D-&-Innovazione

 

 

foto piras - CopiaIl rifiuto delle cure. Un’esperienza giudiziaria[1]

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PAOLO PIRAS

Sostituto Procuratore della Repubblica

Tribunale di Sassari

 

 

SOMMARIO: Abstract. – 1. L’impatto dell’esperienza. – 2. La richiesta di sospensione della terapia. 3. L’unicità della richiesta. 4. Il provvedimento sulla richiesta. 5. La comunicazione del distacco. 6. Il rifiuto d’infusione di liquidi. 7. L’insegnamento dell’esperienza.

 

 

Abstract

 

Il lavoro si presenta in uno stile oratoriale, essendo la riproduzione fedele, ma non identica, del discorso tenuto ad un convegno organizzato dai Dipartimenti di Giurisprudenza e Medicina dell’Università di Sassari.

Si narrano a grandi linee i momenti salienti di una richiesta di sospensione di terapia di sostegno vitale, avanzata per la prima volta ad una Procura della Repubblica. Si pongono in evidenza le difficoltà giudiziarie dovute alla mancanza di una legge in materia di diritto di fine vita, dando risalto al disegno di legge che attualmente è nell’agenda dei lavori parlamentari.

Intensità di tinte emotive su un caso molto coinvolgente sul piano umano.

 

 

1. – L’impatto dell’esperienza

 

Come un comandante in una scialuppa di naufraghi. Questa è la risposta che dò a chi mi chiede: «Come ti sei sentito, come magistrato, ad occuparti del caso Nuvoli?»

Naufraghi, vittime, perché il caso Nuvoli è un caso senza autori, con sole vittime. Ognuno aveva la sua ragione per sentirsi vittima. Ma la ragione che accomunava tutti era la mancanza di una legge al riguardo. La mancanza di una legge disciplinante l'ipotesi.... tragica

Una scialuppa a bordo della quale viaggiavano lui, Giovanni Nuvoli, la moglie, i parenti, i medici, la commissione parlamentare di inchiesta, la magistratura, l'a.s.l., la polizia giudiziaria.

Una scialuppa di naufraghi a bordo della quale tacitamente ero stato eletto comandante. Emblematica al riguardo la relazione della commissione parlamentare d’inchiesta, che conclude suggerendo l'istituzione di un comitato etico presieduto dal  sostituto procuratore titolare dell'inchiesta. Un caso quindi visto da tutti e tre i poteri dello stato, il potere politico ossia la commissione parlamentare di inchiesta, la direzione a.s.l. ossia il potere amministrativo e il potere giudiziario ossia la magistratura.

Ho sempre teso una membrana impermeabile fra i problemi dell'attività lavorativa e la mia vita privata. Quella membrana aveva retto senza dare alcun segno di cedimento per oltre 20 anni di magistratura. Ma è stata lacerata come carta velina dal caso Nuvoli. Anche gli alberi frangivento più saldi possono essere sradicati quando il maestrale è furibondo.

 

 

2. – La richiesta di sospensione della terapia

 

Giovanni Nuvoli era ricoverato nel Reparto di Anestesia e Rianimazione dell’Ospedale Civile di Sassari. Era affetto da sclerosi laterale amiotrofica, che gli imponeva l’immobilità a letto. Veniva ventilato artificialmente mediante apposito strumento. Comunicava mediante il movimento delle palpebre, abbassandole per rispondere affermativamente e tenendo gli occhi aperti per rispondere negativamente. Grazie all’uso di una tavola che riportava le lettere dell’alfabeto, comunicava perfettamente il suo pensiero: chi collaborava teneva in mano la tavola dell’alfabeto e scorreva con il dito le lettere. Giovanni muoveva le palpebre per bloccare sulla lettera dell’alfabeto desiderata il dito del collaborante. In tal modo formava intere frasi, interi documenti. Solo in un secondo momento gli era stato messo a disposizione un comunicatore acustico a comandi palpebrali.

Portava la sua malattia con grande dignità. Per giudizio unanime. E con la presenza incrollabile della consorte.

Durante il ricovero avanzò alla Procura della Repubblica la richiesta di un provvedimento che consentisse ad un medico estraneo al Reparto di entrarvi e di occuparsi attivamente della sua persona, con messa a disposizione di farmaci e attrezzature adatte. E ciò per fare ciò che era stato fatto nel caso Welby e che i medici del Reparto non intendevano fare. Motivava la sua richiesta ritenendo ottuso, ipocrita, inutile l’accanimento nel tenerlo “in vita”, con suo virgolettato. Nonché antieconomico, per i costi alla comunità nazionale del posto letto che occupava.

 

 

3. – L’unicità della richiesta

 

Avevo ovviamente l’obbligo istituzionale di provvedere sulla richiesta. Sentivo tanto le tinte drammatiche che la coloravano, molto più che il clamore mediatico che si era creato sulla vicenda. Per usare un’espressione che sta passando di moda, si trattava di una richiesta di eutanasia passiva.

Qualsiasi sostituto procuratore degno di tale nome sa che cosa deve fare se ha davanti un morto. I problemi nascono se qualcuno ancora non è morto e vuole invece morire. Con quella richiesta in mano, scorrevo inutilmente la rubrica del mio cellulare alla ricerca dell’anima pia di un collega che mi potesse aiutare. Ma chi potevo chiamare? Era la prima volta in Italia che un sostituto veniva investito di una tale richiesta.

Per provvedere sulla richiesta si potevano battere diverse strade. La prima cosa che passa in mente ad un pubblico ministero, non solo per deformazione  professionale, è quella di vedere se c’è o no un reato, perché ciò che legittima l’intervento del pubblico ministero, a parte ipotesi particolari, è proprio la commissione di un fatto di reato. Veniva in mente il reato di violenza privata, l’articolo 610 del codice penale: chiunque con violenza o minaccia costringe taluno a fare o omettere o tollerare qualche cosa. Ma questa ipotesi poteva essere scartata, dato che la violenza o minaccia mancavano nel caso di specie, nel quale semplicemente il medico si asteneva dal fare qualcosa, si asteneva dallo staccare il ventilatore.

Nell’ipotesi in cui ci fosse stato un reato si sarebbe potuto pensare di fare un sequestro preventivo del respiratore dal quale Giovanni dipendeva. In seguito a ciò, si sarebbe potuto nominare ausiliario di polizia giudiziaria un medico che poi staccasse il ventilatore per far si che le conseguenze del reato cessassero. Ma ripeto che la commissione della violenza privata era a mio avviso da escludersi.

Come d'altra parte non pareva ipotizzabile un rifiuto di atti di ufficio per ragioni di sanità: l'articolo 328 del codice penale incrimina il fatto del pubblico ufficiale che si rifiuta, per ragioni di sanità, di compiere un certo atto, in questo caso il distacco del ventilatore. Questa ipotesi delittuosa pareva da escludersi, per la ragione ovvia che manca un dovere del medico di procedere al distacco del ventilatore. D'altra parte se così non fosse tutti i medici che si rifiutano di interrompere una terapia di sostegno vitale dovrebbero essere sottoposti a procedimento penale appunto per rifiuto di atti di ufficio, il che non mi risulta sia mai stato fatto.

Questi incertezze sono destinate ad essere superate con il disegno di legge Lenzi, in materia di disposizioni anticipate di trattamento[2]. All’art. 1 VII co. è infatti previsto che «Il medico è tenuto a rispettare la volontà espressa dal paziente e in conseguenza di ciò è esente da responsabilità civile o penale». Qui sta la portata innovatrice, volta a colmare una lacuna legislativa, del ddl Lenzi, attraverso l’individuazione della posizione giuridica soggettiva passiva connessa al diritto ex art. 32 co. 2 Cost. Ma per una lacuna colmata si apre una voragine: a fronte di tale dovere non è previsto il diritto del medico di rifiutarsi di prestare la propria opera se contraria ai propri principi etici: di essere, cioè, obiettore di coscienza.

In ogni caso mai è giustificato l’abbandono del paziente al suo destino. È infatti obbligo del medico, già previsto dall’art. 39 del codice di deontologia medica e ora inserito nell’art. 1 co. 6 del ddl, accompagnare il paziente verso la morte, anche attraverso l’erogazione di cure palliative, indispensabili per lenire le sofferenze che il trapasso necessariamente comporta.

Una curiosità lessicale: nel titolo del ddl figura ancora come oggetto il testamento biologico, nonostante l’espressione si stia abbandonando: le disposizioni anticipate non sono in realtà un testamento di vita, ma di morte.

 

 

4. – Il provvedimento sulla richiesta

 

Tornando al caso Nuvoli, non era configurabile un reato a carico dei medici e conseguentemente non si potevano utilizzare gli strumenti posti a disposizione dal codice di procedura penale. Allora avevo pensato che forse una risposta poteva essere data in altro modo, che forse un medico poteva comunque essere nominato per staccare il ventilatore, anche in assenza di una specifica disciplina normativa. Ma mi sono chiesto: qui che cosa sto facendo? Perché quando manca una disciplina che regola un caso occorre rifarsi all'art 12 II comma delle preleggi: si devono cioe applicare le disposizioni normative che regolano casi simili o materie analoghe. E in assenza di disposizioni normative che regolino casi simili o materie analoghe si applicano i principi generali dell'ordinamento dello Stato. Pensai: se io nomino un medico e prevedo con quali modalità il distacco deve avvenire sto in definitiva facendo un lavoro che non è mio, perché mi sto creando la regola di giudizio, sto facendo un lavoro che spetta al legislatore e non al magistrato. Il legislatore crea la regola di giudizio e il magistrato la applica. I magistrati senza leggi sono come i medici senza farmaci. L’applicazione della legge fa parte del dna del magistrato: dategli una legge e lui la applica, non ci pensa due volte.

Mancando una legge e non potendo portare giù dalla soffitta il vecchio diritto polveroso del libro cuore, altro non potevo fare che dichiarare inammissibile la richiesta. Scrissi a chiare lettere che l'ordinamento è schizoide perché da una lato riconosce il diritto di rifiutare le cure e dall'altro non prevede la disciplina necessaria per dare attuazione a quel diritto. Scrissi anche «Nessuno può ergersi a giudice dell’altrui coscienza», per mettere in rilievo che non si poteva forzare la coscienza dei medici, che non intendeva sospendere la terapia ventilatoria.

 

 

5. – La comunicazione del distacco

 

Oltremodo difficoltoso si era presentato poi un altro momento, quello del trasferimento di Giovanni a casa sua. La asl offrì tutta la sua collaborazione, uscendo allo scoperto, quale attore del rapporto diagnostico-terapeutico, che assai spesso non è bilaterale: medico-paziente, ma trilaterale. Con un terzo attore che è appunto la struttura sanitaria e ondeggia fra l’ombra e la penombra, in quell’oscuro palcoscenico chiamato malattia.

Dimesso Nuvoli dall’ospedale e curato a casa, alcuni medici fecero uno studio certosino, molto ben fatto, sul caso clinico. In seguito scrissero alla Procura della Repubblica che un certo giorno e ad una certa ora avrebbero provveduto al distacco del ventilatore, precisando che ciò sarebbe avvenuto salvo diversa indicazione della Procura. Pareva profilarsi una sorta di silenzio assenso, se la Procura non avesse risposto. Mi sentivo arbitro della vita e della morte. Mi venivano in mente quelle note frasi di Ippocrate: la vita è breve, l’arte è lunga, il giudizio è difficile. Redassi allora un provvedimento nel quale scrissi che dal silenzio della procura non si sarebbe potuta trarre alcuna conseguenza giuridica, che erano salvi tutti i provvedimenti in caso di distacco del ventilatore. A quel punto rinunciarono e non procedettero al distacco.

 

 

6. – Il rifiuto d’infusione di liquidi

 

Giovanni successivamente prese la decisione di rifiutare l'infusione di qualsiasi liquido nel suo corpo fatta eccezione per i sedativi. E questa sua volontà venne rispettata, in attuazione dell'articolo 32 II co. della costituzione. Apprezzabilissimo il comportamento del medico che aveva in cura Nuvoli, perché non lo ha abbandonato a sé stesso, ma facendosi interprete di alcuni principi deontologici che esistono da quando esiste la medicina, ha seguito il malato fino alla morte.

Sono emblematiche le parole che lui scrisse in una comunicazione che fece alla Procura «Cerco e cercherò per quanto possibile di trovare un linguaggio che possa farlo recedere, chi rifiuta la vita spesso è perché avendone idealizzato un'unica forma la ama a tal punto da non poterne sopportare il peso quando questa non corrisponde alle nostre aspettative, proseguirò nel tentativo apparentemente improbo di risvegliare quanto di vivo esiste in lui». Il comportamento di questo medico è stato esemplare, perché ha accompagnato il paziente alla morte: obbligo del medico non è solo quello di curare il paziente ma anche quello appunto di saperlo accompagnare alla morte, di partecipare alle reali angosce di una vita che sta per spegnersi. Non è vero che malattia e morte sono un dramma di un solo personaggio.

 

 

7. – L’insegnamento dell’esperienza

 

Nei giorni, nei mesi che hanno segnato il caso Nuvoli mi veniva spesso in mente quel millenario insegnamento filosofico, per il quale la vita non può essere vissuta appieno se non si accetta l’idea dell’umana finitezza. Quell’insegnamento per il quale molte malattie possono colpirci ma che ne esiste soltanto una con la M maiuscola che si chiama rifiuto della malattia e rifiuto della morte. Ed esiste correlativamente una sola guarigione con la G maiuscola che si chiama accettazione della malattia, accettazione della morte. E che è veramente maturo l’essere umano che sa dire senza riserve a sé stesso: «Accetto l’idea della malattia dei miei cari e della morte dei miei cari; accetto l’idea della mia malattia, della mia morte».

Quando ero giudice a Venezia mi invitarono a parlare in un convegno sull'interdizione e l'inabilitazione. Sul frontespizio del depliant di quel convegno c'era una frase che non dimenticherò mai. La frase è questa: «Nessuno desidera la sofferenza ma chi se la stringe al petto è un vincitore».

 

 



 

[1] Testo rivisto della relazione al convegno: I temi di fine vita fra scienza e legge svoltosi, il 15 febbraio 2017, nell’aula Segni del Dipartimento di Giurisprudenza dell’Università di Sassari, per iniziativa dell’associazione studentesca ELSA.

 

[2] Si ringrazia la dott. ssa Angelica Puggioni per la collaborazione nello studio del progetto di legge Lenzi