Direttore di «Arthos.
Pagine
di testimonianza
Tradizionale»
Genova
L’ASYLUM DI ROMOLO: DA SCHIAVI A CITTADINI ROMANI
(*)
Sommario:
1. Roma, comunità “aperta” sin dalle
origini. – 2. Migrazioni
e presenze mitiche. – 3. Eterogeneità
sociale dei compagni di Romolo e apertura dell’Asylum. – 4. La
funzione del dio dell’Asylum e il
“rito di passaggio” a Giove Feretrio. – 5. Vediove
e la Gens Iulia. – 6. Chi è, dunque, Vediove?. – 7. Epilogo.
L’Asylum del tempio del Divo Giulio. – Bibliografia.
Molti
anni fa (1962), in uno scritto giovanile dedicato al più antico concetto giuridico d’Italia, Pierangelo Catalano, nel
citare un noto passo di Plinio che definiva l’Italia terra omnium terrarum alumna
éadem et parens (“figlia e madre di tutte le terre”) (Nat. Hist. 3.39), ha potuto parlare «non dunque [di] una chiusa
realtà etnica, ma [di] un concetto giuridico che si alimenta di una idea
politica tesa all’universale»[1].
Ciò,
evidentemente come effetto di lunga durata di un magistero che, nell’esperienza
romana, si sviluppa lungo l’arco di molti secoli e pone le sue basi sin dalle
origini.
In
verità, tradizioni, leggende, la ricostruzione stessa della più antica storia
romana ci rappresentano Roma come una compagine aperta dal punto di vista
etnico, vale a dire non chiusa all’interno di un unico popolo, i Latini, da cui
pure i Romani traevano origine.
Di
Romolo e del suo Asylum diremo tra
breve: intanto osserveremo che Tito Tazio e Numa Pompilio erano sabini, così
come sabine erano le madri di Tullo Ostilio e Anco Marzio; Tarquinio Prisco era
figlio di un greco di Corinto e di una etrusca; Servio Tullio, poi, per molti
era uno straniero di condizione servile.
Mentre
i Greci e soprattutto Atene insistevano sulla propria autoctonia come valore
positivo, i Romani non hanno mai fatto mistero del carattere aperto della loro
comunità.
Durante
la Repubblica l’importante Gens Claudia menava
vanto della sua origine straniera (sabina) e, in seguito, l’Imperatore Claudio,
che a quella stessa gens apparteneva,
ebbe modo di pronunciare in Senato un memorabile discorso ad esaltazione di
questa apertura[2].
Di
più: in una lettera di Filippo V di Macedonia agli abitanti di Larissa (212 a.C.)
si additano ad esempio i Romani che concedevano facilmente la cittadinanza: e
non solo agli stranieri, ma persino agli schiavi[3].
Un
riscontro concreto a tutto ciò è dato, non solo dalla documentazione
archeologica, ma dagli stessi Fasti
Consolari dove, tra la fine del VI e la metà del V secolo a. C. troviamo
consoli il cui gentilizio denota un’origine straniera ( Etruschi, Sabini,
Volsci, Aurunci).
Il
fenomeno continua nel tempo, ma si può dire che questa capacità d’integrare
altri e di assorbirne talvolta istituzioni e culti certamente risalga all’età
regia e rappresenti uno dei segreti del successo di Roma, in cui tutto poteva
ricomporsi nell’ambito della cittadinanza.
Assieme
a questa, la libertà è il tratto più
caratteristico della compagine romana.
Se
è vero che essa era privilegio del cittadino e si stagliava su uno sfondo di
rapporti servili, sulla massa degli schiavi e dei semiliberi, in Roma poteva
essere ottenuta più facilmente che in Grecia, perché il padrone dello schiavo,
nel manumetterlo, ne faceva contemporaneamente un uomo libero e un cittadino, i
cui discendenti, nello spazio di poche generazioni, non solo risultavano
perfettamente integrati nel resto della popolazione, ma potevano assurgere alle
più alte cariche politiche.
Afferma
Cicerone nelle Filippiche (6.7.19):
«Le altre nazioni possono tollerare la servitù, la libertà è propria del popolo
romano»[4].
Certamente
l’Italia – e soprattutto il Lazio – fu luogo di passaggio, in epoca remota o
“mitico - storica”, di infinite popolazioni, che Dionigi di Alicarnasso
puntigliosamente enumera: Aborigeni, Pelasgi, Arcadi, Peloponnesiaci al seguito
di Ercole, Troiani, …
Lo
stesso Dionigi (1.89.1-2) si stupisce per il fatto che Roma non si fosse
imbarbarita «nonostante abbia accolto nel suo seno Opici, Marsi, Sanniti,
Tirreni, Bruzi e parecchie decine di migliaia di Umbri, Liguri, Iberi, Celti e
molti altri popoli ( … ) tutti differenti per lingua e costumi».
Gli
dèi stessi scelgono questa terra come luogo di rifugio.
Saturno
giunge nel Lazio esule, straniero, “latitante”: anzi, il Lazio stesso, secondo
una sacra etimologia, avrebbe derivato il suo nome dal latére (“nascondersi”) del dio[5].
Accolto dal buon re Giano, Saturno con lui divide il regno e fonda una mitica e
preistorica comunità sul colle che, prima di chiamarsi Capitolium, era detto mons
Saturnius: Saturnia, la cui reale consistenza è stata dimostrata dagli
scavi archeologici[6].
Ora,
è interessante constatare che proprio sul mons
Saturnius Romolo – riferisce Livio (1,8, 5-6) – allo scopo di aumentare la
popolazione della nuova città da lui fondata, aprì un luogo di rifugio
nell’area tra le due cime del colle Capitolino ( l’ Arx e il Capitolium vero
e proprio ), dove potessero trovare riparo gli esiliati dai luoghi vicini,
fossero essi liberi o schiavi fuggiaschi: un Asylum in un avvallamento inter
duos lucos, considerato talvolta esso stesso un bosco, area – dice Livio –
ai suoi tempi recintata e chiusa.
Secondo
Plutarco (Rom. 9.2-3), già prima
dell’istituzione dell’Asylum (che per
lui precede la creazione del pomerio ed è frutto dell’iniziativa comune di
Romolo e Remo), la turba al seguito dei gemelli era composta da «molti servi e
molti ribelli» con i quali «gli abitanti di Alba non ritenevano giusto
mescolarsi, né accogliere come cittadini». Quindi «istituirono un luogo sacro
come asilo per i ribelli e lo intitolarono al dio Asilo: vi accoglievano tutti,
non restituendo lo schiavo ai padroni, né il plebeo ai creditori, né l’omicida
ai magistrati; affermavano anzi che per un responso dell’oracolo di Delfi,
potevano garantire il diritto di asilo, in modo tale che la città si riempì
presto di gente».
Il
termine Asylum (che non appare nella
letteratura latina prima della metà del I sec. a.C., ma non può essere
considerato come la semplice traslitterazione di un termine greco) designa un
luogo la cui sacralità si giustifica sulla base dell’accoglienza di qualsiasi
persona. Rinvia ad una pratica in uso nel mondo greco, ma secondo un’ottica
prettamente romana[7].
Livio
e Plutarco sottolineano la composizione eterodossa dei primi coloni romani,
servi e ribelli, e lo fanno probabilmente per fedeltà a fonti più antiche che
ancora non avevano nobilitato la leggenda originaria: si tratta forse del
riferimento ad un’istituzione giuridico-religiosa assai risalente nel tempo.
Dionigi
di Alicarnasso, invece, parla (2.15) dell’Asylum
come di un «santuario per supplici, che, se avessero voluto, sarebbero stati
resi partecipi della cittadinanza» e sottolinea come, tra i compagni di Romolo
vi fossero nobili Albani di origine troiana, da cui sarebbero discese le 50
famiglie di cui parlava Varrone nella perduta opera De familiis Troianis: un particolare che, peraltro, potrebbe avere
un certo rilievo nel contesto che seguirà.
L’Asylum e il suo recinto erano consacrati
ad una divinità ignota a Dionigi e a Plutarco (che parla di un generico “dio
Asilo”), ma che la maggior parte dei commentatori, antichi e moderni,
identifica con Vediove ( o Veiove ), soprattutto per il fatto che proprio lì, inter duos lucos, in epoca storica (192
a. C.) fosse stato dedicato a lui un tempio, il cui dies natalis cadeva alle none di Marzo[8].
Vi si accedeva attraverso la Porta Pandana, un tempo chiamata Saturnia in quanto che, situata lungo il
clivo capitolino, non distava molto dal tempio di Saturno. Ora, appare
significativo che Pandana significhi
“sempre aperta”: dunque accessibile da tutti coloro che avessero voluto
rifugiarsi nell’Asylum[9].
Servio
Danielino ( ad Aen. 2, 761 ), citando
Calpurnio Pisone, parla di un deus
Lycoris, che potremmo intendere come deus
luci ( cioè un non meglio identificato Genius
loci ), oppure riferire all’appellativo greco Lychoréus, applicato ad Apollo: un dato, questo, che potrebbe
essere confermato dalla scoperta, negli anni ’40, della statua cultuale di
Vediove – di cui parla Ovidio[10]
– sotto le apparenti sembianze di un giovane Apollo: ma la statua ( oggi in situ, cioè nei sotterranei dei Musei
Capitolini ) è mutila e non tutta leggibile[11].
Già
il Wissowa (alle pp. 199 e sgg. del suo Religion
und Kultus der Römer, 1912) aveva intuito come uno dei caratteri peculiari
di Vediove concernesse il campo della protezione
e dell’espiazione: in effetti, non
per caso un altro suo tempio si trovava sull’isola Tiberina, in compagnia di
quello di Esculapio (il dio greco della medicina), il cui dies natalis cadeva (per entrambi) il primo di Gennaio: giorno in
cui i calendari – oltre, naturalmente, a Giano – ricordano appunto Vediove,
Esculapio e Coronide, la “vergine – cornacchia” madre dello stesso Esculapio[12].
La
compagnia di Giano, dio degli initia
e dei “passaggi”, è significativa, dal momento che questo “passaggio” pare
riferirsi all’integrazione dello straniero e/o dello schiavo liberato nella
cittadinanza romana. Si potrebbe dire che Romolo, con l’Asylum, risanasse quegli stranieri che erano caduti nel campo d’azione
di Vediove trasferendoli, come cittadini, nel campo d’azione del sommo Giove.
L’isola
e l’Asylum, quindi, entrambi come
“ospedali” o luoghi di transito: da “banditi” o “clandestini”[13]
vigilati da Vediove ( il parvum Iovem
di Paul. Fest., 119 L. ), a cittadini restituiti alla luce folgorante del Giove
celeste.
Considerato
poi lo stretto legame topografico fra l’Asylum
e il santuario di Giove Feretrio, il cui culto civico sempre Romolo aveva
istituito, appare evidente la relazione tra i due siti: dall’Asylum di Vediove era necessario
“passare” sino all’altare di Feretrio, dove un giuramento rituale per Iovem lapidem avrebbe integrato
nella nascente comunità romana quella «massa eterogenea di individui indistinti
tra schiavi e liberi», di cui parla Livio (1.8.5). Dunque, Vediove e Iuppiter sembrano agire su un piano
teologico e rituale affatto differente, per quanto complementare: il primo
purifica gli ospiti dell’Asylum da
ogni impurità connessa alla loro condizione di emarginati e/o stranieri (
nell’isola Tiberina, di “malati” o feriti di guerra ), mentre il secondo,
testimone del loro giuramento di fedeltà, ne sancisce[14]
e tutela l’ingresso nella comunità.
La
funzione di questo Iuppiter Iuvenis (
Ovidio ) a Roma è la medesima esercitata a Terracina da Feronia col suo piccolo
Iuppiter Anxur ( definito imberbis da Servio, ad Aen. 7, 799 ) nella cerimonia di liberazione degli schiavi,
allorché ci si sedeva su un sedile
lapideum come servi e ci si
rialzava liberi.
Laddove
a Terracina e, in epoca storica, in Roma stessa, il passaggio di stato veniva
ulteriormente ritualizzato con la recita di un’apposita formula, il taglio
simbolico dei capelli e la ricezione del pilleus
libertatis[15].
Giove
è forse la sola figura divina di Roma di cui si possa dire con certezza che non
possedesse nessun culto rivoltogli dalle gentes
in quanto tali, perché del tutto appartenente alla sfera pubblica. Oltre che
estraneo alle gentes, lo era anche
nei confronti dei “non liberi” e di coloro che ancora non fossero cives. Diverso è il caso di Vediove,
come si è già visto. Questo “Giove giovane” non è peraltro una forza oscura
delle profondità terrestri o di immaginarie entrate nel mondo sotterraneo, come
molti studiosi ( soprattutto moderni ) hanno ritenuto di dedurre dalle fonti.
Un legame con la sfera ctonia, tuttavia, esiste, in quanto il dio ha a che fare
con la pietas nei confronti dei
morti: in suo nome si sacrifica ritu
humano[16].
Ora,
gli Iulii sono celebrati nella poesia
romana come discendenti di Giove in quanto progenitore del re troiano. Virgilio
parla di Assaraci proles demissaeque ab
Iove gentis nomina (Georg. 3.35).
Proprio
a Lavinio si venerava il capostipite Enea, sotto il nome di Iuppiter Indiges (cioè “Giove antenato”),
presso una tomba monumentale, un heroon
tornato alla luce una quarantina di anni fa (17)[17].
Se dunque una gens romana avesse
voluto inserire Giove nel suo culto gentilizio, questa sarebbe stata certamente
la Gens Iulia. Ma, come una fortunata
scoperta (di cui diremo più sotto) ha permesso di dimostrare, tale gens non venerava nell’ambito romano
Giove, bensì Vediove.
La
tradizione è unanime nell’attribuire agli Iulii
una origine albana. Livio ( 1, 30, 2 ) li vuole giunti a Roma dopo la
distruzione di Alba ai tempi di Tullo Ostilio.
Tuttavia
è anche ben nota la figura di Proculus
Iulius, il quale sarebbe stato testimone dell’apoteosi di Romolo (Liv.
1.16.5): in tal caso avrebbe valore quanto affermato da Dionigi (e da Varrone) sulle
50 famiglie di origine troiana partite con Romolo alla volta di Roma.
Fatto
sta che la tradizione è confermata dai legami della gens con Boville, i cui abitanti si presentavano come discendenti
degli antichi Albani (Albani Longani
Bovillenses) e dove si erano trasferiti i culti di Alba dopo la
distruzione.
Sul
lastricato dell’antica città fu scoperto un sacrario della Gens Iulia che
recava la seguente epigrafe: Vediovei
patrei genteiles Iulei. Ved[iovei] [Iu]l[e]i [a]ara leege Albana dicata.
Non si deve pensare a sacra gentilicia,
ma ad un sacerdozio pubblico ereditato dagli Iulii sulla base di una legge albana mantenuta in vita dalla Res Publica Romana. Cosa che dimostra
come la gens a cui appartenne Gaio
Giulio Cesare, oltre che stirpe di Re (come orgogliosamente affermò lo stesso
Cesare nell’orazione funebre in onore di sua zia) fosse soprattutto «una antica
famiglia sacerdotale», come bene intuì il Syme[18].
Si
noti ancora che una statuetta in bronzo dello stesso Vediove, che reca frecce
in una mano, è stata rinvenuta poco distante dall’heroon di Iuppiter Indiges
di cui si è detto. Era a corredo di uno dei famosi “XIII altari” (per la
precisione: il primo o il secondo) scavati in contemporanea all’heroon laviniate scoperto nel secolo
scorso(19)[19]:
ulteriore elemento che rafforza il nostro discorso.
Prima
di cercare di capire chi rappresenti veramente Vediove, vediamo di comprendere
meglio perché, parlando delle sembianze giovanili delle sue statue di culto,
sia stato fatto un raffronto con Apollo.
Già
si è notato (vedi nota 11) come un importante esponente della Gens Iulia avesse dedicato nel lontano
431 a. C. un tempio ad Apollo medico: prima attestazione del culto apollineo a
Roma.
A
parte la relazione con Esculapio, che abbiamo già incontrato su quella stessa
isola Tiberina dove dimora anche Vediove, è da notarsi che ad Apollo medico
erano consacrati tutti coloro che nascevano da parto cesareo: dunque, anche il
primo dei Giulii di cognome Cesare venuto alla luce in questo modo. Donde
l’inserimento anche di questo dio tra i culti della gens: seppure questi riacquisterà, in epoca augustea, lo specifico
aspetto dell’Apollo greco. Tuttavia, fra i due, Vediove è il più antico ……
Il
culto gentilizio ereditario di Boville fa da sfondo ad una etimologia
dell’anonima Origo Gentis Romanae
(15.5): «ammirando il grande coraggio di Ascanio, i Latini non solo lo
ritennero discendente da Giove, ma lo chiamarono dapprima Iolum, abbreviando e trasformando un poco il nome, quindi Iulum: da lui discese la famiglia
Giulia, come scrivono Cesare nel libro secondo e Catone nelle Origini».
Premesso
che il “Cesare” di questo brano è riferito a Lucio Giulio Cesare, console nel
64 a.C. ed autore dei Pontificalia,
il Richard ha notato in questa etimologia un passaggio mancante prima di Iulum: quel Io(vi)lus che ha le caratteristiche di un diminutivo in grado di
farci comprendere come da Iovis si
sia giunti a Iolus[20].
Se Ascanio – Iulo è un “piccolo Giove”, è dunque assimilabile a Vediove (il parvum Iovem di Paul. Fest., 519 L. ).
Per giunta, le statue cultuali di quest’ultimo recano in mano delle frecce ed
Ascanio – Iulo, nell’Eneide, è
descritto come un abile arciere ( vedi Aen.
7, 496 – 499 e 9, 630 – 634 ). Pare dunque che Iulo, questo ”piccolo Giove” sia
il divus parens, l’antenato
divinizzato di tradizione albana che Romolo e i suoi compagni di Alba Longa
(fra cui degli Iulii ?) pongono a
custode dell’Asylum in virtù delle
sue speciali caratteristiche.
Pochi
lo hanno notato, ma la vicenda dell’antico Asylum
Romuli ha un singolare epilogo che, alla luce di quanto sopra esposto, a me
pare emblematico, considerato il rapporto tra la Gens Iulia e il diritto d’asilo.
Tacito
(Ann. 3.60-63 ) ricorda come Gaio
Giulio Cesare dictator avesse
concesso il diritto d’asilo al santuario di Venere di Afrodisia, diritto
ribadito, dopo la sua morte, da Ottaviano e Antonio nella loro qualità di
triumviri.
Del
resto Appiano (Bell. Civ. 2.144.602)
ricorda come esistessero decreti, in virtù dei quali nessuno poteva essere
giustiziato se avesse trovato rifugio presso una statua del divo Giulio. La lex Rufrena aveva infatti introdotto
Cesare nell’ambito dei culti pubblici e nel sistema religioso del politeismo
romano. Da ultimo, Cassio Dione (47.19.2-3 ) riferisce come, ancora nel 42
a.C., i tribuni avessero votato la costruzione di un tempio, nel Foro, al divo
Giulio, a cui i triumviri concessero lo ius
asyli.
«A
differenza di molte città greche – scrive il Fraschetti, commentando Cassio
Dione[21]
– a Roma si trattava anche per un tempio di un privilegio di eccezione, tanto
da poter essere confrontato solo con precedenti analoghi di epoca romulea».
Cassio Dione parla di heroon, che, a
parere del Coarelli[22]
non può essere altro che l’altare antistante al tempio, anteriore a
quest’ultimo. Ma questo asilo – continua Dione – mantenne le sue prerogative
per poco, perché «dopo che si verificarono assembramenti popolari, il luogo
conservò il diritto di asylia solo di
nome, non di fatto, poiché fu sbarrato in modo tale, che nessuno poté più
penetrarvi». Tale chiusura deve identificarsi – precisa il Coarelli, che ha
esaminato i resti del fabbricato – «con il muro che chiuse l’esedra, rendendo
inaccessibile l’altare (….) operazione, certamente posteriore alla costruzione
del tempio ( che ebbe luogo nel 29 a.C. ) e probabilmente nel corso dei lavori
di ristrutturazione del Foro, successivi agli incendi del 14 e del 19 a.C.».
Insomma,
i tempi erano irrimediabilmente cambiati …
Oltre ai testi citati in
nota, ci si è serviti della seguente bibliografia:
P. ARATA, Osservazioni
sulla topografia sacra dell’”Arx capitolina”, in “Mélanges de l’école
française de Rome - Antiquité”, 122/1 (2010), pp. 117 - 146.
D. VAN BERCHEM, Trois cas d’asylie archaïque, in “Museum
Helveticum”, 17 (1960), pp.21 - 33.
L. DEROY, Sur la valeur et l’origine du préfixe latin
“VĒ-”, in “L’antichité classique”, 52 (1983), pp. 5-21.
A. FRASCHETTI, Romolo il
fondatore, Roma - Bari 2002.
A.L.
FROTHINGHAM, Vediovis, the volcanic god,
in “The American journal of philology”, 38/4 (1917), pp. 370 - 391.
C. KOCH, Giove romano,
trad. it. Roma 1986.
F. MARCATTILI, Schiavitù e
integrazione tra “asylum” e “Insula Tiberina”. Su Veiove, Esculapio, Iuppiter,
in “Rendiconti Mor. Accademia dei Lincei”, serie IX, vol. XXV (2014), pp. 201 -
239.
A. MASTROCINQUE, Romolo,
Este 1993.
G. PICCALUGA, L’anti
Juppiter, in “Studi e Materiali di storia delle religioni”, 1963, pp. 229 -
236.
J. PRIM, Vie religieuse au VI siècle av. J.-C. et
topographie urbaine, in “Melanges de l’école française de Rome -
Antiquité”, 126/1 (2014).
D. SABBATUCCI, La
religione di Roma antica, Milano 1988.
G. STARA - TEDDE, I boschi
sacri dell’antica Roma, in “Bull. della Comm. Arch. Comunale”, fasc. 2,
1905 [Roma], pp. 189 - 232 [rist. Roma 2014].
[Un evento
culturale, in quanto ampiamente pubblicizzato in precedenza, rende impossibile
qualsiasi valutazione veramente anonima dei contributi ivi presentati. Per
questa ragione, gli scritti della sezione “Memorie” sono stati oggetto di
valutazione “in chiaro” da parte della direzione di Diritto @ Storia]
[1]
P. CATALANO, Appunti sopra il più antico
concetto giuridico d’Italia, “Accademia delle scienze”, Torino 1962, 30-31.
[2]
Cfr. Oratio Claudiana, in C.I.L. XIII, 1668 = I.L.S., 212. Vedi
Cic., De off. 1, 11, 35. Per quanto
qui affermo cfr. anche C. AMPOLO, La
nascita della città, in: AA.VV. , Storia
di Roma, I ( Roma in Italia ),
Torino 1988, 172 ss.
[4]
Per queste ed altre considerazioni, cfr. F. DE MARTINO, Il modello della città–stato, in AA.VV., Storia di Roma, IV (Caratteri
e morfologie), Torino 1989, 453 ss.
[5]
Su Saturno e il suo latére, cfr. A.
BRELICH, Tre variazioni romane sul tema
delle origini, 2a ed., Roma 1976, 90 e passim.
L’A. rammenta lo stato di libertà concessa agli schiavi durante i Saturnalia del 17 Dicembre e come i
piedi della sua statua cultuale fossero legati da compedes (vincoli caratteristici degli schiavi) e sciolti proprio in occasione della sua festa:
elementi, tutti, da tenere in considerazione per il discorso che stiamo
facendo. Sul significato personale e non territoriale di Latium, cfr. P. CATALANO, Linee
del sistema sovrannazionale romano, Torino 1965, 135 ss.
[6]
Cfr. PATRIZIA FORTINI, in AA.VV., Roma –
Romolo, Remo e la fondazione della città, Roma 2000, 326: «Tra il XIV
secolo a.C. e l’VIII secolo a.C. i dati archeologici restituiti dalle aree di
Sant’Omobono e del Tabularium documentano
effettivamente la presenza di un villaggio sul colle».
[7]
Si veda utilmente lo scritto di LUCIA FANIZZA, Asilo, diritto d’asilo. Romolo, Cesare, Tiberio, in “Index” 40
(2012), 605-616.
[8]
Cfr. Ov., Fasti, 3.429 ss. «Le None
di Marzo hanno una sola celebrazione: si crede che in questo giorno sia stato
consacrato, davanti a due boschi sacri, il tempio di Vediove. Romolo, dopo aver
circondato il lucus con un alto muro
in pietra, disse: “chiunque tu sia, se qui ti rifugi, sarai al sicuro”. Da
quale umile origine discendono i Romani ...».
[9]
Gli scavi archeologici attestano come le primitive mura di difesa del
Campidoglio risalgano all’età romulea. Prima di Romolo avrebbe abitato quel
sito il popolo dei Latinienses. Utile
il saggio di F. MERCATTILI, “Quod semper
pateret”. La Porta Pandana, la Porta
Carmentalis e l’Asylum, in “Revue archeologique”, 2014/1, n° 57, 71-88.
[10]
Cfr. Ov., Fasti 3.436-437: «Ascolta
chi è questo dio e perché si chiama così. E’ Giove adolescente (Iuvenis): guarda il suo volto giovanile
……».
[11]
Potrebbe riferirsi ad Apollo Medico o, comunque, ad un Apollo ctonio affine
all’etrusco Suri od al sabino Soranus,
non a caso legato a Feronia ( si veda più avanti ) e alla Gens Valeria, la gens “guaritrice”.
Si vedano i miei due saggi: Feronia, dea
italica e mediterranea, la Gens Valeria e il monte Soratte, in “Arthos”, n.
s., 21 (2012), 56-57, e L’arcano potere
risanatorio che dirozza la pietra ( Valeria Luperca ) in: ID., “Favete linguis!” Saggi sulle fondamenta del
sacro in Roma antica, Genova 2010, 19-23. D’altra parte, si ricordi che il
culto di Apollo Medico fu introdotto nel 431 a.C. da un esponente della Gens Iulia (Cn. Giulio Mentone), la
quale – come meglio vedremo – era strettamente legata a Vediove.
[12]
Il padre fu il gigante Valens ( Cic.,
Nat. Deor. 3.56 ) o forse lo stesso
Apollo ( cfr. R. DEL PONTE, Feronia, dea…..,
cit., 57-58).
[13] Clandestinus deriva da clam ( “di nascosto” ) e ( per alcuni ) dies o ( per altri ) intus/intestinus: insomma, “colui che
vive nascosto alla luce del giorno”. Vediove è il suo dio, in quanto può
introdurlo alla luce di Giove.
[14]
Sul valore originario della sanzione divina, cfr. R. DEL PONTE, Santità delle mura e sanzione divina,
in: ID., La città degli dèi. La
tradizione di Roma e la sua continuità, Genova 2003, 93-106.
[15]
Su Feronia si veda anche , da ultimo: M. DI FAZIO, Feronia. Spazi e tempi di una
dea dell’Italia centrale antica, Roma 2013.
[16]
L’espressione, lungi dal fare riferimento a presunti sacrifici umani, significa
“con rito per uomini”, cioè offerto ad uomini defunti quale sacrifico
espiatorio. Cfr. Paul. Fest. 91 L., : humanum
sacrificium dicebant, quod mortui causa fiebat. Non è neppure escluso un
riferimento all’humus, cioè alla
terra della sepoltura ( cfr. F. CAVAZZA, Note
a le Notti attiche di Aulo Gellio, libri IV-V, Bologna 1987, 200-201).
[17]
Cfr. AA.VV., Enea nel Lazio. Archeologia e mito, Roma 1981 e M.
TORELLI, Lavinio e Roma, Roma 1984.
Non entro qui nel merito delle discussioni sulla destinazione iniziale dell’heroon di Lavinio, in particolare delle
conclusioni a cui è giunto A. CARANDINI, Il
fuoco sacro di Roma. Vesta, Romolo, Enea, Bari 2015, 115 ss., da cui mi
dissocio. Su Iuppiter Indiges (e i dii Indigetes) cfr. R. DEL PONTE, La religione dei Romani, Milano 1992, 73
ss.
[18] R. SYME, The roman revolution, Oxford 1939, 68. Appare
significativa la fabula narrata da
Ovidio nei Fasti (3.661-674) della
vecchia Anna Perenna di Boville (celebrata nei calendari alle Idi di Marzo – giorno
dell’uccisione di Gaio Giulio Cesare), la quale soccorre con le sue focacce i
plebei affamati dopo la secessione che li ha arroccati sul Monte Sacro. Qui
Anna Perenna di Boville stende la sua protezione sui reietti del Monte Sacro,
così come Vediove (presente nei calendari alle None di Marzo) fa, in un certo
qual modo, coi fuggitivi riuniti nell’Asylum.
[20] Cfr. J-CL. RICHARD, Sur un triple étiologie du nom “Iulus”, in “Revue des études
latines”, LXI (1983), 108-121. Si veda anche: G.V. e R. SANNAZZARI, Origini: il “Flamen Dialis”, in
“Arthos”, XVIII-XIX, 33-34 (1989-1990), 157-160.
[21]
Cfr. A. FRASCHETTI, Roma e il principe,
Roma-Bari 2005, 64 ss. Per la Lex Rufrena,
vedi C.I.L. I, 626.