Università di Sassari
In tema di natura
del mandatum
Sommario: Premessa. – 1. Il problema del consenso del mandato. – 2. L’“uso sinonimico” di mandatum e di iussum nonché di mandare
e di iubere. – 3. La soluzione dominante in tema di mandato e
l’altra soluzione possibile. – 4. Conseguenze
delle due soluzioni interpretative del mandato. – 5. Verso la soluzione dominante. – Abstract.
Nonostante
il mandato nella esperienza giuridica romana sia stato oggetto di una
abbondante letteratura, non altrettanto può dirsi per il tema della natura
di tale contratto, specialmente per quanto attiene al profilo specifico della
formazione e articolazione della volontà connessa al rapporto interno
fra mandante e mandatario e ai profili esterni della relazione fra le parti e i
terzi. Eppure la importanza di tale tema si rivela utile non solo per la
comprensione di molti aspetti connessi al mandato, ma anche per la lettura di
parti essenziali del sistema giuridico romano alle quali dovremo fare qualche
rapido cenno. Basti pensare, sin da ora, ai rapporti tra il magistrato e il
popolo.
Limitandoci
in una prima fase della nostra analisi al piano interno e specifico del
mandato, si può osservare che il profilo della formazione e
articolazione della volontà consente di comprendere meglio la struttura
e il funzionamento del mandato stesso, in merito al quale sono molti i punti
oscuri non solo per quanto attiene alla sua origine, ma anche per quanto
concerne il suo impiego pure quando esso era divenuto ormai uno strumento
giuridico di frequente impiego nella prassi negoziale.
La
dottrina romanistica si è limitata a una analisi essenzialmente
privatistica, ma una prospettiva che chiamerei congiunta tra diritto pubblico e
diritto privato – le due positiones
studii di cui ci parla Ulpiano, in D. 1.1.1.2 – che corrisponde a una
impostazione scientifica sempre più avvertita come necessaria in
dottrina[1], si
presenta indispensabile per una rilettura anche della natura del mandato con i
profili di cui si è ora detto.
Sono
certamente numerosi, come è noto, gli studi di ius privatum volti a mettere in risalto la natura del mandato come
contratto consensuale, nel quale secondo taluni (che rispecchiano la dottrina
maggioritaria) si sarebbe realizzata una bilateralità imperfetta (penso
in tal senso al Corso di lezioni, un classico, tenuto da Vincenzo Arangio-Ruiz
su Il mandato del diritto romano, nel
1948-1949), per altri invece una bilateralità perfetta (rinvio in tal
senso a Giuseppe Grosso, nel suo altrettanto classico studio su Il sistema romano dei contratti,
pubblicato in prima edizione nel 1945; e poi più di recente a Giuseppe
Provera, nella voce della Enciclopedia
del Diritto da lui redatta su Mandato.
Storia, nel 1975)[2].
Nell’affrontare
il problema della bilateralità perfetta o imperfetta del mandato
è evidente che la dottrina dava per scontata la natura di esso come
contratto, più precisamente come contratto consensuale. Certamente
questa natura è stata riconosciuta come è noto attorno al II
secolo a.C., sulla base della fides bona:
D. 17.1.1.pr.-2: (Paulus libro 32 ad edictum):
Obligatio mandati consensu contrahentium consistit. 1. Ideo per nuntium quoque vel per epistulam mandatum suscipi
potest. 2. Item sive “rogo” sive
“volo” sive “mando” sive alio quocumque verbo
scripserit, mandati actio est. 3. Item mandatum et in diem
differri et sub condicione contrahi potest. 4. Mandatum
nisi gratuitum nullum est: nam originem ex officio atque amicitia trahit,
contrarium ergo est officio merces: interveniente enim pecunia res ad
locationem et conductionem potius respicit.
Gai. 3.135: Consensu fiunt obligationes in emptionibus et venditionibus, locationibus conductionibus, societatibus, mandatis.
Quanto
alla bilateralità perfetta, in dottrina la si rinviene sulla base del
passo di Gaio in cui essa è assimilata alla sinallagmaticità:
Gai. 3.155: Mandatum consistit, sive nostra gratia mandemus
sive aliena; itaque sive ut mea negotia geras sive ut alterius, mandaverim,
contrahitur mandati obligatio, et invicem alter alteri tenebimur in id, quod
vel me tibi vel te mihi bona fide praestare oportet.
La
ipotesi che qui intendo sostenere è che tale dimensione contrattuale del
mandato sia solo una di quelle che ci consentono di comprendere la sua natura.
Il mandato si caratterizza per una struttura e una identità complesse
che rivelano una tensione interna fra due anime differenti e complementari,
riconducibili da un lato alla relazione intra-potestativa/gerarchica conseguente
a uno iussum e dall’altro alla
relazione inter-potestativa/paritaria conseguente al contractum. Tale problema attuale si presenta come problema di
diritto romano privato e pubblico assieme, anche se mi limiterò a
mettere in rilievo soprattutto la dimensione privatistica.
Nella
dottrina romanistica si è talvolta posto in risalto il fatto che il
contratto di mandato si presenti come un contratto sui generis, senza però che ci si sia mai soffermati sulle ragioni
profonde di questa sua specificità. Certo, su un piano generale, la
particolarità del contratto di mandato è stata oggetto di
attenzione di quella parte della dottrina civilistica che ha ritenuto di dovere
effettuare una vera e propria demolizione critica del cosiddetto “dogma
del consenso”, per usare la efficace formula impiegata da un maestro del
calibro di Gino Gorla, in un suo celebre e denso studio del 1956,
significativamente intitolato appunto Il dogma del “consenso” o
“accordo” e la formazione del contratto di mandato gratuito nel
diritto continentale[3]. La
critica del Gorla ora richiamata si appuntava specialmente sul fatto che
«il concetto di consenso quale requisito a sé del contratto,
verrebbe a presentarsi come una generalizzazione di comodo o un criterio esterno di classificazione; quando non
voglia significare (come nel diritto romano) che, oltre il consenso, nelle sue
varie strutture corrispondenti a certi tipi riconosciuti dalla legge, non si
pongono requisiti di forma o di res e
che il negozio è iuris gentium,
con le relative conseguenze quanto alla possibilità di concluderlo fra
assenti, ecc.». Una critica questa che coinvolge la rilevanza stessa del
consenso all’interno del sistema contrattuale, la quale è ora al
centro di studi recenti di Luigi Garofalo, penso soprattutto alla sua relazione
scientifica su “Lo scambio atipico e le sue tutele”, presentata al convegno di
Copanello, nel giugno del 2014, dedicato al tema della “Libertà ed abuso nel diritto privato
romano”, con la quale relazione l’illustre studioso ha proposto non
semplicemente una demolizione del valore del consenso, ma una analisi
ricostruttiva di esso come parte del contratto, per rilevare che, in un sistema
fondato sulla tipicità quale quello romano, l’elemento che dava il
via alla tutela processuale si giustificava non sulla base di un generico
accordo che poteva anche appartenere al non-giuridico, ma sulla base anzitutto
dello scambio.
Per
comprendere che cosa sia l’accordo nell’ambito del mandato bisogna
quindi considerare l’altra polarità del mandato stesso derivante
dallo iussum indirizzato dal dominus negotii al mandatario. Si supera
in tal modo la questione se la bilateralità sia perfetta o imperfetta, in
quanto la analisi si sposta dal piano del nesso delle obbligazioni contrattuali
a quello della loro causa. Colui che assume la iniziativa nel mandato è
il mandante il quale attribuisce un incarico – le espressioni impiegate sono in D.
17.1.1.2, sopra richiamato, rogo, volo, mando – a un
mandatario che può accettare tale incarico. Il senso della
specialità di tale accordo è quindi assai diverso
dall’incontro tra una «promessa-accettazione» o da quello
dell’incontro tra «promesse e concessioni reciproche» (Gorla).
È
noto che l’etimologia di mandatum
deriva da manum dare, secondo una
linea di pensiero che è ancora attestata nelle Etimologie di Isidoro di Siviglia e che ancora resiste alle
critiche, volte a inficiarne il fondamento scientifico, prospettate fra gli
altri da Remo Martini, una ventina di anni fa in un suo lavoro sul “Mandato nel diritto romano”, senza
però addurre particolari argomenti a sostegno della critica[4]:
Isidoro, Etymologiae,
5.24.20: mandatum dictum quod olim in commisso negotio alter alteri manum
dabat.
Come
intendere il riferimento al manum dare?
Secondo Luigi Lombardi, la espressione alluderebbe all’atto di affidare all’amico
un affare[5]. Essa
non avrebbe quindi la funzione di richiamare un “intento
promissorio”. Ora il riferimento alla manus
intesa come espressione di un potere è ben nota in dottrina. Il dare la
mano non evoca qui un generico riferimento a una promessa di aiuto o
all’atto di affidamento di un uomo ad un altro, come vorrebbe ad esempio
Emilio Betti[6],
che poneva l’accento sulla fides
come costitutiva di un vincolo di affidamento. Il dare la mano, come
correttamente è stato messo in rilievo da ultimo da Salvo Randazzo,
nella sua monografia del 2005 su Mandare.
Radici della doverosità e percorsi consensualistici
nell’evoluzione del mandato romano, nelle lingue indoeuropee richiama
«l’esercizio di un potere giuridicamente fondato» [7].
Mi
sembra condivisibile il rilievo che l’esercizio del potere della manus non implichi, specialmente, ma non
solo, nella sua configurazione originaria, la necessità di una
accettazione del destinatario della volontà negoziale di colui che manum dans. Ciò attiene alla
formalizzazione di un consenso che certo si esprime ritualmente nella stretta
di mano e che è cosa diversa dal manum
dare inteso come affermazione del potere. La manus, richiamata nella etimologia del mandatum come manum dare,
svela, per usare la felice espressione del Randazzo, «un significato
antico e originario di ‘atto di comando’, di espressione di potere,
di volontà autoritativa finalizzata a conferire un incarico,
configurandosi, in sintesi come manifestazione di una volontà di
imperio»[8].
Ora tale potere non è da intendersi, come ad esempio vorrebbe ancora il
Lombardi, nel senso di un potere del procurator
sia pure sul patrimonio del dominus,
ma come un potere del mandante finalizzato a ottenere il compimento di una
attività da parte di un sottoposto.
Contro
questo carattere del mandato che richiama a una sua dimensione di affermazione
rituale di un potere, quando non addirittura a una sua unilateralità,
non si può invocare il fatto che la volontà espressa con il manum dare necessitava della recezione
di essa da parte di un soggetto che vi desse esecuzione. Perché un tale
rilievo confonderebbe i due piani della articolazione del processo di
formazione della volontà per ricondurli appiattendo entrambi alla idea
estranea alla esperienza giuridica romana della sostituzione della
volontà connessa all’impiego della rappresentanza, su cui ha
insistito da ultimo Giovanni Lobrano[9].
La
sottoposizione al potere della manus
connessa al manum dare è posta
in ombra nella dottrina romanistica, anche per quanto attiene alla fase
primigenia della formazione del mandato, perché, a mio avviso, si teme
che essa possa essere di impedimento, come in effetti lo è, alla piena
affermazione del dogma della consensualità del mandato. Tuttavia,
l’impiego della manus in
funzione della affermazione unilaterale di un potere è evidente in molte
parti del sistema giuridico romano. Senza dilungarmi eccessivamente basti qui
richiamare il rituale connesso all’esercizio della manus iniectio (Gai. 4.21), in cui la affermazione della manus è funzionale alla
instaurazione della procedura di esecuzione. O ancora al rituale del manum conserere (Gellio, 20.10.7) ove
è pure presente il rinvio alla manus
in funzione di cognizione della situazione giuridica fra i due contendenti del
processo.
Come
ho già osservato, la dottrina romanistica ha esaltato la natura del
mandato come contratto consensuale, mentre ha posto nell’oblio la
relazione del mandato stesso con lo iussum
e coerentemente ha negato la funzione dello iussum che ha finito per essere trasformato, per usare una
espressione di cui sono debitore al mio Maestro, Giovanni Lobrano, «da
comando al proprio subordinato di negoziare cum
incerta persona a una autorizzazione ad
incertam personam a negoziare con il proprio subordinato».
La
dottrina romanistica, in riferimento specifico all’actio quod iussu, ma con
una portata generale sul piano sistematico della valutazione dei processi di
formazione della volontà, che ha anche particolare attinenza ai fini del
nostro discorso sul mandato, ritiene comunemente che il destinatario dello iussum impartito dal dominus negotii non debba essere
identificato con il filius o il servus, di cui il primo (il dominus negotii) si sia avvalso per la stipulazione di un negozio giuridico, ma con
il terzo parte del negozio[10]. Lo iussum, quindi, atterrebbe al piano dei
rapporti esterni, per dirla con le parole di Ernst Rabel, e non a quello di un
ordine interno[11]. Un giovane
dottorando della Università di Sassari, Giancarlo Seazzu, ha mostrato
nella sua tesi di dottorato, ancora in fase di perfezionamento, come sia
relativamente recente la tendenza della dottrina romanistica a identificare lo iussum con una autorizzazione al terzo
perché questi possa liberamente e serenamente contrarre con un
sottoposto – filius o servus – del dominus stesso[12]. Un
tale approccio dogmatico, immune al condizionamento derivante
dall’impiego della categoria di rappresentanza, è ancora presente nella
opera di Christian Friedrich von Glück (1755-1831), autore di quel monumentale Commentario alle Pandette (1790-1830) in cui è raccolta la eredità della
Pandettistica tedesca del secolo XVIII.
Senza dilungarci eccessivamente sulla natura dello iussum nel sistema giuridico romano,
direi che esso ci richiama alle esigenze connesse alla manifestazione di una
volontà da parte del pater
familias all’interno del gruppo parentale, con le conseguenze che
potevano ingenerarsi in termini di affidamento da parte dei terzi. La
subordinazione connessa all’impiego dello iussum è evidente sul piano del diritto pubblico, quando si
consideri il ricorso allo iussum da
parte del popolo nei confronti del magistrato. E qui si potrebbe richiamare la
celebre definizione di lex in Gaio,
1.3: Lex est quod populus iubet atque
constituit. Plebiscitum est quod
plebs iubet atque constituit; o la altrettanto nota definizione di lex di Ateio Capitone, in
Gellio, Noct. Att. 10.20.2, come generale iussum populi aut plebis rogante magistratu[13].
Se
quindi va rifiutato l’atteggiamento della dottrina, che ha svilito la
funzione dello iussum a una mera
autorizzazione per il terzo, esiste la possibilità di configurare in
termini non rigidamente contrattualistici il mandato in forza di una altra
soluzione possibile che ne individui l’autentico codice genetico in quel
‘comando’ che dà ragione della sua stessa specificità
contrattuale.
La conseguenza
della soluzione dominante della natura del mandato in termini esclusivamente
contrattualistici è la interpretazione della attività negoziale
del mandatario come “rappresentanza”=“sostituzione”
della volontà del mandante.
È
noto che la scienza giuridica si trova oggi ad affrontare il tema della crisi
della persona giuridica a fronte della quale sta quella che Lobrano ha definito
la “alternativa” del recupero della “società”.
La crisi della persona giuridica, che è anche crisi di una certa nozione
di Stato, ha condotto la scienza costituzionalistica a ritenere che la idea
stessa di “rappresentanza” politica sia, per dirla ancora con le
parole di Lobrano (2006), «una parola vuota, una categoria senza
consistenza, uno pseudo-concetto» e a valorizzare quindi la idea di una
“partecipazione” attiva dei cittadini. Connessa a tale crisi vi
è il rifiuto della idea della “delega” rappresentativa, come
ha ricordato Aldo Schiavone in un suo libro del 2013: Non ti delego. Perché abbiamo smesso di credere nella loro
politica, in cui rileva che oggi sono in “crisi” gli stessi
elementi fondamentali del concetto di democrazia[14].
Ora
il recupero del modello societario, nella soluzione della grande questione
della considerazione della attività compiuta da una pluralità di
uomini, è possibile soprattutto a patto di liberarsi della tendenza
nefasta a identificare la societas
con la persona giuridica, tendenza questa che è evidente soprattutto
oggi quando quest’ultima è appunto in crisi, ma che risale
indietro nel tempo. Il rifiuto della categoria medievale-moderna di persona
giuridica e di quella connessa di rappresentanza, libero dai condizionamenti
derivanti dall’impiego delle suddette categorie, a fronte di un recupero
della nozione antica di societas, ci
permette di analizzare le dinamiche di potere in una chiave diversa, in cui
l’atto giuridico, come si evidenzia nel mandato, si articola in uno snodo
tra il momento della formazione e quello della manifestazione della
volontà, anziché in quello rigido della sostituzione della
volontà connessa all’impiego della rappresentanza.
La
conseguenza della soluzione opposta della natura del mandato in termini di iussum (e dunque anche ma non
esclusivamente contrattualistici) è invece la interpretazione della
attività negoziale del mandatario come integrativa (esecutiva specifica)
della volontà del mandante (comando generale).
Tali
‘conseguenze’ concernono non soltanto le relazioni di
“rappresentanza diretta” ma anche quelle di “rappresentanza
istituzionale” o “organica” e persino di
“rappresentanza politica”: antiche (a proposito del concetto di mandare magistratus si può
richiamare quanto osserva Tacito negli Annales
11.24); e qui bisognerebbe anche ricordare il rapporto tra i socii e i magistri nell’ambito delle societates contrattuali) ma anche moderne e contemporanee. Basti
qui richiamare il pensiero di Jean-Jacques Rousseau, nel Contratto sociale, e la adozione di uno schema fondato sul
contratto di società diverso da quello della persona giuridica e della
connessa idea di rappresentanza.
La
opinione secondo cui lo iussum sia
indirizzato al terzo, si diceva prima, è relativamente recente. Ancora a
cavallo tra la fine del 1700 e i primi del 1800, Christian Friedrich von
Glück poteva espressamente
riconoscere come per iussum si
dovesse intendere, sono sue parole, un «ordine al soggetto alieni iuris»[15].
Pochi decenni più tardi, Friedrich
Carl von Savigny poteva invece osservare che
«Se adunque il padrone comandava allo schiavo, di contrarre per lui un
debito, tuttavia il padrone secondo l’antico diritto non diveniva
debitore; per tal motivo qui il pretore introdusse un’azione propria quod iussu»[16]. Ancora
qualche decennio dopo, Bernhard Windscheid[17] notava
che «La parola iussus … significa non comando, ma istruzioni
impartite (Verweisung), delegazione (Anweisung). Col disconoscere questo senso
tecnico di iussus e nello stesso tempo rilevare, che l’actio quod iussu
ha di mira il caso, in cui alcuno vuol diventare obbligato per via di persone
soggette alla sua potestà, si è posta l’affermazione, che
lo iussus debba essere rivolto ai sottoposti alla potestà, od almeno,
che questo sia il caso normale dell’actio quod iussu … le fonti
parlano quasi solamente d’uno iussus al terzo … e l’unico
passo … nel quale lo iussus è indubbiamente riferito al sottoposto
alla potestà, 1. 2 D. quod cum eo 14. 5, non intende indicare le
presupposizioni proprie dell’actio quod iussu. Un comando al sottoposto
alla potestà può generare l’actio quod iussu solo in quanto
in questo iussus si contenga indirettamente uno iussus anche al terzo
…».
La dottrina ha
finito con l’interpretare le actiones
adiecticiae qualitatis e in particolar modo l’actio quod iussu attraverso la chiave di lettura della
rappresentanza della volontà, e quindi potremmo dire della
“sostituzione negoziale”[18].
Siffatta impostazione trae origine dalla riduzione, ad opera della
Pandettistica, del funzionamento dell’agire collettivo al
“binomio”, come lo ha definito il Lobrano, costituito dalla
connessione fra l’elemento della persona giuridica astratta e la
rappresentanza-sostituzione della persona giuridica. Tale riduzione ha portato
a dimenticare l’alternativa della societas
la cui concretezza si esprime dinamicamente in quell’«iter della volontà
dialetticamente articolato in iussum
generale dei soci e in administratio
particolare dei loro magistri/magistratus» che è il
nucleo essenziale del «regime operativo» della societas stessa. Ma anche condotto alla impostazione scientifica alla base della cancellazione del valore della
volontà del mandante nella costruzione di una relazione col mandatario
rispetto ai terzi.
La prospettiva della natura del mandato
permette di analizzare con precisione i processi di formazione e articolazione
della volontà sia per quanto attiene al rapporto interno fra le parti
stesse del contratto, sia per quanto attiene alle relazioni fra le parti e i
terzi. Tale prospettiva, inoltre, consente di rileggere parti essenziali del
diritto romano in una prospettiva ‘congiunta’ tra diritto pubblico
e diritto privato. La dottrina si è soffermata sul problema della
bilateralità perfetta o imperfetta del mandato dandone per scontata la
natura contrattuale. Ma il mandato presenta una natura complessa, che rivela
una tensione interna tra la relazione potestativa e gerarchica determinata da
uno iussum e la relazione potestativa
e paritaria derivante dall’assetto contrattuale. Soffermarsi su tali
aspetti significa riscoprire il codice genetico del mandato in quel
‘comando’ che dà ragione anche della sua stessa
specificità contrattuale.
The nature of mandate
makes possible to accurately analyze the processes of formation and
articulation of the will, focusing not only on the internal relationship
between the contract parties, but also between the same parties and third
parties. This perspective allows also to read essential parts of Roman law in a
'joint' perspective between Public law and Private law. The doctrine has
focused on the problem of whether the mandate contract has perfect or imperfect
bilateral nature, taking for granted its contractual nature. Anyway, the
mandate has a complex nature, which reveals an internal tension between the potestative term and the hierarchical one, which is
determined by an “iussum” and the potestative and equal report coming from the contract
nature. Focus on these aspects means to find the genetic code of the mandate in
the 'command' that gives reason even of his own contractual specificity.
[Per la pubblicazione degli articoli
della sezione “Tradizione Romana” si è applicato, in maniera
rigorosa, il procedimento di peer review. Ogni articolo è stato
valutato positivamente da due referees,
che hanno operato con il sistema del double-blind]
[1]
Si veda G. Lobrano, La
alternativa attuale tra i binomi istituzionali: “persona giuridica e
rappresentanza” e “società e articolazione dell’iter
di formazione della volontà”. Una ìpo-tesi (mendeleeviana), in Diritto@Storia,
10, 2011-2012 < http://www.dirittoestoria.it/10/D&Innovazione/Lobrano-Persona-giuridica-rappresentanza-societa-formazione-volonta.htm
>.
[2]
Lo stato di tale questione è oggi oggetto di un saggio informatissimo di
S. Viaro, Il mandato romano tra bilateralità perfetta e imperfetta, in
Scambio e gratuità. Confini e
contenuti dell’area contrattuale, a cura di L. Garofalo, Padova 2011,
407 ss., la quale autrice giunge egualmente
a riconoscere al mandato una natura di contratto perfettamente bilaterale.
[3]
G G. Gorla, Il dogma del consenso o accordo e la formazione del contratto di mandato gratuito nel diritto continentale,
in Rivista di diritto civile, I,
1956, 923 ss.
[4]
R. Martini, Mandato nel
diritto romano, in Digesto.
Discipline privatistiche. Sezione civile, XI, Torino 1994, 198 ss. (= Id., Il mandato, in Derecho Romano de obligaciones. Homenaje J.-L. Murga, Madrid 1994,
637 ss.).
[7]
S. Randazzo, Mandare. Radici della doverosità e percorsi
consensualistici nell’evoluzione del mandato romano, Milano 2005, 8.
[8]
S. Randazzo, Mandare. Radici della doverosità e percorsi
consensualistici nell’evoluzione del mandato romano cit., 10.
[9]
G. Lobrano, La
alternativa attuale tra i binomi istituzionali: “persona giuridica e
rappresentanza” e “società e articolazione dell’iter
di formazione della volontà”. Una ìpo-tesi (mendeleeviana) cit.
[10]
Appartengono, fra gli altri, a tale indirizzo dominante: B. Windscheid, Lehrbuch des Pandektenrechts, Düsseldorf 1865,
1109, nt. 6 e (rist.) 486, nt. 6; G. Mandry, Das gemeine Familienguterrecht, Tübingen
1876, 104 e 565 ss.; F. Drechsler,
Die actio quod iussu, Würzburg
1877, 60; A. Pernice,
Labeo. Römisches Privatrecht im
ersten Jahrhunderte der Kaiserzeit, Halle 1895, 504
ss.
[12]
G.C. Seazzu, Lo iussum fra diritto processuale e diritto sostanziale:
l’attività negoziale con il
terzo, Sassari 2015, Parte Prima, cap. III, par. 4, in corso di stampa.
[13]
Sul significato di iussum,
nell’ambito del diritto pubblico, si veda G. Lobrano, Res publica res populi, La legge e la limitazione del potere, Torino 1996, 111.
[14]
A. Schiavone, Non ti delego. Perché abbiamo smesso
di credere nella loro politica, Milano 2013.
[15]
C.F. von Glück, Ausführliche
Erläuterung der Pandekten, 1790-1830 (= Id., Commentario alle Pandette, libri XIV-XV,
Tradotti ed annotati da P. Bonfante, Milano
1907, 76 ss., da cui si cita).
[16]
F.C. von Savigny, System des
heutigen römischen Rechts, Berlin 1840-49 (= Id., Sistema del
diritto romano attuale, III, tr. di V. Scialoja, Torino 1900, 116, da cui
si cita).
[17]
B. Windscheid, Lehrbuch des
Pandektenrechts, Frankfurt a. M. 1862-70 (=Id., Diritto delle
Pandette, tr. di C. Fadda - P.E. Bensa, II, Parte seconda, Torino 1904, 468
nt. 6, da cui si cita).
[18]
Nella letteratura più recente si rinvia per tutti a M. Miceli, Sulla struttura formulare delle ‘actiones
adiecticiae qualitatis’, Torino 2001; G. Coppola Bisazza,
Lo iussum domini e la sostituzione negoziale, Milano 2003; Ead., Dallo
iussum domini alla contemplatio
domini. Contributo allo studio della
storia della Rappresentanza, Milano 2008.