RAPPRESENTANZA
O/E PARTECIPAZIONE.
FORMAZIONE DELLA VOLONTÀ
«PER» O/E «PER MEZZO DI» ALTRI.
NEI RAPPORTI INDIVIDUALI E
COLLETTIVI, DI DIRITTO PRIVATO E PUBBLICO, ROMANO E POSITIVO *
Università
di Sassari
INDICE: Premessa. – I.
RAPPRESENTANZA: PROBLEMA GENERALE E ATTUALE DEL
DIRITTO. – I.1. STATO
DELLA DOTTRINA.
– I.1.a. Rilevanza
e centralità della categoria/istituzione “rappresentanza” ed esigenza di non
farsene condizionare.
– I.1.b. “Agire
per altri” o/e “agire per mezzo di altri”. – I.1.c. Essenza “sostitutiva” della rappresentanza: una
questione di “potere” …
– I.1.d. … espressa
nel “divieto di mandato imperativo”. – I.2. PROBLEMATICITÀ. – I.2.a. Negazione
risalente (XVIII secolo) e recente (XX secolo) della rappresentabilità della
volontà. – I.2.b. Domanda politica
di “partecipazione” volitiva ma dichiarazioni scientifiche di impossibilità a
realizzarla. – II. IPOTESI DI SOLUZIONE ATTRAVERSO IL DIRITTO ROMANO: PARTECIPAZIONE
VOLITIVA. – II.1. PER
LA COMPRENSIONE
DELLA RAPPRESENTANZA. –
II.1.a. Binomio
feudale di concezione e regime unitari della pluralità di uomini: persona
giuridica e rappresentanza.
– II.1.b. Costruzione
medievale (XIII secolo).
– II.1.c. Prima
sistemazione moderna (XVII secolo). – II.1.d. Sovrapposizione contemporanea sul Diritto romano
(XIX secolo).
– II.2. PER LA RI-COSTRUZIONE DELLA PARTECIPAZIONE. – II.2.a. Dal Diritto romano: un binomio
integralmente altro di concezione e regime unitari della pluralità di uomini. –
II.2.b. Corpus
societario. – II.2.c. Partecipazione
e “cooperazione”.
– Conclusioni
e prospettive.
– Abstract.
Lo stato generale della dottrina e parte
della dottrina stessa chiedono – come sùbito vedremo – la formulazione di una
ipotesi di lavoro per la ri-costruzione di un “sistema” (logica e
strumentazione) alternativo a quello della “rappresentanza” della volontà[1],
il sistema – cioè – della “partecipazione” volitiva.
Soltanto alla luce di un ‘sistema
alternativo’ (il quale comprenda sia la positio
studii di diritto pubblico sia la positio
studii di diritto privato) sarà, quindi, possibile il ri-esame analitico
(cioè su singoli punti) delle fonti (e della dottrina); ‘esame’ il quale
continua – altrimenti – a ripetere (salve eccezioni e con variazioni
irrilevanti) la dottrina ottocentesca della continuità “rappresentativa” tra
Diritto romano e diritto “heutig”.
Secondo la ipotesi di lavoro, il
‘sistema’ della “partecipazione” volitiva è reperibile presso il Diritto romano
e, quindi, ri-proponibile “für die
Gegenwart”.
Formuleremo tale ‘ipotesi’ ri-ordinando,
in una nuova visione d’insieme, elementi già presenti presso la scienza
giuridica.
Nella scienza giuridica
contemporanea, la “rappresentanza” ha grandissima rilevanza dogmatica e
centralità sistematica[2].
Per lo studio (comprensione e gestione
scientifiche) di questa categoria-istituzione dinamica devono essere usate le
medesime qualità e intensità di attenzione già – esemplarmente – usate per lo
studio di una altra categoria/istituzione di grandissima rilevanza dogmatica e
centralità sistematica: la categoria/istituzione statica di “persona giuridica” (di cui “Stato” è accezione
particolare ma fondamentale)[3]
e che con “rappresentanza” ha un nesso strettissimo.
Per lo studio della “rappresentanza”
occorre, dunque, compiere le medesime due operazioni, una negativa e una
positiva – le quali si postulano vicendevolmente – già compiute per lo studio
della “persona giuridica”.
La ‘operazione negativa’ è stata
liberarsi dalla necessità dell’uso della ‘parola’, meglio: della ‘espressione’
“persona giuridica” (in particolare nella sua accezione “Stato”).
Evidentemente, si è trattato – e così dovrà essere anche per l’uso della parola
‘rappresentanza’[4]
– di fare fronte a una esigenza non filologica ma dogmatica: liberarsi dal vinculum necessitatis di interpretare e
realizzare con la categoria-istituzione ‘Stato’ il genus di “enti” (insiemi organizzati di uomini) oggi
nominati/individuati con quella ‘espressione’.
Tale elementare ‘operazione negativa’
sarebbe stata, dunque, puramente illusoria e addirittura ingannevole se non
fosse stata compiuta – contestualmente – una invece composita ‘operazione
positiva’. Questa ulteriore ‘operazione’ è consistita nel cogliere il significato della espressione ovverosia l’elemento
essenziale della categoria-istituzione con quella espressione evocata, in modo
da potere: sia definire perifrasticamente, senza restarne inconsciamente
condizionati, il genus di enti così
nominato/individuato e interpretato-realizzato, sia trovare una espressione
nonché categoria-istituzione altra, con cui innovativamente
nominare/individuare e interpretare-realizzare quel ‘genus’.
Più precisamente: per
nominare/individuare «l’insieme dei cittadini romani» è stato rifiutato l’uso
della parola ‘Staat’. Tale parola è stata evitata in quanto evocatrice di una
entità «astratta». Quell’ «insieme» è stato, invece, definito con la perifrasi
«unione o riunione di uomini», la quale lo indica come «concreto», e, per esso,
si è proposto il ritorno alla espressione nonché categoria-istituzione di ‘populus Romanus Quirites’ (o, ‘tout
court’, alla parola ‘popolo’).
Il
genus di atti giuridici, oggi nominati/individuati nonché interpretati-realizzati
(senza – possibilità di – alternativa) con la parola e categoria-istituzione
“rappresentanza”, è ampio e composto di atti tra loro anche molto diversi ma
aventi in comune una specifica
complessità.
Nel definire tale genus con una perifrasi, occorre
cogliere questa ‘specifica complessità’, scansando la trappola – appena
ricordata – di riprodurre precisamente la interpretazione-realizzazione il cui
condizionamento si vuole evitare.
Di regola, nella letteratura
giuridica odierna, la perifrasi per “rappresentanza” è il «compimento di atti
(di volontà / negoziali) per conto e (se la “rappresentanza” è “diretta”) in
nome di altri».
In attesa di individuare il
significato della parola ovverosia l’elemento essenziale della categoria-istituzione
“rappresentanza”, ci appare sùbito evidente che questa perifrasi è espressione
di una precisa scelta istituzionale: porre al centro e a protagonista della
scena e della azione giuridiche il ‘commesso’ e relegare ai margini o sullo
sfondo e a comparsa colui il quale, invece, continuiamo a chiamare – con
espressione coniata dai romanisti medievali ma destituita oggi di senso – “dominus negotii”. Appartiene alla
medesima ‘scelta’ e consegue il medesimo effetto il ricorso – per indicare
questi due ‘attori’ – alle parole “gerente” e “gerito”.
La perifrasi alternativa che
proponiamo è: “iter volitivi
perfezionati mediante intermediari” o perifrasi simile. Per esprimerci in
maniera più sintetica (e citando il titolo di una recente raccolta di scritti)
proponiamo – cioè – se non contro almeno a integrazione della odierna
prospettiva dell’Agire per altri[5]
il recupero della opposta prospettiva dell’ “agire per mezzo di altri”.
Corrispondentemente, preferiamo parlare di “mandante” e “mandatario”.
In questo modo non ci precludiamo e –
anzi – ci apriamo la strada per la costruzione e la verifica della ipotesi di
lavoro; ovverosia, come abbiamo detto, una interpretazione-realizzazione
diversa/alternativa di tale genus di
atti, ravvisabile presso la esperienza giuridica romana e ri-proponibile oggi.
Possiamo, infatti, sùbito osservare (senza troppo anticipare il ragionamento il
quale sarà svolto più innanzi) che la terminologia romana mette al centro della
scena e della azione giuridica precisamente il “dominus negotii”. La nota negazione ulpianea in D. 45.1.38.17 (alteri
stipulari nemo potest)[6] è la negazione dell’
«agire per altri», non dell’ “agire per mezzo di altri”, e tale ‘negazione’
deve essere letta (come, peraltro, già è fatto) insieme alla altrettanto nota
precisazione gaiana in Inst. 2.95 (per extraneam personam nobis adquiri non
posse) e alla sua ‘variante’ giustinianea (“per liberam personam”)[7]. Nell’importantissimo testo di apertura del titolo 4 (“Quod cuiuscumque universitatis nomine vel
contra eam agatur”) del libro 3 del Digesto,
Gaio e Giustiniano-Triboniano scrivono che l’ “actor sive syndicus” della societas
o collegium cui è stato permesso di “corpus habere” è colui «per quem […] agatur» e il titolo 27 del libro 4 del Codice suona “Per quas
personas nobis adquiritur”.
Appare allora, evidente che la prima e potissima esigenza è non rispondere alla neppure proponibile questione se la “rappresentanza” fosse «già» nota ai Romani e – se sì
– in quale grado di «evoluzione» ma mettersi nella condizione di cogliere la
prospettiva romana del rapporto tra dominus
da una parte e servus e/o procurator dall’altra, con la posizione
protagonica e dominante del primo, senza farci abbagliare o addirittura
accecare dalla prospettiva ‘rappresentativa’, dove la posizione protagonica e
dominante è, invece, attribuita al “rappresentante”.
Gli “iter volitivi mediante intermediari” possono essere individuali e
collettivi, di diritto privato (in particolare commerciale) e di diritto
pubblico (in particolare costituzionale). Per lo svolgimento della vita
‘associata’, tutti questi “iter
volitivi” sono rilevanti o
rilevantissimi se non ‘tout court’ necessari.
Per essi – oggi – si parla, si pensa
e si opera in termini di “rappresentanza”: “legale”[8],
“diretta” (ma anche “indiretta”), “istituzionale” od “organica” e “politica”.
Corrispondentemente, la categoria-istituzione “rappresentanza” appare – oggi – rilevante,
rilevantissima oppure ‘tout court’ necessaria, in particolare, per la questione
– sempre politicamente incandescente – della “democrazia”.
Per la categoria-istituzione
“rappresentanza” (proprio in funzione della sua collocazione o meno nel Diritto
romano) già è stato messo in guardia dall’«attribuir[l]e […] un significato
diverso da quello riconosciuto» ed è stato proposto di coglierne il
«significato tecnico» in quello della «rappresentanza diretta», quale emerge
dagli artt. 1387-1400 del Codice civile italiano[9].
La modalità proposta, in sé assolutamente valida, ci appare – almeno per gli
obiettivi posti alla ricerca – individuare un significato al contempo troppo
stretto e troppo ampio. Troppo stretto perché (come anche già è stato osservato
in dottrina) per intendere la categoria-istituzione della rappresentanza
occorre considerarne la «unità concettuale delle forme»[10]
ivi comprese (precisiamo noi) quelle di diritto pubblico. Troppo ampio perché
ci appare non cogliere l’ ‘elemento essenziale’ della moderna-contemporanea
categoria-istituzione “rappresentanza”.
Secondo la nostra ipotesi e nella
linea della nostra riflessione, tale elemento è la ‘natura’ di “sostituzione”,
“presa sul serio”.
Anche qui ricorriamo a considerazioni
già svolte in dottrina.
Nel 1946, Pasquale Voci, scrivendo di
Diritto romano, afferma «Si ha rappresentanza quando una persona, detta
rappresentante, compie uno o più negozi in sostituzione di un’altra detta
rappresentatato»[11].
In data decisamente più recente (nel 1991) il giurista positivo
Paolo D’Amico, con una chiarezza non comune nella odierna riflessione
dottrinaria (abbondante e tuttavia – ci sembra – non ancora adeguata alla
portata della questione), va oltre, rilevando che, in dottrina, alla
“rappresentanza” è riconosciuta in maniera «prevalente» natura di
«sostituzione», in contrapposizione
con la natura di «cooperazione» o «collaborazione»: «Il rappresentante
piuttosto che come collaboratore, viene […] qualificato come un “sostituto” del
rappresentato». Tale contrapposizione dipende, secondo D’Amico, dal valore
attribuito al «rapporto di gestione», cioè al mandato, il quale risulta
particolarmente svalutato dalla dottrina che intepreta la “rappresentanza” come
“sostituzione” [12].
La ricostruzione ‘dialettica’ dello stato
della dottrina, proposta da D’Amico, non è isolata. La troviamo, con elementi
di identità e di diversità entrambi interessanti, presso i contributi di altri
autori; ad esempio: quelli precedenti di Werner Flume (1965) e Hasso Hofmann
(1974) e quello successivo di Mario Campobasso (2010).
Flume (1908-2009: influente
romanista, civilista, tributarista e storico del diritto) nella più
significativa delle sue opere (il trattato di diritto civile, parte generale)
articola la materia della rappresentanza in una contrapposizione dottrinaria
tra “Geschäftsherrntheorie” e “Repräsentationstheorie” sulla base delle opposte
valutazioni del rapporto gestorio: importante per la prima “Theorie” e
svalutato dalla seconda. Flume attribuisce la “Geschäftsherrntheorie” a Savigny
e la “Repräsentationstheorie” a Windscheid, collocando, dunque, la
‘contrapposizione’ all’interno del percorso pandettistico[13].
Anche Hofmann registra in termini
soltanto contingentemente diversi la medesima contrapposizione: «nel dibattito
giuridico-costituzionale tedesco degli anni Venti [scilicet: del secolo XX] è venuta alla luce la distinzione tra la
rappresentanza di tipo privatistico, indicata con il termine di Vertretung e la rappresentanza politica
espressa per l’appunto dal termine Repräsentation.
Mentre la prima è strettamente legata al mandato, la seconda è da questo
svincolata, o, in ogni caso, appare eccedere la volontà determinata che si
esprimerebbe nel mandato»[14].
Infine Campobasso, il quale critica (in maniera che ci appare
convincente) la dottrina corrente della “profonda diversificazione” tra le
varie forme di rappresentanza (in particolare: negoziale e organica), pone
sostanzialmente tra gli stessi poli e per le medesime ragioni il «processo
evolutivo comune alle varie forme di rappresentanza di cui la rappresentanza
delle società costituisce il punto più avanzato. Si tratta della progressiva
affermazione dell’autonomia del potere di rappresentanza dal contenuto di
potere gestorio che lega il rappresentante al rappresentato. Uno sviluppo di
cui si possono rintracciare le lontane origini fin dal XIX secolo,
nell’insegnamento del LABAND secondo cui la procura è negozio autonomo dal
mandato [P. Laband, “Die
Stellvertretung bei dem Abschluβ von Rechtsgeschäften nach dem Allgemeinen
deutschen Handelsgesetzbuch” in ZHR -
Zeitschrift für Handelsrecht, 10,
1866, 183 ss.]»[15].
Dal nostro punto di vista, merito
della formulazione di D’Amico è (come già si è detto) la chiara
contrapposizione tra “sostituzione” e “cooperazione”. Il limite (assolutamente
non soltanto suo) è il mantenerla all’interno della categoria-istituzione
“rappresentanza”. Meriti della formulazione di Flume sono la contrapposizione
alla “Repräsentationstheorie” della “Geschäftsherrntheorie” (cioè la
contrapposizione alla “teoria della rappresentanza” della “teoria del dominus negotii” !) e la collocazione
della contrapposizione nel corso del secolo XIX. Suo limite è non cogliere la
presenza proprio nell’insegnamento di Savigny (vedi, infra, § II.1.d) della impostazione la quale porterà
all’insegnamento di Windscheid, in un rapporto di ‘progresso’ ovvero di
‘sviluppo’, dentro una logica comune. Merito della formulazione di Hofmann (la
cui percezione è condizionata dalla specificità anche linguistica del dibattito
tedesco) è rilevare il nesso della contrapposizione in materia di
“rappresentanza” con quella tra diritto privato e diritto pubblico d’inizio del
secolo XX. Suo limite è farle coincidere, con effetti riduttivi sulla portata
della prima. Meriti della formulazione di Campobasso sono la affermazione della
sostanziale unitarietà della categoria-istituzione della “rappresentanza” al di
là delle sue molteplici applicazioni, la menzione del ruolo di Laband nel
processo di autonomizzazione della procura dal mandato e la affermazione che
tale processo è tutt’ora in corso. Elemento costante della contrapposizione è
la valutazione del mandato.
In prima sintesi, ripetiamo che,
secondo la nostra ipotesi, quella di “sostituzione” è la vera e unica natura
della “rappresentanza”, e precisiamo che tale ‘natura’ – come appena osservato
a proposito della perifrasi “agire per altri” – è espressa nella enfasi posta
sulla figura del rappresentante, mettendo in ombra la figura del rappresentato.
Tale ‘natura’ appare (non ‘nascere’, come vedremo) ma ‘imporsi’ durante il
secolo XIX per progredire durante il secolo XX e sino ai giorni nostri: a
partire dalle esigenze di diritto pubblico (costituzionalismo “elitista”)[16]
ma cercando le necessarie conferme dogmatiche e producendo le inevitabili
ricadute normative[17]
nel diritto privato. La progressiva ‘imposizione’ contemporanea è diretta
contro la logica – preesistente ma resa recessiva – di un
mandatario-procuratore la cui natura è di “cooperante” del mandante; pertanto,
quella ‘imposizione’ è ottenuta operando su (cioè: svalutando) mandato e
mandante (Paul Laband) ovvero iussum
e dominus (Bernhard Windscheid) (vedi, infra,
§ II.1.d).
La conseguenza (ma ancora prima lo scopo, il fine) della “sostituzione”
è la subordinazione del “rappresentato” al “rappresentante”; subordinazione la
quale – secondo Max Weber (1922) – fa, in questa centrale materia, la
differenza dei Moderni rispetto agli Antichi[18].
Di
questo vero e proprio rovesciamento di prospettiva tra Antichi e Moderni,
denunziato da Weber, ci appare manifestazione particolarmente chiara la
collocazione della tutela-curatela nel genus
medievale-moderno di “rappresentanza”, come sua species: la “rappresentanza legale”. Questa collocazione è,
infatti, perfettamente in linea con la logica medievale-moderna, la quale (come
abbiamo visto: § I.1.b) ha nel rappresentante l’attore protagonista della scena
giuridica. La tutela-curatela non può, invece, assolutamente trovare
collocazione nella logica antica dell’ ‘iter volitivo mediante intermediari’,
la quale ha il proprio protagonista in quell’attore puntualmente definito dominus e, comunque, caratterizzato
dalla titolarità del potere. Nel rapporto di tutela, infatti, il
potere è in capo al tutore: Paul. D.
26.1.1 pr. e 1 Tutela
est, ut Servius definit, vis ac potestas in capite libero […] 1. Tutores autem
sunt qui eam vim ac potestatem habent […]).
La ‘natura’ di “sostituzione” della
“rappresentanza” ha, dunque, la propria ‘chiave’ nel depotenziamento sino
all’annullamento dello iussum-mandatum. Il “divieto di mandato
imperativo” ne è nient’altro che una manifestazione.
Tale ‘divieto’ è stato formulato ed è
correntemente impiegato a proposito della “rappresentanza politica”[19],
anche per quanto concerne il regime (e, quindi, la concezione)[20]
dei sistemi federali e/o autonomistici[21].
Esso, però, vale anche per la
rappresentanza “istituzionale” od “organica”[22]
e per quella “diretta”[23].
Per la rappresentanza “legale” il ‘divieto’ è addirittura pleonastico.
Una contraddizione profonda si è
stabilita tra il fondamento degli ordinamenti istituzionali e la connessa fede
scientifica nella “rappresentanza”, da una parte, e la negazione risalente
(XVIII secolo)[24]
e attuale (XX secolo)[25]
della rappresentabilità della volontà, d’altra parte.
Tale negazione, formulata a proposito
della “rappresentanza” politica, delegittima le costruzioni costituzionali
odierne, fondate sulla “rappresentanza” del Popolo ovverosia dei Cittadini[26].
Tale negazione colpisce anche la
“rappresentanza” istituzionale od organica e diretta (vedi ancora, infra, § II.1.d).
Una contraddizione ulteriore e
particolarmente attuale si è stabilita tra la – conseguentemente – diffusa e crescente
domanda politica di “partecipazione”, cioè di “Democrazia”[27],
precisamente ed esplicitamente in alternativa alla- o, quanto meno, a
integrazione della “rappresentanza”, e la coscienza scientifica della
incapacità/impossibilità a realizzarla.
Le asserzioni o denunzie ‘politiche’,
della «no alternative» ovverosia della «Alternativlosigkeit» al regime della
“rappresentanza”[28],
sono parallele alle dichiarazioni scientifiche/giuridiche, di «défaut de moyen
technique»[29]
per costruire il richiesto regime della partecipazione e, quindi, al
riconoscimento, sempre da parte della scienza giuridica, del proprio «blocage
théorique»[30].
In questa contraddizione si colloca
anche il fenomeno della dislessia terminologica-dogmatica[31],
nella materia ‘di vertice’ ovvero ‘di sintesi’, quale è la materia della
concezione e del regime dei sistemi federali e/o autonomistici[32].
Presso tale materia la assenza della nozione di “partecipazione” emerge a contrario già dal lessico adoperato:
“federalismo centralista”[33],
“decentramento dalla periferia”[34]
/ “cooperazione decentrata”.
La
costruzione teorica e pratica della “rappresentanza diretta” appare non
precedere ma seguire quella della “rappresentanza istituzionale” (od “organica”
e “politica”).
La categoria e, quindi, la
istituzione della “rappresentanza” della volontà compaiono durante il XIII
secolo, nell’àmbito del diritto pubblico, per le esigenze della volizione
collettiva, cioè come regime volitivo unitario della pluralità di uomini: in
corrispondenza ad una loro concezione unitaria come “persona fittizia”, il cui
nesso con la più recente categoria di “persona giuridica” appare certo, sebbene
se ne discutano i particolari[35].
Questo fenomeno è manifestazione
storica del nesso logico tra il regime e la concezione unitari della pluralità
di uomini: un binomio, i cui termini si postulano e si causano vicendevolmente,
fornendosi reciprocamente senso e funzione. La frequente trattazione separata
dei due ‘termini del binomio’, come questioni tra loro indipendenti[36],
ne ostacola la comprensione.
Già nella costruzione medievale della
“rappresentanza” si trovano riferimenti indiretti e diretti al Diritto romano
ma – in realtà – essa è il frutto totalmente nuovo delle combinate esigenze di
due specifiche organizzazioni: ecclesiale[37]
e feudale[38].
Tale ‘combinazione’ marca lo Stato moderno nella sua prima formazione[39]
e nei suoi rivisitazione e rilancio contemporanei[40].
La teoria della “rappresentanza”
compare in prima – ancora esile – ideazione/formulazione a proposito
dell’ordinamento ecclesiale cattolico – più che specifico, speciale anche o
proprio nella materia-chiave della volizione[41]
– presso la opera scientifica del ‘canonista’ Sinibaldo dei Fieschi (1250). A
riprova della esistenza, della forza logica e del ruolo del ‘binomio’ di
concezione e regime unitari della pluralità di uomini, nel noto passo di
Sinibaldo dei Fieschi (Pontefice con il nome di Innocenzo IV) ove da tempo è
stata colta la prima apparizione della nozione di “persona ficta”, emerge anche la nozione (seppure non ancora la
parola) della sua rappresentanza, in una relazione di reciproci rinvii: «cum collegium in causa universitatis
fingatur una persona, dignum est, quod per unum iurent»[42].
La particolare destinazione alla
specifica/speciale organizzazione ecclesiale di tale ‘teoria’ appare meglio
percepibile se si considera la opposta teoria – che sarà detta – della
“sussidiarietà”, contestualmente elaborata, nel medesimo àmbito, a proposito
però di ordinamenti che possiamo definire ‘laici’[43].
Tuttavia, la teoria della “rappresentanza” è rapidamente ripresa a proposito
degli ordinamenti ‘laici”: esemplarmente, nella opera scientifica del
‘civilista’ Jacques de Revigny (sembra precisamente a proposito del “municipium”)[44].
La prassi della “rappresentanza”
appare in prima – invece sùbito consistente – applicazione nel governo del
Regno d’Inghilterra da parte del Re Eduard I, con la convocazione e per il funzionamento
del cosiddetto “Model Parliament” (1295). La istituzione parlamentare era sorta
in Spagna, da circa un secolo, come stampella dell’ordinamento feudale (già
manifestante segni di insufficienza economica se non ancora di crisi
conclamata) mediante l’inserimento di delegati delle Città-Comuni nella
istituzione centrale di quell’ ‘ordinamento’: la curia o consilium regis
dei baroni laici ed ecclesiastici[45].
Anche al “Model parliament” le Città-Comuni possono/devono mandare proprî
delegati: sulla base – esplicitamente richiamata da Eduard I – del principio
democratico romano/giustinianeo (C. 5.59.5.2 quod omnes similiter tangit ab omnibus
comprobari debet). Ora però – questa è la novità – i delegati delle
Città/Comuni devono essere (e sono) senza “mandato imperativo” ovverosia
sciolti dalla obbligazione della esecuzione – nella propria attività ‘di
governo’ – del mandato ricevuto dalla Comunità civica-comunale[46].
L’inserimento inglese del “divieto di mandato imperativo” nella secolare
istituzione parlamentare è reso possibile dalla nuova dottrina canonista della persona ficta e fa compiere a quella
istituzione il decisivo salto di qualità, che la renderà “madre” di tutti – o
quasi – i Parlamenti odierni (Mater
Parliamentorum)[47].
Il ‘Libro dello Stato’ di Thomas
Hobbes (Leviathan, 1651) non ha
certamente la statura del ‘Libro del Diritto’ di Giustiniano (Corpus Iuris Civilis, 533) tuttavia, con
il trattato di Hobbes, la esperienza giuridica feudale, da secoli alternativa a
quella giuridica romana, compie un salto di qualità, dotandosi di una base
teorica, la quale le permette di sfidare apertamente il “sistema giuridico”
romano.
Con il ‘Libro dello Stato’,
immediatamente successivo alla “Pace di Westphalia” [1648] espressione pratica
della medesima logica statualistica[48],
ovverosia nel momento della auto-affermazione e della presa di coscienza di sé
da parte di tale logica, la categoria/istituzione della “rappresentanza”
conquista valenza sistemica.
Nella
trattazione hobbesiana, il ‘binomio’ di concezione e regime unitari della
pluralità di uomini è più che evidente, è macroscopico: la ‘concezione’ è la
persona giuridica e il ‘regime’ è la rappresentanza. Sono fondamentali i capitoli
XVI (“Of Persons, authors, and things personateds”, l’ultimo della prima parte:
“Of Man”) e il capitolo XVII (“Of the causes, generation, and definition of a
Common-Wealth”, il primo della seconda parte: “Of Common-Wealth”).
Nel capitolo XVI, il ricorso alla
“rappresentanza” è giustificato dalla affermazione che la “moltitudine” diventa
“unità” esclusivamente per mezzo del suo “rappresentante” «c’est l’unité
du représentant, non l’unité du représenté qui [en] fait une la
personne»[49].
Nel capitolo XVII è descritta questa
“persona” unitaria/unica, il “Leviathan”: «la multitude ainsi unie en une seule personne est appelée une
RÉPUBLIQUE, en latin CIVITAS. C’est là la génération de ce grand LÉVIATHAN»[50].
Nella nuova costruzione giuridica hobbesiana, «le peuple) n’a pas
d’existence hors du jeu de l’acteur»[51] ovverosia «Chez Hobbes […] la représentation est bel et bien une substitution»[52].
I Giuristi tedeschi del XIX secolo
convengono sulla esigenza oggettiva e sul dovere soggettivo (“Beruf”[53],
“Aufgabe”[54])
di produrre un “sistema di diritto” funzionale alla nuova era post-Rivoluzione.
Anche questi Giuristi, per adempiere a tale dovere, ricorrono al Diritto
romano: attraverso una sua esplicitamente nuova e profonda nonché complessiva
interpretazione. Pertanto, essi sono tutti “romanisti”.
Il ‘binomio’ della concezione e del
regime unitari della pluralità di uomini è al centro di questo ‘lavoro’ e
costituisce oggetto privilegiato di riflessione lungo tutto l’ ’800.
I risultati di tale riflessione
(‘nuances’ a parte) sono tutt’altro che uniformi[55].
Prevale, però, nettamente la dottrina formulata – sopra tutti, nelle sue grandi
linee – da Friedrich von Savigny, come System
des heutigen römischen Rechts (8 volumi, 1840-49). Nel volume II (1840), è
presente la concezione unitaria della pluralità di uomini come “juristische
Person”[56]
e, nel volume III (sempre 1840), il suo regime unitario come “Stellvertretung”[57].
È la formulazione “pandettistica” della versione già medievale-moderna del
‘binomio’ di concezione e regime unitari della pluralità di uomini; versione
ora resa funzionale al ceto uscito vittorioso dalla Grande Rivoluzione: la
“borghesia”[58].
La attenzione al ‘binomio’ di
“juristische Person” e di “Stellvertretung”, presso la dottrina di Savigny, ci
aiuta a non farci condizionare dalla intepretazione di questa ultima proposta
da Flume[59],
come “Geschäftsherrntheorie” contrapposta
alla “Repräsentationstheorie”. In realtà, Savigny imbocca con decisione la
strada della “rappresentanza/sostituzione” necessaria per la vita della
“persona giuridica”. Ciò che, piuttosto, deve osservarsi è che, nel System savignyano, il ‘regime’ è ancora in fieri e la sua elaborazione potrà
considerarsi conclusa soltanto due decenni dopo. Ciò avviene con la aggiunta o la precisazione del
‘dettaglio’, che ne è la ‘chiave di volta’: la puntuale affermazione della
intrinseca debolezza/irrilevanza della volontà del dominus negotii e, quindi, della altrettanto intrinseca “autonomia”
della volontà del ‘procuratore/Stellvertreter’ rispetto a quella.
Tale estremamente importante aggiunta
o precisazione è operata – da angoli prospettici distinti ma in maniera
assolutamente convergente – da Bernhard
Windscheid e da Paul Laband. Oggetto ma meglio sarebbe dire ‘vittima’ delle
cure di questi due giuristi è la volizione del dominus negotii: colta nella sua manifestazione come iussum, da parte di Windscheid, e nella
sua manifestazione come mandatum, da
parte di Laband. Windscheid (nel 1866) re-imposta la interpretazione dei negozi
sottesi alle actiones adiecticiae
qualitatis agendo sullo «iussus»,
interpretato non più come “comando” ma come “autorizzazione”[60].
Paul Laband (anche egli nel 1866) re-imposta la interpretazione della sequenza
“mandante - mandatario/procuratore - terzo” separando (= “autonomizzando”) la
procura dal mandato (esattamente al contrario di Giustiniano)[61].
Possiamo dire che il “sistema” costruito da Savigny ha una ‘falla’ fintanto che
in esso resta presente, con la sequenza dello iussum/comando del dominus
negotii al proprio subordinato e la conseguente negoziazione di questo, uno
scandaloso ‘esempio’ di iter volitivo
non-sostitutivo[62].
La applicazione della
rappresentanza/sostituzione ai rapporti di diritto sostanziale sottesi al
rimedio processuale delle actiones
adiecticiae qualitatis (a partire dalla actio
quod iussu) non è (come induce a credere la dottrina prevalente, di
ascendenza ottocentesca)[63]
il punto di partenza storico-antico della categoria della rappresentanza ma è
il punto di arrivo storicista-contemporaneo della sua invenzione
medievale-feudale e del suo sviluppo moderno-statuale. Possiamo dire che la
interpretazione windscheidiana dello iussum
non come “comando” ma come “autorizzazione” e quella labandiana della
“autonomia” della procura dal mandato sono la traduzione privatistica del
divieto di mandato imperativo sorto in àmbito pubblicistico/politico. Possono
confermare questo percorso i prevalenti interessi giuspubblicistici di Laband (Das
Staatsrecht des deutschen Reiches, 3 voll., 1876-82, 5a ed., 4 voll.,
1911-14; sintetizzati nel volume Deutsches Reichsstaatsrecht, 1883,
7a ed., post., 1919)[64].
L’avallo storico e la puntuale
formulazione dogmatica della dottrina della “rappresentanza” da parte della
scienza romanistica (“pandettistica”) ne determinano la forza acquisita (in
tutte le sue manifestazioni, di diritto privato e di diritto pubblico).
Infatti, la idea della sua “Alternativlosigkeit” è, in definitiva, ascrivibile
a quella scienza, la quale proietta la “rappresentanza” anche sulla esperienza giuridica romana: immediatamente nella sua
pienezza oppure (come ora si preferisce) in radice e per parte importante del
suo sviluppo («evoluzione»)[65].
Inoltre, la ‘messa a fuoco’ della “rappresentanza” non soltanto nell’àmbito del
diritto privato ma anche a proposito della volizione individuale, consegue
l’effetto ‘trompe l’oeil’ di sganciare la “rappresentanza-sostituzione” dalla
propria storica e logica strumentalità ‘politica’ al prevalere dell’uno o dei
pochi rappresentante/i sui molti rappresentati, concorrendo a farla, invece,
apparire la categoria/istituzione puramente ‘tecnica’, definitrice e
realizzatrice in maniera assoluta (“senza alternativa”) in tutte le sue
molteplici manifestazioni dell’ “iter
volitivo mediante intermediari”, stravolto in “negoziazione per conto [e in
nome] di terzi”.
La (oramai perfezionata) formulazione
pandettistica della versione feudale del ‘binomio’ (concezione e regime unitari
della pluralità di uomini) domina, quindi, sia in àmbito gius-pubblicistico sia
in àmbito gius-privatistico. Al primo ‘àmbito’ provvede Theodor Mommsen (Römisches Staatsrecht, 1a ed. 1871, e Abriss des römischen Staatsrechts, 1893)
secondo il quale, “con [la parola] popolo si intende [il concetto di] Stato”[66]
perché il Diritto romano come ogni diritto “presuppone lo Stato”, e “atto della
comunità è ogni atto compiuto dal magistrato” in quanto “rappresentante della
comunità”[67].
Al secondo ‘àmbito’ provvede, inizialmente nel “diritto civile”, il BGB (1900). In questo codice la
“société”[68]
del Code Napoléon [1805] è
trasformata in “Juristische Person” e ne è spezzato il nesso tra mandato e
procura [cfr. l’art. 1984 del Code
Napoléon e il § 185, 1° co. del BGB]).
Quindi, nel “diritto commerciale”, l’ ‘Aktiengesetz’ (Germania nazista, 1937)
applica anche alle “Società per azioni” il divieto di mandato imperativo[69].
Con pochissime eccezioni, durante tutto
il XX secolo e ancora in questi primi anni del XXI, i Giuristi seguono la
strada tracciata dalla dottrina ‘pandettistica’. A ciò appare concorrere anche
il fatto che, di questi, i Romanisti sperimentano il fatto della
‘registrazione’ di tale dottrina nel BGB
(cioè la codicizzazione dell’ “heutiges römisches Recht”) come la propria
mutazione (“Verwandlung”) di status
in “storici del diritto”[70],
e ai non-Romanisti mancano gli strumenti (ri-lettura e re-interpretazione delle
fonti del Diritto romano, in particolare del CJC) necessari per revocare in discussione la operazione dei
Pandettisti.
In epoca contemporanea, il ‘binomio’
medievale-moderno, della concezione unitaria della pluralità di uomini come
“astratta persona giuridica”[71]
e del suo regime unitario come “rappresentanza-sostituzione”, è dunque divenuto
più che assolutamente dominante: l’unico pensabile.
Riconoscere la contingenza storica e
dogmatica (infra, § II.2.b) della
dottrina – formulata in termini anselmiani – della necessità della “astrazione”
o “smaterializzazione” della pluralità di uomini, per la conquista della loro
“unità”, e della connessa necessità della rappresentanza, per la unificazione
della loro volontà, significa liberarsi di tale dottrina e accedere alla
dottrina della possibilità:
α) della concezione unitaria della
pluralità di uomini, conservandone la concretezza, e
β) del loro regime unitario,
consentendone la partecipazione volitiva.
Una volta che non siamo più obbligati
a credere il ‘binomio’ medievale-moderno proprio anche del Diritto romano (neppure
in modo evolutivo cioè in sue fasi[72]
prodromiche agli sviluppi medievale, moderno e contemporaneo) siamo liberi di
vedere e riconoscere quegli elementi i quali ci consentono di credere e ci
impongono di verificare che il Diritto romano abbia prodotto e possa ancora
consegnarci un ‘binomio’ integralmente altro.
Anche per formulare la pars construens della nostra ipotesi di
ricerca, ovvero per la formulazione ipotetica del ‘binomio’ alternativo, ci
basiamo – dunque – su contributi già noti della dottrina giuridica, in
particolare romanistica.
Per quanto concerne la concezione
unitaria della pluralità di uomini senza transitare attraverso la loro
“astrazione” o “smaterializzazione”, la ‘dottrina di base’ è – come già detto –
quella di Catalano (1974). Si tratta della confutazione della concezione
pandettistica del populus romano
quale astratta “persona giuridica - Staat”[73],
con la ri-costruzione della sua concezione invece “concreta”,
Della dottrina di Catalano ci sono
alcune ‘componenti’ – oltre la già menzionata impostazione – sulle quali ci
appare opportuno richiamare analiticamente la attenzione.
La prima è la menzione (per quanto
incidentale) del ‘binomio’ di “concezione e regime della pluralità di uomini”,
quando egli ricorda il rapporto tra «La concezione del populus (e quella connessa del magistratus)»[74].
La seconda è lo spazio dedicato a
Rudolf von Jhering, quale esponente di spicco di una (minoritaria ma
importante) linea non-pandettistica nella riflessione giuridica tedesca
dell’Ottocento. La dottrina di Rudolf von Jhering è contrapposta a quella
pandettistica di (Joseph Rubino e) Theodor Mommsen, sia in ordine alla
concezione del populus (di cui Jhering
rifiuta la astrazione) sia al “connesso” regime volitivo mediante i magistrati.
La terza è la indicazione
metodologica di recuperare il franco confronto (instaurato, sul Diritto romano
e sul suo uso, nella Francia pre-rivoluzionaria e rivoluzionaria del XVIII
secolo) tra le tesi del ‘partito’ elitista (specialmente espresse da
Montesquieu) contrarie a questo Diritto e le tesi del ‘partito’ democratico
(specialmente espresse da Rousseau) ad esso favorevoli.
Proseguire, su questa ‘base’, lo
studio della esperienza giuridica romana (dottrina e prassi) e soprattutto
della sua summa giustinianea può,
ora, consentirci una rinnovata comprensione della concezione unitaria della
pluralità di uomini (da entrambi i punti di vista: del diritto privato e del
diritto pubblico)[75]
come «corpus[76] societario»[77],
caratterizzato dalla sintesi di unità e concretezza[78].
Alla concezione unitaria della
pluralità di uomini come non “astratto” né “smaterializzato” «corpus societario» corrisponde o, quanto
meno, può corrispondere il regime unitario della loro partecipazione volitiva.
Tale regime è – semplicemente – la
“democrazia”[79];
il cui esercizio, però, costituisce problema in sé.
La inadeguatezza operativa del “corpo
sociale”, a esprimere atti volitivi di tipo negoziale e/o in grande quantità, e
la corruzione della sua unità, nell’esprimere atti volitivi aventi ad oggetto
proprie parti[80],
sono ovviate con il ricorso a “mandatari” (Tac. ann. 11.24 magistratus mandare) per il compimento di tali atti. Può, dunque,
sembrare che la “rappresentanza”, espulsa dalla porta della non più “astratta”
concezione unitaria della pluralità di uomini, rientri dalla finestra delle
loro esigenze operative, ovverosia ‘di regime’.
Però, secondo la nostra ipotesi,
questi mandatari non sono assolutamente “rappresentanti” perché la natura loro
e della loro azione non è “sostitutiva”. La presenza di questi mandatari non
comporta (né come presupposto né come conseguenza) la assenza/sostituzione dei
mandanti. I mandanti (“concreti”) sono presenti e partecipano (anzi, con un
‘peso’ proporzionalmente preponderante) all’iter
volitivo per il quale devono ricorrere (per varie ragioni di opportunità) al
mandatario.
Presso la scienza romanistica, il regime
volitivo mediante mandatario – prima
di essere interpretato come “sostituzione” del mandante da parte del mandatario[81]
– è, infatti, inteso come “cooperazione” (“Mitwirkung”) con il mandante da
parte del mandatario cioè come “partecipazione” del mandante a un unico iter volitivo (“Verhältnis”) articolato in due “lati, interno ed esterno” (“innere
- äussere Seite”). Il “lato interno” è costituito dal rapporto tra mandante e
mandatario, il “lato esterno” dal rapporto con il terzo. È la dottrina di Rudolf von Jhering:
“Mitwirkung für fremde Rechtsgeschäfte”, 1857[82].
La attenzione e la posizione
dottrinali di Jhering, a proposito della volizione individuale nei “fremde
Rechtsgeschäfte”, confermano la sua individuazione – da parte di Catalano –
come l’esponente più importante, tra i Giuristi dell’ ’800, di una linea
interpretativa e propositiva diversa/opposta (perché rispettosa della logica
antica) rispetto a quella dominante nella complessiva materia (il ‘binomio’)
della concezione del popolo e del suo modus
operandi mediante i magistrati. Queste attenzione e posizione dottrinali di
Jhering confermano, inoltre, il punto dogmatico/sistematico saliente della
contrapposizione nella interpretazione dello iussum e del nesso mandato - procura. La dottrina di Jhering non è
intermedia tra quella di Savigny e quella di Windscheid-Laband[83]
ma alternativa a quella di Savigny e di Windscheid-Laband, ovvero impostata da
Savigny e completata da Windscheid-Laband.
Proseguire, su questa base, lo studio
della esperienza giuridica romana può, ora, consentirci una rinnovata
comprensione del regime unitario della pluralità di uomini (da entrambi i punti
di vista: del diritto privato e del diritto pubblico) come “partecipazione e cooperazione”.
In ipotesi, la soluzione romana di questo
ulteriore problema (la partecipazione mediante [la “cooperazione” di]
intermediari) è la scansione di quella sorta di ‘atomo’ del diritto che è
l’atto volitivo ovverosia la sua articolazione in un ‘iter’ volitivo composto da due – diciamo – ‘semi-atti’ volitivi tra
loro complementari, attribuiti a due ‘soggetti’ altrettanto tra loro
complementari. La partecipazione volitiva del dominus-mandante appare, infatti, integrata dalla cooperazione
volitiva del subalterno-mandatario-procuratore.
Nella esperienza giuridica romana,
questo regime (della partecipazione e cooperazione) appare, con particolare
evidenza, nell’iter volitivo composto
dal comando signorile-generale (lex =
iussum generale)[84]
del Popolo (“corpo” dei “molti associati”) emanato (a maggioranza)[85]
dalla loro Assemblea, e dalla sua esecuzione servile-particolare, operata
(quindi con un quoziente adeguato di discrezionalità ovvero con potere[86])
dai loro Magistrati. Non deve qui sfuggire né essere sottovalutata la
assimilazione, operata da fonti romane particolarmente qualificate, dei
magistrati a «servi pubblici» (rei
publicae vilici) in quanto «nella potestà del popolo»[87].
Crediamo di potere affermare che in questo iter
volitivo risiede e si manifesta la essenza della specificità repubblicana[88].
Sempre nella esperienza giuridica
romana, questo ‘regime/iter’ appare,
però, non circoscritto all’àmbito della volizione collettiva pubblica ma
coprire tutto l’àmbito di utilizzazione del diffuso meccanismo dello “iussum”[89];
‘meccanismo’ adoperato per le volizioni collettiva e individuale, familiare e
civile, di diritto privato e pubblico (nonché di diritto processuale[90]).
Anzi (al contrario del processo logico medievale-moderno-contemporaneo, nel
quale il regime della rappresentanza/sostituzione è introdotto per la volizione
unitaria della pluralità di uomini e quindi esteso alla volizione individuale)
nel processo logico antico, il regime della partecipazione e cooperazione
appare nato per la volizione individuale (precisamente in àmbito familiare:
attività amministrative/negoziali del pater-dominus mediante il filius o il servus) e
quindi utilmente esteso alla volizione unitaria della pluralità di uomini.
Questo ‘regime/iter’ appare, inoltre, oggetto di elaborazione secolare in entrambi
gli ‘àmbiti’ (gius-privatistico e gius-pubblicistico), come dimostrano le
vicende parallele (laddove non si tratti di una vicenda unica) da un lato,
della formazione delle cosiddette actiones
adiecticiae qualitatis e delle relazioni di diritto sostanziale ad esse
sottese (tra cui quelle del mandato e della procura)[91]
e, da altro lato, della circoscrizione della nozione di lex publica - iussum populi
al solo iussum generale con il
divieto di rogazione di privilegia[92].
Tra le caratteristiche di questo
‘regime/iter’ rientra e non può non
essere menzionato il suo nesso con due istituzioni – non casualmente – entrambe
«dimenticate» dalla scienza romanistica (e, quindi, giuridica) contemporanea:
le istituzioni municipale[93]
e tribunizia[94].
Nella particolare materia della
“rappresentanza politica”, la riflessione critica (sia quella ‘risalente’ del
XVIII secolo, sia quella ‘recente’ del XX secolo) ne cerca la alternativa
partecipativa presso la (piccola) Città, soltanto attraverso la quale è
pensabile/sperimentabile in maniera partecipativa (= democratica) la
federazione[95]-[96]-[97].
La istituzione tribunizia (di estrema
importanza[98]
e attualità[99]
per la volizione collettiva non soltanto dal punto di vista del diritto
pubblico ma anche dal punto di vista del diritto privato[100]) trova la propria collocazione
soltanto nello snodo della articolazione volitiva della partecipazione e
cooperazione[101].
È còmpito insostituibile dei Tribuni/Sindaci vegliare sulla congruità,
nell’atto di governo del magistrato, della volizione di questo con la volizione
del Popolo[102].
Secondo la nostra ipotesi, il genus di iter volitivi mediante intermediari (genus che, oggi, chiamiamo e interpretiamo come “rappresentanza” e
che – sia pure come inizialmente “soltanto indiretta” e magari mai veramente
“perfezionata” – attribuiamo al / proiettiamo sul Diritto romano) nel Diritto
romano, in particolare nella sua sintesi giustinianea, è non soltanto chiamato
con parole ma anche interpretato e utilizzato con logica e modalità più che
diverse, opposte rispetto a quelle della “rappresentanza”.
Per poterci avvicinare alla
comprensione di tali opposte logica e modalità gius-romane, dobbiamo, infatti,
letteralmente rovesciare la
prospettiva odierna della “rappresentanza”, ciò che – in ultima analisi –
possiamo fare osservando in queste forme di volizione (come fa Weber)[103]
“chi comanda” nonché (aggiungiamo) “come comanda”.
Già al primissimo livello di
accostamento, quello della indicazione degli attori sulla scena giuridica,
dobbiamo passare dalla formula della “negoziazione in nome e per conto di un
terzo” alla formula “negoziazione mediante un intermediario” ovvero dall’
“agire per altri” all’ “agire per mezzo di altri”. Dobbiamo, cioè, rimettere al
centro della azione – ovvero al posto di comando – il “dominus negotii”, il quale nel diritto feudale (dalla origine
medievale agli sviluppi statali moderni e contemporanei) è stato e continua ad
essere vieppiù “detronizzato” a favore del “rappresentante”.
Al livello successivo, della analisi
della loro azione, si deve passare dalla “sostituzione” del “rappresentato” ad
opera del “rappresentante” alla “cooperazione” del mandatario-procuratore con
la azione del mandante - dominus negotii.
Nel Diritto romano, infatti, i negozi
mediante intermediari appaiono resi possibili connettendo mandato (del quale
occorre recuperare il significato di combinazione di “comando” e di
trasmissione di potere)[104]
e procura in un rapporto a “due lati”: uno “interno” (dove il mandante
stabilisce in maniera parziale ma importante [“generale”] il contenuto della
attività negoziale da compiersi mediante il mandatario) e l’altro “esterno”
(dove il mandatario esegue-integra, con il terzo, il mandato). Il negozio
compiuto dal mandatario-procuratore è, dunque, il risultato di una
“cooperazione” volitiva asimmetrica di questi con il mandante. Il
mandatario-procuratore (privato e pubblico) è il discendente del servus, destinatario dello iussus domini, e ne conserva il DNA
istituzionale[105].
Tale meccanismo è – come si è detto
nonché ovviamente – più che inadatto, contrario allo scopo ‘politico’ per il
quale viene, inizialmente, costruita nel XIII secolo e, quindi, sviluppata sino
ai giorni nostri la “rappresentanza”. Lo scopo medievale-moderno (ovverosia
feudale-statuale) è rendere domini i
mandatari-procuratori e servi i
mandanti. Esso è stato perseguito, inizialmente, con la
«astrazione/smaterializzazione» del mandante collettivo, il quale – pertanto – deve essere «sostituito» dal mandatario
“rappresentante”. Quando – nel XIX secolo – ci si è resi conto della esigenza
di transitare attraverso il Diritto romano[106],
la “sostituzione” è stata perfezionata con due contestuali operazioni. Una è la
trasformazione/degradazione dello iussum
(anche) individuale – attestato presso le fonti di questo Diritto – da
“comando” rivolto al subalterno a vaga “autorizzazione” rivolta a qualunque
potenziale interessato; l’altra è la “autonomizzazione” della procura dal
mandato, la quale continua a caratterizzare dinamicamente
la ‘nostra’ esperienza giuridica[107].
La confutazione, durante gli anni
’70, della astrazione/smaterializzazione del populus e la connessa affermazione della sua presenza operante
hanno aperto prospettive di partecipazione, per la cui valutazione scientifica
e politica difficilmente si possono adoperare aggettivi esagerati.
Ciò che resta da fare e intendiamo
ora fare[108]
è comprendere la logica della conquista della unità nella concretezza (cioè, in
ipotesi, la logica del corpus
societario) e ri-costruirne il “moyen technique” della partecipazione (cioè,
sempre in ipotesi, il meccanismo della partecipazione mediante cooperazione).
Per fare ciò è necessario ma non sufficiente tornare alla dottrina romanistica
precedente la svolta operata su base savigniana da Windscheid e Laband (cioè,
in particolare, tornare alla dottrina di Jhering). Ri-partendo da quella
dottrina, occorre ri-leggere le fonti romane per ri-costruire la logica e il
meccanismo, i quali consentono alla “democrazia” la grande dimensione (la
crescita in inmensum [Liv. a.u.c. 4.4]) e la ‘longue durée’ (Virg. aen. 9.448 s.). Crediamo, infatti,
questi logica e meccanismo certamente proprî della scienza giuridica romana[109].
Può restare, invece, opinabile (ma è questione filosofica) se è quel meccanismo
che apre la strada alla logica per la quale «i Romani sono abituati a pensare
democraticamente»[110]
ovvero se è quella logica che conduce a trovare il meccanismo senza il quale
essa non è praticabile.
La noción jurídica
de “representación” nace y tiene sentido come parte de una específica forma del
binomio constituido por la concepción y el régimen unitarios de la pluralidad
de hombres.
Esta ‘forma
específica’ es “persona jurídica y representación”. La “abstracción” de la pluralidad
de hombres, conseguida con la noción de “persona jurídica”, es instrumental
para su “substitición” volitiva (es decir, substitución en el ejercicio de su
poder) por parte del “uno” o de los “pocos”, obtenida con la noción de
“representación”.
El ‘binomio’ recibe
esta ‘forma específica’ en aplicación de la lógica organizativa feudal:
inicialmente durante la edad media avanzada y luego durante la época moderna y
la contemporánea, en una progresión científica, que continúa.
La Pandectística ha
reforzado el binomio feudal a nivel de verdadero postulado de razón,
sobrescribiendolo en la lógica jurídica romana, que se “olvida”. Al refuerzo
contribuye la aplicación de la noción de representación también a la categoría
de los actos de volición individual con intermediarios (mandatum - procura). El
resultado se resume con la fórmula “actuar por otros”, la cual expresa el
protagonismo del “representante” (sujeto de la acción) y la eclipse del
“representado” (“otros”).
A pesar de las voces
críticas (en particular contra la “representación política”, más expuesta a
ellas como “hierro de lanza” de la parte operativa del binomio feudal), este
sigue apareciendo sin alternativas, justo en virtud de su superposición al
Derecho romano durante el siglo XIX; superposición que, en el curso del siglo
XX no se niega sino que se historiza.
Por lo tanto, parece
necesaria y se propone una relectura de las fuentes romanas, la que, contra la
lógica del “actuar por otros”, pueda recuperar la lógica del “actuar por medio
de otros”, propia del “dominus negotii”; y, contra el binomio feudal de la
“desmaterialización” de la pluralidad de hombres en la “persona jurídica” y de
su consiguiente “substitución” volitiva con el “representante”, pueda recuperar
el binomio republicano del “cuerpo societario concreto” y de su consecuente
“participación” en la volición, a la que “colabora” un “encargado subalterno”.
La nozione giuridica di “rappresentanza” nasce e ha senso come
parte di una specifica forma del binomio costituito dalla concezione e dal
regime unitari della pluralità di uomini.
Tale ‘specifica forma’ è “persona giuridica e rappresentanza”.
La “astrazione” della pluralità di uomini, ottenuta con la nozione di “persona
giuridica”, è strumentale alla loro “sostituzione” volitiva (alla sostituzione
cioè nell’esercizio del loro potere) da parte dell’ “uno” o dei “pochi”,
ottenuta con la nozione di “rappresentanza”.
Tale ‘specifica forma’ è data al ‘binomio’ in applicazione della
logica organizzativa feudale; inizialmente durante la epoca medievale avanzata
e quindi durante le epoche moderna e contemporanea, con una progressione
scientifica tuttora in corso
La Pandettistica ha potenziato il ‘binomio feudale’ a postulato
di ragione, sopra-scrivendolo sulla logica giuridica romana, la quale è
“dimenticata”. Al ‘potenziamento’ concorre la applicazione della nozione di
“rappresentanza” anche alla categoria degli atti di volizione individuale per
mezzo di intermediari (mandatum - procura). Il risultato è
sintetizzato con la formula “agire per altri”, la quale esprime il protagonismo
del “rappresentante” (soggetto della azione) e la eclisse del “rappresentato”
(“altri”).
Nonostante le voci critiche (in particolare contro la
“rappresentanza politica”, più esposta ad esse in quanto ‘ferro di lancia’
della parte operativa del binomio feudale) questo continua ad apparire privo di
alternative, proprio in forza della sua sovrapposizione ’800esca sul Diritto
romano, la quale durante il ’900 è stata storicizzata, non negata.
Pertanto, appare
necessaria e si propone una rilettura delle fonti romane, la quale, contro la
logica dell’ “agire per altri”, recuperi la logica dell’ “agire per mezzo di
altri”, propria del “dominus negotii”, e, contro il binomio
feudale della “smaterializzazione” della pluralità di uomini nella “persona
giuridica” e della loro conseguente “sostituzione” volitiva con il
“rappresentante”, recuperi il binomio repubblicano del concreto corpo
societario e della sua conseguente “partecipazione” alla volizione, cui
“coopera” un preposto in posizione subordinata.
[Per la pubblicazione degli
articoli della sezione “Contributi” si è applicato, in maniera rigorosa, il
procedimento di peer review. Ogni articolo è stato valutato
positivamente da due referees, che
hanno operato con il sistema del double-blind]
*
Giovanni Lobrano ha scritto la “Premessa”, la parte I e le “Conclusioni e
prospettive”. Pietro Paolo Onida ha scritto la parte II.
[1] Di regola, negli odierni testi normativi e di dottrina, la
precisazione ‘della volontà’ è superflua e quindi omessa. Vedi, ad es., la
sezione “Della rappresentanza” nel CC
italiano (libro IV “Delle obbligazioni”, titolo II “Dei contratti in generale”,
sezione VI: art. 1387-1400) e le voci “Rappresentanza” presso le enciclopedie
giuridiche (il NNDI, la EdD, la Enciclopedia giuridica Treccani etc.)
Tuttavia, in considerazione della
distinzione operata da Jean-Jacques Rousseau, tra rappresentanza della volontà
e rappresentanza del potere (sulla quale torniamo più avanti, vedi nt. 18),
precisiamo preliminarmente che – per restare nel sistema semantico delle
odierne normativa e dottrina – anche noi useremo la parola “rappresentanza”
senza specificazione nel senso tecnico-giuridico della “rappresentanza della
volontà”, nelle sue varie forme.
[2] Nel 1840, Friedrich von Savigny, nel proprio System, al § dedicato alla
“Stellvertretung”, aveva consacrato la rappresentanza come importante progresso
giuridico («wichtige Förderung in den gesammten Rechtsverkehr» (vedi, infra, nt. 57). Nel 1934, Ernst Rabel, fondatore e primo direttore del
Max-Planck-Institut für Ausländisches und Internationales Privatrecht di
Hamburg, aveva definito la “rappresentanza” un “juridisches Wunder”. Nel 1969, Karl Loewenstein (Verfassungslehre,
Tübingen, 35) scriveva a proposito della politica “Repräsentation” essere stata
(in combinazione con la “Gewaltenteilung”) una «Erfindung» la quale «für die
politische Entwicklung des Westens und damit der Welt ebenso entscheidend war
wie die technischen Erfindungen des Dampfes, der Elektrizität, des
Verbrennungsmotors oder der Atomkraft». Nel
1974, Hasso Hofmann, nella “Einleitung” alla propria monografia sulla
rappresentanza, Repräsentation: Studien zur Wort und Begriffsgeschichte bis
ins 19. Jahrhundert, afferma che nella dottrina giuridica tedesca
contemporanea «steht die Bedeutsamkeit dieser Kategorie auβer Frage» (di
questa monografia è disponibile la edizione italiana: Rappresentanza-rappresentazione:
parola e concetto dall’antichità all’Ottocento, tr. di C. Tommasi a cura di Duso G. dalla
4a ed. ted., Milano 2007). Tale affermazione può essere estesa senza difficoltà
(vedi la “Introduzione” di Duso, VII) alla intera dottrina giuridica
contemporanea.
[3] A proposito – ma non soltanto – del populus romano: P. Catalano,
Populus Romanus Quirites, Torino 1974, su cui torneremo, infra, § II.2.b. Di Catalano, su questa materia, si veda anche Diritto e persone, I, Torino 1990, in
part. il cap. V. “Alle radici del problema delle persone giuridiche”, 163 ss.
[4] Si può
qui ripetere – senza sopravvalutarla – la osservazione filologica – già di
Schnorr von Carolsfeld – che il verbo “repraesentare”
e i suoi derivati non compaiono nella terminologia del Diritto romano (in
particolare privato e delle obbligazioni) (S. v.
Carolsfeld, Repraesentatio. Eine
Untersuchung über den Gebrauch dieses Ausdrucks in der römischen Literatur, 1939; Cfr. Ha.
Hofmann, Rappresentanza -
Rappresentazione, cit., 173, nt. 144).
Questi autori confermano ciò che Rousseau scrive già nel
1762 «Dans les anciennes républiques & même dans les monarchies, jamais le
peuple n’eut des représentants; on ne connoissoit pas ce mot-là» (CS, 3.15 “Des Députés ou Représentans”;
cfr, infra, nt. 24).
[5] Agire per altri è il titolo di una raccolta di
scritti (dei quali buona parte romanistici) a cura di A. Padoa Schioppa,
Napoli 2010.
Si
può anche osservare – in prima approssimazione – che la espressione “communiter gerere” è riservata, presso le fonti giuridiche, alla
gestione di res communes in assenza
di societas o, quanto meno, di
contratto di societas (Pia Storace, Sulla tutela processuale del communiter gerere. Intorno a D. 17.2.62, Bari 2015).
[6] Cfr. I.
3.19.19 Alteri
stipulari […] nemo potest; Paul. D. 44.7.11 Quaecumque gerimus, cum ex nostro contractu originem trahunt, nisi ex
nostra persona obligationis initium sumant, inanem actum nostrum efficiunt: et
ideo neque stipulari neque emere vendere contrahere, ut alter suo nomine recte
agat, possumus; Q. M. Scaev. D. 50.17.73.4. Nec
paciscendo nec legem dicendo nec stipulando quisquam alteri cavere potest.
[7] Nei §§ 4 s. del
titolo 9 “Per quas personas nobis
adquiritur” del libro 2 delle Istituzioni. Cfr. C. 4.27 [Per
quas personas nobis adquiritur] 1 Excepta possessionis
causa per liberam personam, quae alterius iuri non est subdita, nihil adquiri
posse indubii iuris est; Paul. D. 45.1.126 per liberam personam quae neque iuri nostro subiecta est neque bona
fide nobis servit, obligationem nullam adquirere possumus; Gai. inst. 3.103 Praeterea
inutilis est stipulatio, si ei dari stipulemur, cuius iuri subiecti non sumus;
I. 3.19.4. ei, qui tuo iuri subiectus est, si stipulatus sis, tibi adquiris, quia
vox tua tamquam filii sit, sicuti filii vox tamquam tua intellegitur in his
rebus quae tibi adquiri possunt; Paul. sent.
5.2.2 Per liberas personas quae in
potestate nostra non sunt, adquiri nobis non potest; Theoph. parafr. 2.9.5.
[8] Presso Savigny, la istitituzione della
rappresentanza/Stellvertretung è precisamente connessa alla incapacità naturale
o giuridica del rappresentato (vedi, infra,
nt. 57).
Ripete
la dottrina di Savigny Mario TALAMANCA (ma gli esempi potrebbero
moltiplicarsi) nel proprio manuale di Istituzioni
di Diritto romano, Milano 1990, § 66 “La rappresentanza”, 264 ss. Talamanca
scrive della “rappresentanza” presso il Diritto romano nella accezione di
«rappresentanza necessaria o legale», precisando che «Alla rappresentanza
legale viene usualmente riportata, nella romanistica, anche l’attività di
quelle persone che, avendo la cura o la tutela di persone parzialmente
incapaci, si sostituiscono ad esse nel compimento di negozi, anche se esse
potrebbero agire personalmente etc.»
Dal
nostro punto di vista, non è difficile capire che la tutela e la curatela possono
farsi rientrare nella categoria-istituzione della “rappresentanza” per la
stessa speculare ragione per la quale non vi si possono fare rientrare gli atti
compiuti “per mezzo di altri” (vedi, infra,
§ I.1.c, in fine).
[9] F. Briguglio, Studi sul procurator. I, L’acquisto
del possesso e della proprietà, Milano 2007, 521 s.
[11] P. Voci, Istituzioni di Diritto romano, 6a ed. Milano 2004 (1a ed. 1946) §
39 “Negozio giuridico. Rappresentanza”, 137.
Negli anni 2000, presso
Giovanna Coppola Bisazza, Lo iussum domini e la sostituzione negoziale nell’esperienza romana, Milano 2003, 1,
nt. 3, troviamo la equazione di «rappresentanza diretta» e di «sostituzione
diretta» dalla quale emerge che la essenza “sostitutiva” è riconosciuta all’intero
genus “rappresentanza” e non soltanto
alla sua species “diretta”. Coppola
Bisazza, tornando cinque anni dopo sul tema (Dallo iussum domini alla
contemplatio domini. Contributo allo studio della storia della
Rappresentanza, Milano 2008, 9) scrive di una preferenza all’uso
della «espressione sostituzione negoziale» in luogo del «termine
rappresentanza»: «Pur evitando accuratamente di usare il termine
rappresentanza, preferendo ad essa l’espressione più idonea di sostituzione
negoziale, si è tuttavia ugualmente giunti alla conclusione che “ciò che, in
definitiva, sarebbe rimasto rigorosamente inammissibile in diritto romano
classico sarebbe stata soltanto la possibilità di ammettere la efficacia
acquisitiva diretta [il corsivo è
nostro] in favore del dominus negotii
dell’operato dell’intermediario …”» (citazione di A. Corbino, “Forma librale e intermediazione negoziale” in
Sodalitas. Scritti in onore di A. Guarino,
Napoli 1984, 2271, nt. 50). Peraltro, secondo Coppola Bisazza: «è proprio in questa impostazione ‘moderna’
della rappresentanza che è possibile cogliere il retaggio dell’originaria
concezione romana» (Dallo iussum domini alla
contemplatio domini. Contributo allo
studio della storia della Rappresentanza, cit., § “Considerazione
conclusive” 365).
Per il diritto pubblico, vedi A. Lalande, Vocabulaire
technique et critique de la philosophie, Paris 1991, 922 «Représenter en
politique, c’est tenir la place de être substitué à quelqu’un dans l’exercice
de ses droits ou pour la défense de ses intérêts» ripreso da E. Sena Avonyo, “La représentation
démocratique” in L’atelier des concepts
des semaines à venir. L’Academos, 15/03/10.
[12] P. D’Amico, “Rappresentanza, I. Diritto
civile” in Enciclopedia giuridica
Treccani, XXIX, Roma 1991, § 1. “Nozione, struttura, funzione” (2). Secondo la
esposizione di D’Amico (la quale, tra le molte anche blasonate di tale
questione, ci appare una delle più ordinate e, pertanto consistenti) si
trovano, presso la dottrina, entrambe le interpretazioni della
“rappresentanza”: “sostitutiva” e “cooperativa” ma la prima è “prevalente”: «si discute ancora se la rappresentanza sia da ricondurre
nell’ambito della cooperazione o della sostituzione […] le due concezioni […] sembrano essere il riflesso
delle due filosofie ispirate alla cosiddetta giurisprudenza degli interessi od
alla giurisprudenza dei concetti […]. Così una parte della
dottrina attribuisce rilevanza preminente (e dunque anche esterna) al rapporto
di gestione che vincola rappresentante e rappresentato […] in questa prospettiva il fenomeno
rappresentativo viene costruito in termini unitari e la procura non assume
rilievo autonomo rispetto al rapporto di gestione sottostante [citazz. di S.
Pugliatti e U.
Natoli]. L’opinione prevalente ritiene però che tale rapporto abbia una
rilevanza meramente interna [citazz. di E. Betti, F. Santoro Passarelli e L. Carraro]. Secondo tale
concezione l’attuazione degli interessi del rappresentato costituisce allora un
connotato frequente ma non necessario della rappresentanza, mentre l’accento
viene posto sul “potere” del rappresentante svincolato dal rapporto di
gestione. Il rappresentante, piuttosto che come collaboratore, viene così
qualificato come un “sostituto” del rappresentato [citazz. di E. Betti e F. Santoro Passarelli] il
cui potere (ma da taluno si ritiene preferibile parlare di “legittimazione”
[citazz. di U Natoli, G. Mirabelli e C.M. Bianca) viene conferito allo stesso rappresentante con una “autorizzazione”
(procura) [citazz. di F. Santoro Passarelli e A. Trabucchi <critico> …]
si osserva che il concetto di autorizzazione, pur riconosciuto in altri
ordinamenti positivi, non è presente nel nostro dove, anzi, viene avversato
dalla dottrina prevalente
[citaz. di A. Luminoso …] Una tesi che appare intermedia precisa però che
l’attribuzione del potere avviene sempre in funzione dell’interesse del
titolare [… citazz. di R.
Scognamiglio e C.M.
Bianca …] Pur senza entrare nel merito delle opposte concezioni […] sembra però importante
rilevare la difficoltà a costruire uno schema unitario di rappresentanza …».
Come
esempio (autorevole e non isolato) di trattazione disattenta della relazione
tra “sostituzione” e “cooperazione” in materia di “rappresentanza”, può essere
citata la trattazione di Angelo Luminoso, “Il mandato e la commissione” (in P.
Rescigno, dir., Trattato di diritto
privato, vol. 12, Obbligazioni e
contratti, Tomo IV, Torino 1985), ove, sin dalla prima pagina, le due
categorie sono usate frequentemente senza formulare una distinzione chiara tra
loro. Tuttavia, dalla esposizione di Luminoso (in particolare i 4 §§ iniziali:
5-19) la quale è un ottimo esempio della dottrina dominante, possono ricavarsi
alcune indicazioni utili per la nostra linea di ricerca. Luminoso: α) sostiene senza l’ombra del
dubbio la natura sostitutiva della rappresentanza, β) la concepisce nettamente distinta da quello che chiama
“rapporto gestorio”, γ) ne
distingue due interpretazioni, una (definita «rappresentanza degli interessi» e
caratterizzata dalla rilevanza prevalente assegnata all’ «interesse del
sostituito») che rifiuta categoricamente e un’altra (di impostazione
«giuridico-formale» incentrata sulla contemplazione della attività negoziale
del rappresentante «svalutando in maniera pressoché totale il momento economico
della cooperazione gestoria» !) che ritiene da accogliere cum grano salis.
Non possiamo qui omettere un riferimento al lungo saggio di Fracanzani
sulla rappresentanza (M.M. FRACANZANI, Il problema della rappresentanza
nella dottrina dello Stato, Padova 2000) il cui esame è circoscritto alla
relazione di questa con la dottrina dello Stato ma fa frequenti riferimenti al
diritto privato. L’autore non affronta la questione della natura sostitutiva
e/o cooperativa della rappresentanza ma la tesi da lui sostenuta (che la natura
della rappresentanza è “dualista”, comporta cioè la presenza di due volontà,
quella del rappresentato e quella del rappresentante [v., ad es., p. 47]) lo
colloca su una posizione opposta a quella espressa da D’Amico. Fracanzani
sostiene che tale (“dualista”) rappresentanza è propria del diritto privato ma
incompatibile con il “monismo” della “sovranità” statale, per la quale – quindi
– neppure è corretto usare la categoria di
rappresentanza. Non è qui il luogo per discutere la tesi di Fracanzani la quale
è, peraltro, caratterizzata da alcuni non comprensibili silenzi. Questo A.,
pure citando il Diritto romano (talvolta) e la dottrina di Rousseau (molte
volte), ne tace la relazione, quale, oramai molti anni or sono, è stata – per così dire – riscoperta da
Jean Cousin e approfondita da Pierangelo Catalano (J. COUSIN, «J.-J. Rousseau
interprète des institutions romaines dans le Contrat social» in Aa.Vv., Etudes sur le
Contrat social de Jean Jacques Rousseau: actes des journées d’études
organisées à Dijon pour la commémoration du 200e anniversaire du Contrat
social, Paris 1964, 13-34; P. CATALANO, Tribunato e resistenza, Torino
1971, e Populus Romanus Quirites, Torino 1974) cui rinvio. Così (ad es.)
Fracanzani, pure ponendosi il problema del “controllo” della corrispondenza tra
la volontà del rappresentante e quella del rappresentato, mai accenna all’istituto romano del “tribunato”, ripreso e riproposto da
Rousseau (ma non soltanto!) proprio per “conservare” il corretto rapporto
volitivo tra Popolo e magistrati. Ancora è assente, nel saggio in esame, ogni
riferimento al filone (aperto dalla ‘Aktiengesetz’ tedesca del 1937 e oggi
planetariamente dilagato) di allineamento della rappresentanza di diritto
privato a quella di diritto pubblico. Tuttavia, non si può
non concordare con Fracanzani quando egli conclude la propria esposizione (p.
430) affermando la esigenza di “ricostruire gli istituti giuridici” su base
“partecipativa” e “dualista”.
[13] W. Flume, Allgemeiner Teil des Bürgerlichen Rechts,
Bd. II. Das Rechtsgeschäft (1. Aufl. 1965 - 4. Aufl. 1992) 2. Auf. Berlin - Heidelberg - New York 1975, Kap. X.
“Stellvertretung und Vollmacht”, 1. Absch. “Die Stellvertretung”, § 43
“Grundsätzliches zur Rechtsfigur der Stellvertretung”, 751 s. «Die sogennante Geschäftsherrentheorie
(begründet von Savigny). Danach ist bei der Stellvertretung der
rechtgeschäftlich Handelnde allein der Vertretene. Der Vertreter ist nur der
Träger des Willens des Vertretenen und somit der Vertretene selbst der Wollende
der Stellvertretergeschäfts. […] Die sogennante
Repräntationstheorie [la cui paternità è attribuita a Windscheid]. Sie geht davon aus, daß der Stellvertreter den
Vertretenen vorstelle, repräsentiere. Der Vertreter sei zwar der Handelnde der
Rechtsgeschäfts, die Rechtswirgungen träfen aber den Vertretenen.» Per la precisione dobbiamo aggiungere che anche Flume
menziona altre “teorie”: una sostanzialmente non influente («Die
Stellvertretung sei als allgemeines Institut nicht anzuerkennen» [Puchta]) e
una sostanzialmente di mediazione (la «Vermittlungstheorie» [Mitteis, Lenel]).
La
contrapposizione proposta da Flume è stata ripresa da H. Wieling, “Drittwirkungen des mandats
und ähnlicher Rechtsverhältnisse” in D. Nörr, Sh. Nishimura, Hrsg., Mandatum
und Verwandtes. Beiträge zum römischen und modernen Recht, Berlin etc. 1993, 244. Vedi anche G. Priori Posada, “La
representación negocial. Del derecho romano a la codificación latinoamericana”
in Ius et Veritas, vol. 10, núm. 20,
2000, 364 nt. 113 e D. Leenen, BGB
Allgemeiner Teil: Rechtsgeschäftslehre, 2. Auf., Berlin Boston 2015, §
“Die Repräsentationstheorie als Grundlage der Gesetzlichen Regelung des
Handelns in fremden Namen” (1: “Geschäftsherrntheorie und
Repräsentationstheorie”).
È
degno di nota immediata che Flume
fa risalire la “teoria della rappresentanza” a Windscheid, e D’Amico connette
la interpretazione della rappresentanza come sostituzione alla “giurisprudenza
dei concetti” (la quale è considerata appunto riconducibile a Bernhard
Windscheid) e la interpretazione della rappresentanza come cooperazione alla “giurisprudenza degli interessi” (la quale è
considerata riconducibile a Rudolf von Jhering, sul cui apporto estremamente
importante apporto alla nostra questione, vedi, infra, il § II.2.b. e la nt. 76 del § II.2.c).
[14] Ci riferiamo a quanto sostenuto nel saggio Repräsentation, cit., come sintetizzato
da Giuseppe Duso: “Introduzione” alla ed. it. 2007.
Scrive Ha. Hofmann, op. cit., 19 «Bei aller Vielfalt im einzelnen fällt innerhalb
der jüngeren deutschen staatstheoretischen Behandlung des
Repräsentationsbegriffs im Gegensatz dazu die negative Übereinstimmung in dem
Bestreben auf, den Mandatsgedanken beiseite zu schieben oder ganz zu
eliminieren. […] Rechtlich ist der Wille des Parlaments allein dem Staat (und
nur politisch-ideologisch dem Volke) zuzurechnen» = ed. it., 6 s. «Ciò che caratterizza, e nel
contempo accomuna tutte le trattazioni dedicate al concetto della
rappresentanza dalla più recente dottrina dello Stato tedesca è il ripudio
dell’idea di mandato e lo sforzo che ogni autore conduce al fine di
accantonarla o persino di eliminarla. […] Dal punto di vista giuridico la
volontà del parlamento va riferita unicamente allo Stato, mentre concerne il
popolo solo nella prospettiva politico-ideologica».
Cfr. op. cit., 118: «Die Frage […] ist, in welchem Kontext und Kraft
welcher Momente dem Wort repraesentatio
der Sinn rechtlicher Stellvertretung zugewachsen ist […] Stellvertetung im weitesten und ursprunglichen Verstände Ersetzung
ist» = ed. it. 136: «Occorre […]
stabilire in che contesto e attraverso quali passaggi al termine
“repraesentatio” sia divenuto congeniale il significato della “vicarietà” […]
“vicarietà”, nella concezione più ampia e originaria, equivale a “sostituzione”».
Occorre
qui osservare – seppure soltanto incidentalmente – che il saggio di Hofmann,
più filologico che giuridico, non è premiato dalla ondivaga traduzione
italiana. I titoli del capitolo 4 e del paragrafo 12 della ed. ted. sono
perfettamente uguali: “Repräsentation und Stellvertretung”; essi, però, sono tradotti il
primo come “Repraesentatio e
luogotenenza”, il secondo come “Rappresentazione e vicarietà” e il tutto ha
qualche difficoltà a conciliarsi con la osservazione di Duso riportata, supra, in questo testo.
Si veda anche Valeria De Lorenzi, “La rappresentanza nel diritto tedesco. Excursus storico su/la dottrina” in
Giovanna Visintini, a cura di, Rappresentanza
e gestione, Padova 1992, 72-93.
[15] M. Campobasso, “Il potere di rappresentanza
degli amministratori di società di capitali nella prospettiva dell’unità
concettuale delle forme di rappresentanza negoziale e organica” in Amministrazione e controllo nel diritto
delle società. Liber amicorum Antonio
Piras, Torino 2010, 452 ss. (cfr. Id., L’imputazione di conoscenza nelle società,
Milano 2002, 172 ss.)
[16] Sulla nozione di costituzionalismo
‘elitista’, vedi Lucia Corso, I
due volti del diritto: élite e uomo comune nel costituzionalismo americano, Torino 2016, passim, in part. il cap. II “Costituzionalismo giuridico: tre tappe
storiche di elitismo costituzionale”.
[18] Il ‘romanista’ Max Weber
(autore della Römische Agraargeschichte in ihrer Bedeutung für das
Staats und Privatrecht, 1891), nel famoso saggio Wirtschaft
und Gesellschaft, la cui prima edizione (postuma) è del 1922, pone nella
“schärfste Gegensatz” la “gebundene
Repräsentation” (per la quale usa come sinonimi “gebundenes”- o “imperatives
Mandat”) e la “freie
Repräsentation”. A proposito della
prima, Weber scrive che «Diese “Repräsentanten” sind in Wahrheit: Beamte der
von ihnen Repräsentierten» e che «sie Surrogat der in Massenverbänden
unmöglichen unmittelbaren Demokratie ist». A proposito della seconda, egli
scrive, invece, che «Der Repräsentant,
in aller Regel gewählt (eventuell formell oder faktisch durch Turnus bestimmt),
ist an keine Instruktion gebunden, sondern Eigenherr über sein Verhalten. Er
ist pflichtmäßig nur an sachliche eigene Ueberzeugungen, nicht an die
Wahrnehmung von Interessen seiner Deleganten gewiesen […] der von den Wählern
gekorene Herr derselben, nicht: ihr “Diener”, ist. Diesen Charakter
haben insbesondere die modernen parlamentarischen Repräsentationen
angenommen» e che «Repräsentativ-Körperschaften sind nicht etwa notwendig
“demokratisch” […]. Im geraden Gegenteil wird sich zeigen, daß der klassische
Boden für den Bestand der parlamentarischen Herrschaft eine Aristokratie oder
Plutokratie zu sein pflegte (so in England)». Weber precisa, inoltre,
che «Nicht die Repräsentation an sich, sondern die freie Repräsentation
und ihre Vereinigung in parlamentarischen Körperschaften ist dem Okzident
eigentümlich», mentre ciò che si trova «in
der Antike» sono «Delegiertenversammlungen bei Stadtbünden, grundsätzlich
jedoch mit gebundenen Mandaten». (M. Weber,
Wirtschaft und Gesellschaft. Grundriss
der verstehenden Soziologie, 5a ed., hrsg v. J. Winckelmann, Tübingen 1976,
lib. I cap. III § 21).
Confermata
la riserva metodologica sull’uso della categoria rappresentanza per la
comprensione della esperienza antica, dobbiamo positivamente osservare il nesso
della riflessione strettamente tecnicamente giuridica svolta da Weber sul
rapporto padrone-servo (Herr-Diener) nella “rappresentanza”, con la omologa e
più nota riflessione svolta da Friedrich Hegel sul medesimo rapporto (“Herrschaft und Knechtschaft”, vedi Id., Fenomenologia dello spirito, 1806, ed. it. a cura di E. Arrigoni, rist. Roma 2007, 55
s., in particolare 74 s.) ed espressamente ripresa da Karl Marx.
[19] Come noto, la formazione dei Parlamenti
medievali (a partire dalle “Cortes” di León, convocate nel 1188 da Alfonso IX,
Re di León e di Galizia e considerate le prime convocazione e riunione di un
Parlamento moderno) fu ottenuta mediante l’inserimento dei delegati dei
“Comuni” nei ‘vecchi’ Consilia Regis
feudali. I delegati erano vincolati da mandato imperativo, così come ancora il
Parlamento ribelle, convocato in Inghilterra dal barone Simon de Montfort nel
1265. La – grande – novità del primo Parlamento legale inglese,
riunito nel 1295, è, precisamente, il ‘divieto del mandato imperativo’ ossia la
introduzione della rappresentanza/sostituzione dei Comuni. Questi così sono espulsi dal processo
decisionale, il quale così si
concentra nel Consilium/Parlamento (J.F. Costanzo,
S.J., “Juridic Origins of
Representation. II” in Fordham Law
Review, Volume 23, Issue 3, 1954, 296 ss.)
Il
‘divieto’ si manifesta, quindi, nella Francia del secolo immediatamente
successivo (Y. Krynenl, L’État de justice. France, XVIIIe-XXe siècle.
I. L’idéologie de la magistrature
ancienne, Paris 2009, ch. 3 “De la représentation à la dépossession du
roi”, 62 ss.) e diviene la vera chiave di volta del ‘sistema parlamentare’
contemporaneo sino ai giorni nostri, quando è la regola – quasi senza eccezioni
– delle Costituzioni (in quella italiana, del 1948, il ‘divieto’ è inserito
all’art. 67 [vedi, infra, nt. 26]).
Questo
‘divieto’ feudale appare resistere ad ogni tentativo di eliminazione. In
Italia, sono falliti due tentativi di abrogarlo. Il primo tentativo è stato la
legge n. 81 del 1993, la quale obbliga i candidati Sindaci (e candidati
Presidenti delle Province) alla sottoposizione al voto dei Cittadini elettori
del proprio programma amministrativo. Tale legge è stata immediatamente,
sostanzialmente annullata dai giudici amministrativi (sentenze del Consiglio di
Stato V Sezione, 6 luglio 1994, n. 732. [Conferma della
sentenza TAR Abruzzo - Pescara, 5 novembre 1993, n. 537] e del Consiglio di Stato V Sezione, 25 maggio 1998, n. 688
[Conferma della sentenza del TAR Campania - Napoli: II Sezione, 15 febbraio
1997, n. 357]) i quali hanno “giudicato” quella obbligazione una mera, vuota
formalità. Il
secondo tentativo è stato la «Proposta di legge costituzionale n. 5923
[presentata al Parlamento italiano il 20 aprile 1999 da 21 deputati] “Modifica
dell’articolo 67 della Costituzione, in materia di divieto di mandato
imperativo”», nella cui “Relazione” di presentazione si sostiene che «una
disposizione del genere aveva fatto ormai il suo tempo […] Perciò oggi il
divieto di mandato imperativo è una norma tralatizia» nonché in «irriducibile
contrasto con l’articolo 1, secondo comma, della Costituzione, in base al quale
la sovranità appartiene al popolo» (è la tesi di Mortati!) e con il diritto dei
cittadini «a concorrere con metodo democratico a determinare la politica
nazionale [art. 49]». La proposta di legge costituzionale del ’99 non è stata
approvata. Restano straordinari sia il fatto
di due attacchi – almeno tendenzialmente – mortali
alla rappresentanza politica, attraverso la abrogazione della sua
regola-chiave, sia il fatto che tali
attacchi non abbiano suscitato nessuna reazione: né scientifica né politica.
Sull’istituto
della revoca dei mandatari (presente in alcune esperienza costituzionali, ad
es. Stati Uniti [“recall”] Portogallo [art. 160.1] Costituzione “bolivariana”
del Venezuela) vedi R. Scarciglia,
Il divieto di mandato imperativo.
Contributo ad uno studio di diritto comparato, Padova 2005.
[20] Sul nesso del regime unitario della
pluralità di uomini con la loro concezione unitaria, vedi, infra, § II.2.a.
[21] Nel dibattito
sviluppatosi in Italia, a
margine della riforma costituzionale per il “Senato delle Autonomie”, c’è
stato chi ha provato a rimettere in
discussione – almeno per questa materia – il “mandato imperativo”. Così,
sia pure rapidamente, F. Bilancia,
“Oltre il bicameralismo paritario. Osservazioni a margine del d.d.l. Renzi.
Sfidando il divieto di una discussione pubblica” in www.costituzionalismo.it, 2 aprile 2014, 5. Appaiono però
maggioritarie le voci di coloro i quali (non possedendo la distinzione romana
tra lex - iussum generale e privilegium)
neppure riescono a concepire la possibilità di coniugare uno spazio significativo
di discrezionalità del mandatario con la presenza del mandato imperativo.
[22] Nella Germania nazista, l’Aktiengesetz (Gesetz über
Aktiengesellschaften und Kommanditgesellschaften auf Aktien) riforma, il 30
gennaio 1937, l’HGB (Handelsgesetzbuch) risalente al 10 maggio1897. Il § 70 della AktG recita: «Der Vorstand hat unter eigener
Verantwortung die Gesellschaft so zu leiten, wie das Wohl des Betriebs und
seiner Gesellschaft und der gemeine Nutzen von Volk und Reich es fordern. Der Vorstand
kann aus einer oder mehreren Personen bestehen. Ist ein Vorstandsmitglied zum
Vorsitzer des Vorstand ernannt, so entscheidet dieser, wenn die Satzung nichts
anderes bestimmt, bei Meinungsverschiedenheiten im Vorstand.»
La riforma del 1937, nonostante la esplicita
coloritura nazionalsocialista (applicazione del “Führerprinzip”) si limita a
tradurre normativamente, sul piano del regime operativo e dal punto di vista
del diritto privato, gli orientamenti scientifici pandettistici dell’‘heutiges römisches Recht’ ’800esco.
L’Aktiengesetz è approdato anche in Italia soltanto
con il D.L. 6/2003. In proposito, vedi G. Guerrieri, Assemblea di s.p.a., in EdD -
Annali, IV, Milano 2011, in part. 120; F. Galgano,
Diritto commerciale, II., Le società, 18a ed., ristampa agg.,
Bologna 2013, 151-156 cfr. 161-164 e Lex mercatoria, 4a ed., Bologna, 2001, 159
ss. (il quale descrive il precedente regime
come «democrazia azionaria» retta dal principio della “sovranità”
della assemblea» venuta meno con la riforma); G. Cottino, Introduzione. Dal ‘vecchio’ al ‘nuovo’ diritto azionario: con qualche
avviso ai naviganti, in Società per
azioni. Costituzione e finanziamento, a cura di G. Cottino - M. Sarale, Asiago
2013, § 5 ‘Al cuore del governo (e della sovranità) societaria: gli
amministratori’ § 5.1 (il quale scrive anche lui di ‘sovrano detronizzato’: «Ho
già accennato […] a quanto profonde siano state le modifiche introdotte dal
legislatore del 2003 nella disciplina della gestione della società per azioni:
a come si sia appannato, se non proprio spento, il ruolo “sovrano”
dell’assemblea, al suo graduale trasferirsi verso il consiglio di
amministrazione, facendone, se non proprio il nuovo organo sovrano della
società in luogo di quello detronizzato, quello entro cui, ad usare una
metafora meno in contrasto con la visione formalmente conservata del riparto
delle prerogative istituzionali tra assemblea, consiglio e collegio sindacale
(e revisore o società di revisione) si concentra e si esercita il potere di
adottare le decisioni strategiche e operative dell’impresa»).
Alla
riforma italiana ha lavorato il collega romanista Andrea Di Porto, coautore di
un corso di ‘Diritto commerciale romano’
(P. Cerami - A. Di Porto - A. Petrucci, Diritto commerciale romano. Profilo storico,
2a ed., Torino 2004). Sui lavori di preparazione del D.L. 6/2003 vedi M. Stella Richter, “Antecedenti e vicende
della società a responsabilità limitata” in S.r.l.
Commentario dedicato a G. B. Portale, Milano 2011, § IV. ‘La società a
responsabilità limitata nella riforma organica del diritto delle società di
capitali e le conseguenze della introduzione della nuova disciplina’.
[24] Famosa la invettiva rousseauiana contro l’inganno della
«rappresentanza della volontà»: «La souveraineté ne peut être représentée, par
la même raison qu’elle ne peut être aliénée; elle consiste essentiellement dans
la volonté générale, & la volonté ne se représente point: elle est la même,
ou elle est autre; il n’y a point de milieu. Les députés du peuple ne sont donc
ni ne peuvent être ses représentants, ils ne sont que ses commissaires; ils ne
peuvent rien conclure définitivement. Toute loi que le peuple en personne n’a
pas ratifiée est nulle; ce n’est point une loi. Le peuple Anglois pense être
libre; il se trompe fort, il ne l’est que durant l’élection des membres du
Parlement; sitôt qu’ils sont élus, il est esclave, il n’est rien. Dans les courts
momens de sa liberté, l’usage qu’il en fait mérite bien qu’il la perde. L’idée
des représentants est moderne: elle nous vient du Gouvernement féodal, de cet
inique & absurde Gouvernement dans lequel l’espèce humaine est dégradée,
& où le nom d’homme est en déshonneur. Dans les anciennes républiques &
même dans les monarchies, jamais le peuple n’eut des représentants; on ne
connoissoit pas ce mot-là. Il est très-singulier qu’à Rome où les tribuns
étoient si sacrés, on n’ait pas même imaginé qu’ils pussent usurper les
fonctions du peuple, & qu’au milieu d’une si grande multitude, ils n’aient
jamais tenté de passer de leur chef un seul plébiscite. Qu’on juge cependant de
l’embarras que causoit quelquefois la foule, par ce qui arriva du tems des Gracques,
où une partie des citoyens donnoit son suffrage de dessus les toits. […] à lʼinstant
quʼun peuple se donne des représentans, il nʼest plus libre; il nʼest plus» (CS, 3.15 “Des
Députés ou Représentans”; cfr. 2.1 “Que la Souveraineté est inaliénable” «le Souverain,
qui nʼest quʼun être collectif, ne
peut être représenté que par luimême, le pouvoir peut
bien se transmettre, mais non pas la volonté»; 4.6 “De la Dictature” «la suspension de lʼautorité législative ne l’abolit point; le magistrat
[il Dittatore] qui la fait taire ne peut la faire parler, il la domine sans
pouvoir la représenter; il peut tout faire, excepté des loix»).
[25] «È dal 1895 che
Orlando ci avverte che quello della rappresentanza è un concetto problematico
ed in crisi» scrive Laura Buffoni (“Appunti per una semantica
della rappresentanza politica. Note ‘libere’ dall’incontro sassarese su «La
rappresentanza nel diritto pubblico»” in Diritto@Storia,
12, 2014 < http://www.dirittoestoria.it/12/innovazione/Buffoni-Semantica-rappresentanza-politica-Note-diritto-pubblico.htm >) la quale però aggiunge
«ma la sua problematicità lo ha forse avvalorato. Lungi dal disincantare la
politica, la rappresentanza “infiamma il teatro della politica”». L’autrice fa
riferimento a V.E. Orlando,
“Del fondamento giuridico della
rappresentanza politica”, 1895, ora in Id.,
Diritto pubblico generale, Milano, 1954, 417 ss. e cita L. Ornaghi, “Atrofia di un’idea. Brevi note sull’ ‘inattualità’ odierna della
rappresentanza politica” in Riv. dir. cost., 1998, 3 ss.
La
critica novecentesca è alimentata dalla riflessione ‘costituzionale’
immediatamente successiva alla prima guerra mondiale.
Negli stessi anni di Weber (vedi, supra, nt. 18) Hans Kelsen scrive «Eine Fiktion ist die Auffassung
des Parlaments als Repräsentant des Volkes, als “Volksvertretung”, nicht etwa
in dem Sinne, als ob der Gedanke der Repräsentation an und für sich eine Fiktion
wäre, wie man nicht selten mit ROUSSEAU annimmt. […] Die Fiktion der
Volksrepräsentation durch das Parlament hat offenbar einen politischen Grund.
Das Dogma der Volkssouveränität spricht dem Volk - neben anderen - auch die
gesetzgebende Gewalt zu. Die Repräsentationsfiktion erhält den Schein dieses
Dogmas auch dann, wenn Arbeitsteilung die Gesetzgebung einen speziellen Apparat
übertragen hat. Und zu diesem Zweck wird die Repräsentationsfiktion auch in
jenen Fällen verwendet, wo sie sich nicht auf das – immerhin vom Volk gewählte
– Gesetzgebungsorgan, sondern auf einen anderen Machtfaktor bezieht, der seine
Funktion im Sinne der Volkssouveränität zu rechtfertigen wünscht.», Vom Wesen und Wert der Demokratie, Tübingen 1920; 2., überarbeitete und erweiterte
Auflage 1929; Neudruck der 2. Auflage: Scientia,
Aalen 1981, passim, in part. cap. II,
nt. 13). Ancora Kelsen denunzia il «tentativo di mascherare la riduzione non
lieve che la idea democratica subisce per il fatto che la volontà statuale è
formata non dal popolo ma da un organo, il parlamento, assai diverso, anche se
eletto dal popolo» (Id., Il primato del parlamento, tr. it.
[dalla ed. Wien – Leipzig del 1925, Das Problem des Parlamentarismus] a cura
di C. Geraci, con “presentazione” di P. Petta, Milano 1982, 176; cfr. A. Oliet Pala, “El principio político
formal de identidad en el ordenamiento español”, in Revista de derecho político, 23, verano 1986, 118, che rinvia a H. Kelsen, Esencia y valor de la democracia, Ed. Nacional México 1973, 48).
Poco dopo, nel 1931, Carré de Malberg scrive che «l’idée
de souveraineté de la volonté générale a été exploité en vue de fonder la
puissance souveraine du Parlement lui-même. Une telle contradiction paraîtra
difficilement acceptable à tout homme qui n’est pas résigné à se payer de
mots». Infatti, «Comment admettre que, dans notre droit public, les décisions
émanées du Parlement aient pu être présentées comme des productions de la
volonté populaire, alors que la Constitution tient systématiquement les
citoyens à l’écart de leur formation?» (La Loi, expression de la volonté générale,
ried. in fac-simile della ed. 1931,
con “Préface” di G. Bourdeau, Paris 1984, 215). Carré
de Malberg si riferisce alla costituzione francese, allora vigente, del 1875.
Nel secondo
dopo-guerra e nella seconda metà del secolo XX, filosofi del diritto e giuristi
positivi tornano alla constatazione esplicita e rotonda della inesistenza
stessa dell’istituto della rappresentanza politica.
Tra
gli anni ’50 e gli anni ’70, nel quadro di una riflessione critica sulle
istituzioni dello Stato moderno, Hanna Arendt, ‘scopre’ la inconsistenza logica
della dottrina della rappresentanza politica. Secondo Arendt, il fenomeno della
«trasmissione» dello spirito politico dei cittadini ai capi dello Stato per il
tramite delle istituzioni moderne rappresentative è «altamente misterioso» (Arendt,
Le origini del totalitarismo,1951,
tr. it. 1989; Id., La lingua materna, testi del 1954 e del
1964, tr. it. a cura di A. Dal Lago, Milano 1993; Id., Vita activa. La
condizione umana, 1958, tr. it. Milano 1964; Id.,
Sulla rivoluzione, 1965, tr. it.
Milano 1983; Id., La disobbedienza civile e altri saggi,
1970-1972, tr. it. Milano 1985). Sulla critica di Arendt al sistema
rappresentativo vedi Adriana CAVARERO, “La libertà come bene comune” in Democrazia
e diritto, 5-6, 1991, quindi in Eugenia Parise, a cura di, La politica tra natalità e mortalità. Hannah
Arendt, Napoli 1993, 40 «il concetto di rappresentanza implica l’assenza
dei rappresentati, ossia tutto il contrario di quell’agire che è tale solo in
atto e solo alla presenza di altri. La rappresentanza (…) sarà dunque apparato
di dominio di alcuni uomini su altri, organizzazione della forza dei
governanti, disciplinamento centralizzato della decisione.
Nel 1965
il politologo canadese trapiantato negli Stati Uniti, David Easton, definisce
il sistema politico odierno, in quanto produttore di decisioni, “scatola nera”
e “vaso di Pandora” (A systems analysis
of political life, 1965, tr. it. a cura di G. Pasquino, L’analisi
sistematica della politica, Casale Monferrato 1984, cfr. D. Fuchs - H.-D. Klingemann, “La teoria politica dell’analisi dei sistemi:
David Easton” in Rivista italiana di
scienza politica, n. 3, dicembre 2003, 427 ss.
Nel
1972, il costituzionalista Vanossi definisce la rappresentanza politica un
«mistero» (J.R. Vanossi, El misterio de la representación política,
Buenos Aires 1972).
Nel
1975, Costantino Mortati afferma durissimamente, a proposito della Costituzione
italiana, che nessuna delle condizioni necessarie a consentire l’esercizio
popolare della sovranità (pure solennemente affermato all’art.1 della stessa
Costituzione) si realizza in Italia, con la conseguenza grave che «il regime di
poliarchia effettivamente vigente viene a realizzare una forma di sovranità del
Parlamento» (C. Mortati, “Art. 1”
in G. Branca, a cura di, Commentario
della Costituzione I Principi
fondamentali: Art. 1-12, Bologna 1975, 23 e 36).
Nel 1982, Torres del Moral afferma che «La teoría de la prohibición
del mandato imperativo asentada en el principio de soberanía nacional […] es
histórica y actualmente insostenible, desde el punto de vista rigurosamente
teórico. De manera que no puede sorprender nos en
absoluto que en la práctica política [el mandato imperativo] se haya mantenido
vigente» (A. Torres del Moral,
“Crisis del mandato representativo en el Estado de partidos”, in Revista de Derecho político, 14, verano
1982).
Nel
1983, il giurista e parlamentare italiano, Fisichella accede alle affermazioni
del politologo nord-americano Heinz Eulau, secondo il quale (1978) «Se [...]
con qualche sforzo siamo in grado di indicare con sufficiente approssimazione
ciò che la rappresentanza non è, malgrado molti secoli di impegno teoretico non
possiamo dire cosa la rappresentanza è». Fisichella non segue, però, Eulau
nella affermazione che la crisi riguarda «la teoria della rappresentanza e non
delle istituzioni rappresentative» in quanto egli considera la crisi teorica
proiezione della crisi istituzionale, sebbene la maggiore ‘velocità’ della
crisi della teoria rispetto alla crisi dell’istituto può far sì che «la prima
emerga quando la seconda è ancora poco visibile» (H. Eulau, “Changing Views of Representation” in H. Eulau - J.C.
Wahlke (Eds.), The Politics of
Representation. Continuities in Theory and Research, Beverly Hills, 1978,
32; citato da D. Fisichella, La rappresentanza politica, Milano 1983,
5; cfr. Id., Elezioni e democrazia: un’analisi comparata, Bologna 1982. Vedi
anche G. Pasquino, a cura di, Rappresentanza
e democrazia, Roma Bari 1988).
Tra la
fine degli anni ’80 e l’inizio degli anni ’90, la inesistenza concettuale della
rappresentanza politica diviene oggetto, in Italia, anche delle trattazioni
istituzionali per eccellenza: quelle dei dizionari. Nel 1987, Nocilla e Ciaurro
scrivono sulla Enciclopedia del Diritto
di «difficoltà di pervenire ad una definizione dogmatica della “rappresentanza
politica”» (D. Nocilla - L. Ciaurro, “Rappresentanza politica”, in EdD,
XXXVIII, Milano 1987, s.v.). Nel 1991, sulla Enciclopedia giuridica Treccani, Ferrari si “sorprende” (anche lui, come già Torres del Moral)
«che la difficoltà di definizione teoretica [della “nozione di rappresentanza politica”
“centrale nella concezione stessa dello Stato di democrazia classica”] non
abbia indotto significative correnti del pensiero pubblicistico a lamentare una
crisi delle stesse istituzioni rappresentative» (G. Ferrari, “Rappresentanza istituzionale” in Enciclopedia Giuridica Treccani, XXV, Roma 1991).
Nel
2000, il costituzionalista statunitense Bruce Ackerman non si limita a ripetere
le osservazioni critiche sulla rappresentanza politica ma, facendo (dopo e
sulle tracce di Hanna Arendt) un passo ulteriore nel senso del ritorno (seppure
sempre – apparentemente – inconsapevole) al costituzionalismo rousseauiano di
modello romano, propone di attribuire il potere legislativo al popolo dei
cittadini, lasciando al Parlamento soltanto il potere normativo proprio
dell’esecutivo. Ackerman ritiene che anche nel modello parlamentare, il
consenso elettorale al programma del partito, che vince – così – le elezioni,
postuli una sorta di mandato popolare vincolante alla realizzazione del
programma stesso, in vista del quale vengono forniti al Governo gli strumenti
di potere necessari. Tuttavia i meccanismi costituzionali non garantiscono la
correttezza di tale sequenza, con un vero e proprio «errore nel diritto
costituzionale» cui si deve ovviare con ciò che egli chiama il «parlamentarismo vincolato». Scrive
Ackerman: «piuttosto che dividere l’autorità legislativa tra Camera, Senato e
Presidente [con riferimento alla separazione dei poteri di tipo americano],
dovremmo cercare di dividerla tra il Parlamento ed il popolo, il primo
assumendo le decisioni governative di routine e quest’ultimo esprimendo la sua
volontà attraverso un processo attentamente costruito di referendum
consecutivi» (B. Ackerman, La nuova separazione dei poteri.
Presidenzialismo e sistemi democratici, Roma 2003, in part. 41 ss.; tr. it. del saggio apparso sulla
Harvard Law Rewiew nel 2000 e della
quale vedi la recensione di T.E. Frosini
in Diritto pubblico comparato ed europeo,
2, 2003. Ackerman è noto per un ampio trattato in tre volumi sul potere popolare
nella Costituzione degli Stati Uniti: We
the People. Foundations, Cambridge, Mass. 1991, We the People: Transformations, Cambridge, Mass. 1998 e We the People. The Civil Rights Revolution
(originariamente annunciato come We the
People: Interpretations), Cambridge Mass. 2014. Il saggio del 2000 è
considerato da Frosini una anteprima di questo terzo volume. Sui primi due vedi
Tania Groppi, “We the People: Transformations.
Considerazioni sul libro di Bruce Ackerman” in Politica del diritto, 2, 1999). Tra le
riflessioni del nuovo millennio sulla rappresentanza politica come problema,
occorre menzionare M. Luciani,
“Il paradigma della rappresentanza di fronte alla crisi del rappresentato” in
F. Biondi e N. Zanon, a cura di, Percorsi
e vicende attuali della rappresentanza e della responsabilità politica,
Milano 2001, 109 ss. e A. Mangia,
“La rappresentanza politica e la sua crisi. Un secolo dopo la prolusione pisana
di Santi Romano” in Diritto e Società,
3, 2012, 461 ss.
[26] «Je soutiens que toute constitution social
dont la représentation n’est pas l’essence est une fausse constitution» afferma
Sieyès, mentre viene scritta la prima Costituzione francese (“Note explicative,
en réponse” di Sieyès alla Lettre de M.
Thomas Paine à M. Emmanuel Syèyes [sic!],
Paris le 8 juillet 1791 in Supplément à
la Gazette nationale au Samedi 16 juillet 1791, ora in E. Sieyès, Oeuvres, Genéve, Paris, 1989, 3 voll. senza propria numerazione di
pagine, II).
La
posizione di Sieyès è perfettamente espressa – ad esempio – dal ‘combinato
disposto’ degli artt. 1 co. 2 e 67 della Costituzione italiana («Art. 1. […] La
sovranità appartiene al popolo, che la esercita nelle forme e nei limiti della
Costituzione.»; «Art. 67. Ogni membro del Parlamento rappresenta la Nazione ed
esercita le sue funzioni senza vincolo di mandato»).
[27] In Italia è esemplare il successo elettorale del
movimento politico denominato “5stelle”, sorto ‘dal nulla’ nel 2009 per
iniziativa di un “imprenditore del web” e di un “comico” e divenuto, oggi, la
prima forza politica italiana. La idea-guida di questo ‘Movimento’ è la critica
della “rappresentanza” e il progetto di attivazione della “democrazia” definita
“diretta”, “partecipativa” o anche “deliberativa”. A tale fine il Movimento fa
espresso riferimento alle dottrine rousseauiane e si è dotato di uno strumento
giuridico chiamato “Fondazione Rousseau” cui corrisponde uno strumento
informatico chiamato “Piattaforma Rousseau per la democrazia diretta”.
Peraltro,
il Movimento intercetta acutamente la domanda di democrazia ma si propone
troppo semplicisticamente di soddisfarla attraverso la informatica. Per un
esame non soddisfacente ma utile del “pensiero istituzionale” del Movimento,
vedi A. Floridia e R. Vignati, “Deliberativa, diretta o partecipativa? Le sfide del Movimento 5 stelle alla democrazia rappresentativa” in Quaderni di
sociologia, 65, 2014.
[28] La nozione di “Alternativlosigkeit” viene fatta risalire ad Hannah Arendt. O. Marchart, “Hannah Arendt. Die Welt und die Revolution” in
APuZ - Aus Politik und Zeitgeschichte,
2006 § “Die Alternative (Welt)” scrive «Seit
Margaret Thatchers Parole “There is no alternative” zum internationalen Slogan
der Neoliberalisierung wurde, herrscht eine Ideologie politischer
Alternativlosigkeit, die historisch ihresgleichen sucht. Es scheint, alle
Parteien hätten sich auf eine einzige hegemoniale Ideologie geeinigt, die
lautet: Die Zeit der politischen Neuanfänge ist vorbei. Die Zeit der
permanenten “Reformen” ist gekommen, während der Begriff der “Revolution”, der
für Arendt von zentraler Bedeutung war als Kennzeichen eines Neubeginns in der
Geschichte, völlig delegitimiert ist, bevor überhaupt verhandelt wurde, was er
denn sinnvoll noch heißen könne. Jede politische Veränderung, die über minimale
Adjustierungen des Status quo hinausgeht, wurde scheinbar denkunmöglich
gemacht. Jeder Neuanfang, der nicht die identische Reproduktion des Bestehenden
beinhaltet, ist in den Status der Utopie relegiert». Di Arendt, Marchart cita The Origins of Totalitarianism, New York 1951, 1a ed. tedesca Elemente und Ursprünge totaler
Herrschaft, Frankfurt/M 1955,
3 Bände: I. Antisemitismus,
II. Imperialismus, III. Totale Herrschaft. Arendt ha anche scritto un saggio “sulla rivoluzione” e il
diritto (On Revolution, New York 1963,
vedi, infra, 96).
Più
recentemente, riprendono la nozione arendtiana di “Alternativlosigkeit”: H. Münkler
- Th. Wagner - A. Widman,
“La démocratie parlementaire a-t-elle un avenir?” in Courier international ove sono ripresi testi apparsi in Der Spiegel, Hambourg, e in Der Freitag, Berlin, n. 1143
27/09-03/10/2012, 51 ss. (in
part. 53).
[29] «La démocratie par définition ne saurait
être représentative. Aucun système politique démocratique ne saurait légitimer la
représentation autrement que par le défaut d’un autre moyen technique de
réaliser la démocratie. [...] Pour les démocrates, le régime représentatif est
un mal rendu nécessaire par le très grand nombre de citoyens et la surface du
territoire [...] ; pour les autres, à l’abri derrière cette impossibilité
matérielle, la représentation est un bien rendu nécessaire par l’incompétence
du peuple» (Anne-Hélène Le Cornec
Ubertini, “La démocratie au risque de la représentation” in Archive
ouverte HAL [= http://archivesic.ccsd.cnrs.fr/sic 00142384] 2007).
Alla
considerazione di Le Cornec U. può essere allineata quella – tra il
cinico e lo sconsolato – di Gianfranco Miglio: «non è esagerato considerare l’idea astratta e
personalizzata dello ‘Stato’ come il capolavoro del pensiero politico
occidentale e, ad un tempo, la più sofisticata delle finzioni dietro cui da
sempre, gli uomini che compongono la classe politica sono costretti a celarsi
[…] La verità è che la politica è fatta – e non può non essere fatta – che di idee
astratte, cioè di fantasmi e di maschere» ("Genesi e trasformazioni del
termine-concetto ‘Stato’ " in Aa.Vv., Stato
e senso dello Stato oggi in Italia, Milano 1981, 81 s.).
[30] Di “blocage théorique” scrivono Jacques Lenoble e Marc Maesschalck (L’Action des normes, Eléments pour une
théorie de la gouvernance, Sherbrooke 2009, version française, enrichie
d’une nouvelle introduction et d’une préface, de l’ouvrage Towards a Theory
of governance, The Action of Norms, The Hague-London-New York 2003) «La
philosophie politique récente n’est pas restée prisonnière de cette approche
‘représentative’ de la démocratie. [...] L’idée émerge, tant dans les
transformations qui affectent la réalité de nos sociétés que dans la pensée
politique de la démocratie, d’un nécessaire renforcement des formes de participation des citoyens à l’exercice du pouvoir. Mais le terme reste souvent
vague. De plus, même là où l’analyse se fait plus fine, l’exigence que ce terme
dénote reste plus de l’ordre de la boîte noire que d’une opération
théoriquement construite. Ce défaut de construction théorique explique ce que
nous identifions comme un blocage»; cfr. Id., Democracy, Law and Governance, Padstow 2010.
[31] Pensando a B. Biondi, “La terminologia
romana come prima dogmatica giuridica” in Studi Arangio Ruiz, 2, Napoli 1953, 73 ss.
[33] L.M. Bassani,
“Gli avversari della Costituzione americana: “antifederalisti” o federalisti
autentici?”, introduzione a Id. e A. Giordano, a cura di, Gli
Antifederalisti. I nemici della centralizzazione in America (1787-1788),
Torino 2011, 45 (citando Christopher Duncan): «“il progetto federalista di
ricostruire l’America in forma di repubblica nazionale o commerciale” risultò
nella “riduzione della sovranità statale” [dei singoli Stati federati] a cui
corrispose una generale deresponsabilizzazione individuale dalla vita politica.
Private dell’elemento autenticamente partecipativo, la politica locale [il corsivo è nostro]», con la trasformazione degli Stati federati in «unità
amministrative del governo centrale le persone, gradualmente, ma
inesorabilmente, furono spinte nella privacy
delle loro case perché erano state svuotate di un ruolo pubblico in una vita
collettiva condivisa. La creazione dell’individuo deraciné, privo di legami comunitari, soggetto solo alla legge,
ossia la costruzione del materiale umano più adatto allo Stato moderno, va
anche in America di pari passo con il tentativo di creare un unico centro di
potere» (Ch.M. Duncan, The Antifederalists and Early American Political Thought, DeKalb
1995, 177 s.).
[34] C. Gadsden
Carrasco, Decentralization
from the local: action research on municipal governance in the Mexican
transition to democracy,
University of Essex 2011. Il saggio di
Gadsden tratta la questione definita, con vocabolario spagnolo, “agenda desde
lo local” (programma e metodologia sviluppati dalla Secretaría de Gobernación della Repubblica
federale del Messico attraverso l’Instituto Nacional para el Federalismo y el Desarrollo Municipal -
INAFED).
[35] F. Ruffini,
“La classificazione delle persone giuridiche in Sinibaldo dei Fieschi (Innocenzo
IV) ed in Federico Carlo di Savigny” in Scritti
in onore di Francesco Schupfer, Torino 1898, II, 313 ss. e quindi in Id., Scritti giuridici minori, II, Milano 1936, 5 ss. Circa, in
particolare la derivazione diretta o meno della dottrina di Savigny della
“finzione” da quella di Innocenzo IV: Ha.
Hofmann, Rappresentanza-rappresentazione, ed. it. cit., § “La dottrina della persona repraesentata” 153 ss. (con la
indicazione della bibliografia precedente). Cfr., infra, nt. 42.
Per una riflessione
filosofica sul «percorso teoretico che, partendo dal fatto della pluralità
sociale, giunga a delineare strumenti concettuali e istituzionali
funzionalmente unificanti» e quindi sulla predisposizione dell’«apparato
istituzionale idoneo», vedi A. LO GIUDICE, Il soggetto plurale. Regolazione
sociale e mediazione simbolica, Milano 2006, in part. 173 ss. (cfr., ibidem,
25 ss. sul «concetto di persona ficta»).
[36] Ciò che occorre, ad es., con le
corrispondenti “voci” delle enciclopedie giuridiche ma non soltanto.
Imposta
invece la propria riflessione sul “binomio” G. Lobrano, “La
alternativa attuale tra i binomi istituzionali: “persona giuridica e
rappresentanza” e “società e articolazione dell’iter di formazione della volontà”. Una ìpo-tesi (mendeleeviana)”
in Diritto@Storia, n. 10, 2011-2012
< http://www.dirittoestoria.it/10/D&Innovazione/Lobrano-Persona-giuridica-rappresentanza-societa-formazione-volonta.htm >.
[39] Nel discorso hobbesiano, la definizione del
Leviathan come Dio è al centro della sua costruzione “rappresentativa” del
‘binomio’ concezione e regime unitario della pluralità di uomini (Th. Hobbes, Leviathan, II. XVII, citato infra, ntt. 49 s).
[40] La esposizione hegeliana, di ‘ciò che lo
Stato è’, è una sorta di inno biblico: «Der
Staat an und für sich ist das sittliche Ganze, die Verwirklichung der Freiheit,
und es ist absoluter Zweck der Vernunft, daß die Freiheit wirklich sei. Der
Staat ist der Geist, der in der Welt steht und sich in derselben mit Bewußtsein
realisiert, während er sich in der Natur nur als das Andere seiner, als
schlafender Geist verwirklicht. Nur als im Bewußtsein vorhanden, sich selbst
als existierender Gegenstand wissend, ist er der Staat. Bei der Freiheit muß
man nicht von der Einzelheit, vom einzelnen Selbstbewußtsein ausgehen, sondern
nur vom Wesen des Selbstbewußtseins, denn der Mensch mag es wissen oder nicht,
dies Wesen realisiert sich als selbständige Gewalt, in der die einzelnen
Individuen nur Momente sind: es ist der Gang Gottes in der Welt, daß der Staat
ist, sein Grund ist die Gewalt der sich als Wille verwirklichenden Vernunft.
Bei der Idee des Staats muß man nicht besondere Staaten vor Augen haben, nicht
besondere Institutionen, man muß vielmehr die Idee, diesen wirklichen Gott, für
sich betrachten. Jeder Staat, man mag ihn auch nach den Grundsätzen, die man
hat, für schlecht erklären, man mag diese oder jene Mangelhaftigkeit daran
erkennen, hat immer, wenn er namentlich zu den ausgebildeten unserer Zeit
gehört, die wesentlichen Momente seiner Existenz in sich. Weil es aber leichter
ist, Mängel aufzufinden, als das Affirmative zu begreifen, verfällt man leicht
in den Fehler, über einzelne Seiten den inwendigen Organismus des Staates
selbst zu vergessen. Der Staat ist kein Kunstwerk, er steht in der Welt, somit
in der Sphäre der Willkür, des Zufalls und des Irrtums; übles Benehmen kann ihn
nach vielen Seiten defigurieren. Aber der häßlichste Mensch, der Verbrecher,
ein Kranker und Krüppel ist immer noch ein lebender Mensch; das Affirmative,
das Leben, besteht trotz des Mangels, und um dieses Affirmative ist es hier zu
tun.» (G.W.F. Hegel, Grundlinien
der Philosophie des Rechts,
Berlin 1820, Dritter Teil. “Die Sittlichkeit”, Dritter Abschnitt. “Der Staat”,
§ 258).
Cfr.
G. Lobrano, “Qualche idea, dal punto di vista del
diritto romano, su origine e prospettive del principio di laicità” in Diritto@Storia, 10, 2011-2012 < http://www.dirittoestoria.it/10/memorie/Lobrano-Diritto-romano-principio-laicita.htm >.
[41] Sulla rilevanza della “volontà divina”
nell’ordinamento canonico (ovviamente richiamata dalla Costituzione dogmatica sulla Chiesa “Lumen Gentium”, 1964, § 41) rinviamo – a titolo di esempio – a E. Corecco,
L. Gerosa, Il diritto della Chiesa, Milano 1995, 21; G. Barberini,
M. Canonico, Elementi
essenziali dell’ordinamento canonico, Torino 2013, 110; G. Ghirlanda SJ, Il diritto
nella Chiesa mistero di comunione: Compendio di diritto ecclesiale, 6a ed., Roma
2015, 53; 349.
[42] Sinibaldus Fliscus (Innocentius IV), Super libros quinque Decretalium commentaria,
Francofurti ad Monenum, 1570, in c. 57 X.2,2.
Nel
passo intero («hodie licitum est omnibus
collegiis per alium iurare, et hoc ideo, quia cum collegium in causa
universitatis fingatur una persona, dignum est, quod per unum iurent, licet per
se iurare possint, si velint») appare una resipiscenza che il tempo (e i
giuristi) penseranno a cancellare. Si tratta della idea della non-necessità da
parte dei membri del collegio di iurare
per unum, potendo essi iurare per se, si velint.
Sul
ruolo di Sinibaldo dei Fieschi, nella emersione della categoria “persona ficta vel/et repraesentata”, vedi in particolare R. Feenstra, “L’histoire des fondations” in Tijdschrift voor Rechtsgeschiednis, 24, 1956, 381 ss. seguita dai
più (vedi, ad es. A. Campitelli,
“«Cum collegium in causa universitatis
fingatur una persona». Riflessioni sul commento di Sinibaldo dei Fieschi
(c. praesertim, de testibus et attestationibus, 57, X 2, 20)” in Apollinaris, 63, 1990, 125 ss.
A
Feenstra fa riferimento anche F. Todescan,
“Dalla persona ficta alla persona moralis” in QF, 11/12, 1982/83, 59 ss., il quale, 62 s., osserva il salto
operato nella materia dal “canonista” rispetto al Diritto romano: «[Sinibaldo
dei Fieschi] piuttosto che riprendere gli spunti offerti dal Corpus giustinianeo, aveva rinvenuto la
matrice della nuova dottrina nel rigoglioso humus
ecclesiologico. Era la visione “organicistica” paolina della Chiesa concepita
come corpus mysticum, realtà viva non
risolventesi nella puntuale singolarità dei proprî componenti, che aveva
animato il suo pensiero spingendolo a plasmare una costruzione dogmatica dell’universitas quale “persona”». Della specificità ecclesiale, che si
manifesta nella opera di Innocenzo IV, quella di regime volitivo appare, però,
a noi almeno altrettanto importante che quella di concezione della comunità.
Sul
rapporto tra Diritto romano e Diritto canonico, vedi inoltre: A. Ambrosini,
Disposizioni di ultima volontà fiduciarie
nel diritto germanico, canonico e comune, Roma 1917, 109-113, circa
la “importanza essenziale” del diritto romano come “fonte del diritto
canonico”; P. Choi In-Gag, Vicario
episcopale e vicario foraneo, Roma 2003, 22, circa la «adozione
[ecclesiale] della terminologia legale e amministrativa dall’Impero romano»; T.L.
Rizzo, Il
pensiero giuridico dal mondo classico al nuovo mondo, Roma 2008, 39 s., circa le «influenze del
diritto romano» sul diritto canonico; M. Schmoeckel,
“Die Entwicklung der juristischen ‘Stellvertretung’ im Kontext theologischer
und juristischer Begrifflichten” in O.
Condorelli, F. Roumy, M. Schmoeckel, herausgegeben von, Der
Einfluss der Kanonistik auf die europäische Rechtskultur, Bd. 1: Zivil- und
Zivilprozessrecht, Köln - Weimar - Wien 2009, 107 ss. in part. 120 ss. § 5 “repraesentatio”;
O. Descamps, “L’influence du droit
canonique mèdiéval sur la formation d’un droit de la responsabilité” ibidem 137 ss. in part. 149 a proposito di Sinibaldo
dei Fieschi.
[43] N. Aroney, “Subsidiarity,
Federalism and the Best Constitution: Thomas Aquinas on City, Province and
Empire” in Law and Philosophy, 26, 2007, 161-228; cfr.
L. Gaeta,
“Sussidiarietà e sicurezza sociale” in Aa.Vv., Studi in onore di Remo Martini, 2,
Milano 2009, 122 (ove si osserva l’uso tomistico della nozione di “subsidium” «per perseguire il bene
comune).
Sul
nesso tra la dottrina tomistica e quella aristotelica:, vedi J. Berchmans V.d.G., “El tejido social y
su contextura” in Anales de la Fundación
Francisco Elías de Tejada, 6, 2000, 103-165, in part. 159: «por el Estagirita y el Aquinatense [...] el Estado
no es una comunidad de individuos, sino una sociedad de sociedades».
[44] J.M. BLANCH NOUGUÉS, Régimen
jurídico de las fundaciones en derecho romano, Madrid 2007, 53 s. nt. 118
«Jacques de Revigny [...] en su comentario al Digestum vetus y en lo que se refiere a la ley sicut municipium “habla netamente de una persona repraesentata y cita a su maestro Jean de Monchy”» (Blanch
Nougués rinvia a R. FEENSTRA, “Le concept de fondation du droit romain
classique jusqu’à nos jours: théorie et pratique” in R.I.D.A., 3, 1956, 245
ss., in part. 260); cfr. similarmente M. CARAVALE, Diritto senza legge. Lezioni di diritto comune, Torino 2013, 83.
[47] Fa eccezione, ad es., il Bundesrat tedesco,
per il quale – però – si discute se possa correttamente inscriversi nella
categoria parlamentare. Il Tribunale costituzionale tedesco (Bundesverfassungsgericht)
è intervenuto nel 1984 con una sentenza per la quale «Secondo il dettato costituzionale il Bundesrat non è la seconda Camera
di un organo legislativo unitario, che prende parte in modo paritetico con la
“prima Camera” al procedimento legislativo» (BVerfGE 37, 363).
[48] E anti-imperiale. Vedi, ad es., S. Panizza, “Lo Stato e gli altri ordinamenti
giuridici” in R. Romboli, a cura
di, Manuale di diritto costituzionale
italiano ed europeo, I. Lo Stato e
gli altri ordinamenti giuridici, i principi fondamentali e le istituzioni
politiche, 2a ed., Torino 2015, 1 ss., in part. 6 «quei trattati […]
sancirono la sconfitta delle aspirazioni imperiali e la nascita di un nuovo
ordine internazionale. Gli Stati formatisi in virtù di quegli accordi tendono
ad affermarsi come una forma organizzativa del potere originaria […] e sovrana,
in grado di legittimarsi in virtù della semplice esistenza e della capacità
effettiva di porre le regole di governo di un corpo sociale in un dato
territorio. In sintesi sovranità popolo e territorio …»; cfr. Henry KISSINGER, World
Order: Reflections on the Character of Nations and the Course of History,
New York 2014, § 1.3 “The Operation oft the Westphalian System” (tr. sp. di
Teresa Arijón, Orden mundial: Reflexiones
sobre el carácter de las naciones y el curso de la historia, Barcelona
2016, «la paz de Westfalia impuso un mundo hobbesiano»).
[49] Leviathan, I.16 «Une multitude d’hommes devient une seule personne quand ces
hommes sont représentés par un seul homme, ou une seule personne, de telle
sorte que ce soit fait avec le consentement de chaque homme de cette multitude
en particulier [“with the consent of every one of that multitude in particular”] Car c’est l’unité du
représentant, non l’unité du représenté qui fait une la personne,
et c’est le représentant qui tient le rôle [“bear”] de la personne, et il ne
tient le rôle que d’une seule personne. L’unité dans une multitude ne
peut pas être comprise autrement». La traduzione francese, da cui citiamo, è quella di
Philippe Folliot, per la ed. elettr. del Leviathan,
fatta dalla UQAC - Université du Québec à Chicoutimi.
[50] Leviathan, II.17 «La seule façon d’ériger un tel pouvoir commun, qui puisse être
capable de défendre les hommes de l’invasion des étrangers, et des torts qu’ils
peuvent se faire les uns aux autres, et par là assurer leur sécurité de telle
sorte que, par leur propre industrie et par les fruits de la terre, ils
puissent se nourrir et vivre satisfaits, est de rassembler tout leur pouvoir et
toute leur force sur un seul homme, ou sur une seule assemblée d’hommes, qui
puisse réduire toutes leurs volontés, à la majorité des voix, à une seule
volonté; autant dire, désigner un homme, ou une assemblée d’hommes, pour tenir
le rôle de leur personne [“to bear their person”]; et que chacun reconnaisse
comme sien (qu’il reconnaisse être l’auteur de tout ce que celui qui ainsi
tient le rôle de sa personne fera, ou fera faire, dans ces choses qui
concernent la paix et la sécurité communes; que tous, en cela, soumettent leurs
volontés d’individu à sa volonté, et leurs jugements à son jugement. C’est plus
que consentir ou s’accorder: c’est une unité réelle de tous en une seule et
même personne, réalisée par une convention de chacun avec chacun, de telle
manière que c’est comme si chacun devait dire à chacun : J’autorise cet
homme, ou cette assemblée d’hommes, j’abandonne mon droit de me gouverner à cet homme,
ou à cette assemblée, à cette condition que tu lui abandonnes ton droit, et
autorise toutes ses actions de la même manière. Cela fait, la multitude ainsi
unie en une seule personne est appelée une RÉPUBLIQUE, en latin CIVITAS. C’est
là la génération de ce grand LÉVIATHAN, ou plutôt, pour parler avec plus de
déférence, de ce dieu mortel à qui nous devons, sous le Dieu immortel, notre
paix et notre protection. Car, par cette autorité, qui lui est donnée par
chaque particulier de la République, il a l’usage d’un si grand pouvoir et
d’une si grande force rassemblés en lui que, par la terreur qu’ils inspirent,
il est à même de façonner les volontés de tous, pour la paix à l’intérieur, et
l’aide mutuelle contre les ennemis à l’extérieur. Et en lui réside l’essence de
la République qui, pour la définir, est : une personne unique, en tant que
ses actes sont les actes dont les individus d’une grande multitude, par des
conventions mutuelles passées l’un avec l’autre, se sont faits chacun l’auteur,
afin qu’elle puisse user de la force et des moyens de tous comme elle le jugera
utile pour leur paix et leur commune protection. Et celui qui a cette
personne en dépôt [“And he that carryeth this person”] est appelé SOUVERAIN, et est
dit avoir le pouvoir souverain.»
[51] Così afferma uno specialista della
rappresentanza e, quindi, di Hobbes (ovvero vice-versa): «au théâtre, l’auteur
n’existe que par le truchement de l’acteur; il en va de même dans le domaine
politique, à ceci près qu’ici l’auteur véritable (le peuple) n’a pas
d’existence hors du jeu de l’acteur souverain: “C’est l’unité de celui qui
représente, non l’unité du représenté qui rend une la personne […]. Parce que
la multitude, par nature, n’est pas une, mais multiple, on ne doit pas y voir
un seul auteur, mais bien de multiples auteurs de tout ce que leur représentant
dit ou fait en leur nom” (Léviathan,
chap. XVI, 166)». L. Jaume,
“Peuple” in Ph. Raynaud, S. Rials, dir. s, Dictionnaire
constitutionnel, Paris 1996, Quadrige, 2003, 543. Dello stesso autore si
può anche vedere “Hobbes ou l’Etat représentatif” in L.-L. Grateloup, dir., Les
philosophes de Platon à Sartre, Paris 1985, 157-168 quindi Livre de Poche,
1996, 2 vol.; Id., Hobbes et
l’Etat représentatif moderne, Paris 1986, 236 pp.; Id., “Représentation et factions: de la théorie de Hobbes à
l’expérience de la Révolution française” in Revue d’histoire des facultés de
droit et de la science juridique, 8, 1989, 269-293; quindi rivisto e
ripubblicato in J.-P. Cotten, R. Damien et A. Tosel, dir.s, La
représentation et ses crises, Besançon 2001, 207-240; Id., “Le vocabulaire de la
représentation politique de Hobbes à Kant” in Y.-C. Zarka, dir., Hobbes
et son vocabulaire, Paris 1992, 231-257;
Id., “Autour de Hobbes: représentation et fiction” in Droits,
21, 1995, 95-103; Id.,
“Représentation” in P. Raynaud et S. Rials, dir.s, Dictionnaire de
philosophie politique, Paris 1996, 559-564; Id., “Hobbes and the Philosophical Sources of Liberalism” in
Patricia Springborg, ed., The Cambridge Companion to Hobbes’s Leviathan, Cambridge 2007,
199-216; Id., “La Représentation:
une fiction malmenée” in Pouvoirs, 120, 2007, 5-16). Cfr., nello stesso senso, G. Duso, “Ripensare la rappresentanza alla luce della teologia politica”
in QF - Quaderni Fiorentini per la storia del pensiero politico, 41, 2012,
9 ss. in part. 15-17 (Duso prende le mosse del proprio contributo dalla
trattazione di Ha. Hofmann, Rappresentanza-rappresentazione, cit.
[52] J-M. Ferry,
Histoire de la pensée politique. Syllabus
de complément (testo del corso omonimo presso l’UFR de Droit della
Université de Nantes, senza data ma non prima del 2003, consultabile ‘on line’,
28). Cfr., per la bibliografia, Anna Di Bello, Sovranità e rappresentanza la dottrina dello Stato in Thomas Hobbes, Napoli 2010, in part. Cap. III. “Il
grande Leviatano, lo Stato come unione e
rappresentanza: caratteristiche, prerogative e funzioni della sovranità
hobbesiana”, § 4 “Il Leviatano:
l’autorizzazione, la persona artificiale, la rappresentanza”.
Cfr. Ha. Hofmann, op. cit.,
ed. it., 5.
[53] F.C. v.
Savigny, Vom Beruf unserer
Zeit für Gesetzgebung und Rechtswissenschaft, Heidelberg 1814.
[54] R. v.
Jhering, “Unsere Aufgabe” in Jahrbücher für die Dogmatik des heutigen
römischen und deutschen Privatrechts, Bd. 1, 1857, 1-52.
[56] F.C. v. Savigny:
System des heutigen römischen Rechts,
(8 Bde., Berlin 1840-49; cfr. R.
Zimmermann, “Heutiges Recht, Römisches
Recht und heutiges Römisches Recht: Die Geschichte einer Emanzipation durch” in
R. Zimmermann, R. Knütel, & J.P. Meinecke, Hrsg., Rechtsgeschichte und
Privatrechtsdogmatik, Heidelberg 2000, 1-39.
Peraltro, è al collega-discepolo di Savigny, Georg Arnold
Heise, che pare si debba (nei Grundrisse
eines Systems des allgemeinen Civilrechts zum Beruf von Pandekten-Vorlesungen
del 1807) il neologismo “juristische Person” (Buch I, Kap. IV unter III un N. 15 [vedi. Flume, 1983; Gliozzi, 1996;
Ulrike Köbler 2010 etc.])
Vedi, però, Ho-Young
Song, Die Verselbständigung der
juristischen Person im deutschen und koreanischen Recht [Schriften zum
Internationalen Privatrecht und zur Rechtsvergleichung, Band 5, Herausgegeben
im Institut für Internationales Privatrecht und Rechtsvergleichung der
Universität Osnabrück, von Christian v. Bar], Osnabrück, Universitätsverlag Rasch, 1999, 25: «Den Terminus “Juristische Person” kann man
zuerst bei dem im Jahre 1789 erschienenen Naturrechtslehrbuch von Gustav Hugo
[nt. 13: Gustav HUGO, Lehrbuch des Naturrechts als einer Philosophie des
positiven Rechts, Berlin 1798, S. 445] finden [nt. 14: Das ist eine einhellige
Meinung. Vgl. GIERKE, Deutsches Privatrecht I, S. 469, Fn. 2; SCHNIZER,
Festschrift für Walter WILBURG 1965, S. 143, 165; FLUME, Juristische Person, S.
1; COING, Europäisches Privatrecht, Bd. II, S. 338]. Aber er verwendete ihn
noch für die Körperschaft [nt. 15: COING, Europäisches Privatrecht, Bd. II, S.
338]. Der Begriff »Juristische Person« im Sinne von einem Gegenstand, mit dem
sich die deutsche Rechtswissenschaft im 19. Jahrhundert tiefgehend befaßte,
wurde zuerst im Jahre 1807 in dem “Grundriß eines Systems des gemeinen
Zivilrechts” von Georg Arnold Heise verwendet. Unter den Begriff “Juristische
Person” faßte er neben der Körperschaft auch Anstalten und selbständige
Stiftungen zusammen. Seine Lehre hat sich schnell durchgesetzt und liegt auch
der einflußreichen Darstellung von Savigny im zweiten Band seines Systems
zugrunde [nt. 16: COING,
Europäisches Privatrecht, Bd. II, S. 338]».
R. Szubert,
“Ein Beitrag zur Metapher in der Rechtssprache. Am Beispiel „Juristische
Person”” in ZVPG - Zeitschrift des
Verbandes Polnischer Germanisten, 4 (2015), 2. 146 «Dass das Problem der
juristischen Person nicht einen einzelnen Terminus betrifft, sondern sich auf
das ganze juristische terminologische System bezieht, in dem dieser Ausdruck
Anwendung findet, zeigt Savigny, der als erster Wissenschaftler das Problem der
juristischen Person richtig aufstellte.»
Si
può qui osservare che la critica, diretta a Savigny e alla sua teoria della
persona giuridica come “finzione” da parte dei sostenitori della teoria della
persona giuridica come realtà (“teoria organica”), resta legata sia al
postulato della astrazione per la conquista della unità (cfr., infra, nt. 71) sia alla conclusione del
ruolo determinante del “rappresentante”. Così,
esemplarmente, O. Gierke, Das Wesen der menschlichen Verbände [Rede
bei Antritt des Rektorats, am 15. October 1902] Berlin 1902, in part. 9, dove
invoca «die Kraft der
Abstraktion, um in der Rechtsstellung der Menschen das von einander zu sondern,
was sein Zentrum in seinem Einzeldasein hat und was auf ein Zentrum im
Gemeinleben hinweist.» e 19, dove afferma
che «Überall aber, wo
wir Leben setzen, finden wir einen Träger des Lebens, der eigenthümliche
Merkmale aufweist. […] So bilden wir einen Begriff des Lebensträgers und
gebrauchen dafür die auf die eigenartige Struktur der belebten Ganzen
hinweisende Bezeichnung „Organismus”. Dieser Begriff ist genau so gut
wissenschaftlich verwendbar, wie jeder andere Begriff, der durch richtige
Abstraktion von erkannten Thatbeständen gewonnen ist und somit einen
Wirklichkeitsinhalt zutreffende ausdrückt.» Gierke ha il merito della ‘riscoperta’ di Althusius ma anche in questa operazione non riesce a
staccarsi dal binomio persona giuridica e rappresentanza: «Sobald man das Volk
im Sinne des organischen Volksganzen nimmt, das im Staat Person wird, geht der
Begriff der Volkssouveränetät in den Begriff der Staatssouveränetät über.» (Id., Johannes Althusius und die Entwicklung der naturrechtlichen
Staatstheorien, Breslau 1880, 132).
[57] Dritter Band, Zweytes Buch “Die Rechtsverhältniſſe”, Berlin 1840,
Drittes Kapitel “Von der Entſtehung und dem Untergang der Rechtsverhältniſſe”,
§ 113 “Freye Handlungen - Erweiterung durch Stellvertretung”. Savigny che nel § 112 (“Vernunftlose. Interdicierte.
Iuristische Personen”) assimila le “persone giuridiche” (in quanto “bloße
Fiction”) ai pazzi e agli interdetti nel § 113 assimila la “rappresentanza”
delle “persone giuridiche” a quella dei “pazzi” e degli “interdetti”.
[58] La “Bürgertum” o “Bourgeoisie”, su cui
soffermano la propria attenzione Karl Marx e Friedrich Engels nel saggio sulla
“ideologia tedesca”, Die deutsche
Ideologie, scritto parzialmente in parallelo con il trattato di Savigny, ma
pubblicato – postumo – soltanto nel 1932, in quanto – secondo lo stesso Marx –
il suo scopo sarebbe stato essenzialmente quello di consentire ai suoi autori di
auto-comprendersi (“Selbstverständigung”); cfr. D. Fusaro, “L’Ideologia
tedesca tra critica della spettralità e fondazione della scienza
filosofica” saggio introduttivo a K. Marx - F. Engels, Ideologia tedesca, testo ted. e tr. it., Milano 2011, 19 ss.
[60] «Das Wort iussus
hat hier den technischen Sinn, welcher in § 412 Note 8 bezeichnet worden ist;
es bedeutet nicht Befehl, sondern Verweisung, Anweisung. Indem man diese
technische Bedeutung von iussus
verkannte und zu gleicher Zeit in’s Auge faβte, daβ die actio quod iussu auf den Fall berechnet
ist, wo Jemand durch gewaltunterworfene Personen verpflichtet werden will (Note
10), hat man die Behauptung aufgestellt, daβ der iussus an den Gewaltunterworfenen gerichtet werden müsse, oder
doch, daβ dieβ der Normalfall der actio
quod iussu sei» B. Windscheid,
Lehrbuch des Pandektenrechts,
Frankfurt a. M. 1862-70; sechste verbesserte und vermehrte Auflage, zweiter
Band, Frankfurth a. M. 1887 [ http://dlib-pr.mpier.mpg.de/m/kleioc/0010/exec/books/%22214200%22 ] 859 nt. 6. Si noti che la novità della negazione della
natura di comando allo “iussus”
(almeno nella materia delle actiones a. q.)
è già posta da Windscheid nella prima edizione del libro IV del proprio Lehrbuch (Das Recht der Forderungen) la quale è del 1866.
Sulla
attribuzione a Windscheid della stessa teoria della “rappresentanza”
(“Repräsentationstheorie”) mentre Savigny sarebbe restato alla teoria del dominus negotii
(“Geschäftsherrntheorie”) vedi ancora, supra,
nt. 13.
[61] P. Laband,
“Die Stellvertretung bei dem Abschluβ von Rechtsgeschäften nach dem Allgemeinen deutschen
Handelsgesetzbuch” in ZHR - Zeitschrift für Handelsrecht, 10, 1866,
183 ss. (sul cui contributo allo stato della
questione si sofferma – ad es. – J.L. Halpérin,
“Mandato e rappresentanza. Dalle figure romane alle problematiche moderne
dell’età della codificazione” in A. Padoa
Schioppa, a cura di, Agire per
altri. La rappresentanza negoziale processuale e amministrativa nella
prospettiva storica, cit., 648 «Laband propone di porre fine alla
confusione tra mandato e rappresentanza […] attacca i teorici di diritto comune
tedeschi legati alla nozione di rappresentanza imperfetta ed al diritto romano
[… e rompe] doppiamente con la tradizione romanistica [… facendo] trionfare la
rappresentanza perfetta e [… riducendo] il ruolo del mandato nell’agire per
conto di altri».
Il testo
giustinianeo più ‘forte’ è il ben noto incipit
del titolo 3.3 del Digesto, “De
procuratoribus et defensoribus”: Ulp. D. 3.3.1 pr. Procurator
est qui aliena negotia mandatu domini administrat, cui si allinea Ulp. D. 46.3.12 pr. Vero procuratori recte solvitur. Verum
autem accipere debemus eum, cui mandatum est vel specialiter vel cui omnium
negotiorum administratio mandata est. Sulla “classicità” di questi testi (e degli altri concernenti la
dicotomia verus - falsus procurator) c’è molta dottrina,
per la quale, tra gli scritti recenti, vedi Maria Miceli, “Institor e
procurator nelle fonti romane
dell’età preclassica e classica” in IURA,
53, 2002, 121; Ead., Studi sulla «rappresentanza» nel diritto
romano, I, Milano 2008, 192 nt. 172 e 228 nt. 31; Giovanna Coppola Bisazza, Dallo iussum domini alla
contemplatio domini. Contributo allo
studio della storia della Rappresentanza, cit., 249 nt. 340. A. Milazzo, Falsus procurator. Ricerche sull’evoluzione del concetto di
falso rappresentante, Bari 2012. Sulla origine e sui guasti della
‘Interpolationenjagd’, vedi da ultimo G. Santucci,
“«Decifrando scritti che non hanno nessun potere». La crisi della romanistica
fra le due guerre” in I. Birocchi
e M. Brutti, Storia del diritto e identità disciplinari: tradizioni e prospettive,
Torino 2016, 63 ss. in part. 88 ss (a proposito dell’apporto di Salvatore
Riccobono) e 92 ss. (a proposito dell’apporto di Emilio Betti, il quale, nel
1930, raccomandava di «sentire il diritto come problema» ma, a questo fine,
aveva scelto la strada della “casistica”: Esercitazioni
romanistiche su casi pratici, I, Padova 1930).
[62] Ha. Hofmann, Rappresentanza - Rappresentazione, cit.,
172 s. «Savigny […] negando la differenza di fondo fra le figure del legato e del
rappresentante, dovette di conseguenza riferire anche a quest’ultimo (con tutte
le implicazioni giuridiche) gli attributi che, per tradizione erano riservati
al primo, mercé l’idea del suo carattere di organo e di strumento [nt. 129: «System des heutigen römischen Rechts,
Berlin 1840, 94 ss. …»]».
[63] Vedi, ancora recentemente, A. Wacke, “Alle origini della
rappresentanza diretta: le azioni adiettizie” in Nozione, formazione e
interpretazione del diritto dall’età romana alle esperienze moderne. Ricerche dedicate
al professor Filippo Gallo, II, Napoli 1997.
[64] Per approfondire il percorso
logico-scientifico di Laband, vedi R. Cardilli,
“I Decemviri legibus scribundis come
‘poteri costituenti straordinari’ in Theodor Mommsen” in Fides humanitas ius. Studii in onore di Luigi Labruna, Napoli
2007, 756 s.
[65] È talvolta esplicitata ed è sempre implicita la idea che
la nozione matura della rappresentanza «coincide […] con un grado di
raffinatezza dogmatica non ancora accessibile ai Romani» (Ha. Hofmann, Rappresentanza-rappresentazione, cit., 174 nt. 135 ove rinvia a Puchta, 1856; Laband, 1866;
Unger, 1871; Mitteis, 1885 [Ludwig Mitteis, Die Lehre von der Stellvertretung nach
römischem Recht mit Berücksichtigung des österreichischen, Wien 1885,
10 s. il quale arriva a spiegare con l’ «Egoismus» dei Romani, la loro
incapacità «die christliche Tugend der Nächstenliebe zu einem Rechtsprinzip
erhoben, welches sich in der Zulassung der directen Stellvertretung und der
Verträge zu Gunsten Dritter äuβere», 52]; Schlossmann, 1900-02 [Sigmund Schlossmann, Die Lehre
von der Stellvertretung
insbesondere bei obligatorischen Verträgen, 2 voll., Leipzig 1900-02] e
altri.
Questa
idea è presente anche negli studi recenti; vedi, ad es., quelli di J. Hernanz Pilar, El iussum en las relaciones
potestativas, Valladolid 1993 (il quale inizia ponendo la nozione romana di
iussum alla base della «idea de
representación») e di Maria Miceli, Studi sulla rappresentanza nel diritto
romano, cit. (il quale si conclude con il paragrafo “Contributo del
diritto romano alla costruzione del «modernes Rechts der Stellvertretung»).
Merita notare che – correttamente – entrambi i lavori si concentrano sui negozi
sottesi alla actiones adiecticiae
qualitatis. Recensendo il saggio di Hernanz, Alberto Burdese, sulle orme
dell’autore spagnolo, descrive lo iussum
«come istituto che affonda le sue radici nel ius civile e si manifesta inizialmente nell’ambito dei rapporti tra
pater familias e soggetti alla di lui
potestà salvo estendersi progressivamente al procurator e ad altre persone libere da quella potestà, senza che
ne risulti alterata la sua nozione quale si delinea nel primitivo contesto
privatistico cui si limita la presente trattazione, che prescinde […] dalla
considerazione del iussum […]
operante in ambiti pubblicistici o religiosi»; in definitiva: «un surrogato
della rappresentanza diretta» (in Seminarios
Complutenses de derecho romano, suppl. 1992-93, pubbl. nel 1994, 76 ss.;
quindi in Id. Recensioni e commenti. II, Padova 2009,
154 ss.)
[66] «populus ist der
Staat» Th. Mommsen, Römisches
Staatsrecht, 2a ed., Leipzig 1887, III.I, 3; «das römische Staatsrecht […]
wie alles Recht den Staat voraussetzt» Id.,
Abriss des römischen Staatsrechts,
Leipzig 1893, 3.
[67] «Handlung der Gemeinde ist eine jede, welche […] von dem
Vertreter [Magistrat] vollzogen wird» Th. Mommsen,
Abriss des römischen Staatsrechts,
II.1, Leipzig 1893, 82 «Die Magistratur, die Verkörperung des Staatsbegriffs
und die Trägerin der Staatsgewalt kann hie[r]nach nicht gefasst werden als
rechtlich beruhend auf dem Gesammtwillen der Bürgerschaft, da dieser ja für
sich allein überhaupt nicht wirksam werden kann; vielmehr ist nach der
römischen Auffassung die römische Magistratur älter als die Volksgemeinde,
welche sie erst erschafft, und das Mandat, ohne welches allerdings eine
Vertretung überall nicht gedacht werden kann, geht von dem Vormann an den
Nachfolger, welche bei dem Zwischenkönigthum näher zu erörternde Ordnung sich
bis zum Eintritt des Principats auch tatsächlich ununterbrochen behauptet hat.
Nach der früh hinzutretenden Bindung des Vormanns in der Ernennung des
Nachfolgers durch die vorherige Befragung der Comitien wirken die Magistratur
und die Comitien bei dieser Vollmachtsertheilung zusammen, und diese Auffassung
der Magistratur und der Comitien als gleichmassig selbständiger Träger des
Gemeindewillens beherrscht das Staatsrecht der Republik; erst in der späteren
Epoche derselben werden die Comitien mehr und mehr, wenngleich nie vollständig
als die eigentliche Vertretung der Gemeinde betrachtet und wird die
magistratische Mitwirkung bei der Willensfindung derselben nicht mehr als
Vereinbarung, sondern als Geschäftsleitung aufgefasst».
La
costruzione mommseniana trova, peraltro, il proprio precedente in quella di J. Rubino, Untersuchungen über römische Verfassung und Geschichte. Erster
Theil. Ueber
den Entwickelungsgang der römischen Verfassung bis zum Höhepunkte der Republik,
Cassel 1839. Circa la influenza di Rubino su Mommsen: A.
Heuss, Theodor Mommsen und das 19. Jahrhundert, Kiel 1956, 22 ss. e 42; P. Catalano, Populus Romanus Quirites, cit., 42 s.
[68] La categoria/istituzione, la quale è
trasformata nella- ovvero cui subentra la juristische Person, è la “sociétè”
(cfr., infra, § II.2.b).
[69] Le parole con le quali lo studioso del
diritto commerciale Gastone Cottino
(“Dal ‘vecchio’ al ‘nuovo’ diritto azionario”, cit.) commenta la recente
‘recezione’ italiana (D.L. n. 6 del 17/01/2003) della normativa tedesca del ’37
appaiono tolte da un vocabolario di diritto costituzionale (vedi, supra, nt. 22).
[70] Nonostante qualche encomiabile tentativo di
cambiare rotta. È noto il richiamo di Paul Koschaker (Europa und das
römische Recht, Berlin 1947, 3a ed. München und
Berlin 1958, 352 «Die juristischen Disziplinen haben ihre eigenen Gesetze, und
eines dieser Gesetze ist daß sie alle mehr oder weniger auf die Gegenwart
orientiert sind» (cfr. Id., Die
Krise des römischen Rechts und die romanistische Rechtswissenschaft,
München 1938).
Per
gli argomenti della opposta posizione, vedi, ad es., A. Guarino, “L’Europa e il diritto romano”, in Labeo, 1, 1955, 207 ss.; Id.,
“L’esperienza di Roma nello studio del diritto” in Diritto e Giurisprudenza, 70, 1955, 273
ss. e quindi in Id., Pagine di Diritto Romano, I, Napoli
1993, 109 ss.
Peraltro,
studiare il Diritto romano per problemi attuali del diritto non è – come
propone Koshaker – «“attualizzare l’insegnamento
romanistico”, e cioè […] ridurre la lezione di diritto romano alla esposizione
di quei soli argomenti privatistici, i quali potessero ancora avere interesse,
causa i loro addentellati con i diritti vigenti»
(A. Guarino, op. ult. cit., il quale ha ragione a criticarne questa
interpretazione).
[71] Secondo Riccardo
Orestano, i giuristi romani, sino al “diritto giustinianeo”, hanno compiuto gran
parte del- se non tutto «il lento e faticoso processo di astrazione e di unificazione
[i corsivi sono nostri] che porta all’idea di una personalità corporativa» (R.
ORESTANO, Il problema delle fondazioni in
diritto romano, Torino 1959, 166). Orestano (il quale continua gli studi
del proprio Maestro, Emilio Albertario [di questo vedi in particolare Corpus e universitas nella designazione della persona giuridica, in Studi di dir. rom., Milano 1933, I, 9 ss.]) rinvia a E. BETTI, Diritto romano, I, Padova 1935, 74 (ma
vedi già il “Discorso” di Otto Gierke nel 1902, citato supra nt. 56). La espressione di Betti-Orestano è ora ripresa e
fatta propria da F. GALGANO, Trattato di
diritto civile, Volume 1, 2a ed., Padova 2010, 183 nt. 20. Una bella
continuità.
Orestano ha dedicato una
particolare attenzione al tema; vedi: ID., “Rappresentanza. Diritto romano” in NNDI, XIV, Torino 1967, 796: «storia
della progressiva attuazione del principio della rappresentanza diretta» e ID.,
Il problema delle persone giuridiche nel
diritto romano, I, Torino 1968, 174 ss. dove si parla della «progressiva
smaterializzazione» del “corpus” operata dai giuristi romani [174] in un
processo che va «§ 25. Dal concreto all’astratto» in quattro successive tappe
«- concezione materiale; - concezione totalistica; - concezione corporalistica;
- concezione astratta» [178]).
Senza
assegnare molta importanza né soverchia attenzione alla questione, segue ora la
dottrina della “astrazione” A. Groten,
Corpus und universitas. Römisches
Körperschafts- und Gesellschaftsrecht: zwischen griechischer Philosophie und
römischer Politik, Tübingen 2015, 341
ss. («abstrakte Konstruktion der Personenverbände […] völlige Abstraktion der
Existenz des Begriffs von dem personalen Substrat») e 384 (“Sintesi della ricerca.
§ 4. Astrazione dal substrato personale”).
È anche notevole che Orestano consideri segno
dell’essere «sulla buona strada» della liberazione dalla «pesante ipoteca del
dommatismo tedesco» la rinuncia alla ricerca della «visione unitaria dei
problemi della personalità giuridica, perseguita sino a Kelsen» e connessa alla
«domanda [linguistica] “cosa significa persona giuridica?”», per
dedicarsi invece in maniera settoriale al «problema della determinazione
delle condizioni d’uso del concetto di persona giuridica» (R. ORESTANO, Il problema delle persone giuridiche in
diritto romano, cit., 69 ss.). In realtà, è precisamente il metodo
scientifico divenuto dominante e apprezzato da Orestano quello che assicura la
non ri-discussione e la perennità dei risultati dogmatici-sistematici
’800eschi.
[72] Circa la propensione pro-evoluzione di Orestano, vedi Id., “Idea di progresso, esperienza
giuridica romana e ‘paleoromanistica’” in Sociologia del diritto, 1983,
e in R. Treves, a cura di, Alle
origini della sociologia del diritto, Milano 1983, quindi in Id., Edificazione del giuridico,
Bologna 1989, dove [252 s.] critica «il grande romanista tedesco» Fritz Schulz
perché questi «sostenne vigorosamente […] avere i giuristi romani ignorato
qualsiasi sentimento di evoluzione».
[73] P. Catalano,
Populus Romanus Quirites, cit.; Id., Diritto e persone, I, cit., 163 ss. Una
ottima utilizzazione della innovazione dottrinale di Catalano è lo studio di
Laurent Hecketsweiler: La fonction du Peuple dans l’Empire romain. Réponsens
du droit de Justinien, Paris
2009; cfr. ora Id., “Le ius publicum comme problème pour
les juristes d’aujourd’hui” in Diritto@Storia,
n. 12, 2014 < http://www.dirittoestoria.it/12/tradizione-romana/Hecketsweiler-Ius-publicum-probleme-juristes-aujour-d-hui.htm > (ove, però, non si affronta espressamente il nostro
tema).
Anche
la scienza gius-privatistica ha posto all’‘ordine del giorno’ il tema
della “crisi della persona giuridica” e cerca – in alternativa – di recuperare
la “corporazione” (J.L. Corrêa De
Oliveira, A Dupla Crise da Pessoa Jurídica, São
Paulo 1979 [cfr. Id., Conceito
de pessoa jurídica, Curitiba 1962; Nathalie Baruchel, La
personnalité morale en droit privé,
Paris 2004, Première partie
“La crise de la notion de personnalité morale”; A. Serra, “Regressione evolutiva degli istituti giuridici: brevi
riflessioni sulla nozione di persona giuridica”, in Diritto@Storia, n. 4, 2005 < http://www.dirittoestoria.it/4/Contributi/Serra-Regressione-evolutiva-degli-istituti-giuridici.htm >; vedi anche P. Zatti, Persona giuridica e soggettività: per una definizione del concetto di
persona nel rapporto con la titolarità delle situazioni soggettive, Padova
1975, e F. D’Alessandro, Persone giuridiche e analisi del linguaggio,
Padova 1989).
[74] P. Catalano,
Populus Romanus Quirites, cit., § I.IV.A “ ‘Magistrat’ e ‘Volk’ nel pensiero
del Mommsen, e gli sviluppi della visione dello «Stato astratto»” in part. 42 e
§ I.V “Elementi per una rinnovata visione storica: Jhering”, in part. 69.
[75] Per una apertura in
questa direzione vedi ancora P. Catalano, Diritto e persone, cit. § II.V.8 “Le
‘associazioni’ antiche fra ‘pubblico’ e ‘privato’”, 185-186.
[76] Pomp. D. 41.3.30.pr. Tria autem genera sunt corporum, unum, quod continetur uno spiritu et
Graece ¹nwmšnon [continuum] vocatur, ut homo tignum
lapis et similia: alterum, quod ex contingentibus, hoc est pluribus inter se
cohaerentibus constat, quod sunymmenon vocatur, ut aedificium navis armarium:
tertium, quod ex distantibus constat, ut corpora plura non soluta, sed uni
nomini subiecta, veluti populus legio grex.
La
divisione giuridica odierna tra cose concrete e astratte corrisponde a quella
romana-antica tra cose corporales e incorporales (Gai. 2.12 s. Quaedam praeterea res corporales sum,
quaedam incorporales hae, quae tangi possunt; cfr. Cic. top. 5.26-27. duo genera […] unum earum
rerum quae sunt, alterum earum quae intelleguntur. Esse ea dico quae cerni tangive
possunt […]. Non esse rursus ea dico
quae tangi demonstrarive non possunt, cerni tamen animo atque intellegi possunt
[...], quarum rerum nullum subest corpus,
est tamen quaedam conformatio insignita et impressa intellegentia, quam
notionem voco; Char., ars gramm.,
Keil, Gr. Lat. I.153. duas species
[...] res corporales, quae videri
tangique possunt [...] incorporales
[...], quae intellectu tantum modo
percipiuntur, verum neque videri nec tangi possunt.).
È
manifestazione ‘plastica’ della “forzatura” dogmatica contemporanea la
affermazione della «smaterializzazione» del “corpus” operata dai giuristi romani (R. Orestano, Il problema delle persone giuridiche in diritto romano, cit., vedi,
supra, nt. 71).
[77] Cic. rep. 1.39 Populus autem non omnis hominum coetus quoquo modo congregatus, sed
coetus multitudinis iuris consensu et utilitatis communione sociatus (su
cui, recentemente: A. Grilli, “Populus in Cicerone” in G. Urso, a cura di, Popolo e potere nel mondo antico
[atti di Cividale del Friuli, 23-25 settembre 2004] Pisa 2005, 97 ss.).
Gai.
D. 3.4.1.pr. e 1 Quibus autem permissum est corpus habere collegii societatis sive
cuiusque alterius eorum nomine, proprium est ad exemplum rei publicae habere res
communes, arcam communem et actorem sive syndicum, per quem tamquam in re
publica, quod communiter agi fierique oporteat, agatur fiat.
Come
risulta dal titolo 4 del libro terzo del Digesto
di Giustiniano, le categorie utilizzate per indicare la societas, quale ente unitario e concreto sono, sia dal punto di
vista del diritto pubblico sia dal punto di vista del diritto privato, universitas e corpus. Se il significato della unità da parte della parola universitas appare accolto presso la
dottrina contemporanea, non può dirsi altrettanto del significato della
concretezza da parte della parola corpus.
[78] Rousseau (in CS, 1.5,
“Qu’il faut toujours remonter à une première convention”) contrappone la “moltitudine” mera “aggregazione” alla “società”
e precisa che tale “società”, composta da tutti i soci, è la “unità”: «Il y aura toujours une grande différence entre
soumettre une multitude et régir une société. Que des hommes épars soient successivement asservis à un
seul, en quelque nombre qu’ils puissent être, je ne vois là qu’un maître et des
esclaves, je n’y vois point un peuple et son chef: c’est, si l’on veut, une
agrégation, mais non pas une association; il n’y a là ni bien public, ni corps
politique».
Rousseau (il quale appare costruire questa sua affermazione
mettendo insieme una citazione ciceroniana [rep.
1.39] e una citazione gaiana [D.
3.4.1.1] in chiara contrapposizione alla dottrina hobbesiana) chiarisce
ulteriormente: «au lieu de la personne particulière de chaque contractant, cet
acte d’association produit un corps moral
et collectif, composé d’autant de membres que l’assemblée a de voix [il
corsivo è nostro], lequel reçoit de ce même acte son unité, son moi commun, sa
vie et sa volonté. Cette personne publique, qui se forme ainsi par l’union de
toutes les autres, prenait autrefois le nom de cité (a), et prend maintenant celui
de république ou de corps politique, lequel est appelé par ses membres État quand il est
passif, souverain quand il est actif, puissance en le comparant à ses
semblables. À l’égard des associés, ils prennent collectivement le nom de peuple, et s’appellent en particulier citoyens, comme participant à
l’autorité souveraine, et sujets,
comme soumis aux lois de l’État. Mais ces termes se confondent
souvent et se prennent l’un pour l’autre; il suffit de les savoir distinguer
quand ils sont employés dans toute leur précision» (CS, 1.6 “Du pacte social”; su cui vedi
Gabriella Silvestrini, Diritto naturale e volontà generale. Il
contrattualismo repubblicano di Jean-Jacques Rousseau, Torino 2010, 102 ss.); cfr. CS, 1.4 “De l’esclavage” «La guerre n’est donc
point une relation d’homme à homme, mais une relation d’État à État»; CS, 2.4 “Des
bornes du pouvoir souverain” «l’État ou la cité n’est qu’une personne
morale dont la vie consiste dans l’union de ses membres»; CS, 4.8 “De la religion civile” «Pour que la société fût paisible
et que l’harmonie se maintînt, il faudrait que tous les citoyens etc.».
[79] Si può parlare di “democrazia” anche dal punto di vista del diritto
privato. Vedi, supra, nt. 22.
[80] «Rien nʼest plus
dangereux que lʼinfluence des intérêts privés dans les affaires
publiques, & lʼabus des loix par le Gouvernement est un mal moindre que
la corruption du Législateur, suite infaillible des vues particulières.» (J.-J.Rousseau, CS, 3.5 “De la Démocratie”).
[82] R. v. Jhering,
“Mitwirkung für fremde Rechtsgeschäfte” in Jahrbücher
für die Dogmatik des heutigen römischen und deutschen Privatrechts, Bd. 1,
1857, 313: «Mandatar und Stellvertreter […] bezeichnen sie selbst da, wo beide
Begriffen im einzelnen Fall zusammentreffen, zwei völlig verschiedene Seiten
des Verhältnisses».
Come
abbiamo visto (supra, § I.1.c) la
dottrina della rappresentanza come cooperazione è recessiva nella scienza
giuridica contemporanea. Tra i suoi non molti sostenitori novecenteschi
ricordiamo in particolare Salvatore Pugliatti, autore (a partire dal 1927) di
vari scritti sulla rappresentanza (quindi raccolti in Id., Studi sulla
rappresentanza, Milano 1965). Anche il
francese E. Boland, De la représentation dans les contracts,
thèse, Liège 1927, 30 scrive «la définition du concept de représentation suppose,
avant tout, l’étude de genre prochain auquel appartien l’institution: la
coopération aux actes juridiques d’autrui». Cfr. M. Graziadei - R. Sacco, “Sostituzione e rappresentanza” in Digesto delle Disc. Priv. Sezione Civile, XVIII, Torino 1998, 618
«4. Potere di gestione, mandato,
rappresentanza. […] Nel diritto comune, e poi nel diritto francese, si prese a
distinguere il “lato interno” del mandato, che concerne i rapporti fra gerente
e gerito, e il lato esterno, che concerne i rapporti con il terzo».
[83] Come talvolta si
crede. Ad es., H. Kötz - S. Patti, Diritto europeo dei contratti,
tr. it. di Sabine Büchberger, Milano 2006, cap. 12 “La rappresentanza” 375 ss.
(premesso che la concezione compatta di mandato e procura risalirebbe al Giusnaturalismo
e più precisamente a Pothier [Traité des
obligations, 1761, no. 74 e 75] da dove l’avrebbero presa il Code civil francese [art. 1984], l’ALR prussiano [§ 5 ss. comma 1.13] e l’ABGB austriaco [§ 1002]) scrivono (379)
«Jhering è stato il primo a rilevare la necessità di distinguere fra il
rapporto contrattuale che lega le parti – che sia un mandato o contratto di
lavoro, di società ecc. – e il conferimento di procura [Jhering Jahrbucher 1 (1857) 273]; Laband ha sostenuto perfino che i
due negozi sono del tutto indipendenti [in ZHR
10 (1866) 183] […] questa teoria si è affermata non soltanto in Germania ma ha
compiuto una “marcia vittoriosa senza pari” nelle legislazioni moderne. […]
Oltre che dai redattori del codice civile tedesco (Bürgerliches Gesetzbuch) questo sistema è stato attuato anche nel
codice civile svizzero (Obligationenrecht,
1911), nella legge svedese in materia contrattuale (1915) – accolta poi dagli
altri paesi nordici – nel codice civile greco (1940), nel codice civile italiano
(1942), nel codice civile portoghese (1966) e nel Nieuw Burgerlijk Wetboek olandese (1922)».
[85] Scaev. D. 50.1. <Ad municipalem et de incolis> 19 Quod maior pars curiae effecit, pro eo
habetur, ac si omnes egerint; Ulp. D. 50 <De diversis regulis
iuris antiqui> 17.160.1. Refertur ad universos, quod publice fit per maiorem partem.
[87] Cic. de
orat. 167 magistratus in populi
Romani esse potestate debent; Planc.
62 sic populus Romanus deligit
magistratus quasi rei publicae vilicos; cfr. off. 1.124 Est igitur
proprium munus magistratus intelligere se gerere personam civitatis debereque
eius dignitatem et decus sustinere, servare leges, iura discribere, ea fidei suae
commissa meminisse; Paul. D. 50.16.215
“Potestatis” verbo plura significantur:
in persona magistratuum imperium: in persona liberorum patria potestas: in
persona servi dominium, dove la posizione dei magistrati nei confronti del
popolo è puntualmente allineata, dal punto di vista potestativo, a quella dei
figli e dei servi nei confronti del pater
e del dominus.
[88] Vedi G. Lobrano,
Res publica res populi. La legge e la
limitazione del potere, Torino (1994) 1996, in part. 111 ss.; cfr., infra, nt. 109.
[90] Nel diritto processuale,
lo iussum appare sia come eco del
diritto sostanziale (actio quod iussu)
sia come applicazione diretta, nella relazione tra magistrato giusdicente e
giudice giudicante (iudicare iubere).
L’actio quod iussu è archetipo delle aa.a.q., tutte caratterizzate da un iter processuale il quale appare
ripercorrere all’indietro l’iter
volitivo (partecipativo e cooperativo) dei negozi di diritto sostanziale per le
quali sono approntate.
Il
còmpito esecutivo affidato dal Popolo ai
Magistrati con lo iussum è non soltanto di amministrare e/o negoziare ma anche di rendere giustizia nelle
liti. Però, poiché il potere-discrezionalità corrompe chi lo esercita quando chiamato ad applicarlo al
singolo evento, il còmpito di rendere giustizia è esso stesso
oggetto di ulteriore articolazione in ius
dicere e iudicare. Con lo iussum iudicandi il magistrato pone tra se e i
litiganti un terzo, il quale “non ha potere”, è – cioè – un “privato”. Lo iudex è definito privatus
e privatus significa “senza potere”: Cic. inv. 1.35; 2.20. Di recente, sullo iudex privatus, vedi: R. Scevola, La responsabilità del iudex privatus, Milano 2004; L. Gagliardi, “La figura del giudice
privato nel procedimento civile romano” in Aa.Vv., Diritto e teatro in Grecia e Roma, Milano 2007. In relazione al giudicare, la volizione collettiva pubblica
risulta, dunque, scandita in tre livelli: lo iubere leges / iussum
generale del popolo, la iurisdictio
con lo iussum iudicandi del
magistrato e infine lo iudicare del giudice. Il connesso ‘sistema’ dell’agire volontario
appare, così, all’insegna di una sorta di entropia del potere. Questo, infatti,
va dalla pienezza (umanamente possibile: vedi Cic. Rab. perd. 5; cfr. Paul. Fest. p.172 [sub voce “Numen”] e Cic.
l. Man. 16.47) della discrezionalità
insita nello iubere leges
assolutamente generali da parte del popolo, caratterizzato dall’essere in sua potestate (Varr. ling. 9.1.6; Cic. l. agr. 2.7.17 e 2.11.27; orat.
2.167 Liv. 9.9.4 e 1.38.1) alla assenza (umanamente possibile) della
discrezionalità insita nello iudicare
su situazioni assolutamente singole da parte dello iudex caratterizzato dall’essere privo di potestas. È vero che correntemente si
afferma essere stato questo “ordine”
soppiantato dalla cosiddetta “cognitio
extra ordinem”; però, a parte il postulato del sopravvivere della
distinzione concettuale tra iurisdictio
e iudicatio (assente nella esperienza
e nella logica feudali sia medievali sia moderne) occorrerebbe ricordare la
accorata denunzia e autocritica di Riccardo Orestano circa la natura di
invenzione pandettistica della categoria “cognitio
extra ordinem” (R. ORESTANO, “La
cognitio extra ordinem: una chimera”, in Scritti, III, Napoli 1998, 1831 ss.; cfr. ID., “Cognitio extra ordinem” in Scritti, II, Napoli 1998, 1033 ss.).
Tale ‘entropia’ repubblicana
appare perfettamente opposta all’orientamento d’‘ancien règime’ (feudale) del
“Richter König” e odierno (‘globale’) della montante “giudiziarizzazione” della
volizione pubblica (su cui P. Pasqualucci,
“Postfazione” alla tr. it. di O. Bülow,
Gesetz und Richteramt, Leipzig 1885;
rist. anast. Aalen 1972: “Legge e ufficio del giudice” in QF, 30 (2001), tomo 1, 199 ss., in part. 253 nt. 64, ove si rinvia
a L. Lombardi, Saggio sul
diritto giurisprudenziale, Milano
1967, 239 e a A. Giuliani - N. Picardi, La responsabilità del giudice, Milano 1987, 18-22; cfr. Francesca Biondi, La responsabilità del magistrato. Saggio di diritto costituzionale,
Milano 2006, 67; definisce, invece, i giudici “oracoli del diritto” J.P. Dawson, The Oracles of the Law, Ann Arbor [Mich.] 1968, tr. it. di R.
Giurato, Napoli 2014; da ultimo V. Piras,
“Sui processi di formazione della volontà collettiva: appunti in tema di
‘decodificazione’ e ‘Giudice Re’” in D. D’Orsogna, G. Lobrano, P.P. Onida, a
cura di, Città e Diritto. Studi per la
partecipazione civica. Un “Codice” per Curitiba, Napoli 2016, 267 ss.).
[91] Nella lista del “che fare” (per la comprensione di un iter
volitivo articolato tra un comando – più o meno – generale e una esecuzione –
più o meno particolare – i quali si postulano vicendevolmente) va anche segnata una riflessione complessiva delle omologhe dicotomie “privilegium e generale iussum populi” (vedi nt. seg.) e “specialiter in uno contractu iubere sive
generaliter” (su cui vedi Ulp. D.
15.4 [Quod iussu] 1.1 [iussum generale] cfr. C. 4.26.13 e Cic. ep. ad fam. 16.14.2 [Medico mercedis quantum poscet promitti
iubeto]; Paul. D. 3.3 [De procuratoribus et defensoribus] 6 [mandatum generale[ e Paul. D. 13.7.18.4 [libera administratio]).
È stato già osservato, a
proposito delle societates publicanorum,
che la competenza delle loro “assemblea generale” è ad assumere le “decisioni
più importanti”. La fonte di tale osservazione sono passi ciceroniani oramai
ben noti: De domo sua, 28.74 (publicorum societates […] decreta fecerunt); in L. Calp. Pis. 18.41 (decreta
publicanorum); pro Sest. 14.32 (societas vectigalium […] decrevisset); in P. Vat. 3.8 (societatum […] decreta) e specialmente sec.
in Verr. 2.71.173 s., dove la “assemblea generale” è indicata con la
locuzione “multitudo sociorum”.
Colpisce l’uso di questa ultima espressione proprio da parte dell’autore della
più famosa definizione di res publica
e, quindi, di populus come coetus multitudinis iuris consensu et
utilitatis communione sociatus. La
‘osservazione’ è di Claude Nicolet,
“Réflexions sur les sociétés de publicains: Deux remarques sur l’organisation
des sociétés des publicains à la fin de la république romaine” in H. v. Effenterre, éd., Points de vue sur la fiscalité antique, Paris 1979, 76 s.; ripresa
da Ulrike Malmendier, Societas
publicanorum. Staatliche Wirtschaftsaktivitäten in den Händen privater
Unternehmer, Köln - Weimar - Wien 2002, 267:
«Jedenfalls gab es eine „Generalversammlung“ der Gesellschafter, die sich mit
den wichtigen Entscheidungen für die Gesellschaft befaβte und die so
groβ sein konnte, daβ Cicero
sie als multitudo bezeichnet».
Cfr. A. Burdese, 1994, rec. di J. Hernanz
Pilar, 1993, in Id., Recensioni e commenti, cit., 156 e H. Wieling,
“Drittwirkungen des mandats und ähnlicher Rechtsverhältnisse”, cit. 238 ss. §
2. “Generelle Aufträge”.
[92] XII Tab. 9.1 privilegia ne inroganto (Cic. dom.
43; Sest. 65); At. Cap. apud Gell., noct. Att. 10.20 Lex [...] est generale iussum populi [...] rogante
magistratu; Pap. D.1.3.1 Lex
est commune praeceptum;
Ulp. D. 1.3.8 Iura non in singulas personas, sed
generaliter constituuntur; Cod. Just. 5.59.5 quod omnes similiter tangit ab omnibus
comprobetur; Fest., de v. s., 326, 16 (L.): quod in omnes homines resve populus scivit,
lex appellatur. Tra queste citazioni può
inserirsi anche Tac. Ann. 3.27 Corruptissima
re publica plurimae leges.
[93] R. Martini,
“Sulla partecipazione popolare ai concilia provinciali nel tardo Impero” in Atti dell’Accademia romanistica
costantiniana. XIII Convegno internazionale in memoria di André Chastagnol,
Napoli 2001, 709 ss.
[94] P. Catalano, Un concepto olvidado: “poder negativo” in Revista General
de Legislación y Jurisprudencia, Madrid, marzo de 1980, T. LXXX de la
segunda época, n. 3, 233 e in Aa.Vv., Costituzionalismo latino, I
(= Progetto Italia-America Latina. Ricerche giuridiche e politiche, Materiali,
IX/1) Sassari, s.d.; cfr. ID., Tribunato e resistenza,
Torino 1971.
[95] CS. 3.15 «Tout bien
examiné, je ne vois pas qu’il soit désormais possible au Souverain de conserver
parmi nous l’exercice de ses droits si la cité n’est très-petite. Mais si elle
est très-petite elle sera subjuguée? Non. Je ferai voir ci-après* comment on
peut réunir la puissance extérieure d’un grand peuple avec la police aisée
& le bon ordre d’un petit Etat. [*C’est ce que je m’étois proposé de faire
dans la suite de cet ouvrage, lorsqu’en traitant des relations externes j’en
serois venu aux confédérations. Matiere toute neuve & où les principes sont
encore à établir.]»
[96] Nel XX secolo, già
Hannah Arendt non si limitava ad osservare la inconsistenza della rappresentanza
politica moderna (vedi, supra, nt.
25) ma ne individuava anche il rimedio precisamente nei processi decisionali
della Città antica (vedi R. Schoonbrodt,
“La ville et la philosophie” in P. Ansay
- R. Schoonbrodt, a cura di, Penser la ville. Choix de
textes philosophiques,
Bruxelles 1989, 61: «Hanna Arendt et la solution de la Grèce Classique», che,
di Harendt, cita «Condition de l’Homme
moderne, Ed. Calmann-Lévy, Paris 1983, 41»; cfr. S. Lo Leggio, Sulla Rivoluzione. Lettura critica di Hannah
Arendt, Perugia 1991, il
quale sottolinea la attenzione al diritto e alla funzione costituente,
per la partecipazione democratica, secondo un modello antico dove spiccano la
Città (polis) e la Federazione.
Questo orientamento è
cresciuto nel tempo. Si veda, ad es., lo scritto ‘a quattro mani’ di B. Ackerman e J. Fishkin, Deliberation
Day, New Hawen 2004. Il sociologo G. Bosetti
e il filosofo della politica S. Maffettone,
a cura di, Democrazia deliberativa: cosa
è, Roma 2003, ne propongono una rapida sintesi con la loro “Introduzione” e
la breve selezione di saggi: ivi (oltre ai testi di “lezioni” tenute degli
stessi Ackerman e Fishkin e da Mannheimer su sondaggio deliberativo e
democrazia) sono inseriti i saggi di M.H. Hansen,
“Democrazia diretta, antica e moderna”, 115 ss., e G. Pellegrino, “Appendice. Le radici storiche e teoriche della
democrazia deliberativa”, 133 ss. Il danese Hansen è autore di una fortunata The Athenian Democracy in the Age of
Demosthenes: Structure, Principles, and
Ideology (tr. ingl. di J.A. Crook dalla ed. danese
Copenhagen 1977-81, Oxford UK and Cambridge Mass. USA, 1a ed. 1991 e 2a ed.
1999 e tr. it. a cura di A. Maffi, La
democrazia ateniese nel IV secolo a.C., Milano 2003) che è divenuta il
riferimento per le riproposizioni odierne del modello ateniese antico. Da
questi autori – pure non propriamente giuristi (Ackerman a parte) – è colto il
fenomeno della crisi della cosiddetta “democrazia liberale”, sostanzialmente
elitaria, caratterizzata dalla enfasi sulle elezioni e dal controllo reale da
parte delle ‘lobby’ economiche e il futuro è individuato nella alternativa tra
il recupero del modello della democrazia greca e il precipitare verso la fine
anche degli ultimi residui di democrazia, verso la “postdemocrazia” (cfr. C. Crouch [sociologo-politico, direttore
del ‘Department of Political and Social Sciences’ presso l’Istituto
Universitario Europeo di Firenze], Postdemocrazia,
Roma-Bari 2003).
La
riflessione di tutti questi autori (Arendt compresa) importante e interessante,
appare limitata proprio dalla mancata lettura giusromanistica di Rousseau e rousseauiana del Diritto romano,
ragione/i per la/e quale/i – in maniera doppiamente ‘naïve’, almeno dal punto di vista
giuridico – il modello di partecipazione popolare: 1) è cercato ancora nelle
“città-Stato” greche (in particolare
nella ‘polis’ di Atene, da Clistene
[507 a.C.] fino alla conquista da parte dei Macedoni [322 a.C.]) anziché nello
“Stato municipale” romano, e 2) si
pensa di riproporlo – oggi – attraverso l’istituto dei referendum, grazie alle
opportunità fornite dalle nuove tecniche di comunicazione informatica.
[97] Non è privo di significato il fatto che
siano i ‘tecnici della Città-urbs’,
gli Urbanisti, ad accorgersi della insufficienza-deficit connesso al mero
utilizzazione della “rappresentanza” e a proporne un duplice rimedio: interno a
ciascuna Città (la “partecipazione” dei Cittadini: Nouvelle Charte d’Athènes 1998. Prescriptions pour l’aménagement des villes, édictées par le Conseil Européen des Urbanistes, 1998,
§ 3-2 “Une véritable participation” «Le degré d’implication du
citoyen dans les questions urbaines varie beaucoup, entre les villes et les
pays d’Europe. Si la participation du public est très développée dans certains
pays, elle est freinée dans d’autres par la manière très rigide avec laquelle
est appliquée le système de représentation démocratique, souvent hautement
centralisé. L’expression du droit, des besoins et des souhaits des citoyens, et
leur compréhension des phénomènes, eu égard notamment aux questions relatives à
la vie quotidienne ou à la qualité de l’environnement, ne peuvent se réaliser
uniquement à travers un système fondé sur des représentants élus aux niveaux
local et central; leur gouvernement, dans un tel cadre, ne peut qu’apparaître
éloigné des gens et manquer ainsi son objectif d’améliorer la capacité
d’initiative individuelle et d’organiser la qualité de leur cadre collectif de
vie. Il faut restructurer les cadres d’organisation de l’urbanisme selon un
principe hiérarchique, qui seul peut, rendre le processus d’élaboration plus
compréhensible et plus accessible au citoyen. De même, le principe de
subsidiarité doit être rigoureusement appliqué, aussi bien d’ailleurs au niveau
de l’allocation des fonds et de l’administration publique.» cfr. §§ 1.26 e 3.4) e nelle relazioni tra le Città (la “rete” di Città: La Nouvelle Charte d’Athènes 2003. La
Vision du Conseil Européen des Urbanistes sur Les Villes du 21ième siècle, Lisbonne, 20 novembre 2003, passim, in part. il § “Développement des
réseaux de villes”).
[98] Secondo Cicerone (leg. 3.15 s.) senza tribuni la
Repubblica è soltanto un nome senza sostanza: “nomen tantum videbitur regis
repudiatum, res manebit, si unus omnibus reliquis magistratibus imperabit.
Quare nec ephori Lacedaemone sine causa a Theopompo oppositi regibus, nec apud
nos consulibus tribuni”.
Machiavelli, nei Discorsi sopra la prima deca di Tito
Livio (1513), intitola il capitolo terzo del libro primo “Quali accidenti facessono
creare in Roma i Tribuni della plebe, il che fece la repubblica più perfetta”.
[99] Si pensi alla istituzione novecentesca dell’Ombudsman /
Defensor del Pueblo, per il quale è corrente il riferimento al modello
tribunizio (C.R. Constenla, Teoría y práctica del Defensor del Pueblo, Bogotá - México, D.F. -
Madrid - Buenos Aires 2010, passim).
Il postulato della identità
tra Costituzione ed equilibrio dei tre
poteri «Toute société dans laquelle la garantie des droits n’est pas assurée,
ni la séparation des pouvoirs déterminée n’a point de constitution» è affermato
nella “Déclaration des droits de l’homme et du citoyen” del 1789, che intesta
sia la prima Costituzione francese del 1791 sia l’ultima e ‘vigente’ del 1958
viene dal capitolo 6 del libro XI dell’Esprit
des lois, dove Montesquieu introduce l’esame della costituzione inglese
come modello della migliore costituzione possibile («Il y a une nation qui a
pour but direct de sa constitution la liberté politique») e che apre
precisamente con la teoria della divisione e dell’equilibrio dei poteri: «Il y
a, dans chaque état, trois sortes de pouvoirs [...] Tout seroit perdu, si le même homme, ou le même corps des
principaux, ou des nobles, ou du peuple, exerçoient ces trois pouvoirs: celui
de faire les loix, celui d’exécuter les résolutions publiques, & celui de
juger les crimes ou les differends des particuliers».
[100] Si pensi al collegio dei “sindaci” delle
società economiche, in particolare di quelle “per azioni”. Peraltro, l’uso –
che sembra – più risalente della categoria di “sindaco” (syndicus) è ad indicare quella sorta di “tribuni delle Città”
introdotti in età imperiale (D.
50.4.1.2; 50.4.18.13) in un contesto di memoria e intelligenza del più antico
tribunato.
[101] G. Cottino,
“Introduzione. Dal “vecchio” al “nuovo” diritto azionario: con qualche avviso
ai naviganti”, cit. § 6 “I controlli: organi nuovi e organi inossidabili”
osserva che la riforma del 2003, con la quale è stata tolta alla assemblea
degli azionisti la partecipazione alla gestione della società (vedi, supra, nt. 22), ha prodotto «un incisivo
impoverimento delle funzioni del collegio sindacale».
[102] “Popolo” (populus) è chiamato anche l’insieme dei membri delle associazioni
private, i “collegia” dotate di “corpus”. In proposito: Ch. Daremberg, Edm. Saglio et Edm. Pottier,
Dictionnaire des Antiquités grecques et romaines d’après les textes et les
monuments, III.2, 1904, “Lex collegii”; F. De Visscher, “La notion de corpus et le régime des
associations privées à Rome” in Scritti in onore di Contardo Ferrini,
IV, Milano 1949; F.M. De Robertis,
Storia delle corporazioni e del regime
associativo nel mondo romano, II, Bari 1971, in part. 35 e 38. Nella produzione
scientifica di Mommsen, la opera di ricostruzione del “diritto dello Stato
romano” inizia e finisce con due scritti, i quali trattano di associazioni
essenzialmente private: De collegiis et
sodaliciis Romanorum (1843) e Zur
Lehre der römischen Korporationen (pubblicato postumo: 1904). Per la
ricostruzione storica resta fondamentale J.P. Waltzing,
Étude historique sur les corporations
professionnelles chez les Romains depuis les origines jusqu’à la chute de
l’Empire, 4 voll., Louvain 1895-1900, di cui sono uscite nel 1968 ben due
edizioni anastatiche, una a Roma, per i tipi della casa editrice Bretschneider,
e una a Bologna, per i tipi della casa editrice Forni, nonché, nel 2000 un
“aggiornamento” G. Mennella e Giuseppina Apicella, Le corporazioni professionali
nell’Italia romana: un aggiornamento al Waltzing, Napoli 2000.
[103] Vedi, supra,
nt. 18.
Osserva
Ha. Hofmann, op. cit.,
ed. it., 1 nt. 5: «Il primo ad aver definite come relazione di potere tutte le
relazioni di rappresentanza (almeno a proposito del potere di un gruppo) è
stato Max Weber».
[104] Si
deve osservare che nel mandato confluiscono il significato di comando (per cui
in dottrina si parla di “sinonimia” con lo iussum,
il quale ultimo non è un contratto e, infatti, intercorre tra persone poste in
una medesima potestà) e la natura contrattuale (Gai. 3.88 s.; 3.135; 3.155-162 etc.: e, infatti, intercorre tra persone
poste in diverse potestà). Tale osservazione consente di comprendere il “manum dare” come il conferire da parte
del dominus negotii al mandatario
(destinatario del comando) quel proprio potere che il filius e/o il servus si
portano – per definizione – con sé.
Con il mandatum è stata fatta se non la medesima operazione una operazione
simile a quella compiuta da Windscheid a proposito dello iussum. Questo è stato trasformato da comando al subalterno in vaga
“autorizzazione”. Il mandatum
(complice la “etimologia” ad orecchio di Isidoro: Etymologiae, 5.24.20 mandatum dictum quod olim in commisso
negotio alter alteri manum dabat) viene trasformato da datio di potere in “stretta di mano”.
Vedi P.P. Onida, “In tema di natura del mandatum” in Diritto@Storia, n. 13, 2015 < http://www.dirittoestoria.it/13/tradizione-romana/Onida-Natura-del-mandatum.htm >.
[105] Il divieto di acquisto mediante “extranea persona” (ricordato, supra,
§ I.1.b, ntt. 6 s.) risulta confermato
ancora nel sec. IX d.C., dallo Sch. 7 a Bas. 23.3.24 = D. 22.1.24.2 secondo il quale ogni persona
che acquista ad altri è sempre in qualche modo e misura a questi sottoposta
(vedi S. Solazzi, “Errore e
rappresentanza” in RISG, 1911, ora in Id., Scritti di diritto romano, I,
Napoli 1955 ripreso da R. Quadrato,
“Rappresentanza. Diritto romano” in EdD, XXXVIII, Milano 1987).
[106] Seppure “ripulito”! Si attribuisce a
Bernhard Windscheid la affermazione che «Man hat nur die Wahl, ob man gereinigtes römisches Recht
haben will, oder ungereinigtes, nicht aber, ob man römisches Recht haben will
oder kein römisches Recht. Diese Reinigung aber mit dem römischen Recht
vorzunehmen, ist die Aufgabe der Juristen; es ist eine wissenschaftliche
Arbeit.» (S. Fernandes Fortunato,
“Vom römisch-gemeinen Recht zum Bürgerlichen Gesetzbuch” in ZJS – Zeitschrift für das juristische
Studium, 4, 2009, 332, nt. 65, dove rinvia a W. Wilhelm, “Das Recht im römischen
Recht” in F. Wieacker, Ch. Wollschläger, Hg., Jherings Erbe, Göttingen 1970, 228).
[107] Vedi, supra, nt. 15.
M. Graziadei - R. Sacco, “Sostituzione
e rappresentanza”, cit., 618 «La
pandettistica tedesca staccò il lato esterno del mandato per farne una figura
(nuova ed) autonoma: la procura. La procura diventa allora il correlato della
“rappresentanza”, in virtù della quale l’atto di gestione produce
immediatamente effetto nella sfera del rappresentato. La rappresentanza
comporta, in correlazione con la procura, la “spendita del nome” del
rappresentato».
[108] O, almeno, deve fare il “giurista di mestiere” sulla cui ‘figura’, vedi S. Bauzon, Il
mestiere del giurista. Il diritto politico nella prospettiva di Michel Villey, Milano 2001.
[109] Cic. Flacc., 16 Graecorum autem totae res publicae sedentis contionis temeritate
administrantur. Secondo J. Rouvier, “La République romaine et la
Démocratie” in Varia. Etudes de Droit
romain, IV, Paris 1961, 155-281, in part. 160-164, manca, presso i Greci,
la nozione romana di ‘magistrato’ (cfr. Id.,
Du pouvoir dans la République romaine.
Réalité et Légitimité. Étude sur le “consensus”, Paris 1963; Id., Les grandes idées politiques de Jean-Jacques Rousseau à nos jours,
Paris 1973).
Cfr. P. Bastid,
“Rousseau et la théorie des formes de gouvernement” in Aa.Vv., Études sur le Contrat social de Jean-Jacques Rousseau, Paris 1964,
316: «La grande originalité du Contrat
social c’est la séparation définitive de l’Etat (au sens courant du mot) et
du gouvernement. Le sens de chacune de ces deux notions s’est métamorphosé».