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Zabłocki - Chiny2010_181 - CopiaRoma e l’applicazione del diritto secondo coscienza

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JAN ZABŁOCKI

Università “Cardinal Stefan Wyszyński”

Varsavia

Direttore della rivista Zeszyty Prawnicze

 

 

 

 

Intervenendo alla Conferenza Internazionale convocata per commemorare il ventesimo anniversario della morte del professor Henryk Kupiszewski[1], il professor Marek Kuryłowicz ha ricordato una sua profezia: «… l’interesse per le istituzioni del diritto romano (…) si manterrà finché rimarrà in vigore il sistema istituzionale dei codici»[2]. Un sistema che, contrariamente a molteplici previsioni anche di fresca data, resiste, invitando a confrontarsi nel contempo con le istituzioni romane e quelle odierne con strumenti di analisi opportunamente adeguati.

Nel prosieguo Kuryłowicz ha auspicato un fruttuoso connubio tra gli studi storici e la dogmatica del diritto vigente nonché una ancor più convinta ricerca di una sintesi del diritto romano che possa fungere da introduzione al diritto privato contemporaneo. Kuryłowicz intenderebbe estendere il campo d’indagine ai legami tra diritto romano, storia dell’arte e letteratura, a tutto il retaggio classico. Nell’intervento in parola si è felicitato con un „giovane romanista di Lublino” per aver dischiuso al diritto romano una prospettiva nuova e tonificante[3]. Il giovane studioso è Maciej Jońca che propone tra altro di «avvicinare a piccoli passi sia la Polonia che tutto il mondo alla sublime del diritto romano. Se siamo ragionevoli, forse potremo togliere un giorno la frase: ‘ius romanum è uno dei fondamenti della cultura occidentale’ dal novero dei luoghi comuni»[4].

E se si andasse ancora più oltre? Se si attingesse più in profondità alle ricchezze del mondo antico? Non vi rinverremmo soltanto modelli di buon diritto, ma anche lezioni di come applicarlo bene e secondo coscienza.

Con vostro permesso, mi farò guidare da Aulo Gellio e dal volume uscito dalla sua penna di antiquario, le Noctes Atticae. Gellio vi ha raccolto tanti racconti che insegnano a vivere e a comportarsi[5]. Quattro hanno per protagonisti i giudici[6]. Nel primo il giudice si esime dal sentenziare perché il caso non gli è chiaro[7]; nella seconda, rimanda la sentenza a tempo indeterminato[8]; nella terza, aggiorna il dibattimento[9]; nella quarta, pronuncia la sentenza, ma non ne è convinto[10].

Il giudice del primo racconto è lo stesso Aulo Gellio, allora giovane e inesperto[11]. Giudice privato in un processo formulare, doveva dirimere una vertenza riguardante la restituzione di un prestito. In fase probatoria l’attore non aveva prodotto documenti né presentato testimoni in grado di confermare la contrazione del prestito né esibito alcun genere di prova. Tuttavia era uomo di specchiati costumi, degno di fiducia e di notoria bontà, a differenza del convenuto, individuo chiacchierato, ammanigliato con gente importante, ma più volte reo di fellonia e truffa.

Potrebbe supporsi che il prestito fosse stato concesso senza oculatezza oppure che l’attore ne esigesse la resa senza giusto motivo; ad ogni modo era a corto di prove; forse voleva arricchirsi capziosamente a scapito di un noto truffatore: che fu più furbo. Non solo pretendeva l’assoluzione, ma anche la condanna dell’attore in base a un iudicium calumniae decimae partis[12]. Pertanto non si dibatteva di solo prestito, ma anche di dignità.

Gellio non sapeva cosa fare. Era convinto che l’attore meritasse rispetto; del convenuto non si fidava. Per evitare sentenze avventate, aveva chiesto lumi ad amici, come usavano a Roma i giudici privati. Ma gli amici, giudici e avvocati esperti di tribunali, presi come erano dalle loro cause, avevano fretta. Senza troppo disquisire gli avevano consigliato di lasciar libero il convenuto non potendo provarsi che avesse preso i soldi. Non l’avevano convinto.

Quindi – nell’ambito del suo officium iudicis - aveva chiesto consiglio a Favorino di Arelate[13], allora filosofo di gran fama. Nel solco di Catone[14], Favorino aveva risaltato la mancanza di testimoni e consigliato a Gellio di servirsi di un criterio supplementare – la reputazione delle parti.

Neanche questa Gellio l’aveva presa per buona. Non intendeva giudicare l’attendibilità delle parti in causa. Doveva pronunciarsi sul prestito, non dare un iudicium de moribus. Dovendo scegliere tra il dovere di sentenziare ‒ [15] e il rifiuto di pronunciarsi de moribus ‒, preferì esimersi dalla sentenza. Si giustificò con la giovane età e l’inesperienza; confermò il rifiuto di sentenziare con il giuramento sibi non liquere: in altre parole confessò di non essere riuscito a fare chiarezza[16].

Talvolta, quando il caso si delineava particolarmente contorto, i giudici differivano il dibattimento a tempo indeterminato. A tal proposito Aulo Gellio ricorda la vertenza per il compenso tra il celebre maestro di retorica Protagora e il suo allievo Euatlos[17]. Questi aveva offerto a Protagora un compenso favoloso. Versata in anticipo la prima rata, si era obbligato a partecipare la seconda dopo aver vinto il primo processo. Tuttavia, concluso il corso di retorica, non aveva iniziato la carriera forense. Era stato citato in giudizio da un docente sicuro che comunque andasse, sarebbe riuscito a ottenere tutto il pattuito: in virtù della sentenza, se favorevole, in virtù del contratto, se il processo l’avesse perso. Un ragionamento che Euatlos aveva fatto suo, ma ribaltato: ad ogni modo, non avrebbe pagato, o perché la sentenza gli avrebbe dato ragione, o perché avrebbe perso la prima causa: e, per contratto, l’avrebbe dovuta vincere[18]. I giudici decisero di soprassedere. Procrastinarono il dibattimento a tempo indeterminato[19].

Di profilo in sostanza analogo la decisione dei giudici chiamati a decidere il caso di una donna di Smirne accusata di aver avvelenato il marito e il figlio[20]. Un caso noto, incontrovertibile, lineare. La donna era rea confessa: li aveva avvelenati perché le avevano ucciso il figlio di primo letto. Il proconsole Dolabella, all’epoca governatore dell’Asia, aveva disposto che se ne dibattesse in consilium. Ma nessuno dei suoi membri se la sentì di sentenziare: forse erano tutti convinti che quel castigo entrambi gli avvelenati se lo erano meritati. Dolabella investì del caso gli areopagiti di Atene, ma anche essi dovettero convincersi che una sentenza affrettata non avrebbe fatto giustizia. E poiché non c’era fretta, chiesero alla donna e ai suoi accusatori di tornare dopo cent’anni[21].

Rimandando ad kalendas graecas o fissando l’udienza a distanza di lustri si arrivava, per altre vie, a fare come Aulo Gellio che, mosso da dubbi piuttosto morali che legali, aveva prestato il giuramento rem sibi non liquere per esimersi dal giudicare.

Trovatosi in una situazione disagevole, Chilo Lacedemone, uno dei sette saggi ed eforo di Sparta, si impose un comportamento diverso[22].

Prossimo a morire, Chilo confida agli amici di non avere pentimenti. Soltanto in un caso non è certo di essersi comportato secondo giustizia; e se ne preoccupa.

Era tra i tre giudici chiamati a giudicare un caso di lampante chiarezza, punibile con la morte. L’accusato era un suo amico. In punta di diritto avrebbe dovuto sentenziarsi il massimo della pena. Cosa fare: condannare a morte un amico o violare la legge?[23] Bel dilemma. Si dimenò come uscirne fuori senza perdere la faccia. Ebbe un’idea astuta. Si pronunciò discretamente per la condanna, ma convinse gli altri giudici a pronunciarsi per l’assoluzione. Gli sembrò di essere riuscito a contemperare il dovere del giudice con quello dell’amicizia. Ma il dubbio era rimasto e l’avrebbe roso per tutta la vita[24].

Fin dove è lecito spingersi per aiutare un amico? Fino a violare la legge, le consuetudini, il senso della giustizia? In tutti i casi; soltanto in certuni? E come? Problemi annosi, di gran travaglio – conferma Gellio – anche per gli antichi.

Massimamente perspicace al riguardo fu – dice Gellio - Teofrasto, esimio peripatetico, autore di un trattato in tre libri intitolato de amicitia[25]: importante il primo.

Apprendiamo da Gellio  che Cicerone lo conosceva. Se ne avvalse e lo rielaborò nel suo Laelius de amicitia[26]. Per l’arduo dilemma di Chilo ebbe però solo poche parole che Gellio riporta per esteso:  “Credo che occorra attenersi a tali principi quando i costumi degli amici siano inappuntabili e quando a essi si conformino, senza eccezione alcuna, tutti i loro piani, desideri e faccende. Ma quando ne siano in gioco la vita e l’onore, si prenderà la parte dell’amico anche per quel che abbia fatto di ingiusto, a patto di non incorrere indi soverchia infamia”[27]. Gellio commenta: quando siano in gioco la vita o il buon nome di un amico, può pure non seguirsi la retta via. Ma quanto a lungo, fino a dove, fino a macchiarsi di quale iniquità? Non lo precisa, eppure deve sentire l’esigenza di porre qualche limite, se mette in bocca a Cicerone un’affermazione che, expressis verbis, in de amicitia manca: “Per un amico non s’impugnano le armi contro la patria[28].

Può darsi che Gellio si fosse lasciato influenzare da de officiis[29]: ad ogni modo non è da escludere che lo conoscesse. Il problema dei doveri dell’amicizia – osserva l’Arpinate – è alquanto intricato, specie riguardo ai servigi prestati che sarebbe stato giusto negare, e a quelli negati che sarebbe stato giusto prestare.  Questo il suo consiglio. Mai premettere all’amicizia quanto sia utile soltanto a noi: ricchezze, onori, sollazzi, e altri simili piaceri. E, nondimeno, mai, a favore di un amico, ribellarsi alla patria, rompere un giuramento, non essere di parola: neanche da giudice chiamato a pronunciarsi sull’amico: vestita la toga del giudice, si svestono i panni dell’amico. Come giudice, un amico può fare ben poco: fissare in data agevole l’udienza, sempre che la legge lo consenta. Quando, prestato il giuramento, pronuncia la sentenza, il giudice chiama a testimoni gli dei, ovvero la propria coscienza, che per l’Arpinate è dono divino, il più divino di quanti alberghino nell’uomo. Bello l’uso, tramandato dai posteri, di chiedere al giudice «di fare quello che in fede può fare». Quindi anche di aiutare un amico quando la dignità dell’ufficio non glielo impedisca. Tra amici non ogni richiesta è sacra; quando lo sia, non è amicizia, ma cospirazione.

Gellio ricorda che per Pericle l’Ateniese, uomo illustre e coronato di ogni virtù, l’amicizia non poteva andare oltre i limiti imposti dalla fede[30]. Alla richiesta di un amico di spergiurare in suo favore, Pericle rispose: «È giusto aiutare gli amici, ma rispettando gli dei»[31] (alquanto più icastico in Moralia Plutarco: «l’amicizia cede davanti all’altare»[32].

Da Cicerone Gellio passa a Teofrasto che, a suo dire, dell’argomento aveva riflettuto ben meglio, senza peraltro scendere nel dettaglio o distrarsi da superflui esempi, puntando piuttosto sul generale, ancorché con parole brevi e schiette: «Ci si può macchiare di una piccola, marginale vergogna o infamia, se non c’è altro modo per avvantaggiare un amico in un affare assai importante. Una piccola perdita di onore, subita aiutando un amico, può essere compensata dalla dignità intatta dell’amico. Non è così quando su un piatto della bilancia pesa un vantaggio caro all’amico, sull’altro la nostra dignità. In tal caso, senza dubbio, la nostra dignità prevale. Ma quando il vantaggio dell’amico è enorme, e la dignità da noi persa minima, è il vantaggio dell’amico che prevale».

Anche in tal occorrenza Gellio richiama un suo contemporaneo, il filosofo Favorino, per il quale «quel che la gente chiama favore, non è altro che un allentamento, quando serva, del dovere»[33].

Da Teofrasto Gellio trae l’invito a non giudicare il comportamento delle persone prima di riflettere su circostanze, luoghi, tempi e motivi del loro agire. Ogni caso è diverso e merita un giudizio a parte, in genere sfumato.

Eccoci arrivati all’appunto finale.

Nei racconti brevi, qui appena riassunti, e in tutta la sua opera nel contempo antiquaria e fortemente didattica, Gellio è senz’altro attratto dall’etica. Si interessa al diritto in quanto connaturato con l’etica: un tempo lo era.

Tal rapporto, per Gellio, è fuori discussione. Poiché le sue competenze specifiche lasciano a desiderare, non si avventura in esegesi da dilettante, ma leggendo le fonti si richiama all’autorevolezza degli illustri. Gellio si diletta a metterli in causa. Quando si misuravano con il diritto, i grandi saggi antichi non usavano disgiungerlo dalla morale. Le strade dell’uno e dell’altra non si erano ancora divaricate: sarebbe successo, ma dopo. Ne scrisse, tra altri, anche il professor Henryk Kupiszewski[34].

Studiando le istituzioni del diritto romano, non trascuriamo le componenti etiche che lo permeavano[35]. Sarà poi facile farle confluire nel nostro diritto quotidiano.

 

 



 

[1] Cfr. Z. Benincasa, Świat antyczny w oczach Profesora Henryka Kupiszewskiego. Miedzynarodowa Konferencja, Warszawa 3 kwietnia 2014 r. [Il mondo antico visto da Henryk Kupiszewski. Conferenza internazionale, Varsavia 3 aprile 2014], «Zeszyty Prawnicze» 14.2/2014, 241 e ss.

 

[2] Cfr. H. KUPISZEWSKI, Prawo rzymskie a współczesność [Diritto romano e mondo contemporaneo], 2 ed., Kraków 2013, 294.

 

[3] M. KURYŁOWICZ, ‘Illotis manibus’. Henryk Kupiszewski i współczesne dyskusje romanistyczne w Polsce, «Zeszyty Prawnicze» 15.2/2015, 110.

 

[4] M. JOŃCA, Prawo rzymskie [Diritto romano]. Marginalia’, Lublin 2012, 341.

 

[5] Cfr. M.S. RUXER, Z ateńskich wspomnień uniwersyteckich Aulusa Gelliusa [I ricordi universitari ateniesi di Aulo Gellio], Poznań 1934; M.L. ASTARITA, La cultura nelle ‘Noctes Atticae’, Catania 1993; L. HOLFORD-STREVENS, Aulus Gellius. An Antonine Scholar and his Achievement, 2a ed., Oxford 2005, 65 ss.; J. ZABŁOCKI, The Intellectual Background of Aulus Gellius, «Diritto@Storia. Rivista internazionale di Scienze Giuridiche e Tradizione Romana» nr 6, 2007 (= http://www.dirittoestoria.it/6/Tradizione-romana/Zablocki-Jan-Intellectual-background-Aulus-Gellius.htm2008-04-01).

 

[6] Cfr. J. ZABLOCKI, Appunti sull’officium iudicis nelle ‘Noctes Atticae’, [in:] Au-delà des fontierès. Mélanges de droit romain offerts à Witold Wołodkiewicz, II, Varsovie 2000, 1115-1126.

 

[7] Gell. 14.2.

 

[8] Gell. 5.10.

 

[9] Gell. 12.7.

 

[10] Gell. 1.3.

 

[11] Cfr. Gell.14.2. Cfr. inoltre W. KEULEN, Gellius the Satirist. Roman Cultural Authority in ‘Attic Nights’, Leiden-Boston 2009, 209,. 221 ss.

 

[12] Cfr. G. 4.174-179.

 

[13] Può darsi che le Noctes Atticae, si modellassero, come suggerisce Gell. praef. 8, sulle Pantodaph; iJstoriva di Favorino. Le idee filosofiche sono note perlopiù grazie a Gellio che lo vuole protagonista di tante discussioni su problemi di grammatica, filosofia e diritto. Cfr. L. HOLFORD-STREVENS, op. cit., 98 ss.

 

[14] Il brano citato da Gellio è tratto da un’orazione di Catone, Pro L. Turio contra Cn. Gellium, Malcovati fr. 206.

 

[15] L’inosservanza del dovere di sentenziare incorreva in una nota censoria oppure in una multa pretoria. Cfr. J. MISZTAL-KONECKA, Sędziowski obowiązek wydania wyroku: regulacje prawa rzymskiego na tle prawa polskiego [Il dovere del giudice di sentenziare] «CPH» 64.2/2012, 117.

 

[16] Cfr. J. ZABŁOCKI, Iudex qui iuravit sibi non liquere, «Prawo Kanoniczne» 39.3-4/1996, 215-226; idem, Rozważania o procesie rzymskim [Riflessioni sul processo romano], Warszawa 1999, 84 ss.

 

[17] Cfr. Gell. 5.10. Cfr. inoltre W. Keulen, op. cit., 31 nota 47.

 

[18] Un ragionamento simile in Gell. 9.16. J. MISZTAL-KONECKA, op. cit., 114 nota 3 rileva giustamente che gli avversari non solo erano in contrasto l’uno con l’altro, ma anche ciascuno con se stesso. Entrambi si sarebbero conformati a una sentenza favorevole, e nel caso fosse stata sfavorevole si sarebbero richiamati al contratto.

 

[19] J. ZABŁOCKI, Rozważania…, cit., 100 ss.; L. HOLFORD-STREVENS, op. cit., 290 ss.

 

[20] Cfr. Gell. 12.7. Il caso in parola si trova ora nel libro VIII, e non IX, come afferma Gellio, dei Factorum et dictorum memorabilia di Valerio Massimo (8.1.amb.2), nel quale Dolabella è Publio. Cfr. G. BERNARDI-PERINI, Le Notti Attiche di Aulo Gellio, II, Torino, 1992, 904 e nota 2; L. HOLFORD-STREVENS, op. cit., 79, 316.

 

[21] J. ZABŁOCKI, Rozważania…, cit., 103 ss. `

 

[22] Cfr. Gell. 1.3. L’aneddoto su Chilo ripreso anche da Diog. Leart. 1.71. Cfr. inoltre W. KEULEN, op. cit., 229 ss.

 

[23] I tribunali collegiali romani potevano sentenziare a maggioranza anche quando un giudice si astenesse dal voto non avendo un’idea chiara del caso (cfr. D. 42.1.36). In assenza di uno dei tre giudici la sentenza non poteva pronunciarsi (cfr. D. 42.1.39). Cfr. J. MISZTAL KONECKA, op. cit., 118.

 

[24] Cfr. J. ZABŁOCKI, Rozważania…, cit., 105 ss.

 

[25] Gell. 13,5, ricorda che Teofrasto si annoverava tra i più capaci allievi di Aristotele e per volontà del maestro prese la direzione della scuola peripatetica. Su attività e dottrina filosofica di Teofrasto leggi G. REALE, Storia della filosofia antica, III, I sistemi dell’età ellenistica, 5a ed., Milano 1997, 125 ss., con ampi ragguagli bibliografici.

 

[26] Fu Sulla, nell’83 a.C., a portare i manoscritti di Teofrasto a Roma. Cfr. W. TATARKIEWICZ, Historia filozofii, I: Filozofia starożytna i średniowieczna [Filosofia antica e medioevale], 14a ed., Warszawa 1995, 158, che a p.154 osserva giustamente che tutti gli scritti filosofici ciceroniani attingono ai Greci.

 

[27] Cfr. Cic., Lael. 61.

 

[28] Gell. 1.3.18: Contra patriam arma pro amico sumenda non sint; cfr. Cic., Lael. 36.

 

[29] Cic., De off. 3.43-44.

 

[30] Ritroviamo Pericle in Gell. 15.17.1.

 

[31] Gell.1.3.20: Dei' me;n sumpavttein toi'" fivloi", ajlla; mevcri tw'n qew'n.

 

[32] Mevcri tou' bomou' fivlo" eijmiv, Cfr. Plut., Moralia 186 C; 531 C; 808 A. Cfr. anche G. BERNARDI-PERINI, op. cit., I, 146 nota 7; L. HOLFORD-STREVENS, op. cit., 113.

 

[33] Gell. 1,3,27: JH kaloumevnh cavri" para; toi'" ajnqrwvpoi", tou'to e[stin  u{fesi" akribeiva" ejn devonti (= Fav. fr. 100 Garigazzi).

 

[34] Cfr. H. KUPISZEWSKI, Prawo rzymskie…, cit., 243 ss., 317.

 

[35] Vedi M. KURYŁOWICZ, Etyka i prawo w sentencjach rzymskich jurystów[Etica e diritto nelle sentenze dei giuristi romani, [in:] W kręgu problematyki władzy, państwa i prawa. Księga jubileuszowa prof. Henryka Groszyka [Potere, Stato, diritto. Scritti per il giubileo del prof. Henryk Groszyk], Lublin 1996, 125-136; IDEM, Rzymskie sentencje prawnicze o człowieku, sprawiedliwości i prawie [Uomo, giustizia e diritto nelle sentenze giuridiche romane], «Palestra» 33.7/1988, 71-83; IDEM, Prawo rzymskie. Historia, tradycja, współczesność [Diritto romano.Tra storia, tradizione e il giorno d’oggi], Lublin 2013, 161-167.