Memorie

 

 

evangelisti-foto-2007Marina Evangelisti

Università di Modena e Reggio Emilia

 

L’IRRESISTIBILE ASCESA DI OTTAVIANO AUGUSTO

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Abstract: The present study wants to be an exhaustive but brief examinations of the main points of the politics since he was the young man entering the public scene, with the battle of Forum Gallorum and after, during the way that led him to take over all the public powers. How was it possible, which was the main key of his success, the funadametals of Augustus’ leadership are some of the questions I tried to answer during my reaserch.

 

 

La figura di Ottaviano Augusto, l’artefice di una delle costruzioni politiche più complesse della storia[1], è forse una di quelle che meno si prestano ai medaglioni. Gli occhi della statua di Via Labicana ci fissano fermi da una distanza millenaria, eppure la strategia politica e la personalità dell’uomo richiamano piuttosto l’immagine di un prisma: da qualunque lato lo si osservi per coglierne il segreto, qualcosa appare sfuggente, evasivo, e l’essenza di una personalità sembra ritrarsi come per eludere lo sguardo dell’interlocutore[2].

In occasione delle celebrazioni per il Bimillenario Augusteo, al di là degli aspetti esteriori, più o meno apologetici e di circostanza legati all’evento, l’interrogativo che, quasi inesorabile, continua a riproporsi allo studioso è quale sia la chiave di volta dell’architettura politica di Ottaviano, quel quiddam che gli permise di riuscire laddove, prima di lui, figure non meno carismatiche, forti dell’appoggio dell’esercito e sorrette dal proprio ascendente personale (il pensiero corre in primis a Caio Giulio Cesare, padre adottivo di Ottaviano stesso) si erano fermate.

La prima linea guida da seguire nella seppur rapida analisi che stiamo qui conducendo - e nell’ovvia consapevolezza che potremo solo sfiorare la superficie increspata di una tematica così articolata e densa di implicazioni - sono le stesse parole di Augusto, tramandateci in un monumentale documento epigrafico[3] che rappresenta la testimonianza in prima persona di come egli abbia voluto che la sua vita pubblica, le sue imprese, i suoi atti di governo venissero letti, interpretati e trasmessi ai posteri.

Nell’Index rerum a se gestarum il primo princeps della storia costituzionale romana illustra con parole scolpite e suggestive le tappe fondamentali del proprio percorso (esaltandone le luci ed omettendone quasi del tutto le ombre, com’è lecito attendersi da un’autobiografia politica) e le basi legalitarie, morali e fideistiche del proprio potere, dalla conquista del medesimo al lungo arco di governo che ha contraddistinto l’età augustea:

 

Res Gestae 25.2:

Iuravit in mea verba tota Italia sponte sua et me belli, quo vici ad Actium, ducem depoposcit. Iuraverunt in eadem verba provinciae Galliae, Hispaniae, Africa, Sicilia, Sardinia.

 

Un aspetto che sembra fin d’ora opportuno mettere in evidenza è la terminologia che sta alla base di tutto l’impianto ideologico di matrice augustea, innovativa nei contenuti ma rassicurante nell’apparente rispetto delle forme, grazie a una campagna propagandistica studiata nei modi e nei toni per far presa su un’opinione pubblica profondamente scossa, vulnerabile, resa insicura da un secolo di acerrimi scontri, congiure, scambi di alleanze, programmi demagogici non mantenuti, crisi valoriale dell’élite aristocratica dirigente, progressivo impoverimento delle risorse economiche e della popolazione più debole: consensus[4], fides , pietas e, al vertice, auctoritas rappresentano i signa verbali grazie al cui sapiente impiego Augusto progressivamente costruisce un legame personale e quasi organico con il popolo e rafforza in esso la propria immagine quale continuatore e garante degli antichi mores[5].

Esemplare è a questo proposito il seguente passo, con la sua celebre chiusa (Post id tempus - fuerunt), eterno e irriducibile tormento degli interpreti:

 

Res Gestae 34.1-3:

In consulatu sexto et septimo, postquam bella civilia extinseram per consensum universorum potiens[6] rerum omnium, rem publicam ex mea potestate in senatus populique Romani arbitrium transtuli. 2. Quo pro merito meo senatus consulto Augustus appellatus sum et laureis postes aedium mearum vestiti publice coronaque civica super ianuam meam fixa est clupeu aureus in curia Iulia positus, quem mihi senatum populumque Romanum dare virtutis clementiaeque et iustitiae et pietatis causa testatum est per eius clupei inscriptionem. 3. Post id tempus auctoritate omnibus praestiti, potestatis autem nihilo amplius habui quam ceteri, qui mihi quoque in magistratu conlegae fuerunt.

 

Non a caso il momento al quale tradizionalmente si riconnette l’avvio di un mutamento costituzionale che la Storia dimostrerà senza ritorno è la c.d. restitutio rei publicae, descritta da Augusto stesso nel passo citato poc’anzi: il gesto, apparentemente un azzardo sul quale il giovane uomo di Stato punta l’intera posta affidandosi a un margine di rischio calcolatissimo, sortisce appieno l’effetto voluto, allontana da sé ogni sospetto di tirannide o dittatura[7], ottenendo contestualmente la ratifica della propria posizione di primus inter pares e con essa lo spazio di manovra necessario per plasmare la materia costitutiva  del nuovo ordine, rivestendola delle forme proprie delle antiche istituzioni repubblicane. In ciò risiede un sicuro punto di forza dell’impresa augustea: il raggiungimento dell’estremo limite di equilibrio, prima di allora una sorta di miraggio - ma difficile anche dire fino a che punto in effetti vagheggiato - tra continuità ed innovazione.

Anche una volta ottenuto il titolo onorifico di Augustus, egli appare concentrato nello sforzo di ricondurre il proprio potere entro i limiti costituzionali della repubblica, formalmente appellandosi a  quel sistema di checks and balances che aveva rappresentato uno dei punti di forza dell’inarrestabile ascesa di Roma quale capitale politica e sociale del mondo affacciato sul bacino del Mediterraneo, in grado di suscitare l’ammirazione non solo degli scrittori antichi di poco posteriori ai fatti che stiamo considerando ma anche, a distanza di secoli,  di Charles Louis de Secondat, barone Montesquieu, che trasse ispirazione per la concettualizzazione del celeberrimo principio della c.d. divisione dei poteri proprio nella triade comizio popolare-senato-magistrature[8].

E’ tuttavia innegabile che, nonostante l’understatement e la prudenza che contraddistinguono l’operato di Augusto, egli si trovi di fatto in posizione di assoluta preminenza rispetto a quella res publica che, già come triumviro, si era proposto di rifondare.

E d’altro canto il rispetto per gli antichi mores, il ‘basso profilo’ che il princeps adotta sia  nella vita pubblica sia in quella  privata, le riforme che egli avvia,  saggiamente dosandole per non apparire il dominus dello Stato romano anche quando riprendono più da vicino la tradizione repubblicana, in realtà vanno letti nel quadro politico-istituzionale più ampio che Augusto sta via via realizzando[9].

E’ proprio in questo che risiede il cuore della silente ‘rivoluzione’ augustea? In effetti, una volta poste le basi per la realizzazione di un’effettiva concordia ordinum, il programma che egli ha in animo di compiere non si discosta nella sostanza da quello ideato dal proprio padre adottivo e violentemente interrotto alle Idi di marzo del 44 a.C., consistendo piuttosto in un ampliamento ed un’estensione del medesimo con una meticolosa messa a punto dei dettagli necessari al completamento del processo.

Non risiederebbe quindi nell’assoluta novità di contenuti il segreto dell’affermazione di Ottaviano Augusto e della riforma costituzionale che riverserà i mores dell’antica repubblica in un nuovo contenitore istituzionale destinato a passare alla  storia con il nome di “principato”, bensì nelle modalità studiate da Ottaviano per perseguire il proprio fine accompagnandolo, dato necessariamente complementare, alla realizzazione di quella pax Romana di cui l’Urbe, l’impero, il popolo tutto avevano un disperato bisogno.

Ciò che spesso colpisce chi si accosti allo studio e all’approfondimento di questo momento focale, non solo della storia romana ma di quella della civiltà occidentale, è l’apparente netto contrapporsi di due sistemi di governo tra i quali l’azione politica, prima di Caio Giulio Cesare, poi di Ottaviano Augusto parrebbe tracciare una cesura netta, legata a uomini spinti da smisurata ambizione e brama di conquista di un potere personale senza possibili concorrenti né reali interlocutori: da un lato, la libera res publica, la cui struttura, tenuta morale, compattezza politico-sociale avevano portato Roma ad affermarsi quale regina incontrastata del Mediterraneo; dall’altro  l’impero che progressivamente trasformerà i cives di quell’antica comunità in sudditi, accentrando ogni facoltà nell’arbitrio incontrastabile di un uomo solo al comando, la cui figura, gradualmente divinizzata, decreterà il tramonto di ogni dialettica democratica.

E’ indubbio che alcuni di questi passaggi si siano compiuti in tal modo ed abbiano comportato una radicale revisione nella percezione delle dinamiche del potere e dell’interazione tra governanti e consociati.

Ma come aveva già dimostrato con drammatica violenza la crisi graccana, squarciando il velo idealizzante con il quale la nobilitas aveva prudentemente opacizzato i meccanismi di reale gestione della repubblica (basti pensare alla miope gestione delle province),  la repubblica stessa, raggiunto il proprio apogeo negli anni successivi alla fulgida vittoria su Cartagine, si reggeva su forme ed equilibri irrimediabilmente datati perché concepiti per amministrare una Città-stato e non la capitale di quello che militarmente e territorialmente era già un impero, i cui confini, poi tutelati dalla presenza di insediamenti e guarnigioni permanenti disposte strategicamente da Ottaviano, avrebbero finito con l’identificarsi nel mondo sino ad allora conosciuto.

Lo Stato romano necessitava, insomma, di una palingenesi. Questo già da Cesare era stato avvertito con lucidità, sopravvalutando però la percezione del problema stesso da parte del popolo e, per converso, non cogliendo nel suo reale spessore l’avversione per un tale cambiamento che il senato gli avrebbe fieramente opposto. Una tale rifondazione, pur indispensabile, non poteva essere compiuta a viso aperto. Nonostante i meriti riconoscibili in colui che se ne rendesse responsabile, concentrare coram populo in solo uomo ogni prerogativa per evitare i condizionamenti legati dell’interazione tra senato, consoli e comizi  - complice inoltre l’alto grado di corruzione che da tempo connotava sfavorevolmente l’ambiente politico nel suo complesso - era una sorta di opzione di mezzi assunti come giustificati dai fini che non appariva in sintonia con il polso presente della Storia. Troppo vicina era l’eco spaventosa e stordente delle guerre civili, della forzata sospensione della legalità costituzionale,  dei soldati romani costretti a combattere gli uni contro gli altri, del clima avvelenato e sanguinoso della politica cittadina nella quale l’avversario andava proscritto e/o eliminato, dei costi abnormi che questo aveva comportato in termini di vite umane, di corruzione delle magistrature, di svilimento del dibattito politico a mero confronto demagogico, di impoverimento delle famiglie (soprattutto di quel ceto medio che aveva costituito il nerbo dell’esercito cittadino, del comizio centuriato, del comizio tributo), delle casse dello Stato e dei territori italici, per tacere di quelli provinciali, costretti a subire le arbitrarie vessazioni dei governatori a fornire contingenti di uomini e  a sopportare onerose imposizioni fiscali inseguendo il miraggio del conseguimento della cittadinanza romana, unica possibilità di una piena titolarità di diritti civili e politici.

Se cambiamento doveva essere, e lo stesso appariva indispensabile, esso andava incanalato lungo un tracciato di prudente gradualità, nell’apparente recupero e ripristino dei mores repubblicani, nell’impostare la politica pubblica in modo che ogni carica, ogni onore, ogni potere apparissero frutto dell’iniziativa del Senato e del popolo e non di un arbitrio personale.

Un’altra delle chiavi del successo di Ottaviano può essere scorta nell’aver saputo indirizzare le energie del cambiamento in una direzione costruttiva tesa alla ricerca di un nuovo equilibrio in grado di reggere la prova del tempo, senza tralasciare alcun aspetto della società che si trovava, in un ambiguo gioco di forma a sostanza, a governare.

Studioso del passato, memore del prezzo che Cesare aveva pagato per gestire un piano di riforme che persino i suoi più fieri avversari, come Cicerone, ritenevano, almeno in alcuni settori, una necessità non più rinviabile[10], Ottaviano marca fin dall’inizio una netta differenza di comportamento rispetto ai suoi predecessori, tessendo una fitta trama di alleanze politiche, economiche, legate anche a rapporti matrimoniali, che progressivamente avvolgeranno il senato come i suoi avversari, i quali, fors’anche tratti in inganno, in chiave di sottovalutazione, dalla sua prudenza, dal suo cauto e calcolato distacco, dalla sua capacità di attendere il momento propizio sul filo di un ragionamento sempre lucido e meditato, credevano di poterlo manipolare, volgerne l’operato a proprio vantaggio, e infine metterlo da parte[11].

La scelta di allearsi con il nemico Antonio e di fondare con lui e Lepido un nuovo triumvirato nel 43 a.C. è un chiaro messaggio ai senatori: eppure, Ottaviano sollecita una legalizzazione pubblica di quell’accordo, al fine di far rientrare la posizione dei triumviri nell’alveo del rispetto delle consuetudini romane; la lex Titia ratifica gli straordinari poteri dei triumviri ma al contempo traccia nel sentire comune un netto discrimine rispetto al primo triumvirato.

Non è possibile soffermarsi sull’esito di tale triumvirato – i fatti sono peraltro ben noti –, piuttosto mette conto evidenziare come già Ottaviano, pur ponendosi, ed essendo percepito, quale erede del lascito cesariano, tenesse a mantenere una prudente distanza dallo stesso, distanza che doveva risultare - e in effetti risultò - ben chiara anche ai Romani.

La peculiare sagacia della politica augustea consistette probabilmente nel sapere presentare ogni modifica dell’ordine conosciuto non come scelta politica, come tale in più o meno larga misura arbitraria, bensì quasi come un’esigenza ‘tecnica’, nell’interesse del ripristino dell’ordine pubblico, dell’amministrazione della giustizia, del riordino dell’erario, delle magistrature, dell’esercito, dei territori assoggettati al dominio di Roma.

Nulla fu trascurato dal princeps, perché egli aveva intuito che la pax Romana si sarebbe potuta reggere solo coinvolgendo, a vario titolo, tutte le componenti della società  in quella ricerca: se la classe egemone della vecchia res publica era stata l’aristocrazia/oligarchia senatoria, ora la nuova forza economica dello Stato era rappresentato dagli equites, ceto di imprenditori e mercanti, titolari di ricchezze conseguite con il commercio terrestre e marittimo, che il senato aveva sempre fieramente avversato  e che Augusto comincia, dal canto suo, a coinvolgere nel proprio piano di risanamento.

Per mantenere l’equilibrio con il senato, il principe al contempo avvia una legislazione dal sapore della tradizione antica, che ha esattamente lo scopo di rassicurare la compagine più tradizionale dell’assise aristocratica sul fatto che l’élite dirigenziale resterà romana e continuerà a essere prescelta tra le grandi famiglie. A tale fine si renderanno funzionali le leggi Giulie sul matrimonio e le leggi limitatrici delle manumissioni, volte a tutelare i grandi patrimoni nobiliari ed a porre un freno all’immissione nella comunità civile e politica di soggetti di altre etnie, nemici di Roma.

Sotto ulteriore profilo, la stessa rivitalizzazione delle leges  publicae ha un preciso valore simbolico, sia perché formalmente recupera la figura del popolo legislatore, sia perché dette leges diventano ora l’involucro ‘nuovo’ del contenuto etico-giuridico dei mores del buon tempo antico. E poiché i mores sono la più evidente espressione della volontà di un popolo, tanto che ne hanno retto da soli per secoli il vivere civile, in tale suggestiva circolarità si rende evidente il senso di una magistrale operazione politica, propria di una straordinaria personalità di statista[12].

Non solo: ben consapevole del ruolo (e della potenziale pericolosità) che il senato, quale effettivo ago della bilancia ha sempre rappresentato nella storia costituzionale romana, è ad Augusto che possiamo riferire l’intuizione magistrale di riconoscere, assecondando una nuova fase nomogenetica dell’intero ordinamento, vigore normativo ai senatus consulta, destinati pertanto a divenire atti di normazione[13]. Significativo è ancora una volta il passaggio per cui, ad una formale valorizzazione dell’influenza senatoria sulla produzione del diritto, si affianca ben presto la prassi di farla precedere da un’oratio del princeps medesimo recante la sua proposta all’assemblea; e, pure, che i temi su cui i patres verranno chiamati a pronunciarsi sul piano normativo non riguarderanno più l’assetto dello Stato o la gestione politica, bensì questioni essenzialmente di diritto privato o amministrativo: concessione con contropartita, ancora una volta.

Se nella vecchia res publica, il sistema di pesi e contrappesi tanto lodato da Polibio[14] e, assai più tardi, da Montesquieu  era costituito sulla triade senato-consoli-comizi (nonché sull’operatività dei principi di annualità e collegialità delle magistrature stesse), ora quel sistema è incarnato nella realizzazione dei passaggi centrali della visione augustea che mantiene l’equilibrio attraverso una serie di concessioni che non trascurano alcun interlocutore sociale e, in tal guisa, lasciano ad Augusto le mani libere per ciò che egli, dietro i suoi ispirati discorsi pubblici, intende realizzare: non la mera restaurazione-salvaguardia del vecchio sistema, ma la creazione di uno nuovo assetto politico-istituzionale, con un primus al vertice, intorno al quale ruotano in orbita satellitare le nuove forme politiche, burocratiche, amministrative ed economiche che egli andrà via via plasmando e che, dopo i primi anni di apparente rispetto delle antiche prassi, ne romperanno il fragile involucro per affermarsi nella loro univoca effettività[15].

Così la riforma delle province sarà ispirata ad un duplice criterio: risanare e risollevare quei territori stremati dallo sfruttamento indiscriminato dei governatori e dare vita ad un nuovo sistema amministrativo, promuovendo in loco gli insediamenti di cives al fine di favorire l’accettazione della legislazione romana come preminente in un clima, laddove possibile, di coesistenza e di collaborazione[16].

Lo stesso senato dovrà aprire le proprie porte a un numero maggiore di cittadini provenienti dalle comunità alleate (punto-chiave già della politica cesariana) ai fini di una propria maggiore rappresentatività, nel flusso di quel processo di universalizzazione che i senatori avevano sempre avversato ma che ora implacabilmente li sovrasta.

Roma è ormai al centro di una galassia composta in modo eterogeneo da classi, correnti di pensiero, culti ed interessi che deve riuscire a dominare, senza esserne dominata. Non a caso l’attenzione per la cultura, per il mondo intellettuale, per l’istruzione e la diffusione della conoscenza e delle scienze, ben oltre l’orizzonte culturale latino, saranno un altro asso giocato dal princeps per porre dapprima, e rafforzare poi, le fondamenta del proprio governo, il prestigio dello stesso nel raccordo con le origini, ormai mitizzate, dell’Urbe stessa, ponendosi così come basi precoci del culto laico e nostalgico dell’età dell’oro augustea nella visione delle generazioni future. L’apertura di scuole, biblioteche ed edifici funzionali all’utilitas publica in Roma e nelle province, la libera circolazione e il confronto degli studiosi e delle loro opere, offre finalmente alla capitale quel soffio vivificante e cosmopolita che, almeno in questo campo, le era sino ad allora mancato.

Non per questo Augusto trascura i pilastri della tradizione romana ed affianca al mecenatismo l’organizzazione di quei giochi e di quelle feste che sempre avevano rappresentato uno dei tratti emblematici di quella civiltà e, anch’essi, una simbolica rappresentazione delle sue origini.

Mancano ancora alcuni tasselli al nostro tentativo di individuare i caratteri salienti dell’instaurazione del nuovo regime ad immagine e somiglianza del suo ideatore.

Il primo investe il settore militare. Augusto non commise certo l’errore di sottovalutare il ruolo fondamentale che l’esercito ha rivestito durante tutto l’arco storico dell’esperienza romana. Dopo la radicale riforma dovuta a Caio Mario, le gloriose e temute legioni romane erano divenute a tutti gli effetti un centro di potere la cui influenza ed il cui appoggio erano determinanti per l’ascesa o la caduta di qualunque generale o uomo politico che ambisse calcare le scene della vita pubblica romana.

Non solo, esse si pongono come imprescindibili per il mantenimento della pax Romana – nella Città, nelle province, nelle zone di confine – non meno di quanto lo siano state nella fase della conquista.

Ottaviano predispone dunque la riorganizzazione dell’esercito in una serie di unità stanziali collocate nei diversi territori con funzione di vigilanza, integrazione, presidio, nonché di informazione verso il potere centrale: in aggiunta crea nove cohortes praetoriae, quale guardia personale a propria disposizione vitalizia.

In tal modo consegue una duplice finalità: crea un apice per la carriera militare che motiva i soldati (romani o stranieri, mercenari compresi) in direzione di un’ascesa gerarchica esente da macchie nella speranza di servire il princeps, un’ambizione che va ben oltre la mera prospettiva della preda di guerra e che riporta in auge i valori di disciplina e obbedienza che dai tempestosi anni delle guerre civili erano usciti inevitabilmente sviliti.

E, dato non meno importante, come già accennato, il principe potrà disporre di una guardia personale, a tutela della propria vita ed incolumità, che risponde esclusivamente a lui.

Non ultimo, per l’acquisto e il mantenimento del consenso, il princeps nel corso degli anni farà spesso ampio ricorso al proprio patrimonio personale per attuare un programma efficiente di assistenza pubblica con finalità di solidarietà sociale a favore degli strati meno fortunati della popolazione, i quali non dispongono di mezzi, e spesso nemmeno di speranze, per migliorare la propria misera condizione: il c.d. evergetismo  rappresenterà uno degli strumenti più efficaci ai fini di una celebrazione della persona del principe da parte dell’opinione pubblica e dello stesso proletariato, sino ad allora pressoché invisibile ai potenti, convinto adesso di trovare in Augusto un ascoltatore attento e sensibile alle proprie necessità e alle conseguenti richieste. Questo aspetto della politica imperiale, tra l’altro, contribuirà non poco alla progressiva divinizzazione della figura del princeps, dimostrando ancora una volta il lungo orizzonte del pensiero di Ottaviano: nel momento in cui si compie la definitiva consolidazione del nuovo regime, colui che se ne trova al vertice potrà innestare proprio nell’elemento religioso e cultuale quella fonte di legittimazione del proprio potere non più ravvisabile negli scomparsi meccanismi di investitura democratica.

Data l’ampiezza e la capillarità del programma augusteo, un ruolo-chiave per la realizzazione e il radicamento del medesimo, al di là della presenza del suo stesso ideatore, va individuato nella giurisprudenza: ai prudentes infatti Augusto riconobbe il diritto di dare responsa ex auctoritate principis, sulla scia del principio carismatico fondativo della sua stessa supremazia.

Anche in questo caso, se vogliamo, siamo di fronte ad una logica di scambio: da un lato i giuristi (anche se non tutti e non sempre) si sentirono rassicurati circa il proprio ruolo e la propria impronta metodologica (ancora squisitamente casistica pur trovandosi ad operare in un contesto radicalmente in evoluzione); dall’altro il princeps poté avvalersi della loro collaborazione nel riformare il settore delicato dell’amministrazione della giustizia, avviare la burocratizzazione in senso centralistico dell’organizzazione statale, e teorizzare al contempo le stesse funzioni demandate al princeps[17].

Che l’istituto del ius publice respondendi riveli poi anche il non dichiarato scopo di selezionare una cerchia di giuristi politicamente non avversi alla riforma augustea è innegabile[18], per quanto non vada dimenticato che, così come le più risalenti istituzioni (e l’antico sistema delle azioni di legge), anche il processo formulare, il ruolo del pretore, la figura e l’operato del nobile sapiente repubblicano apparivano in fase di declino, nella chiara difficoltà di fare fronte alle esigenze di una società eterogenea e cosmopolita come quella segnata dal governo di Augusto.

Il principe evitò, come sempre, soluzioni drastiche: si limitò ad affiancare alle antiche nuove forme giurisdizionali, al culmine delle quali si pone la stessa auctoritas imperiale, destinandole per ciò stesso a condividerne le fortune.

Anche se non è - né intende essere - un trarre le fila di quanto fin qui detto, quel che ancora oggi maggiormente affascina nella persona e nella statura storica di Caio Giulio Cesare Ottaviano sono lo straordinario acume, la tempra costante, la sagacia politica non disgiunta da una profonda conoscenza dell’animo umano, con cui egli seppe cogliere il senso dei tempi e percepì di lavorare per la Storia, imparando dal passato e rendendo il medesimo una forza e non un limite, nonché impegnandosi strenuamente affinché Roma non solo si salvasse, ma recuperasse e conservasse il proprio ruolo egemone, rendendosi come tale il vero opus della sua vita[19].

Intese, ab initio e con costante determinazione, lasciare su di essa l’impronta di un potere in fondo di natura monarchica o davvero si considerò fino all’ultimo un mero difensore della libera res publica? I poli dell’alternativa sono in ultima analisi assai meno districabili di quanto si vorrebbe. Le parole che ci ha lasciato, in senso reale e metaforico incise sulla pietra, parrebbero deporre per la seconda delle soluzioni appena accennate[20], ma forse è qui più opportuno, e prudente, fermarsi alla formula di commiato, tanto in linea con la sua indole, che stando a Svetonio egli pronunciò sul letto di morte: «Acta est fabula, plaudite»[21].

 

 

 



 

[Un evento culturale, in quanto ampiamente pubblicizzato in precedenza, rende impossibile qualsiasi valutazione veramente anonima dei contributi ivi presentati. Per questa ragione, gli scritti della sezione “Memorie” sono stati oggetto di valutazione “in chiaro” da parte della direzione di Diritto @ Storia]

 

1 Il testo che compare in questa sede riproduce l’intervento da me tenuto, su invito del FAI Emilia-Romagna, in occasione delle giornate di Primavera in celebrazione del Bimillenario Augusteo (Museo Archeologico di Castelfranco Emilia [MO], 8 marzo 2014).

Ho preferito mantenere in buona sostanza la veste originaria della relazione, corredandola del solo apparato critico indispensabile. Lo scritto intende così porsi come un breve restatement dei tratti salienti della politica augustea, rivolto, ora come allora, ad un pubblico costituito non soltanto da esperti del ramo.

 

[2] La letteratura sul tema è sterminata. Imprescindibili rimangono, quale punto di partenza: TH. MOMMSEN, Römisches Staatsrecht, II, Leipzig 1887, 707; 787 ss.; 841; 877; V. ARANGIO-RUIZ, Storia del diritto romano, 7a ed., Napoli 1957, 215 ss.; F. DE MARTINO, Storia della costituzione romana, vol. IV parte I, Napoli 1974, 55-263; G. GROSSO, Lezioni di storia del diritto romano, 4a ed., Torino 1965, 353 s.; M. MAZZA, in AA.VV., in Lineamenti di storia del diritto romano (dir. M. TALAMANCA), 2a ed., Milano 1989, 375 ss. Più di recente: A. BORGNA, Augusto al potere: mores, exempla, consensus, in ‘Princeps legibus solutus’ (cur. A. MAFFI), Torino 2016, 47 ss.; F. GRELLE, I poteri pubblici e la giurisprudenza fra Augusto e gli Antonini, in M. PANI, Continuità e trasformazione tra Repubblica e Principato. Istituzioni, politica, società, Bari 1991, 249 ss.; F. MILAZZO (ed.), Res publica e princeps. Vicende politiche, mutamenti istituzionali e ordinamento giuridico da Cesare ad Adriano. Atti del convegno internazionale di diritto romano (Copanello 25-27 maggio 1994), Napoli 1996, 323 ss.; M. PANI, Augusto e il Principato, Bologna 2013, 21 ss.; J. OSGOOD, Caesar’s legacy: civil war and emergence of the Roman Empire, Cambridge 2006; P. CERAMI, in P. CERAMI-G. PURPURA, Profilo storico-giurisprudenziale del diritto pubblico romano, Torino 2007, 150 ss.; R. SYME, La rivoluzione romana (nella nuova edizione a cura di G. Traina), Torino 2014, 348 ss.; F. AMARELLI, in AA.VV., Storia giuridica di Roma (cur. A. SCHIAVONE), Torino 2016, 231 ss.

 

[3] Cfr. J. SCHEID, Res Gestae Diui Augusti (texte établi et traduit par), Paris 2007; A.E. COOLEY, Res Gestae divi Augusti: text, translation and commentary, Cambridge 2009; P. ARENA, Augusto, Res Gestae. I miei fatti, Bari 2014; R. LAMBERTINI, Avviamento allo studio testuale del diritto romano, Torino 2015, 62 ss.

 

[4] Quanto al tema della ricerca del consenso, si veda in particolare C. CASCIONE, Consensus: problemi di origine, tutela processuale, prospettive sistematiche, Roma 2003, 82 ss.; G. CRESCI MARRONE, Ecumene Augustea. Una politica per il consenso, Roma 1993. Per la vexata quaestio del significato di ‘auctoritas’, cfr. A. MAGDELAIN, Auctoritas principis, Paris 1947; M.A. LEVI, L’auctoritas di Augusto, in RIDA, 39, 1992, 185 ss.; M. PANI, Il principe e l’esercizio giurisprudenziale, in Politica Antica, 2, 2012, 95 ss.; R. LAMBERTINI, op.cit., 64. Mette appena conto rilevare che tramite la scelta accorta del termine ‘auctoritas’, il principe si collocava ancora una volta in linea con la tradizione repubblicana richiamandosi all’auctoritas patrum, non nell’accezione tecnica di necessità della ratifica (prima successiva, poi preventiva) dei senatori alle deliberazioni comiziali ed elettorali perché esse avessero valore, bensì al dato etico-sociale del prestigio che contraddistingueva l’antico consesso e che, al di là della vincolatività specifica dei suoi consulta, ne faceva a tutti gli effetti l’istituzione-guida dello Stato romano. In proposito cfr. F. CÀSSOLA - L. LABRUNA, in AA.VV., Lineamenti di storia del diritto romano, cit., 194 ss.

 

[5] Significative le testimonianze di Ovidio nelle Metamorfosi (15.833-834): iura suum legesque feret iustissimus auctor exemploque suo mores reget, e, più diffusamente, di Svetonio., Aug. 89.2: In evolvendis utriusque linguae auctoribus nihil aeque sectabatur, quam parecepta et exempla publice vel privatim salubria, eaque ad verbum excerpta aut ad domesticos aut ad exercituum provinciarumque rectores aut ad urbis magistratus plerumque mittebat, prout quique monitione indigerent. Etiam libros totos et senatui recitavit et populo notos per edictum saepe fecit ut orationes Q.Metelli ‘de prole augenda’ et Rutili ‘de modo aedificiorum’ quo magis persuaderet utramque rem non a se primo animadversam, sed antiquis iam tunc curae fuisse. Sul valore sintomatico dell’espressione si veda F. GALLO, Interpretazione e formazione consuetudinaria del diritto. Lezioni di diritto romano. Edizione completata con la parte relativa alla fase di codificazione, Torino 1993, 36 ss.; T. SPAGNUOLO VIGORITA, Le nuove leggi. Un seminario sugli inizi dell’attività normativa imperiale, Napoli 1992.

 

[6] Si è seguita qui la lezione proposta e argomentata sul piano paleografico da F. COSTABILE, RG 34.1: “[POT]IENS RE[RV]M OM[N]IVM” e l’Edictum ‘de reddenda re publica’, in Revisione ed integrazione dei Fontes Iuris Romani Anteiustiniani (FIRA), Studi preparatori, I. Leges (cur. G. PURPURA), Torino 2012, 255 ss., in seguito al ritrovamento del ‘Frammento Botteri’ relativo al Monumentum Antiochenum pertinente a Res Gestae 34.1 (P. BOTTERI, L’integrazione mommseniana a Res Gestae 34,1 e il testo greco, in ZPE, 144, 2003, 262 s.).

 

[7] Tacito, Ann. 1.9.5: “Non regno tamen neque dictatura sed principis nomine constitutam rem publicam”. (Trad. it.: Non tuttavia col regno né con la dittatura egli aveva costituito la res publica ma con il nome di ‘principe’).

 

[8] Lo spirito delle leggi (trad. di S. Cotta, Torino 1996), 11.13.; ancora più nel dettaglio, IDEM, Considerazioni sulle cause della grandezza e della decadenza dei romani (trad. di M. Mori, Torino 1980), 8: «Il governo di Roma fu straordinario, in quanto, sin dalla sua origine, sia per lo spirito del popolo che per la forza del senato o per l’autorità di certi magistrati, la sua costituzione rese sempre possibile l’eliminazione di ogni abuso di potere»; ibidem, 11. «Il popolo romano, finché vide sfilare l’uno dopo l’altro tanti personaggi, non si abituò mai a nessuno di essi». (Cfr., per la traduzione e le riflessioni inerenti, U. VINCENTI, in AA. VV., Storia del diritto romano, cit., 21 s.).

 

[9] E.S. RAMAGE, The nature and purpose of Augustus Res Gestae, Stuttgart 1987; M. LOWRIE, Making an exemplum of yourself: Cicero and Augustus, in S.J. HEYWORTH - P.G. FOWLER - S.J. HARRISON, Classical construction: Papers in memory of Don Fowler, Classicist and Epicurean, Oxford 2007, 91 ss.

 

[10] De oratore, I.42.190; ibidem, 2.33.142; De legibus, 3.20.46.

 

[11] La freddezza e la lucidità manifestate già in giovane età da Ottaviano e la sua perizia nel condurre una serrata campagna politico-militare tesa alla conquista del potere, pur con tutti i prudenziali accorgimenti di cui si dice nel testo, non potevano non suscitare anche illazioni e giudizi negativi sulla sua  persona e su presunte ambiguità della sua condotta pubblica e privata. Sono in tal senso significative in particolare le testimonianze di Tacito e di Svetonio circa le voci che ponevano in dubbio l’effettiva capacità militare di Augusto, insinuavano un suo coinvolgimento nelle morti di Irzio e Pansa nella battaglia di Forum Gallorum, additavano la sua spietata crudeltà nell’ordinare le proscrizioni. In argomento vedi, di recente, L. CANFORA, La prima marcia su Roma, Bari 2007.

 

[12] Tale suggestione è in O. LICANDRO, L’irruzione del legislatore romano-germanico. Legge, consuetudine e giuristi nella crisi dell’Occidente imperiale (V-VI sec. d.C.), Napoli 2015, 76-77.

 

[13] Se in Gaio (Inst. 1.4) ancora affiorava traccia di un’antica discussione in merito alla possibilità per il senato di ‘facere ius’, Ulpiano (D. 1.3.9 [16 ad ed.]) elimina qualsiasi dubbio al riguardo. Cfr. D. DALLA, in D. DALLA - R. LAMBERTINI, Istituzioni di diritto romano, 3a ed., Torino 2006, 20 s.

 

[14] Polyb. 6.11.11-12: “Ἦν μὲν δὴ τρία μέρη τὰ κρατοῦντα τῆς πολιτείας, ἅπερ εἶπα πρότερον ἄπαντα ᾿οὕτως δὲ πάντα κατὰ μέρος ἴσως καὶ πρεπόντως συνετέτακτο καὶ διῳκεῖτο διὰ τούτων ὥστε μηδένα ποτ᾽ἂν εἰπεῖν δύνασθαι βεβαίως, μηδὲ τῶν ἐγχωρίων, πότερ҆ ἀριστοκρατικὸν τὸ πολίτευμα σύμπαν ἢ δημοκρατικὸν ἢ μοναρκικόν. Καί τοῦτ᾽ εἰκὸς ἧν πάσχειν ᾽ὅτε μὲν γὰρ εἰς τὴν τῶν  ὑπάτων ἀτενίσαίμεν ἐξουσίαν, τελείως μοναρκικὸν ἐφαίνετ᾽ εἶναι καὶ βασιλικόν, ὅτε δ᾽ εἰς τὴν τῆς συγκλήτου πάλιν ἀριστοκρατικόν καὶ μὴν εἰ τὴν τῶν πολλῶν ἐξουσίαν θεωροίη τις ἐδύκει´ σαφῶς εἶναι δημοκρατικόν”.(trad.: Tutte e tre le forze di cui ho prima parlato avevano potere nella repubblica: e così attraverso queste ogni affare particolare era regolato e amministrato con equità e scrupolosità, tanto che nessuno, neppure tra gli stessi romani, avrebbe potuto dire se quello fosse un regime aristocratico, o democratico o piuttosto monarchico. Ed è naturale che fosse così. Quando infatti poniamo attenzione al potere dei consoli, ci sembra che quel governo sia monarchico o regio; se guardiamo al senato, ci pare aristocratico e invece se osserviamo il potere del popolo, ci appare chiaramente democratico).

Per i passi tratti dalle opere di Cassio Dione (ntt. 15 e 16), Polibio, Svetonio (nt. 17) e Tacito (nt. 7) si è scelto di seguire le traduzioni contenute in Ab urbe condita. Fonti per la storia del diritto romano dall’età regia a Giustiniano, 2 ed., cur. N. PALAZZOLO, F. ARCARIA, O. LICANDRO, L. MAGGIO, Catania 1999.

 

[15] Cassio Dione, Historia Romana, 53.32.5: καὶ διὰ ταῦθʹ ἡ γερουσία δήμαρχόν τε αὐτὸν διὰ βίου εἶναι ἐψηφίσατο, καὶ χρηματίζειν αὐτῷ περὶ ἑνός τινος ὅπου ἂν ἐθελησῃ καθʹἑκάστην βουλήν, κἂν μὴ ὑπατεύῃ, ἔδωκε, τήν τε ἀρχὴν τὴν ἀνθύπατον ἐσαεὶ καθάπαξ ἔχειν ὥστε μήτε ἐν τῇ ἐσόδῳ τῇ εἴσω τοῦ πωμηρίου κατατίθεσθαι αὐτὴν μήτʹ αὖθις ἀνανεοῦσθαι, καὶ ἐν τῷ ὑπηκόῳ τὸ πλεῖον τῶν ἐκασταχόθι ἀρχόντον ἰσχύειν ἐπέτρεψεν. (trad.: «E perciò il senato votò che Augusto fosse permanentemente tribuno e gli diede il privilegio di presentare ad ogni riunione del senato qualsiasi argomento, in qualsiasi momento volesse ed anche se in quel momento non era console. Gli permisero altresì di essere titolare una volta per tutte e perpetuamente del proconsolato, cosicché egli non dovesse più né deporlo né averlo nuovamente rinnovato. E gli diedero sui territori assoggettati autorità in ogni caso superiore a quella del governatore». Evidente dunque come il princeps si veda riconosciute  via via le funzioni ed i poteri che nella repubblica erano distribuite tra le varie magistrature del cursus honorum, senza tuttavia i limiti ad esse connaturati e contestuali (annualità, collegialità, territorialità).

 

[16] Vedi tuttavia Cassio Dione, che (Historia Romana 53.12.1-3) pone in evidenza gli intenti, non del tutto altruistici, che avrebbero guidato il princeps nella suddivisione delle province tra imperiali e senatorie: τὴν μὲν οὖν ἡγεμονίαν τούτῳ τῷ τρόπῳ καὶ παρὰ τῆς γερουσίας τοῦ τε δήμου ἐβεβαιώσατο, βουληθεὶς δὲ δὴ καὶ ὣς δημοτικός τις εἶναι δόξαι, τὴν μὲν φροντίδα τήν τε προστασίαν τῶν κοινῶν πᾶσαν ὡς καί ἐπιμελείας τινὸς δεομένων ὑπεδέξατο, οὔτε δὲ πάντων αὐτὸς τῶν ἐθνῶν ἄρξειν οὔθ᾿ὅσων ἂν ἄρξῃ, διὰ παντὸς τοῦτο ποιήσειν ἔφη, ἀλλὰ τὰ μὲν ἀσθενέστερα ὡς καὶ εἰρηναῖα καὶ ἀπόλεμα ἀπέδωκε <τῇ βουλῇ>, τὰ δ᾿ἰσχυρότερα ὡς καὶ σφαλερὰ καὶ ἐπίκινδυνα καὶ ἤτοι πολεμίους τινὰς προσοίκους ἔχοντα ἢ καὶ αὐτὰ καθ҆ ἑαυτὰ μέγα τι νεωτερίσαι δυνάμενα κατέσχε, λογῳ μὲν ὅπως ἡ μὲν γερουσία ἀδεῶς τὰ κάλλιστα τῆς ἀρχῆς καρπῷτο, αὐτὸς δὲ τούς τε πόνους καὶ τοὺς κινδύνους ἔχῃ, ἔργῳ δὲ ἵνα ἐπὶ τῇ προφάσει ταύτῃ ἐκεῖνοι μὲν καὶ ἄοπλοι καὶ ἄμαχοι ὦσιν, αὐτὸς δὲ δὴ μόνος καὶ ὅπλα ἔχῃ καὶ στρατιώτας τρέφῃ. (trad.: «In tal modo Augusto ebbe ratificato il suo potere dal senato ed altresì dal popolo. Ma siccome egli ci teneva ad essere ritenuto democratico, mentre accettava ogni cura e supervisione degli affari pubblici - dato che ciò richiedeva attenzione da parte sua -  al contempo dichiarava che non avrebbe governato personalmente le province e comunque, per quelle sotto la sua diretta gestione, essa non sarebbe durata indefinitamente. Di fatto attribuì al senato le province più deboli mentre trattenne presso di sé le più forti, asserendo che fossero meno pacifiche, più insicure e precarie delle altre. La motivazione da lui dichiarata era che così lasciava al senato la parte migliore dell’impero, riservando per sé avversità e pericoli. Ma il suo reale proposito, tramite questa sistemazione era quello di rendere i senatori disarmati ed imbelli, impreparati alla guerra, mentre egli solo disponeva di armi e manteneva pronti i soldati»).

 

[17] I giuristi svolgeranno ruoli-chiave sia nella cancelleria imperiale sia nel consilium principis, che, forse istituito dai successori di Augusto stesso, si perfezionerà sino ad essere istituzionalizzato da Costantino con il nome di consistorium. Anche per questo la giurisprudenza romana viene ricordata come l’unica tra le molteplici fonti di produzione del diritto ad essere stata continuativamente operativa (sebbene in ruoli assai diversificati) lungo tutto l’arco storico dell’esperienza giuridica romana. In merito all’istituto dei consilia principis, vedi F. AMARELLI, in AA. VV., Storia giuridica, cit., pp. 272 ss.,  e, ibidem, L. DE GIOVANNI, pp. 379, 383 s.

 

[18] Su tutti Marco Antistio Labeone, fondatore della scuola dei Proculiani ed insigne giurista, il quale “animato da un’idea folle e smisurata di libertà”  secondo la testimonianza di Ateio Capitone, si rifiutò di riconoscere la legalità del regime augusteo, al punto da non considerare valido “se non quanto era stato costituito e sancito nei tempi antichi di Roma” (Gell. Noct. Att. 13.12. 1-2).

 

[19] Svet. Aug. 28: Quam voluntatem, cum prae se identidem ferret, quodam etiam edico his verbis testatus est: “Ita mihi salvam ac sospitem rem p. sistere in sua sede liceat atque eius rei fructum percipere, quem peto, ut optimi statusauctor dicar et moriens ut feram mecum spem, mansura in vestigio suo fundamenta rei p. quae iecero. (trad.: «Questa intenzione, ripetutamente da lui esposta, venne attestata anche in un editto con queste parole: così mi sia concesso di restaurare la repubblica salva ed integra nella sua sede e di ottenere la ricompensa che desidero, di essere additato come il fondatore di un ottimo assetto politico e, morendo, di portare con me la speranza che le basi della repubblica rimangano incrollabili quali le ho gettate io»).

 

[20] L’iconografia legata alla monetazione parla, per esempio, un linguaggio assai diverso: cfr. D. MANTOVANI, Leges et Iura P(opuli) R(omani) Restituit. Principe e diritto in un aureo di Ottaviano, in Atheneum 96, 2008, (estr.) 51 («Nella moneta, Ottaviano è addirittura effigiato su entrambe le facce. La pretesa di un governo autocratico è di rivendicare a sé l’intero potenziale rappresentativo di una moneta: diritto e rovescio diventano entrambi immagini dell’imperatore. Nel suo aureo, mentre dice di avere restaurato leges et iura, Ottaviano appare già in qualche modo come diritto vivente o, per lo meno, guardando al rotolo che impugna e allo scrinium appoggiato a terra che altri ne contiene, egli ha in mano e ai suoi piedi tutto il diritto»).

 

[21] Svet. Aug. 99: Supremo die identidem exquirens, an iam de se tumultus foris esset, petito speculo capillum sibi comi ac malas labantes corrigi praecepit et admissos amicos percontatus, “ecquid iis videretur mimum vitae commode transegisse”, ediecit et clausulam : εἰ δέ τι Ἔχοι καλῶς τᾠ παιγνίῳ δότε κρότον kαὶ πάνντες ἡμᾶς μετὰ χαρᾶς προπέμψατε. (Trad. it.: «Il suo ultimo giorno, dopo avere chiesto ripetutamente se fuori vi fosse già agitazione per causa sua, preso uno specchio , diede ordine di pettinarlo e di correggergli le guance cadenti e fatti quindi entrare gli amici chiese se, a parere loro, avesse ben recitato la commedia della vita, e soggiunse anche la consueta formula finale “ora, se tutto vi è piaciuto in questa recita, orsù applaudite”». (La traduzione è di F. DESSÌ, in SVETONIO, Vite dei Cesari,  Milano 1998).