Facoltà di Giurisprudenza e Amministrazione
Università Cardinale Stefan Wyszyński di
Varsavia
Appunti su
requisiti, percorso ed effetti della manumissio
censu
ABSTRACT: During
the census the censors were able to conduct a manumission of a slave in the
form of manumissio censu, which most
frequently took place on the slave owner’s initiative (Ulp. 1.8). Nevertheless the magistrate was free
to disagree. Censor's decision on entering a slave into the list of citizens
had a constitutive nature, hence it resulted in granting citizenship, grounds
for which was a decision of the assembly expressed in the lex centuriata, which included also a delegation of this competency.
However the moment of acquiring the citizen's rights was the ceremony of lustrum, which made the census come into
force (Cic., De or. 1.40.183; FD 17).
Nonetheless it seems that the manumitted enjoyed freedom from the moment of
receipt of his declaration.
Tanto la schiavitù quanto le manomissioni erano,
per i giuristi romani, istituti iuris
gentium[1].
Ogni società doveva regolamentare nel proprio ius civile la forma e gli effetti giuridici delle manomissioni. I
Romani ricorrevano a metodi di manomissioni formali, collegati al conferimento
della cittadinanza[2], nonché a metodi informali[3]. Questi ultimi portavano a
una libertà soltanto di fatto, ma non giuridica. Fu soltanto la lex Iunia Norbana[4] a conferire ai liberti informali lo status civitatis di Latini giuniani.
Nel diritto romano, la manomissione formale si effettuava
in tre modi: per testamento (manumissio
testamentaria), nel procedimento in
iure davanti a un magistrato con giurisdizione (manumissio vindicta) o
in occasione del censo (manumissio censu)[5]. Tale catalogo trova
conferma tanto nelle fonti non giuridiche[6] quanto in quelle giuridiche.
Cic. Top.
10: ...tum partium enumeratio, quae tractatur hoc modo: Si neque censu nec
vindicta nec testamento liber factus est, non est liber; neque ulla est earum
rerum; non est igitur liber.
Nei Topica,
scritti dopo la morte di Cesare nel
G. 1.17: Nam in cuius personam tria haec
concurrunt, ut maior sit annorum triginta et ex iure Quiritum domini et iusta
ac legitima manumissione liberetur, id est vindicta aut censu aut testamento,
is civis Romanus fit, sin vero aliquid eorum deerit, Latinus erit.
Nel primo libro delle Istituzioni
Gaio discorre dell’acquisizione della libertà e della
cittadinanza romana. Ritiene che al gruppo di iustae ac legitimae manumissiones appartengano proprio la manumissio censu, vindicta e testamento[8]. Aggiunge che per acquisire la cittadinanza il liberto, oltre ad
essere stato liberato in uno dei tre modi suddetti, doveva aver compiuto, in
virtù della lex Aelia Sentia[9], 30 anni ed aver ottenuto
la libertà da un proprietario quiritario[10].
Dai brani in parola si evince quindi che la manumissio censu portava
all’acquisizione della libertà e della cittadinanza romana. In
merito a questa forma di manomissione si hanno alcune perplessità
riguardo all’introduzione e al rapporto cronologico con le altre. In
primo luogo occorre precisarne la procedura e i requisiti; quindi rispondere
alla domanda quando il liberando acquisisse la libertà e la cittadinanza:
con l’iscrizione del censore ovvero dopo il lustrum e se l’iscrizione fosse di carattere dichiarativo o
costitutivo.
Alla manumissio
censu si addiveniva in occasione del censo effettuato in epoca regia dal re,
e dopo, in epoca repubblicana, dai consoli e probabilmente dal
Liv. 1.42.5: Censum enim instituit, rem
saluberrimam tanto futuro imperio, ex quo belli pacisque munia non viritim, ut
ante, sed pro habitu pecuniarum fierent; tum classes centuriasque et hunc
ordinem ex censu discripsit, vel paci decorum vel bello[12]
Narra Livio che il re introdusse il censo per ripartire
in seguito i gravami, sia in tempo di guerra che in tempo di pace, non
indistintamente, ma proporzionalmente al patrimonio dei cittadini. Applicando
il criterio patrimoniale, divise il popolo in cinque classi e centurie.
Dion. Hal. 4.22 [13]
@O
de; Tuvllio" kai; toi'" ejleuqeroumevnoi" tw'n qerapovntwn -
metevcein th'"
ijsopoliteiva" ejpevtreye.
keleuvsa" ga;r a{ma toi'" a[lloi" a{pasin ejleuqevroi"
kai; touvtou" timhvsasqai ta;" oujsia",
eij" fula;" katevtaxen aujtou;" ta;"
kata; th;n povlin tevttara" uJparcouvsa".
- kai; pavntwn ajpevdwke tw'n koinw'
aujtoi" metevcein, w|n
toi'" a[lloi" dhmotikoi'".
Dionigi di Alicarnasso informa che Servio Tullio permise
ai liberti di acquisire la cittadinanza e ordinò di censirli con gli
altri cittadini e iscriverli nelle tribus.
Il re non introdusse un nuovo modo di manomissione, ma acconsentì di
conferire la cittadinanza a quelli che erano stati liberati in precedenza[14]. Se ne desume che fino ad
allora i Romani avessero liberato i propri schiavi senza che questi potessero
acquisire la cittadinanza[15]: una prassi assai diffusa
nei paesi antichi i cui cittadini custodivano con gelosia i propri diritti
politici.
C’è da chiedersi quali forme di manomissione
fossero applicate nel periodo regio prima delle riforme serviane. Si ritiene
che sin dai tempi di Romolo[16] si riunissero i comitia curiata che, pur avendo un ruolo
politico probabilmente molto contenuto, assolvevano importanti funzioni di
diritto privato: innanzitutto vi si proclamavano i testamenti calatis comitiis[17]. Stando al racconto di
Gellio[18], ciò accadeva in populi contione dove potevano
presentarsi anche i testamenti fatti dalle donne[19]. Un’altra forma
primigenia del testamento era quella in
procinctu[20]. Si discusse se la manomissione di
schiavi vi fosse ammessa[21]. Si afferma che le forme
arcaiche di testamento dovessero esaurirsi nella heredis institutio: non vi si poteva statuire altro, tanto
più chiamare all’eredità uno schiavo e nel contempo
liberarlo. Trattasi comunque di argomenti e
silentio che non sembrano convincenti. Che il testamento fosse venuto a
formarsi per permettere al testatore di istituire un erede unico cui
trasmettere anche i sacra familiaria
non esclude per nulla che ben per tempo si fosse cominciato ad aggiungere ai
testamenti altre disposizioni. Le donne, infatti, non trasmettevano sacra, ma solo patrimoni, eppure sin
dall’epoca regia potevano fare testamenta
calatis comitiis[22]. Può supporsi che
sin dai tempi più remoti si praticasse la liberazione testamentaria di
schiavi[23], anche se, come si
è già osservato, la libertà non si accompagnava in un
primo tempo alla cittadinanza.
Difficile dire invece da quando si cominciò a
ricorrere alla manumissio vindicta.
Per alcune fonti, la cui attendibilità risulta però alquanto
sospetta, all’inizio della repubblica. Cacciato da Roma, Tarquinio il
Superbo prese parte a vari complotti per riprendere il potere. A uno di questi
si accodarono giovani delle famiglie Vitelli, Aquilii e i figli del console
Bruto. Uno degli schiavi, intercettate lettere compromettenti, le
recapitò ai consoli. I giovani furono giustiziati.
Liv. 2.5.9-10: Secundum poenam nocentium,
ut in utramque partem arcendis sceleribus exemplum nobile esset, praemium
indici pecunia ex aerario, libertas et civitas data. Ille primum dicitur
vindicta liberatus; quidam vindictae quoque nomen tractum ab illo putant;
Vindicio ipsi nomen fuisse. Post illum observatum ut qui ita liberati essent in
civitatem accepti uiderentur.
Lo schiavo che portò alla cattura dei congiurati era
stato liberato vindicta, e
poiché, a quanto pare, si chiamava Vindicius, si pensò che avesse
ispirato il nome dell’istituto[24]. Vindicta era chiamata una pertica o bastone usata dall’attore
nel processo legis actio sacramento in
rem per confermare che la res gli
apparteneva secondo il diritto dei Quiriti, e in seguito anche dall’adsertor libertatis[25] allorché affermava hunc
hominem liberum esse aio. Gaio l’identificava con la festuca[26]. Ad ogni modo importa sapere che si riteneva che Vindicio fosse
stato il primo ad essere stato liberato in questo modo e che oltre alla
libertà avesse ottenuto pure la cittadinanza, il che porterebbe a
pensare che dalle riforme di Servio Tullio un atto si accompagnasse di regola
all’altro[27].
Secondo Plutarco a Vindicio fu pure concesso di votare in una tribù di
sua scelta[28].
L’affrancamento di uno schiavo non era per lo Stato
indifferente[29]. Diventando cittadino, lo schiavo rinfoltiva le schiere
dei clienti del suo patrone, alterando gli equilibri in assemblea. Può
supporsi che all’inizio lo Stato volesse, in merito, poter dire la sua.
Nel caso di testamentum calatis comitiis
l’esercizio delle funzioni di controllo assicurava la presenza del populus. Nel caso del testamentum in procinctu la
dichiarazione di volontà del testatore, ancorché unilaterale e
non soggetta ad approvazione, veniva fatta in presenza dei commilitoni e dopo
gli auspici[30].
Parerebbe che la manumissio testamentaria
fosse la prima forma di affrancamento, applicata già in epoca regia.
Festo menziona anche la manumissio
sacrorum causa[31], nella quale gli studiosi
scettici riguardo alla possibilità di manomissione nel quadro delle
più antiche forme di testamento vedono l’anello mancante[32], quindi una forma di
manomissione vigente prima delle riforme di Servio Tullio. Sembra comunque che sacrorum causa non indichi la forma, ma
lo scopo della manomissione: il proprietario si sarebbe avvalso di una delle manumissiones previste dal diritto
civile per assegnare lo schiavo al servizio della divinità nel tempio[33].
Le fonti non chiariscono se la riforma di Servio abbia
subito portato al formarsi della manumissio
censu. A mio avviso fu applicata sin dall’epoca regia. Quel tipo di
manomissione garantiva allo Stato di controllare il fenomeno in quanto
l’iscrizione nell’elenco dei cittadini era subordinata alla
decisione ed effettuata dal re, e successivamente dal magistrato.
Nel racconto di Livio, particolare importante, Vindicio
viene liberato per volontà della civitas,
e non del proprietario, già giustiziato per perduellio. Almeno in questo caso il parere dello Stato fu
decisivo. Lo storico sembra attendibile: soltanto le manomissioni posteriori,
sul modello della prima, si effettuavano in presenza del proprietario nelle
vesti di privato cittadino. L’addictio,
è vero, era di pertinenza di un magistrato con iurisdictio, ma questi non poteva prendere una decisione diversa al
cospetto di un’azione concorde del dominus
e dell’adsertor libertatis[34]. Alcuni studiosi[35] propendono per
l’anteriorità della manumissio
vindicta rispetto a quelle testamentarie e legate al censo. Ma a me sembra
che, in ordine cronologico, fu terza. In primo luogo perché in occasione
di tali manomissioni il controllo dello Stato risultava assai contenuto.
C’è da considerare, poi, che si trattava di una forma più
semplice e comoda delle altre, cui si poteva riccorrere ad ogni momento, e non
soltanto ogni cinque anni in occasione del censo o mortis causa, ove l’effetto si produceva dopo la morte del
manomettente. Parrebbe quindi che la forma più semplice sia posteriore e
che gradualmente abbia scalzato le altre, più complesse.
Meritevoli di attenzione sono senz’altro le
modalità e i requisiti della manumissio
censu. Da considerare, in particolare, le figure del proprietario, del
censore (o di altri incaricati del censo) nonché dello stesso schiavo.
Ulp. 1.8: Censu manumittebantur olim, qui
lustrali censu Romae iussu dominorum inter cives Romanos censum profitebantur.
Il brano è tratto da una compilazione
postclassica, Tituli ex corpore Ulpiani;
in quanto opera di carattere antiquario, probabilmente ci è pervenuto
inalterato. Il giurista informa che, in passato, liberati censu erano coloro che in occasione del censimento chiedevano, su
ordine dei proprietari, di venire iscritti tra i cittadini romani[36].
Munito dal proprietario dell’apposito iussum[37], lo schiavo[38] si presentava al censore
ed effettuava la professio. David
Daube[39] rileva a ragione una
marcata differenza semantica tra iussum
in occasione di manumissio censu e la
forma verbale iubere nella dizione Stichum servum meum liberum esse iubeo
usata nel fare testamento. Nel primo caso il proprietario ordinava di
presentarsi al censore, non rinunciando in principio del diritto di
proprietà; nel secondo era il proprietario stesso a concedere allo
schiavo una libertà soggetta soltanto a termine (dies a quo). Vale pure notare una possibile analogia con l’actio quod iussu, elaborata nel diritto
pretorio, che supponeva la responsabilità del proprietario per i debiti
contrattuali dello schiavo contratti per iussum.
Tale ingiunzione del proprietario doveva essere noto al contraente dello
schiavo. Forse in caso di manumissio
censu il proprietario non dava ordini allo schiavo – peraltro, come
si sarebbe potuto verificarlo?
– ma si rivolgeva direttamente al censore. Ciò poteva succedere a
censimento già avviato, allorché il pater familias notificava sé e la sua familia: informato dal pater,
il censore avrebbe in seguito accolto la notifica dello schiavo.
In tal caso la presenza del proprietario in occasione
dell’iscrizione dello schiavo nell’elenco dei cittadini sembrerebbe
piuttosto ovvia[40].
Lo confermerebbe un appunto su una legge e un editto del console C. Claudio del
Liv. 41.9.9-12: Legem dein de sociis C.
Claudius tulit <ex> senatus consulto et edixit, qui socii [ac] nominis
Latini, ipsi maioresve eorum, M. Claudio T. Quinctio censoribus postve ea apud
socios nominis Latini censi essent, ut omnes in suam quisque civitatem ante
kal. Novembres redirent. Quaestio, qui ita non redissent, L. Mummio praetori
decreta est. Ad legem et edictum consulis senatus consultum adiectum est, ut
dictator, consul, interrex, censor, praetor, qui nunc esset <quive postea
futurus esset>, apud eorum quem <qui> manu mitteretur, in libertatem
vindicaretur, ut ius iurandum daret, qui eum manu mitteret, civitatis mutandae
causa manu non mittere; in quo id non iuraret, eum manu mittendum non
censuerunt. Haec in posterum cauta iussique edicto C. Claudi cons. * * *
Claudio decreta est.
Livio si riferisce al problema dell’acquisizione
della cittadinanza dei Latini prisci
in virtù del ius migrandi. Per
potersene avvantaggiare un Latino doveva lasciare nella propria città
natale un figlio. Il requisito veniva aggirato sottoponendosi alla potestas di un Romano che in seguito
effettuava una manumissio che portava
all’acquisizione della cittadinanza. La legge e l’editto del
console Claudio vietavano un tale prassi in
fraudem legis e obbligavano i Latini che figurassero in tali elenchi a
ritornare nelle loro civitates,
nonché istituivano un apposito tribunale presieduto dal pretore[41]. Il Senato vi aggiunse un
senatoconsulto in virtù del quale il proprietario che volesse liberare
uno schiavo doveva professare lo iusiurandum,
dichiarando di non manomettere allo scopo di permettere l’acquisizione della
cittadinanza: in caso contrario il magistrato era obbligato a negare la
manomissione. A quanto pare, tale regola riguardava sia la manumissio censu che vindicta,
poiché non si indirizzava soltanto a censori in carica e futuri, ma
anche a dittatori, consoli, interré e pretori[42]. Al proprietario era chiesto di prestare giuramento: se
ne evince che di regola presenziasse all’atto dell’iscrizione dello
schiavo nell’elenco dei cittadini.
Resta ancora da stabilire chi decidesse la manumissio censu. Lo schiavo si presentava su ordine del proprietario, ma
l’iscrizione veniva effettuata dal censore, il cui ruolo, pertanto,
sembrerebbe determinante[43].
G. 1.140: Quin etiam invito quoque eo, cuius
in mancipio sunt, censu libertatem consequi possunt, excepto eo, quem pater ea
lege mancipio dedit, ut sibi remancipetur; nam quodam modo tunc pater
potestatem propriam reservare sibi videtur eo ipso, quod mancipio recipit. Ac ne is quidem dicitur invito eo cuius in mancipio est
censu libertatem consequi, quem pater ex noxali causa mancipio dedit, veluti
quod furti eius nomine damnatus est, et eum mancipio actori dedit; nam hunc
actor pro pecunia habet.
Gaio si era occupato dello statuto delle persone in mancipio che potessero essere
liberate in virtù di manumissio
censu, vindicta o testamento e diventare pertanto sui iuris (G. 1.138)[44], ma nel brano in parola
dimostrava che alla liberazione censu di
una tale persona si potesse addivenire anche senza il consenso di colui che
l’avesse nel suo potere.
Ciò risultava escluso allorché il pater familias avesse preteso l’obbligo di remancipatio del dato in mancipium, nonché in noxae datio. Togliere al danneggiato il
diritto di decidere la sorte della persona
in mancipio sarebbe stato ingiusto poiché l’autore del delitto
gli era stato dato a ricompensa del danno subito. Dal brano può
evincersi che poiché nel caso in oggetto la manumissio censu poteva effettuarsi senza il consenso del detentore
del potere, la decisione spettasse al censore, e il iussum non costituisse una conditio
sine qua non.
Gli studiosi si sono chiesti se l’iscrizione
effettuata dal censore fosse dichiarativa o costitutiva. Mommsen[45] asseriva che il censore
ricorresse a una finzione: iscrivendo lo schiavo nell’elenco dei
cittadini, assumeva per vero che questi fosse da tempo cittadino romano. I
sostenitori di questo punto di vista richiamano anzitutto un brano di
un’orazione ciceroniana del
Cic., Pro
Arch. 11: ...quoniam census non ius civitatis confirmat, ac tantum modo
indicat eum qui sit census [ita] se iam tum gessisse pro cive.
Per l’oratore l’iscrizione nell’elenco
non confermava il diritto di cittadinanza, ma indicava unicamente che
l’iscritto agiva da cittadino. Nel prosieguo Cicerone notava che Archia
aveva più volte fatto testamento in accordo con il diritto romano ed era
stato erede. Il brano indicherebbe che per essere iscritto nell’elenco
dei cittadini occorreva aver già conseguito la cittadinanza. Lo schiavo
quindi avrebbe dovuto essere trattato dal censore come se fosse già
diventato cittadino.
La mia interpretazione delle parole di Cicerone è
un po’ diversa. Il cittadino, la cui non iscrizione nell’elenco
risultasse giustificata[47] (come nel caso di Archia che
durante gli ultimi censimenti si trovava con Lucullo nelle sue province),
conservava il suo status civitatis,
che veniva soltanto notificato. Il brano di Cicerone non permette invece di
asserire che l’iscrizione nell’elenco confermasse sempre uno status civitatis già esistente.
Nel caso di uno schiavo la decisione di inserirlo nell’elenco, e quindi
di conferirgli la cittadinanza, veniva presa dal censore, la cui competenza in
materia sembra scaturire da una specie di mandato[48] datogli dai comitia centuriata, che l’avevano
eletto, poiché, nel periodo repubblicano, il diritto di conferire la
cittadinanza spettava unicamente ai comizi[49]. Altri soggetti potevano
agire in materia soltanto per delega. Non sembra quindi necessario, né
utile, ricorrere per la manumissio censu alla
finzione di cittadinanza[50]. Un ulteriore argomento
può rinvenirsi in Dionigi di Alicarnasso (4.22) che informa che la
cittadinanza romana dei vecchi liberti era contemporanea all’iscrizione
nell’elenco dei cittadini.
Non ci sono invece ragioni per arguire che
l’iscrizione del censore avesse carattere assoluto: se errata, era
invalida e non produceva l’acquisizione della cittadinanza.
Gli antichi discussero animatamente sul momento in cui la
manumissio censu producesse i suoi
effetti.
Cic., De
orat. 1.40.183: Quid? De libertate, quo iudicium gravius esse nullum
potest, nonne ex iure civili potest esse contentio, cum quaeritur, is, qui
domini voluntate census sit, continuone, an, ubi lustrum sit conditum, liber
sit?
Commentando nel De
officiis, opera ultima, scritta poco prima della morte, le astrusità
del ius civile, Cicerone annoverava
tra i quesiti più contorti quello di stabilire se uno schiavo, iscritto
per volontà del proprietario tra i cittadini, diventasse libero immediatamente
o soltanto a conclusione del lustrum[51].
Perplesso in merito fu anche un giurista del periodo
classico in cui ci si imbatte nel Fragmentum
Dositheanum, parte di un manuale di latino scritto da Pseudo-Dositeo[52] all’inizio del III
sec. a.C. e probabilmente composto di 12 libri, di cui il quinto, concernente
le manomissioni degli schiavi, è databile al 207 o poco prima.
Dell’opera si conservano due manoscritti, oggi a Leida e a Parigi,
suddivisi in due colonne parallele, con il testo latino e a fronte la
traduzione in greco.
Si è dibattuto dell’autore, cui
Pseudo-Dositeo ha largamente attinto, e dell’epoca in cui è stata
scritta. Nel convincente ragionamento di Honoré[53] si tratta
dell’autore di Regulae,
un’opera della seconda metà del II secolo, forse Gaio[54].
FD 17: Et qui censu manumittitur, si
triginta annos habeat, civitatem Romanam nanciscitur. Census autem Romae agi solet et peracto censu lustrum
conditur: est autem lustrum quiquennale tempus quo Roma lustratur. Sed debet
hic servus ex iure Quiritium manumissoris esse, ut civis Romanus fiat. Magna
autem dissensio est inter peritos, utrum eo tempore vires accipiant omnia, in
quo census, an eo tempore, quo lustrum conditur. Sunt enim qui existimant non
alias vires accipere quae in censu aguntur, nisi haec dies sequatur, qua
lustrum conditur; existimant enim censum descendere ad diem lustri, non lustrum
recurrere ad diem census. Quod ideo quaesitum
est, quoniam omnia quae in censu aguntur lustro confirmantur. Sed in urbe Roma
tantum censum agi notum est; in provinciis autem magis professionibus utuntur.
Per l’autore del brano il manomesso censu acquisiva la cittadinanza romana a
condizione che avesse compiuto 30 anni e il manomettente ne fosse il
proprietario quiritario. Il giurista continuava spiegando che dopo il
completamento del censo si procedeva al lustrum,
come si chiamava il tempo in cui, ogni cinque anni, Roma si purificava con il
sacrificio. Al censo si procedeva nella sola Roma; nelle province si
effettuavano le professiones. Tra i
periti, notava l’autore, v’era un gran dibattere
sull’efficacia di quanto fosse annotato durante il censo: diventava
efficace nel corso del censimento o soltanto dopo il lustrum? Non manca chi sostenga che ogni atto compiuto durante il
censo non sia efficace sino al giorno del lustrum.
Censorin., De die nat. 13-14: Idem tempus anni magni Rom anis fuit, quod
lustrum appellabant, ita quidem a Servio Tullio institutum, ut quinto quoque
anno censu civium habito lustrum conderetur; sed non ita a posteris servatum.
Nam cum inter primum a Servio rege conditum lustrum et id, quod ab imperatore
Vespasiano V et T. Caesare III cons. factum est, anni interfuerunt paulo minus
DCL, lustra tamen per ea tempora non plura quam LXXV sunt facta et postea plane
fieri desierunt.
Censorino, grammatico e antiquario della prima
metà del III sec d.C., in De die
natali scrisse che Servio Tullio decise che ogni cinque anni, a conclusione
del censo, si procedesse a Roma al lustro[55]. La volontà del re
non fu rigorosamente rispettata, perché nei 650 anni trascorsi dai tempi
di Servio (
Le perplessità sul rapporto tra gli effetti del
censo e il lustro potevano risalire al fatto che quest’ultimo venisse
celebrato alquanto di rado. Non tutti i censimenti terminavano con le offerte
sacrificali[56],
il che poteva suscitare confusione e incertezza.
Stando alle fonti, non si pervenne a risolvere il
problema. Alcuni volevano le decisioni prese durante il censimento efficaci
soltanto dopo il lustrum, altri con
ogni probabilità ribattevano puntando sui disagi di quella soluzione,
forse riuscendo, nella prassi, ad avere la meglio, come si deduce
dall’indiretta testimonianza di un brano di Festo.
Fest.
Al senato potevano pure prendere la parola coloro che
erano stati chiamati a ricoprire incarichi che dopo il lustro li avrebbero
autorizzati a entrare nell’assemblea. Ma fino all’iscrizione, da
effettuarsi durante il censimento successivo, tra le centurie dei seniores, non venivano chiamati senatori[57]. Il titolo di senatore
risultava quindi contemporaneo all’iscrizione e non doveva essere
confermato dal lustro. Non più di un indizio, ma alquanto eloquente, che
autorizza a collegare l’efficacia non al lustro, ma alla sola iscrizione.
Non può neanche escludersi che nel momento
dell’iscrizione il liberto fosse già trattato da libero, ma che cominciasse
a godere dei privilegi di cittadino soltanto dopo il lustro. Gli effetti della manumissio censu possono dividersi in
privati e pubblici. Per il diritto privato, il libertus si trovava da subito sotto il patronato; ma le
facoltà di diritto pubblico gli venivano assegnate dopo. Tale soluzione
avrebbe autorizzato il patrono alla revocatio
in servitutem qualora il liberto avesse dimostrato ingratitudine. In
teoria, anche il censore poteva modificare l’iscrizione fino al
sacrificio purificatore[58].
Cicerone informa di un requisito supplementare cui erano
soggette le manomissioni compiute durante il censimento.
Cic., Pro
Caec. 99: Iam populus cum eum vendit qui miles factus non est, non adimit
ei libertatem, sed iudicat non esse eum liberum qui, ut liber sit, adire
periculum noluit; cum autem incensum vendit, hoc iudicat, cum ei qui in
servitute iusta fuerunt censu liberentur, eum qui, cum liber esset, censeri
noluerit, ipsum sibi libertatem abiudicavisse.
Coloro che si trovassero in servitute iusta, diventavano liberi tramite l’iscrizione
nell’albo dei cittadini. Il brano è tratto dal discorso Pro Caecina, in cui Cicerone ha
affrontato il problema della perdita della libertà da parte dei
renitenti alla leva e degli incensi
trattandogli come persone che asserissero di aver voluto rinunciare alla
libertà. Per contrasto, l’oratore si sofferma su coloro che
avessero conseguito la libertà durante il censimento sottolineando che
si trattava di persone in iusta servitus.
G. 1.11: Ingenui sunt, qui liberi nati sunt;
libertini qui ex iusta servitute manumissi sunt.
Anche a detta di Gaio liberti
dovevano ritenersi coloro che fossero stati schiavi per legge[59]. Ragionando a contrario, colui che non fosse iustus servus non poteva diventare
liberto di diritto civile anche in caso di manumissio[60]. Pertanto, a dispetto di
una manomissione liber homo bona fide
serviens[61],
non avrebbe conseguito la cittadinanza romana tramite manumissio censu. Ciò farebbe pensare che l’iscrizione
del censore avesse valore costitutivo soltanto qualora alla manumissio censu fosse soggetta una
persona in iusta servitus.
Fino a quando si continuò ad applicare la manumissio censu? Legata al censimento,
non poté sopravvivervi. Gli ultimi censori furono chiamati, per
volontà di Augusto[62], nel
Sembrerebbe che la manumissio
censu, una delle tre forme di manomissioni civili, si manifestò a
Roma a seguito delle riforme di Servio Tullio. Dapprima il conferimento della
cittadinanza fu posteriore alla manomissione, poi – probabilmente ancora
in epoca regia, l’iscrizione nell’albo significò nel
contempo libertà e cittadinanza. La manumisso
censu parrebbe posteriore alla manumissio
testamentaria, ma anteriore alla manumissio
vindicta. L’atto di conferimento della cittadinanza e di manomissione
spettava al censore in virtù della delega dei comitia centuriata rilasciata nel momento dell’elezione
nonché del iussum del
proprietario; del iussum però
poteva farsi a meno. Nella prassi, si conseguiva la libertà
contemporaneamente all’iscrizione all’albo; per taluni dopo il lustrum. Quanto all’acquisizione
dei diritti cittadini, probabilmente avveniva dopo che il censore aveva
concluso i sacrifici purificatori. L’efficacia era inoltre subordinata
alla iusta servitus del liberando,
sebbene la manumissio censu fosse
accessibile anche alle personae in
mancipio. Si legge in alcuni giurisperiti che le manomissioni in occasione
del censimento si praticassero ancora nel II sec. d.C,, ma c’è da
credere che all’epoca l’istituto fosse ormai pressoché
disapplicato.
[Per la pubblicazione degli articoli
della sezione “Tradizione Romana” si è applicato, in maniera
rigorosa, il procedimento di peer review. Ogni articolo è stato
valutato positivamente da due referees,
che hanno operato con il sistema del double-blind]
[1] Così Ulpiano nelle Istituzioni, D. 1.1.4.
[2] Questo era molto sorprendente per gli stranieri. Cfr. I. Bieżuńska-Małowist, M.
Małowist, Niewolnictwo
[Schiavitù], Warszawa 1987, 194; F.
Reduzzi Merola, ‘Servo
parere’. Studi sulla condizione degli schiavi vicari e dei sottoposti a
schiavi nelle esperienze greca e romana, Napoli 1990, 37-38; C. Masi Doria, ‘Civitas, operae, obsequium’. Tre studi sulla condizione giuridica
dei liberti, Napoli 1999 (ristampa), 1-4.
[3] Cfr. E. Weiss,
Manumissio, RE 14.2, Stuttgart 1930,
coll. 1366-1377; W.W. Buckland, The Roman Law of
Slavery. The Condition of the Slave in Private Law from Augustus to Justinian,
Cambridge 1908, 437 ss.; A.M.
Duff, Freedmen in the Early Roman
Empire, Cambridge 1958, 23 ss.; S.
Treggiari, Roman Freedmen during the Late Republic, Oxford 1969 (ristampa
London 2000), 20 ss.; O. Robleda,
Il diritto degli schiavi nella Roma
antica, Roma 1976, 105 ss.; A. Watson,
The Law of Persons in the Later Roman
Republic, Oxford 1967, 185 ss.; Idem,
Roman Slave Law, Baltimore-London
1987, 24 ss.; C. Masi Doria, ‘Civitas, operae, obsequium’...,
1 ss.; P. López Barja de Quiroga,
Historia de la manumisión en Roma.
De los orígenes a los Severos, Madrid 2007, 16-37. Vedi anche A. Tarwacka, Prawne aspekty urzędu cenzora w starożytnym Rzymie [Aspetti
giuridici della magistratura censoria nell’antica Roma], Warszawa
2012, 195-214.
[4] Cfr. G.
Rotondi, ‘Leges publicae populi Romani’, Milano 1912, 463-464; M. Zabłocka, Przemiany prawa osobowego i rodzinnego w ustawodawstwie dynastii
julijsko-klaudyjskiej [Trasformazioni del diritto delle persone e della
famiglia nella legislazione della dinastia Giulio-Claudia], Warszawa 1987, 14-16.
[6] Cfr. Plaut., Cas.
504: Tribus non conduci possum
libertatibus. Ma vedi anche O. Fredershausen, De
iure Plautino et Terentiano, Göttingen 1906, 34.
[7]
Cfr. K. Kumaniecki, Cyceron i jego współcześni
[Cicerone e i suoi contemporanei], Warszawa 1959, 484.
[8]
Cfr. FD 5: Antea enim una libertas erat
et manumissio fiebat vindicta vel testamento vel censu et civitas Romana
competebat manumissis; quae appellatur iusta manumissio. Sul Fragmentum
Dositheanum vedi infra.
[9] Cfr. G. Rotondi,
op. cit., 455-456. Vedi anche W.W. Buckland, The Roman Law of Slavery. The Condition of
the Slave in Private Law from Augustus to Justinian, Cambridge 1908, 542; M. Zabłocka, Przemiany..., 13-14. Si deve anche notare che la lex Fufia Caninia non limitava le manomissioni censu – G. 1.44: Itaque
licet iis, qui vindicta aut censu aut inter amicos manumittunt, totam familiam
suam liberare, scilicet si alia causa non inpediat libertatem.
[11] Cfr. H. Last,
The Servian Reforms,
«JRS» 35/1945, 30-48, a parere del quale l’introduzione del
censo era connesso con la ristrutturazione dell’esercito romano in
formazione di hoplites nel V secolo
a.C.
[12] Il frammento viene inserito nella ricostruzione delle leges regiae (Serv. Tull. 5; FIRA). Cfr.
G. Franciosi (a cura di), ‘Leges regiae’, Napoli 2003,
160-161. Vedi anche G. Poma, Dionigi d'Alicarnasso e la cittadinanza
romana, «MEFRA» 101.1, 1989, 192-197.
[15] E. Volterra, Manomissione e
cittadinanza, [in:] Studi in onore di
Ugo Enrico Paoli, Firenze 1956, 695-699 argomenta che un libero senza
cittadinanza era nell’antichità inimmaginabile; pertanto il
conferimento della sola libertà, disgiunto dal conferimento della
cittadinanza, era di fatto impossibile. Vedi però H. Chantraine, Zur Entstehung der Freilassung mit Burgerrechtserwerb in Rom, «ANRW»
I.2, Berlin-New York 1972, 59-63, il quale nota che il costume romano di
conferire la cittadinanza ai liberti era ritenuto singolare. Lo studioso
osserva inoltre che i Romani non conoscevano categorie del popolo quali per
esempio i metechi, privi di cittadinanza, ma integrati, ancorché non
uguali, alla società. Cfr. anche Th. Mommsen, Römisches
Staatsrecht, 3a ed., III, rist. Graz
1952, 58-64, secondo il quale alle origini avevano la cittadinanza soltanto i patrizi,
ma non i plebei ed i clienti. M. Kaser,
Die Anfänge der
‘manumissio’ und das fiduziarisch gebundene Eigentum,
«ZSS» 61, 1941, 153-186, pensa che soltanto la manumissio testamento garantiva lo status del cliente e le altri la
cittadinanza. Cfr. C. Masi Doria,
‘Civitas’
‘operae’ ‘obsequium’. Tre studi sulla condizione
giuridica dei liberti, Napoli 1993, 9-15.
[17] Cfr. J.
Zabłocki, Kompetencje
‘patres familias’ i zgromadzeń ludowych w sprawach rodziny w
świetle ‘Noctes Atticae’ Aulusa Gelliusa [Le competenze dei
patres familias e delle assemblee popolari nelle questioni familiari alla luce
delle `Noctes Atticae’ di Aulo Gellio], Warszawa 1990, 115-119; Idem,
Le più antiche forme del
testamento romano, [in:] ‘Ius
romanum’. ‘Schola sapientiae’. Pocta Petrovi Blahovi k 70.
narodeninám, Trnava 2009, 554-556.
[19] Cfr. J.
Zabłocki, Kompetencje....,
122-124; Idem, Appunti
sul ‘testamentum mulieris’, «BIDR» 94-95, 1991-1992, 157-179.
[20] Cfr. J.
Zabłocki, Kompetencje...,
119-121; Idem, Le più antiche forme del
testamento..., 142-145.
[21] Cfr. C. Cosentini,
rec. (M. Lemosse, Affranchissement,
clientèle, droit de cité, «RIDA» 3/1979, 37-68 e M. Lemosse, L’affranchissement par le cens, «RHD» 27, 1949,
161-203), «Iura» 1, 1950, 532-534. L’autore
ritiene che la manumissio testamento
fosse stata resa possibile dal testamentum
per aes et libram. Concordando, si dovrebbe concludere che, prima fra
tutte, si elaborò la manomissione indiretta, fondata di fatto su due
azioni giuridiche inter vivos e,
pertanto, il familiae emptor era
impegnato a liberare lo schiavo dopo la morte del testatore. Questo non mi sembra probabile. Cfr. F. Wieacker, Hausgenossenschaft und Erbeinsetzung. Über die Anfänge des
römischen Testaments, [in:] Festschrift
der Leipziger Juristenfakultät für Heinrich Siber, I, Leipzig
1940, 3-57.
[24] Cfr. Plut. Publ. 7.8.
Tale etimologia sembra però assai approssimativa. Dovrebbe piuttosto
supporsi che tra i posteri il nome non si sia conservato e che sia stato
chiamato Vindicio per dare ulteriore smalto al racconto.
[25] Questo ruolo poteva essere ricoperto dal littore. Cfr. P.
Meylan, L’individualité
de la ‘manumissio vindicta’, [in:] Studi in onore di Vincenzo Arangio-Ruiz, IV, Napoli 1953, 472-473.
[26] G. 4.16. Cfr. M.
Staszków, Le commentaire de
Gaius sur la ‘vindicta’, «Labeo» 8.3, 1962,
315-329; Tenże, ‘Vim dicere’ im
altrömischen Proceß, «ZSS» 80, 1963, 92-108.
[27] R. Danieli in alcuni contributi quali: In margine a un recente studio sulla ‘manumissio censu’,
«SDHI» 15, 1949, 198-202 e Contributi
alla storia delle manomissioni romane, Milano 1953, argomenta che sino alla
riforma di Appio Claudio del
[28] Plut., Publ. 7.7.
Plutarco continua asserendo che altri liberti avessero conseguito il diritto di
voto soltanto durante la censura di Appio Claudio nel
[29] Si deve ricordare il pensiero di Marciano. D. 40.5.53 pr.: ...libertas
non privata sed publica res est. Cfr. W.
Wołodkiewicz, ‘Libertas
non privata sed publica res est’, «Index» 39, 2011,
216-221.
[31] Fest. 149 L.: Manu
mitti servus dicebatur, cum dominus eius, aut caput eiusdem servi, aut aliud
membrum tenens dicebat: ‘Hunc hominem liberum esse volo’, et
emittebat eum manu. La descrizione è tratta dal riassunto di Paolo
Diacono, nel Codice Farnesiano si è conservata invece una versione molto
ridotta del testo (Fest. 148 L.), dalla quale si evince tuttavia che la
manomissione venisse effettuata sacrorum
<causa> (Cfr. Fest. 296 L.)
e che il proprietario dovesse inoltre pagare la tassa, forse considerando
l’eventualità che il liberto si allontanasse dal tempio. Cfr. C. Cosentini, rec. (M. Lemosse)..., 533-534; O. Robleda, op. cit., 109-110.
[32] M. Bartošek, «Iura» 1, 1951, 469, recensendo il libro di
C. Cosentini, Studi sui liberti. I. Contributo allo studio
della condizione giuridica dei liberti cittadini, Catania 1948, è
del parere che le tre note forme di manomissione, dal punto di vista giuridico,
siano eccessivamente evolute per poterle radicare in epoca arcaica.
L’affermazione pare tropo categorica e sorretta soltanto da argomenti di
ordini ideologico.
[33] L’espressione sacrorum
causa può spiegarsi altrimenti. Forse si voleva permettere allo
schiavo di officiare i sacra.
Più convincente, comunque, la tesi legata al servizio nel tempio.
[34] Cfr. P. López
Barja de Quiroga, Historia de la
manumisión en Roma..., 22-23. Invece H. Lévy-Bruhl, L’affranchissement
par la vindicte, [in:] Studi in onore
di Salvatore Riccobono, III, Palermo 1936, 1-19 asserisce che la manumissio vindicta esigesse soltanto la
cooperazione tra il pretore e il proprietario, e non dell’adsertor libertatis, presente unicamente
in occasione di autentiche causae
liberales. Se così fosse, il ruolo della magistratura sarebbe stato
ben più rilevante e confermerebbe una forte ingerenza dello Stato
nell’atto di manomissione. Cfr. Idem,
Il processo di libertà in Roma,
«Labeo» 8, 1962, 404-407.
[35] Cfr. C. Gioffredi,
Libertà e cittadinanza, [in:] Studi in onore di Emilio Betti, II,
Milano 1962, 526; E. Gintowt, Rzymskie prawo prywatne w epoce postępowania
legisakcyjnego (od decemwiratu do ‘lex Aebutia’) [Il diritto
privato Romano all’epoca del processo per legis actiones (dal decemvirato
alla lex Aebutia)], a cura di W. Wołodkiewicz, Warszawa 2005,
48-51. P. Meylan, op. cit., 475 individua nella manumissio sacrorum causa il prototipo
della manumissio vindicta, a suo
parere la forma di manomissione più importante.
[36] Cfr. Boeth., Ad
Cic. Top. 2.10: Si quis ergo
consciente vel iubente domino nomen detulisset in censum, civis Romanus fiebat et
a servitutis vinculo solvebatur. P. López
Barja de Quiroga, Historia de la
manumisión en Roma..., 32, interpreta la parola olim come un’alterazione postclassica. Secondo lui ancora nei
tempi di Ulpiano la manumissio censu
era un’istituto vigente.
[38] Vedi J.F. Gardner,
Women in Roman Society and Law,
London 1986 (ristampa 1995), 222, che ritiene impossibile la manomissione censu di una schiava.
[40] Diversamente D.
Daube, op. cit., 66-68. Cfr.
anche S. Treggiari, op. cit.,
27, secondo cui il proprietario abitante fuori di Roma poteva mandare in
città lo schiavo da solo. Ma se il proprietrio stesso si doveva
presentare davanti ai censori, questa opinione non sembra fondata.
[41] Cfr. P. Frezza,
Note esegetiche di diritto pubblico
romano, [in:] Studi in onore di
Pietro de Francisci, I, Milano 1956, 204-206.
[42] Cfr. F. Cancelli,
Studi sui ‘censores’ e
sull’‘arbitratus’ della ‘lex contractus’,
Milano 1960, 44-46. Secondo questo Autore anche i censori potevano effettuare
la vindicatio in libertatem. Livio
non sembra però parlare soltanto delle manomissioni vindicta.
[43] Cfr. W.W.
Buckland, op. cit., 440; H. Last, op. cit., 37-38. Vedi anche la interessante analisi di P. López Barja de Quiroga, La fundación de Carteya y la
‘manumissio censu’, «Latomus» 56.1, 1997, 83-93. Sulla base di Liv. 43.3.1-4
l’Autore formula l’opinione che in Spagna il preside poteva in
questo caso manomettere censu certi dediticii.
[44] Cfr. S. Solazzi,
‘Manumissio ex mancipatione’,
[in:] Scritti di diritto romano, III,
Napoli 1960, 199-218. Con tale manomissione si poteva pure voler conseguire gli
effetti propri di un atto emancipatorio.
[45] Th. Mommsen, op. cit.,
58-59; Cfr. C. Cosentini, Studi sui liberti..., I, 15-16; P. Frezza, op. cit., 206.
[46] Cfr. K.
Kumaniecki, op. cit., 227-230;
G. Polo Toribio, La pretendida prueba material en la defensa
del poeta Arquías, «Diritto@Storia» 8, 2009, http://www.dirittoestoria.it/8/Tradizione-Romana/PoloToribio-Defensa-poeta-Arquias.htm
.
[47] Cfr. Schol. Bob.
[48] Cfr. F. De
Visscher, De l’acquisition
du droit de cité romaine par l’affranchissement,
«SDHI» 12, 1946, 72.
[49] Cfr. M.
Zabłocka, Nadawanie
obywatelstwa rzymskiego [Il conferimento della cittadinanza romana], «PK»
36.1-2, 1993, 217.
[52] Cfr. P. Jörs,
Dositheanum fragmentum, RE 10,
Stuttgart 1905, col. 1603-1605; L.
Wenger, Die Quellen des
römischen Rechts, Wien 1953, 528-529; A.M. Honoré, The
‘Fragmentum Dositheanum’, «RIDA» 12, 1965, 301-323.
[54] Le Regulae di
Gaio sono state ricostruite da O. Lenel,
Palingenesia iuris civilis, I, Graz
1960, col. 251.
[56] Non ci furono lustri nel 459 e nel
[57] Sul significato di
quibus in senatu sententiam dicere licet vedi F.X. Ryan, Rank and
Participation in the Republican Senate, Stuttgart 1998, 72-87.
[58] Sull’aspetto sacrale vedi M. Lemosse, L’affranchissement
par le cens, «RHD» 27/1949, 178-179, cfr. R. Danieli, Contributi..., 52.
[59] Per iusta servitus
possono ritenersi i casi in cui diventava schiavo colui il quale fosse stato
catturato di nemici; o fosse nato da madre schiava (ambo i casi derivavano dal ius gentium); ovvero, se avesse compiuto
20 anni, si fosse fatto vendere per ingannare l’acquirente e trarne
profitto (schiavitù iure civili).
Cfr. D. 1.5.5.1 (Marc. 1 inst.). Vedi anche A. Watson, The Law of Persons in the Later Roman Republic, Oxford 1967, 162; M.F. Cursi, ‘Captivitas’ e ‘capitis deminutio’. La posizione del
‘servus hostium’ tra ‘ius civile’ e ‘ius
gentium’, [in:] ‘Iuris
vincula’. Studi in onore di Mario Talamanca, II, Napoli 2001,
300-301. Diversamente E. Volterra,
Manomissione..., 708-709.
[62] Suet., Aug. 37; Dio Cass. 54.2. Cfr. J.
Suolahti, The Roman Censors. A Study
on Social Structure, Helsinki 1963, 539-540; A. Tarwacka, Prawne
aspekty..., 317 ss.
[63] Claudio condivise l’ufficio con Vitellio: Suet., Claud. 16; Cfr. F.X.
Ryan, Some Observations on the
Censorship of Claudius and Vitellius, A.D. 47-48, «AJP» 114.4/1993, 611-618. Vespasiano esercitò la censura con Tito (Suet., Vesp. 8; Tit. 6), mentre Domiziano assunse il titolo di censor perpetuus (Dio Cass. 53.18). Cfr J. Suolahti, op. cit., 540; A. Tarwacka, Prawne aspekty...,
330-340.