. Vedi C.M.
MOSCHETTI, Gubernare navem gubernare rem publicam. Contributo alla
storia del diritto marittimo e del diritto pubblico romano,
Milano 1966.
La
dottrina romanista otto-novecentesca (la quale non attribuisce rilevanza
adeguata al senso della qualificazione in termini di “governo” del princeps ciceroniano) considera
l’avvento del Principato come fine della Repubblica e come momento
decisivo della transizione dalla oligarchia alla monarchia. Mommsen qualifica,
infatti, tale transizione come «diarchia», cioè convivenza
di due poteri: del Senato e del Principe (Th. Mommsen,
Römisches
Staatsrecht, II.2, 3a ed., Leipzig 1887, 745 s.; III.2 Leipzig
1888, 1254-1262; Id., Abriss
des römischen Staatsrecht, cit., §§ 2.11
“Der Principat” 190 ss. e 5.5 “Die Dyarchie des
Principats”, 340 ss.)
Però,
T. Spagnuolo Vigorita, Città e Impero, cit., 97 s., osserva
(adombrando una diversa sintesi dogmatica) che il «nuovo regime
inaugurato da Augusto […] non fu una monarchia, neppure
“mascherata” e neppure solo “nella sostanza”, come
spesso si ama dire; ma una realtà complessa e volutamente ambigua,
fondata sulla compresenza, in parte anche conflittuale, di due sfere. Una
imperiale, ricca di potere effettivo, ma non onnipotente; e una repubblicana,
più radicata nella tradizione costituzionale e meno potente, ma
tutt’altro che insignificante». Cfr., supra, nt. 94.
Del resto lo stesso Mommsen scriveva:
«Seitdem [dopo il bellum sociale] ist die römische Bürgerschaft
rechtlich vielmehr die Conföderation der sämtlichen
Bürgergemeinden» (Th. Mommsen,
Römisches Staatsrecht, III.2.,
cit. 781; cfr.: 773: «Wie die Republik in notwendiger Consequenz endigt
mit Verwandlung des italienischen Städtebundes in die Roma communis
patria, so endigt der Principat damit die Provinzialgemeinden alle erst zu
städtischen Gestaltung zu fuhren und dann gleichfalls in Bürgerstädte
umzuwandeln. Das Ergebnis dieser Entwickelung, wiedergelegt wie es ist in
römischen Rechtsbrüchen, hat insbesondere durch diese mächtige
und zum Theile segensreich auf diejenige Entwickelung von Staat und Gemeinde
eingewirkt, welche das Fundament unserer Civilisation ist».
[103] J.M. Santero Saturnino, Asociaciones populares en Hispania romana,
Sevilla 1978, 39 «como en Roma y en el resto de las provincias, en
Hispania el término más extendido para indicar las asociaciones
es collegium».
[104] Gai. D. 47.22.4. Secondo la interpretazione risalente, Gaio e Giustiniano
fanno qui riferimento alla Legge delle XII tavole (8.27). Vedi M. Humbert, La c.d. libertà associativa nell’epoca decemvirale:
un’ipotesi a proposito di XII Tab. VIII.27, in AUPA, LIII, 2009, 27 ss.
[105] Ovvero, con precisione tecnica, la plebs <CIL XIV, 252,
256>, cioè la massa degli associati, esclusi i decurioni (vedi DS, “Lex collegii”, cit. «Les membres du collège forment le populus; ils sont répartis en
décuries, parfois en centuries commandées par un décurion
ou un centurion. La réunion des décurions forme le sénat
ou conseil du collège (ordo
decurionum). La masse des associés forme la plebs.» Cfr. la definizione gaiana della lex (Inst. 1.3): Lex est, quod populus iubet atque
constituit. plebiscitum est, quod
plebs iubet atque constituit. plebs autem a populo eo distat, quod populi
appellatione uniuersi ciues significantur, connumeratis et patriciis; plebis
autem appellatione sine patriciis ceteri ciues significantur.
[106] Francesca Diosono,
Collegia. Le associazioni professionali
nel mondo romano, Roma 2007, 69, nt. 301.
[107] Un esempio di tale seconda sorta di modificazione, operata
con decisione della assemblea dei soci, è attestato da una iscrizione
pompeiana: Pro signo quod e lege Fortunae
Augustae ministrorum ponere debebat [...] basis duas marmoreas decreverunt pro
signo poniret; vedi ancora DS,
“Lex collegii”, cit. «Les statuts des collèges
ne sont pas immuables. Œuvre de la volonté commune, ils peuvent
être modifiés par l'assemblée générale. Une
inscription de Pompéi en offre un exemple: la lex du collège des ministri
Fortunae Augustae obligeait certains membres à fournir une statue;
une décision de l'assemblée, prise sur le rapport du questeur,
autorisa le débiteur à donner à la place deux socles de
marbre».
[108] F.M. de Robertis,
Storia delle corporazioni e del regime
associativo nel mondo romano, II, Bari 1971, 35 e 38.
[109] Claude Nicolet,
Réflexions sur les sociétés de publicains: Deux remarques
sur l’organisation des sociétés des publicains à la
fin de la république romaine, in H. v. Effenterre, éd., Points de vue sur la fiscalité
antique, Paris 1979, 76 s.; ripresa testualmente da Ulrike Malmendier, Societas publicanorum. Staatliche Wirtschaftsaktivitäten in den Händen
privater Unternehmer, Köln - Weimar - Wien 2002, 267: «Jedenfalls gab es eine
„Generalversammlung“ der Gesellschafter, die sich mit den wichtigen
Entscheidungen für die Gesellschaft befaβte und die so groβ sein
konnte, daβ Cicero sie als multitudo bezeichnet».
[110] Maria R. Cimma,
Ricerche sulle società di
publicani, Milano 1981, cita alcune di queste fonti nella nota 90 di p. 76:
«Vi erano quindi soci ordinari, delle cui assemblee e decreti siamo
informati dalle fonti». Ferdinando Bona
(Le societates publicanorum e le
società questuarie nella tarda Repubblica, in M. Marrone, a cura di, Imprenditorialità e diritto
nell’esperienza storica [= atti del convegno di Erice 22-25 novembre
1988], Palermo 1992, 31) si limita a scrivere e in maniera non tecnicamente
evidente: «I socii stessi si
saranno divisi i compiti principali di direzione della società sia in
Roma sia nei territori provinciali».
[111] Cfr., supra,
§ 5.b.α, in part. nt. 100, la osservazione di Remo Martini sui,
diversi, atteggiamenti – in materia – di giuristi e storici.
[113] J.M. Santero Saturnino, Asociaciones
populares en Hispania romana, cit., 1978, 142, nt. 478.
Nello stesso senso già J.P. Waltzing, Étude historique sur les corporations professionnelles chez les
Romains depuis les origines jusqu’à la chute de l’Empire,
4 voll., Tome I, Louvain 1895, 276.
[114] Wilfredo Pareto, in una
‘segnalazione dell’opera di Waltzing apparsa su Zeitschrift für Sozialwissenschaft,
IV, 1901, 684 (ora in Id., Œuvres complètes, Tome,
Genève – Paris, 1r 3 éd., 1966, 2e éd. 1984, 199)
preconizza esattamente: «Le livre de M. le prof. Waltzing deviendra
classique pour toutes les études sur les corporations chez les
Romains». Del lavoro del Waltzing sono uscite
nel 1968 due edizioni anastatiche, una a Roma, per i tipi della casa editrice
Bretschneider, e una a Bologna, per i tipi della casa editrice Forni,
nonché un recentissimo “aggiornamento” (G. Mennella e Giuseppina Apicella, Le
corporazioni professionali nell’Italia romana: un aggiornamento al
Waltzing, Napoli 2000).
[115] J. P. Waltzing, Étude
historique sur les corporations professionnelles chez les Romains, Tome I,
Louvain 1895 [ed. anast. Roma 1968] 368; Tome II, Louvain 1896
[ed. anast. cit.] 362.
[116] Nel contesto latino-americano, segnato dalla resistenza
del “modello” costituzionale romano in maniera generale e in maniera
specifica da parte dei popoli indigeni (G. Lobrano,
Existe um «pensamento
político-jurídico latino-americano»?, cit.; Id., Continuidad entre las ‘dos repúblicas’ del Derecho
indiano y el ‘sistema republicano municipal’ del derecho romano,
in Roma e America. Diritto romano comune,
n. 24 anno 2007 (ma pubblicato 2008), 17-31),
appare particolarmente interessante la presenza del regime volitivo dei
“capi”, i quali «obbediscono» alla collettività.
Ciò avviene presso il movimento contadino messicano del Chiapas, la cui
cellula o modulo base è la comunità democratica del
«Municipio autónomo» e il cui motto organizzativo è
«comandare obbedendo» («mandar obedeciendo») ripreso e
fatto proprio dal Presidente della Bolivia, Evo Morales. In
proposito: C. A. Aguirre Rojas, Mandar Obedeciendo. Las lecciones
políticas del neozapatismo mexicano, Rosario 2009; A. Ivern, Liderazgo Participativo. De habitantes a ciudadanos, Buenos Aires
2009; M.A. Aranda Andrade, La Institucionalización
del Proyecto Zapatista: Autonomía, Democracia y
Gobierno en el Sureste Mexicano, in Trayectorias, año 19, núm. 44, ene-jun 2017 (ivi ulteriore
bibliografia).
[117] H. Kelsen, Teoria generale del diritto e dello stato,
tr. it. di S. Cotta e G. Treves (dall’or. General Theory of Law and State, Harvard 1945) Milano 1952,
“Prefazione”, XIII «alcuni fra i più eminenti
rappresentanti della giurisprudenza non conoscono compito migliore che di
servire – con la loro “scienza” – il potere politico
del momento».
[118] G. Lobrano, Società. Principi e sistema, in Enciclopedia di bioetica e di scienza
giuridica, XI, Napoli 2017, sub voce;
Id., La alternativa attuale tra i binomi istituzionali: ‘persona
giuridica e rappresentanza’ e ‘società e articolazione
dell’iter di formazione della
volontà’. Una ìpo-tesi (mendeleeviana), cit.; G. Lobrano - P.P. Onida, Rappresentanza
o/e partecipazione. Formazione della volontà «per» o/e
«per mezzo di» altri. Nei rapporti individuali e collettivi, di
diritto privato e pubblico, romano e positivo, cit.
[120]
Naturalmente, la “società” intesa non (come per lo
più avviene) in senso generico, quale «omnis hominum coetus quoquo modo congregatus»,
ma in senso proprio, quale «coetus multitudinis iuris
consensu et utilitatis communione [appunto] sociatus» (vedi, supra, la conclusione del §
immediatamente precedente). Ciò significa ‒ ribadisco ‒
forma di organizzazione collettiva intrinsecamente, essenzialmente acefala,
nella quale il potere di comando risiede necessariamente ed esclusivamente
nella assemblea dei soci, in termini ‒ però ‒ esclusivamente
“generali” e fatta salva – quindi – la
“cooperazione” esecutiva di magistri
o magistratus, posti strutturalmente
e totalmente (come servi) oppure funzionalmente e parzialmente (come mandatari)
“nel potere” di quegli stessi soci.
[121] Carisio Ars
grammatica [= Keil] I, 152 Nomen est
pars orationis […] significans
rem corporalem aut incorporalem proprie communiterve, proprie, ut Roma […], communiter, ut urbs civitas.
Con
una inesauribilmente sorprendente capacità di penetrazione
intellettuale, Rousseau afferma che il «nome» antico della
collettività politica è «Città»
(«Cité»). Vedi, supra,
nt. 22.
[122] Sulla idea romana della necessaria crescita della
cittadinanza (civitas augescens) vedi
P. Catalano, Diritto e
persone. Studi su origine e attualità del sistema romano, I, Torino
1990, XV, ripreso da Maria Pia Baccari,
Il concetto di civitas augescens: origine
e continuità, in Studia
et Documenta Historiae et Iuris LXI, 1995, 760 ss. (ivi i riferimenti alla
numerosa dottrina precedente).