Bussi-Foto-2015Luisa Bussi

Università di Sassari

 

I TRATTATI E LA GUERRA: LA LUNGA TRACCIA DELLA CONSUETUDINE INTERNAZIONALE.

IL MEDIOEVO E L’ETÀ MODERNA

 

 

Sommario: 1. La prima Patristica. – 2. S. Agostino. – 3. L’avvento dell’Islam. – 4. Il mutamento di indirizzo in Europa. – 5. I germi della trasformazione. – 6. L’età moderna.

 

 

1. – La prima patristica

 

Il Cristianesimo si innesta nella tradizione religiosa dell’antico Israele, da cui mutua, filtrandolo, il bagaglio dei precetti mosaici, primo fra tutti quel “Non ucciderai” che era stato ribadito dalla predicazione di Gesù come un divieto assoluto di ricorso alla violenza[1]. Sebbene non ancora elaborata e argomentata filosoficamente, la nuova religione – pur permeata dalla cultura romana - diventa fonte di ispirazione permanente di dottrine contrarie alla guerra.

Se Tertulliano[2], rispondendo a quei Cristiani che giustificavano il proprio servizio allo Stato argomentando che esso li obbligava all’uso delle armi, richiamava l’univocità e la radicalità del Vangelo nel vietare ogni forma di violenza, Cipriano avvertiva che nella formula dell'impegno battesimale era insita una sponsio atta a costituire un vincolo giuridico di tutti i fedeli con Dio e fra di loro[3]. E che di conseguenza la guerra doveva essere condannata come assassinio autorizzato[4]. Sulla stessa linea si pone Lattanzio, al quale anzi proprio il tema della guerra fornisce l’esempio utile ad una critica radicale della politica e del diritto romano[5]. Il divinum ius – visto come iustitia (divina), cioè verum ius – si contrappone per lui allo ius civile, suscettibile di piegarsi all’utilitas del momento: ne è dimostrazione proprio il popolo romano, il quale non ha inferto se non offese legittime, in guerre dichiarate dai feziali, e però si è impadronito di tutto il mondo[6]. Così pure S. Ambrogio afferma vigorosamente essere l’uso delle armi:

 

«a nostro officio … alienum … quia animi magis quam corporis officio intendimus: nec ad arma jam spectat usus noster, sed ad pacis negotia»[7].

 

E’ ben vero che metafore tratte dalla terminologia militare sono assai frequenti nei primi Padri della Chiesa[8] (non per nulla al concetto di miles Christi, rinvia ripetutamente lo stesso S. Paolo)[9]: contro il demonio è ingaggiata una battaglia che è un aspetto strategico della missione di Cristo. Si tratta però di una battaglia la cui arma vincente consiste nell'amare il nemico[10].

 

 

2. – S. Agostino

 

Tuttavia è un fatto che nei Vangeli compaiono figure di militari senza che a ciò si accompagni un segno di riprovazione, o l'invito ad abbandonare il loro servizio. In effetti sono proprio i problemi etici di Bonifazio, un generale di mercenari gotici ariani, che sono affrontati da S. Agostino in una lettera (scritta verso il 417) destinata a costituire  la base del modificarsi del pensiero cristiano in ordine all’uso della forza. S. Agostino (che già ha sotto gli occhi la fragilità dell’Impero: la disfatta di Adrianopoli, ove è morto lo stesso imperatore Valente è del 378, il sacco di Roma del 410) precisa qui che come alcuni combattono contro il nemico invisibile con la preghiera, così i militari contro quelli visibili, quindi a Bonifazio dice:

 

«Noli existimare neminem Deo placere posse, qui in armis bellicis militat. In his erat sanctus David, cui Dominus tam magnum perhibuit testimonium: inhis etiam plurimi illius temporis justi. In his erat et ille Centurio qui Domino dixit, Non sum dignus ut intres sub tectum meum; sed tantum dic verbo, et sanabitur puer meus»[11].

 

Non vi è, in questa risposta, nessuna condanna aprioristica di chi fa del bellum la sua professione, ma l’esortazione a ricordare che la capacità di combattere è essa stessa dono di Dio, pertanto non va usata contro la Sua volontà. La guerra, però, deve tendere alla pace, non viceversa:

 

«Pacem habere debet voluntas, bellum necessitas, ut liberet Deus a necessitate, et conservet in pace. Non enim pax quaeritur ut bellum excitetur, sed bellum geritur ut pax acquiratur. Esto ergo etiam bellando pacificus, ut eos quos expugnas, ad pacis utilitatem vincendo perducas: Beati enim pacifici, ait Dominus, quoniam ipsi filii Dei vocabuntur».

 

L'idea di giustificare la guerra mediante la pace successiva non era nuova, derivava da Aristotele[12], ma è direttamente a Cicerone che S. Agostino si ispira, pur trasformando e cristianizzando il suo pensiero. Perché se, come dice Cicerone, la guerra è giusta per difendersi dalle offese o per recuperare beni sottratti ingiustamente[13], S. Agostino avverte che è necessario un ulteriore requisito, tutto nuovo – l’animus – ribadendo che il cristiano deve restare, pur combattendo, pacifico, e mantenere la parola data anche nei confronti del nemico.

Pax servetur, pacta custodiantur suonava un canone del Concilio di Cartagine del 348[14], e S. Agostino ribadisce:

 

«Fides enim quando promittitur, etiam hosti servanda est contra quem bellum geritur; quanto magis amico pro quo pugnatur!»[15].

 

La distinzione fra bellum justum e bellum iniustum conosciuta dalla Chiesa nel Medioevo trarrà le sue radici da questi principi, che saranno fatti propri da tutta la letteratura canonistica successiva, a cominciare da Isidoro di Siviglia il quale, rifacendosi direttamente a Cicerone, sosteneva:

 

«De quo in Republica Cicero dicit: Illa iniusta bella sunt quae sunt sine causa suscepta. Nam extra ulciscendi aut propulsandorum hostium causa bellum geri iustum nullum potest»[16].

 

A tali fonti si rifarà Graziano, giusto a metà del XII secolo[17], nella straordinaria compilazione destinata a costituire il primo volume del Codex juris canonici. Tutta la Causa XXIII della Concordia discordantium canonum è per l’appunto dedicata all’uso della forza legittima:

 

«Si homicidium est hominem occidere, potest occidere aliquando sine peccato. Nam et miles hostem, et iudex vel minister eius nocentem, et cui forte invito atque imprudenti telum manu fugit, non michi videntur peccare cum hominem occidunt. Sed nec etiam homicidae isti appellari solent»[18].

 

Ma ancora nel Penitenziale di Burcardo di Worms, che scrive appena dopo il Mille, a chi uccideva in guerra per ordine dell’autorità legittima che lo avesse imposto per riportare la pace, o eliminava il tiranno che cercava di sovvertirla, veniva imposto di fare penitenza a pane e acqua nei giorni stabiliti per tre quaresime. Se poi l’omicidio veniva commesso senza il comando dell’autorità legittima, allora la penitenza era quella dovuta per un omicidio volontario, e cioè pane e acqua per l’intera quaresima e per sette anni[19].

 

 

3. – L’avvento dell’Islam

 

A modificare l’atteggiamento della Chiesa fu ancora una volta un nuovo fenomeno epocale, ossia la nascita e la pressione dell’Islam. La nuova religione sembrava concepita proprio per una rapida espansione[20]. Essa non era riservata ad un popolo eletto, come quella ebraica ma, come il Cristianesimo, aveva una vocazione universale. Inoltre, non vi erano dogmi – a parte la fede in Dio e nel suo profeta Maometto – non sacramenti, né riti, né clero. Per diventare musulmani era sufficiente la dichiarazione di fede.

In un primo tempo, Maometto aveva proibito ogni forma di violenza: i suoi seguaci non dovevano contraccambiare il male con il male. Tale atteggiamento mutò dopo l’Egira[21]. Le vicende che accompagnarono la predicazione contribuirono a favorire un diverso atteggiamento circa l’uso della forza, e una rivelazione coranica permise per l’avvenire ai Musulmani di usarla contro gli oppressori[22].

L’Islam si propone come una religione missionaria, tesa a restaurare l’originaria condizione umana di sottomissione a Dio[23]. A tal fine, ogni Musulmano è tenuto ingaggiare una lotta morale e materiale (gihàd)[24] contro l’errore e l’incredulità. In questa concezione, gli infedeli sono una potenziale fonte di violenza[25], sono il dâr-al-harb[26], l’ambito della guerra,  contrapposto al dâr-al-Islam, cioè alla comunità dei credenti[27], concepita come un ambito di pace e di fratellanza. Il gihàd è il mezzo temporaneo per raggiungere l’ordine islamico e trasformare in dâr-al-Islam il dâr-al-harb[28]. Funzionale a tale scopo è l’instaurazione di un governo a guida musulmana[29]: perciò, alla morte di Maometto, si cominciò a considerare l’espansione di quello da lui fondato e la sottomissione degli infedeli un dovere religioso[30]. E poichè l’ideale islamico non scinde fra Stato e religione[31], scopo della comunità dei credenti divenne l’espansione dello Stato di Dio[32].

Numerosi versetti coranici parlano della necessità e del merito della guerra condotta nel cammino di Allah[33], legandosi all’idea che ogni Musulmano, morto combattendo contro gli infedeli, è certo di guadagnare il Paradiso. Secondo alcuni, tuttavia, la dottrina del gihàd si sarebbe sviluppata non già al tempo del Profeta, ma successivamente, in concomitanza con le conquiste, collegandosi alle correnti apocalittiche[34] del VII secolo[35] e al favore riservato nel mondo sunnita a chi cade sul campo di battaglia, concezione, questa, risalente all'epopea di Gilgamesh[36].

In definitiva, secondo la teoria giuridica dell'Islam, la contrapposizione fra il dâr-al-Islam e il dâr-al-harb sottintende uno stato di ostilità latente che può divenire conclamata. Ma in quanto dovere collettivo, la guerra è una funzione dello Stato. Solo l'Imam è legittimato a dichiararla e a chiamare i credenti a combatterla[37]. Pertanto, l’attivazione di questo dovere non si potrebbe verificare se precedentemente non si è rivolto al nemico l'invito a desistere dall'errore e abbracciare l'Islam[38]. Mentre poi ai Pagani era lasciata solo la scelta fra la conversione all’Islam e la spada, i seguaci delle religioni rivelate, Cristiani ed Ebrei, come “popoli del libro” avevano la scelta fra la conversione, e l’accettazione della sottomissione pacifica al potere dei Musulmani[39], con il conseguente obbligo del pagamento di un tributo (djizya). In quest’ultimo caso, essi divenivano dhimmi, ciò che li faceva rientrare nella Umma,  la comunità del dar al Islam, ponendoli in una condizione giuridica di sottoposizione ai Musulmani. Solo il rifiuto delle prime due soluzioni rendeva lecita la loro punizione. L’iniziativa ingiustificata di aprire le ostilità era proibita dall'Islam, che consentiva l’uso della forza solo in funzione di autotutela[40].

D’altra parte, nella condotta della guerra, i combattenti musulmani avevano il dovere di non versare il sangue di alcuno inutilmente: era ad esempio proibita l’uccisione delle donne e dei fanciulli[41]. Sotto il Califfato, la guerra non concerneva legalmente se non i combattenti; donne, bambini, vecchi e malati ne erano esclusi ed erano vietati l’uccisione degli ostaggi, così come le rovine e le devastazioni gratuite (come il taglio degli alberi); e se evidentemente poteva darsi che i civili potessero essere danneggiati o ridotti in prigionia, poteva accadere ugualmente, anche in caso di gihâd, di vedere grandi carovane di mercanti passare indifferenti fra le armate in combattimento[42].

Peraltro, fra il dâr-al-Islam e il dâr-al-harb certi intervalli di pace erano comunque permessi dalla legislazione coranica, e i Musulmani potevano stabilire relazioni pacifiche con i non-Musulmani vuoi individualmente, vuoi collettivamente, se una pace di questo genere non era contraria ai loro interessi. A fornire un precedente in tal senso era il trattato di Hudaybiya concluso dal Profeta con i non credenti della Mecca nel 6-628[43]. Il Corano non solo accorda ai Musulmani la possibilità di  concludere un trattato di tal genere con il nemico, ma gli fa anche obbligo di osservare i termini dell'accordo sino alla fine del periodo specificato[44], una volta che è stato accettato dai Musulmani. Non di altro si tratta che del principio pacta sunt servanda, sottolineato tanto dalla legislazione coranica[45] quanto dalla dottrina. In diritto musulmano, insomma, l’accordo si stabilisce nella prassi, cioè a dire fra le parti interessate, e riceve la convalida dell'autorità. Infatti, il potere di concludere un trattato veniva sì riconosciuto ai generali in campagna – i quali erano abilitati a negoziare con il nemico, se questi voleva accordarsi con l'Islam – ma l’Imam si riservava il diritto di non ratificare il trattato, se questo non era compatibile con gli interessi dell’Islam. La sua approvazione era perciò necessaria per legare la comunità islamica, e d'altra parte, anche dopo che era stato ratificato, il trattato stesso era suscettibile di venire denunciato dall'Imam, il quale poteva mettervi fine a condizione di notificare tale sua intenzione al nemico[46].

Inoltre, sul piano individuale anche lo Harbi (persona del dâr-al-harb) poteva entrare nel dâr-al Islam a condizione di avere ottenuto prima un amân da un credente qualsiasi[47]. Anche sul piano collettivo, i non credenti potevano ottenere uno statuto temporaneo di tal genere con un atto ufficiale direttamente o indirettamente accordato dall'Imam, il quale in questo caso concedeva agli abitanti di un territorio, il cui governatore aveva concluso un trattato di pace con i Musulmani, il beneficio dell'amân acquisito da quello[48]. E’ sulla base di questi concreti accordi bilaterali che si viene costruendo la dottrina islamica del diritto dei trattati.

 

 

4. – Il mutamento di indirizzo in Europa

 

Sta di fatto che è stata sostenuta la tesi che il concetto di gihàd possa aver influenzato quello di crociata e, quale suo presupposto, di comunità dei popoli cristiani. In un celebre scritto, il Pirenne avanzò la teoria che il sorgere stesso dell'Impero carolingio si spiegherebbe con l'avanzata delle armi dell'Islam, contro cui, sino alla battaglia del Garigliano, i potentati cristiani non riuscirono che a difendersi a fatica, e la cui espansione, pur non potendo abbracciare tutto il Mediterraneo – che era stato il cuore dell’impero di Roma - ne aveva però fatto una barriera per la Cristianità, costretta, di conseguenza, a "continentalizzarsi"[49]. Certo è che nell'846 Roma e Ostia furono saccheggiate dai Saraceni, che risalendo il Tevere e l’Aniene giunsero sino a Subiaco e in tale occasione, all'esercito di Franchi approntato per combattere i nemici di Cristo, con un deciso capovolgimento di prospettiva circa il problema dell'uso della violenza bellica, il papa Leone IV avvertiva che non avrebbe consentito che i Cristiani venissero ulteriormente perseguitati: qualcosa di simile a quanto si profila oggi che dalla Pacem in Terris di Giovanni XXIII[50], le posizioni del Vaticano II e la  Evangelium Vitae (ove si ribadisce che non esiste collegamento fra giustizia e guerra)[51], il risveglio d’un Islam espansivo e le diffuse, sanguinose persecuzioni dei Cristiani sembrano voler riportare persino il Papa ad un ripensamento. Leone IV incitava a combattere senza timore i nemici della fede, assicurando che la ricompensa celeste non sarebbe stata negata a tutti coloro che fossero morti combattendoli[52]. Nello stesso senso si pronunciava Giovanni VIII nell'879[53]. L'idea di crociata come recuperatio dei luoghi santi doveva prendere poi forma a causa della distruzione del tempio del Santo Sepolcro e dell'intolleranza dimostrata da Hâkim[54] contro i Cristiani di Gerusalemme, e venir propagata dall'Ordine di Cluny, i cui abati riuscirono a radunare le forze necessarie a respingere i Musulmani dalla Provenza e dalla Sardegna[55].

La dottrina bizantina sulla guerra non seguì l'evoluzione di quella musulmana o di quella della Cristianità occidentale, restando fedele ai primi Padri della Chiesa, anteriori a S. Agostino. I Bizantini non comprendevano la gihàd e il grande ideale religioso che spingeva i Musulmani contro l'Impero. Per essi, ad animare i fedeli del Profeta era vuoi la speranza del bottino, vuoi un amore barbaro della guerra, o la devozione alla cosa pubblica. Una contrapposizione di idee che in qualche modo somiglia a quella odierna.

L’Occidente cristiano è peraltro sotto assedio: dal Nord subisce le incursioni devastatrici degli Scandinavi, da Est si abbattono sulle terre alemanne, italiane e borgognone quelle degli Ungheri. Ecco quindi che esso si trova nuovamente a riflettere sull’uso legittimo della forza, che per lungo tempo, in un’Europa politicamente polverizzata in un numero imprecisato di signorie, unite da rapporti di tipo feudale, è appannaggio di una nobiltà di spada determinata a difendere e possibilmente ampliare i propri domini.

Come è stato da tempo osservato[56], la concezione patrimoniale dello “Stato” comportava tanto che gli stessi regni non fossero considerati altrimenti che come grandi domini, quanto che i dominia mostrassero relazioni di imperio. L’intero quadro delle istituzioni medievali non presenta insomma distinzione qualitativa fra “domini di diritto interno” e “domini di diritto internazionale”, restando unicamente rilevante la complessa rete gerarchica che tutti li legava all’interno di una medesima societas[57]. Sia l’esercito, sia la società stessa sono tenuti insieme, in pace come in guerra, dal legame con il signore (Schutzherr:  un legame che si scioglieva alla sua morte)  e dalla comune fede religiosa, che portava a concepire la vita attraverso il prisma di un ordinamento trascendente traente origine da una volontà divina tesa a imporre il rispetto della personalità umana in tutti i suoi rapporti[58]. In guerra tutti i “grandi” del popolo erano obbligati alla fedeltà (Treue) ed al seguito (Gefolgschaft) nei confronti del re, allo stesso modo in cui lo erano gli uomini del popolo nei confronti dei loro signori. Poiché questi ultimi erano immediatamente obbligati nei confronti del re, tutto il popolo formava, per così dire, una piramide di guerrieri – potenzialmente in conflitto anche fra loro – che solo l’obbligo alla fedeltà e al seguito teneva uniti. Dunque è il signore che porta la responsabilità della guerra. Poiché nessuna vittoria è possibile senza l’aiuto di Dio, il combattente deve saperLo dalla propria parte, cioè deve essere consapevole e convinto della legittimità della guerra[59]. Non esisteva, al momento, un legame totalizzante come quello che assoggetta l’individuo allo Stato moderno. La soggezione personale dei vassalli nel nono e decimo secolo assunse la forma del diritto del signore di richiedere al vassallo di prestare aiuto militare e di essere assistito personalmente da lui in caso di necessità[60]. Illuminante è la forma fidelitatis tramandata dai libri feudorum. Qui si prevede che, nel legarsi al suo signore, il vassallo giuri: «Et si scivero te velle iuste aliquem offendere et inde generaliter, vel specialiter fuero  requisitus: meum tibi sicut potero, prestabo auxilium»[61]. Il mancato assolvimento dell’obbligo pone il vassallo al rischio di perdere il feudo. Ma al termine “requisitus” la Glossa spiega: «Istud verbum non ponitur hic sine causa. Nec enim vasallus tenetur officium offerre domino: quantocunque enim tempore steterit, quando domino non servierit, ob hoc non amittit feudum dum tamen domino petenti servire paratus sit si tamen sciverit domino magnum periculum imminere, puta mortem, vel captionem, vel quid simile: tunc ultro se ei offerre debet». E al verbumoffendere” la stessa Glossa precisa:«bene iuste dicit: quia non tenetur vasallus dominum adiuvare si iniuste velit eum offendere, nisi ad domini defensionem vel nisi dubitetur utrum iuste an iniuste velit eum offendere». Dunque l’obbligo del vassallo di prestare servizio in armi al signore non è assoluto bensì soggetto a condizioni. Egli dovrà accorrere in sua difesa in caso di magnum periculum, come una minaccia di morte o di rapimento, eventualità certo non infrequente in un tempo in cui le controversie sfociavano di frequente in una faida[62], nonostante la costituzione fredericiana relativa alla pace dell’Impero, recepita nei Libri Feudorum - e di qui nel Volumen . Essa imponeva:

 

«Haec edictali lege in perpetuo valitura iubemus, ut omnes nostro subiecti imperio veram et perpetuam pacem inter se observent: et ut inviolatam inter omnes in perpetuo observent duces marchiones, comites, capitanei valvasores et omnium locorum rectores cum onmibus locorum primatibus et plebeis»[63].

Ma primo e fondamentale presupposto di una faida legittima è l’esistenza di un fondamento giuridico, giacchè essa tende al ristabilimento del diritto violato (altrimenti non di legittima faida si tratterebbe ma di rapina, iniustum bellum) ed esige che siano rispettate alcune condizioni: anzitutto la formale notifica della  diffida, quindi il rispetto dei limiti stabiliti dalla consuetudine, senza la qual cosa  l’uso dei mezzi propri del combattimento diventa disonorevole. Chiaramente i Libri Feudorum stabiliscono che, ove il dominus muova guerra ad alcuno, il vassallo non è obbligato a prestargli il proprio auxilium se non sa o almeno dubita che tale guerra sia giusta[64]. Se gli è manifesto che invece il dominus l’ha mossa irrationabiliter, allora egli sarà tenuto a prestargli aiuto solo ad defensionem; ad offendendum no, e potrà seguire il suo signore solo si vult, senza per questo perdere il feudo. Nei confronti del dominus colpito da bando o scomunica, si ammette anzi la absolutio del vassallo dall’obbligo del servizio in quanto sciolto dal giuramento di fedeltà.

Tali princìpi si riflettono nel paradigma della guerra giusta che canonisti e civilisti vanno sviluppando al riguardo, fermo restando che, come puntualizza Azzone: «Pacta, quae non dolo malo nec contra legem sunt inhita, servanda sunt; maxime quando ex publica causa fuerit, ut propter pacem, cum inter se duces belli paciscantur»[65].

Rileggendo il Codice, la Glossa e la civilistica successiva, sulla scorta dell’interdetto unde vi, connettevano alla titolarità del dominio la possibilità di difenderlo ed eventualmente recuperarlo anche avvalendosi dell’uso delle armi[66], sia pure nei limiti del moderamen inculpatae tutelae.

La Chiesa, dal canto suo, mentre ribadiva l’obbligo di rispettare gli accordi facendo della ratio pacis fractae un'autonoma fattispecie delittuosa[67], non si stancava di rivendicare a sé il giudizio sulla liceità dell’uso della forza: «nota crimen pacis fractae et periuriis directe pertinere ad iudicium Ecclesiae» avvertiva Innocenzo IV[68].

La canonistica ribadisce, perché la guerra sia justa, la necessità di alcuni requisiti. Anzitutto la causa (propulsare hostes, repetere res, ulcisci iniurias); quindi il possesso del gladium sanguinis, vale a dire il potere di giustizia:«ut videlicet publicae potestates bello presideant, principes scilicet apud quos secundum iura belli committendi consilium et preceptum est»[69]; infine la dichiarazione di guerra e la mancanza di un divieto circa l’essere soggetti attivi o passivi di violenza bellica, perchè: «Militare aliis est licitum, aliis illicitum; illicitum ut his quos in sacris ordinibus constat exsistere»[70].

Infatti: «Laicis itaque ex justa causa, vel pro vindicta inferenda, vel pro iniuria propulsanda militare non est peccatum, dummodo publice potestates bello gerendo presideant indicto mandato sive permissa licentia a principibus...Clerici vero militare non possunt, i.e. arma movere, sed in certis casibus aliis ut moveant iniungere»[71].

Nella sintesi che la dottrina tardomedievale opera fra jus canonicum e jus civile, se è a Graziano – e in ultima analisi al Cicerone filtrato da S. Agostino – che ci si rifà per la definizione di justum bellum, è dal Digesto che si trae il concetto di hostis[72]. Il bellum iustum infatti: «...geritur adversus eos qui hostes publice determinati sunt, vel quod fit propter res repetendas quae vi ablatae sunt»[73]

L’hostis contro cui è lecito muovere guerra è il popolo che ha mosso guerra contro il popolo romano o contro il quale viceversa essa è stata dichiarata dal popolo romano tramite la persona dell’Imperatore[74]: ma con chi si identifica ora il popolo romano? Canonisti come l’Ostiense(1210-1271) o Innocenzo IV(1195-1254) rispondono: la Christianitas.

Riassumendo i criteri che consentivano di distinguere la guerra ingiusta dalla giusta, e sui quali si era ormai attestata la dottrina (la ratio rei, ut si non est de repetendis rebus vel pro defensione patriae; poi la ratio causae, ut si voluntarie non necessario pugnet; l'animus, seu quando fiat ad vindictam; la presenza o mancanza dell'auctoritas principis; la ratio personae, ut puta quia ecclesiasticus est[75]), essi ritenevano che si potesse così distinguere fra il bellum inter fideles et infideles – giusto dalla parte dei fedeli – e quello quod est inter fideles, nel quale le parti – a norma della legge hostes – non potevano essere considerati se non come latrunculi[76]. Ne conseguiva che in questo caso, in quanto ingiusta, la guerra non poteva costituire titolo[77]: nel caso di bellum illicitum res captae non sunt capientium[78].

 

 

5. – I germi della trasformazione

 

Tuttavia, a mano a mano che avanza l’idea dello Stato assoluto, avanza pure quella che una guerra legittima possa essere indetta anche a prescindere dall’iniziativa dell’Imperatore o del Papa. La legge Hostes – dice Jacques de Révigny – potrebbe trovare applicazione: si esset imperator ad quem possent illi potentes recurrere, set per defectum iudicis licet eis sua auctoritate ius dicere. Secondo alcuni – prosegue questo giurista – si potrebbe ricorrere al Papa[79]: «..ut per eum iustitiam consequatur, si potest vel eo auctoritate praestante bellum indicat»[80].

Ma ritenere obbligatorio il previo ricorso al Papa – dice il Revigny – è inammissibile. Prima di tutto perché tale ricorso sarebbe molto costoso et isti nobiles non sunt pecuniosi. Poi perché dalle more potrebbero derivare ingenti danni come incendi e occupazioni del territorio[81].

Così pure l’Ostiense, nel commento alle Decretali, ammette che può muovere una guerra giusta anche una civitas vel dominus terre imperi, che non abbia ottenuto risposta alla propria domanda di giustizia[82].

In realtà, il ricorso all’autorità religiosa[83] per tentare la via della conciliazione era meno infrequente di quanto il giurista orleanese lasci pensare. Gli Acta pontificia juris gentium[84] documentano quanto spesso ci si imbatta nell’opera pacificatrice del Vescovo di Roma, svolta sotto forma di buoni uffici, mediazione o vero e proprio arbitrato. Fino alle soglie  dell’età moderna si può dire che di questi mezzi alternativi di soluzione delle controversie i potentati europei abbiano ripetutamente usato: in alternativa agli esponenti del Clero, si ricorreva talvolta all’opera di una potenza amica o di una personalità di riconosciuta autorevolezza[85].

Già Bartolo aveva preso atto dell’esser venuta meno l’autorità dell’Impero al quale si poteva ricorrere come a un giudice superiore[86], spiegando così l’istituto delle rappresaglie: nei limiti dell'autodifesa, non essendovi copia judicis, era lecito per re, principi e città sibi ius dicere propria authoritate, a maggior ragione ad liberandam rem publicam, ad quam defendendam omnes admittuntur[87].

In effetti proprio la competenza di guerra era il nodo gordiano nel quale si dibatteva la politica e il diritto pubblico medievale.

E finalmente Fulgosio afferma apertamente che la guerra può essere giusta da ambo le parti:

 

Respondeo quod quia incertum erat utra pars iuste bellum moveret, nec erat iudex communis utrisque superior per quem id possit cetum civiliter effici, optima ratione constituerunt gentes, ut eius rei iudex bellum foret: hoc est, ut quod in bello vel per bellum caperetur, partis capientis fieret: quasi sibi adiudicatum a iudice  fuisset : ut inst. de off. iudicis § finali iuxta illud Lucani. Utendum est iudice bello[88].

 

Requisito necessario del bellum è ora che in un dissidium armatum si affrontino popoli liberi: questa –vale a dire la mancanza di un superior – è la conditio sine qua non perchè si abbia propriamente un bellum. E’ proprio in forza della loro libertà che i popoli, i quali non hanno giudice sopra di sé, sono costretti ad adottare questo mezzo come soluzione delle loro controversie. Il popolo agisce attraverso il suo principe, dunque è il principe che deve dichiarare la guerra («princeps est caput et primus et summus magistratus populi romani, et populus dicitur indixisse cum princeps indixerit»)[89], ma a tal fine vale anche chiunque regga la civitas.

L’esistenza di una justa causa belli passa quindi in seconda linea rispetto a quella di un’auctoritas principis non condizionata da nessun’altra autorità superiore, e quindi capace di decidere autonomamente non solo chi sia hostis – dunque quali siano bella e quali latrocinia, seditiones, bella civilia – ma anche se e quando iniziare le ostilità.

In questa progressiva trasformazione, la “diffida” nata dalla denunzia del contratto feudale in occasione della faida, e staccatasene abbastanza presto, diviene sinonimo di “bellum denuntiare” e il diffidare aliquem finisce con l’equivalere a “bellum indicere[90].

Nel modificarsi delle modalità di combattimento dovuta all’introduzione di nuove armi[91], muta peraltro anche la posizione dei non combattenti. Il danno che essi subiscono trova una giustificazione nel riallineamento dei diritti naturali degli individui, trasferiti nelle mani del sovrano[92]. Come nelle rappresaglie[93] l’individuo si poteva soddisfare sui beni dei terzi, così ora i beni dei non combattenti possono essere preda della violenza bellica in quanto sudditi del nemico. Non la persona, però, perché si riteneva che questa non potesse essere coinvolta che per responsabilità personale[94]. Il problema del rapporto fra la responsabilità del singolo e quella della universitas era stato infatti avvertito fin dai primordi della scuola di Bologna. Se sulla base della personalizzazione della civitas si ammetteva che questa potesse delinquere[95] ed essere ritenuta imputabile anche di azioni compiute dai suoi cittadini per dolo o timore, quindi di delitti volontari[96], si era però affermato che le due imputazioni non erano assimilabili[97]. Al tempo stesso si era venuti chiarendo non esser lecito distruggere ogni cosa del nemico, ma solo l’indispensabile, per indebolirlo: non i monumenti sacri, né i sepolcri[98].

 

 

6. – L’età moderna

 

All’inizio del XVI secolo la problematica conosce una nuova fiammata d’interesse. Sullo sfondo stanno le guerre di religione, la rinnovata minaccia turca[99], la scoperta del Nuovo Mondo. Sebbene si ammetta ormai che la guerra può essere giusta da ambo le parti, il problema della sua liceità morale non cessa tuttavia di esigere risposta: affrontato da S. Tommaso nella famosa questio de bello, tale problema si riaccenderà nella cosiddetta seconda scolastica, soprattutto in occasione delle conquiste americane, effettuate a scapito di popolazioni che mai prima di allora si erano rese responsabili di atti di violenza a danno della Christianitas e dei suoi soggetti[100]. I pubblicisti che si proposero di legittimare le conquiste spagnole nel Nuovo Mondo, come Matias de Paz e Juan Lopez de Palacios Rubios, si servivano della tesi dell’Ostiense, secondo il quale, dopo la venuta di Cristo, ogni potere secolare legittimo era stato trasferito ai cristiani[101]. Tuttavia questa tesi non era affatto l’unica nè la più diffusa fra i canonisti, che in maggioranza preferivano le opinioni più moderate di Innocenzo IV[102]. Anche uno dei più illustri, come il Covarruvias, in un lavoro dedicato a Filippo II, scriveva in un consilium dal titolo De bello adversus infideles che il dominium degli infedeli è legittimo[103]. Las Casas insistè per tutta la vita che il dominium dei nativi Americani era legittimo e giusto, e che gli Spagnoli non avevano il diritto di usurpare ciò che quelli possedevano a giusto titolo[104].

Le guerre di religione, dal canto loro, spezzando l'unità della Christianitas mostrarono la necessità di una autorità sovrana decisiva, il cui potere fosse capace di risolvere i problemi posti dalla frattura sociale. Il sovrano, cioè, doveva assumere su di sé la responsabilità della pace e della salvezza mondana e ultramondana, ma questa assoluta responsabilità presupponeva il dominio assoluto. Molti diritti che erano rimasti sin qui decentrati – lo jus ad bellum come lo jus condendi leges – dovevano ora essere accentrati nelle sue mani.

Già il doctor angelicus, nel concetto di gladium sanguinis, aveva distinto fra un gladio materiale – nel quale aveva compreso la giurisdizione – e un gladio bellico, comprendente il vero e proprio jus ad bellum, benchè poi, nella sua concezione, entrambi derivassero dal dovere del principe di assicurare la giustizia.

Il Caietano ne fa due funzioni distinte, cui corrispondono due spade distinte[105]: ai Principi è affidato il compito di mantenere l'ordine nel mondo (gubernare orbem)[106]; ma il potere del principe può non essere plenario e non ricomprendere lo jus belli, che in effetti compete solo alla respublica perfecta[107].

L’idea riecheggerà nel pensiero di Vitoria, che pone chiaramente la piena competenza di guerra in rapporto con lo Stato, vedendovi anzi il punto di raccordo naturale con la sovranità[108], giacchè non può conservare il bene pubblico in modo soddisfacente una respublica che non può vendicare una offesa e punire i nemici[109]: lo ius ad bellum è insomma caratteristica fondamentale delle res publicae perfectae, vale  a dire delle istituzioni giuridicamente capaci di costituire e di far parte della comunità internazionale[110], ed è funzionale al mantenimento dell’ordine: come all’interno dello Stato il principe non può punire i sudditi se non quando abbiano commesso un delitto, così non può iniziare una guerra se non come executio iuris[111]. Cajetano parla di auctoritas vindicativa[112], Vitoria di auctoritas indicendi et gerendi bellum, vale a dire di quello che Calvino chiama droit de batailler[113].

Dunque Vitoria connette il concetto di respublica perfecta proprio con lo jus ad bellum. Tale jus non è intaccato – a suo modo di vedere – dal fatto che la respublica perfecta faccia eventualmente parte di un organismo associativo superiore quale l'Impero, mentre al contrario non si può ammettere diritto di guerra per quell’organismo politico che faccia esso stesso parte di una respublica perfecta. Come il Caietano[114] tuttavia, – sulla scorta di S. Tommaso – anche Vitoria ammette il diritto di insorgere contro il tiranno. Il tirannicida commette un atto di guerra lecita, derivante da un’autorizzazione pubblica tacita: anche questo rientra nel concetto di guerra giusta, concetto che Vitoria non limita però alla vindicta, cioè – nel senso medievale del termine – alla restaurazione dell’ordine violato, ma estende in funzione della pace da instaurare[115]. Nella comunità di Stati anarchica che si va formando, il problema della pace costituisce del resto il tema cui vengono ora dedicate molte opere relativamente famose[116], per non parlare dei progetti, più o meno utopici, di organizzazione internazionale[117]. Che cos'è la guerra? – si chiede Erasmo - Un omicidio collettivo, di gruppo, una forma di brigantaggio tanto più infame quanto più estesa[118]. Le voci decisamente contrarie alla guerra[119] si inscrivono ancora una volta in una temperie di grandi trasformazioni. Mentre l’orizzonte geografico si allarga, quello politico si restringe. Anticipato dall’idea di "società perfetta" avanza il modello francese di Stato, cui fa da supporto l’idea di sovranità propugnata da Bodin. II problema del bellum justum riguarda, ora più che mai, la valutazione del sovrano. Non est Principi in terris iudex. aut ille Princeps non est, supra quem capit alius locum primum[120].

Per l’obbligo della indictio belli tornano a pronunciarsi tanto Belli[121] quanto Gentili[122] e Bruno (il quale avvicina la dichiarazione di guerra alla citazione giudiziale)[123]; e l’esigenza sarà ribadita da Grozio il quale, qualificando di solenne la guerra contra hostes sostiene che non solo questa va dichiarata, ma ciò va fatto in termini formali da una parte all’altra[124]. Anche per Pufendorf, che ricorda l’obbligo di stare pactis[125], l’ indictio belli – come richiesta sia dallo jus voluntarium sia dallo jus naturale – è necessaria al bellum solemne[126], cioè quello rivolto contro i nemici esterni, mentre Huber ribadisce omnino ad iniusta bella nullam esse obligationem[127]. Non sorprende perciò che Voet, cercando di definire il bellum iustum, ne privilegi ormai l’aspetto formale: «justum esse censeo, quod suprema majestas legitimis de causis indicit populo superiorem non agnoscenti[128]. Diximus ad belli justitiam requiri, ut rite quisque illud denunciet, primumque petat, quicquid sibi debitum existimat antequam ad arma ad ultimam convolet regum rationem»[129]. Dunque è necessario aver avviato, antecedentemente all’indire bellum, un tentativo di soddisfare pacificamente le proprie pretese, che è altresì la condicio sine qua non per cui la guerra così indetta possa essere qualificata come justa. Già Alberico Gentili sosteneva: voluntario compromisso antea est disceptandum[130]. Non solo: al fine di pervenire alla composizione della controversia, arbitratores possunt se extendere ad rem non comprehensam in compromisso  e come i privati compelluntur ad pacem : etiam et publici quodam modo[131]. Anche Wolff afferma rientrare nell’ambito del diritto naturale che, come gli individui, anche gli Stati debbano cercare le vie della conciliazione ovvero ricorrere alla transazione, alla mediazione o all’arbitrato, promovendo gli incontri e le conferenze necessarie a risolvere i punti controversi; fermo restando che, sottraendosi una parte ad ogni offerta ragionevole l’altra potrà allora ricorrere alle armi[132].

Ma se Pufendorf, il discepolo e critico di Grozio, cercò di avvalorare l’idea che uno Stato belligerante ha l'obbligo di accettare l'offerta di mediazione che venga fatta da una potenza neutrale, e più ancora che le potenze neutrali possono a buon diritto forzare una composizione nei termini da loro stesse stabiliti, unendo le forze contro lo Stato renitente[133] e anche Voet ribadisce l'obbligo del previo esperimento degli strumenti di soluzione pacifica dei conflitti (è il previo ricorso a tali mezzi a determinare una condizione oggettiva per cui la guerra può essere considerata giusta)[134], tale ricorso diventerà un suggerimento in Vattel[135] e Bjnkershoek sosterrà che: «ut iniquum est principem invitum ad bellum cogere, ita et ad pacem»[136], mentre Textor, la cui «Sinopsis juris Gentium» sarà pubblicata[137] qualche anno dopo l’opera di Pufendorf, preciserà che nessuno Stato belligerante può essere costretto ad accettare un’offerta di mediazione se ha buone ragioni per non farlo, e il rifiuto della mediazione offerta non deve essere considerato quale legittimo motivo per offendersi o per dichiarare una guerra. Tuttora dipende dal buon volere dei neutrali offrire o no la propria mediazione, come pure dipende dalla loro libera decisione l’acconsentire o no alla mediazione loro richiesta. Analogamente, gli Stati in discordia sono liberi di invocare o no l'intromissione di un terzo Stato, ed egualmente liberi sono di accogliere o no l’offerta che un terzo Stato faccia della propria mediazione per l'appianamento del conflitto[138]. Ma l’idea che andasse punito lo Stato responsabile dell’opzione bellica fu alla base delle trattative che portarono agli accordi di pace successivi tanto alla prima quanto alla seconda guerra mondiale.

All’inizio del ‘900, le due Conferenze dell’Aja hanno cercato di regolamentare convenzionalmente l’uso preventivo di strumenti di soluzione delle controversie internazionali alternativi all’uso della forza. Ma nonostante ne fosse stato espressamente sancito dalla seconda – 1907 – l’obbligo[139], l’attacco di Pearl Harbour non fu preceduto da alcuna dichiarazione di guerra. Anzi, le due guerre mondiali e le innumerevoli guerre locali che sono seguite, hanno avuto ragione della maggior parte delle illusioni che quelle conferenze prima, e la successiva istituzione della Società delle Nazioni e dell’Organizzazione delle Nazioni Unite poi avevano generato.

 

 

 



 

[Un evento culturale, in quanto ampiamente pubblicizzato in precedenza, rende impossibile qualsiasi valutazione veramente anonima dei contributi ivi presentati. Per questa ragione, gli scritti della sezione “Memorie” sono stati oggetto di valutazione “in chiaro” da parte dell’organizzazione scientifica delle “Conferenze Romanistiche Sassaresi” (anno 2015 – MMDCCLXXVIII dalla fondazione di Roma); d'intesa con la direzione di Diritto @ Storia]

 

[1] Il messaggio evangelico è chiaramente e apertamente contrario non solo alla guerra ma a qualsiasi violenza. Bastino alcune citazioni: «Avete inteso che fu detto agli antichi: “Non uccidere”; chi avrà ucciso sarà sottoposto a giudizio. Ma io vi dico: chiunque si adira con il proprio fratello sarà sottoposto a giudizio» MATTEO, 5.21-22; «Voi avete udito che fu detto: "Occhio per occhio e dente per dente". Ma io vi dico: non contrastate il malvagio; anzi, se uno ti percuote sulla guancia destra, porgigli anche l'altra; Voi avete udito che fu detto: "Ama il tuo prossimo e odia il tuo nemico". Ma io vi dico: amate i vostri nemici e pregate per quelli che vi perseguitano» MATTEO, 5.38-45 (Cfr. LUCA 6.27-36); «Rimetti la spada nel fodero, perché tutti quelli che mettono mano alla spada periranno di spada» MATTEO, 26.52.

 

[2] Tertulliano torna spesso su questi temi. Vedi ad es. Apologeticum adversus gentes XXXVII.5, in MIGNE, P.L.,I,1, col. 525: «Cur bello non idonei, non prompti fuissemus, etiam impares copiis, qui tam libenter trucidamur, si non apud istam disciplinam magis occidi liceret quam occidere?». Ibidem, L, coll. 598-599: «Proelium est nobis quod provocamur ad tribunallia ut illic sub discrimine capitis pro veritate certamus. Victoria est pro quo certaveris obtinere...ergo vincimus cum occidimur».

 

[3] Da Ciprano la Cristianità è qualificata come una  societas, la cui natura richiama alla mente la cognatio quaedam del giureconsulto Fiorentino (D. I.1.3): «Ad nos spectant quae a nobis vicissim spondentur pro nostra pacti baptismalis parte praestanda». Vedi Dissertatio tertia ad Sancti Cypriani, in MIGNE, P.L., V, coll. 65-66. Sugli ulteriori sviluppi di questo concetto, vedi P. BELLINI, Il gladio bellico. Il tema della guerra nella riflessione canonistica dell'età classica, Torino 1989, 41 ss.

 

[4] Vedi E. PUCCIARELLI, I Cristiani e il servizio militare. Testimonianze dei primi tre secoli, Firenze 1987, 224, anche per una rassegna delle posizioni patristiche riguardo alla guerra. Anche Seneca (ep. 95) riteneva la guerra in contrasto con il diritto naturale, e denunciava la contraddizione per cui, da un lato viene condannato e punito l’omicidio, dall'altro esso viene lodato se commesso in guerra. L’argomento diventerà un topos del pensiero pacifista.

 

[5] LATTANZIO, Divinae Institutiones, VI.12 (ma vedi anche V.18) in MIGNE, P.L., VI, coll. 604-609: «Divini juris ignarus gentis suae leges tamquam verum ius amplectitur, quas non utique iustitia, sed utilitas reperit: cur unaquaeque gens id sibi sanxit quod putavit rebus suis utile? Quantum autem a iustitia recedat utilitas, populus ipse romanus docet, qui per fetiales bella indicendo et legitimas iniurias faciendo semperque aliena capiendo atque rapiendo possessionem sibi totius orbis comparavit ... Num idcirco iusti erunt, qui parent institutis hominum, qui ipsi aut errare aut iniusti esse potuerunt, sicut illi XII Tabularum conditores qui certe publicae utilitati pro condicione temporis servierunt.  Aliud est igitur civile jus, quod pro moribus ubique variatur, aliud vera iustitia». Cfr. GAUDEMET, Le droit romain dans la littérature chrétienne occidentale du IIIe au Ve siècle, Mediolani 1978, 59 n. 336, 53, n. 288.

 

[6] Se tutti gli uomini devono considerarsi figli di Dio, ne consegue l'esistenza di un legame fraterno fra tutti i Cristiani e quindi l'obbligo di rispettarsi vicendevolmente e mantenere nei propri rapporti l'ordine e la concordia. Il nesso supremo deve essere ora l'unità della fede piuttosto che, secondo l'idealità stoica, il riconoscimento di un diritto valido per tutta l'umanità. Su ciò E. BESTA, Il diritto internazionale nel mondo antico, in Comunicazioni e Studi dell'Istituto di diritto internazionale e straniero dell'Università di Milano, II, Milano 1946, 18.

 

[7] AMBROSIUS MEDIOLANENSIS, De officiis ministrorum, c. XXXV.175-177, in MIGNE, P.L., vol.16, col. 75.

 

[8] Voce Militia, in Totius latinitatis lexicon Aegidi Porcellini, Prato 1968, IV, 122 n. 12. A. MORISI, La guerra nel pensiero cristiano dalle origini alle crociate, Firenze 1963, 35 ss., rileva come negli ultimi anni del I secolo Clemente Romano esortasse la Comunità di Corinto, che minacciava uno scisma, a prendere ad esempio la perfetta organizzazione gerarchica dell’esercito romano e la sua tradizionale disciplina. Il vocabolario militare era tuttavia usato per contrappporre alla militia Caesaris fondata sulla violenza, la militia Christi fondata sull’amore e caratterizzata da aspetti sconosciuti alla mentalità pagana. Su ciò E. PUCCIARELLI (a cura di), I Cristiani e il servizio militare. Testimonianze di tre secoli, Firenze 1987, 29.

 

[9] I CORINTI, 9.7; II CORINTI, 10.3; EFESINI, 6.10.

 

[10] LUCA, 22, 36-38; MATTEO 5, 38 - 48.

 

[11] c.3, C.XXIII, q.1. Il passo agostiniano recita: «Nam et ego homo sum sub potestate constitutus, habens sub me milites, et dico huic, Vade, et vadit; et alii, Veni, et venit; et servo meo, Fac hoc, et facit: de quo et Dominus, Amen dico vobis, non inveni tantam fidem in Israel (Matth. VIII.8-10). In his erat et ille Cornelius ad quem missus angelus dixit, Corneli, acceptae sunt eleemosynae tuae, et exauditae sunt orationes tuae: ubi eum admonuit ut ad beatum Petrum apostolum mitteret, et ab illo audiret quae facere deberet; ad quem apostolum, ut ad eum veniret, etiam religiosum militem misit (Act. X.4-8). In his erant et illi qui baptizandi cum venissent ad Joannem, sanctum Domini praecursorem et amicum sponsi, de quo Dominus ipse ait, In natis mulierum non surrexit major Joanne Baptista  (Matth. XI.11), et quaesiissent ab eo quid facerent; respondit eis, Neminem concusseritis, nulli calumniam feceritis; sufficiat vobis stipendium vestrum. Non eos utique sub armis militare prohibuit; quibus suum stipendium sufficere debere praecepit». S. AURELII AUGUSTINI, Ep. CLXXXIX.4, in MIGNE, P.L., XXXIII, coll 855-856. (Estratto dalla versione integrale di Patrologia Latina Database pubblicato da Chadwyck-Healey Ltd). All’ultimo passo evangelico citato (LUCA III.14) si richiamerà anche Abelardo, Sic et non, l. XVIII, cap. III, in MIGNE, P.L., 178, col.1608C.

 

[12] ARISTOTELE, Politica, VII.1333b-1334a : «L'esercizio delle armi,poi, non si deve praticare per assoggettare coloro che non lo meritano, ma per non cadere nella servitu' altrui; poscia per ottenere l'egemonia rivolta a vantaggio dei sudditi, non per un dispotismo fine a se' stesso, insomma per dominare su coloro che meritano di essere dominati. E proprio i fatti convalidano i ragionamenti per la tesi che il legislatore debba spiegare la sua azione nelle cose di guerra e in tutti gli altri rami dell'attivita' politica pel conseguimento della pace, poichè la maggior parte di siffatte città guerreggiando si salvano, ma, appena  hanno conseguito l'egemonia, vanno in rovina, perdendo come il ferro la tempera appena si trovano in pace» (trad. V. Costanzi, Bari 1925, 249-250).

 

[13] «Cum autem justum bellum susceperit, utrum aperta pugna, utrum insidiis vincat, nihil ad justitiam interest. Justa autem bella definiri solent, quae ulciscuntur injurias, si qua gens vel civitas, quae bello petenda est, vel vindicare neglexerit quod a suis improbe factum est, vel reddere quod per injurias ablatum est. Sed etiam hoc genus belli sine dubitatione justum est, quod Deus imperat, apud quem non est iniquitas, et novit quid cuique fieri debeat. In quo bello ductor exercitus vel ipse populus, non tam auctor belli, quam minister judicandus est». S. AURELII AUGUSTINI, Quaestionum in Hept. liber sextus, X, in MIGNE, PL, XXXIV, coll. 780-781.

 

[14] Si tratta del c. 12 Antigonus, che sarà incluso da Bernardo da Pavia nel Breviarium extravagantium e poi da Raimondo di Peñafort nella Compilazione di Gregorio IX (c.1, X, I, 25): «Unde, aut inita pacta suam obtineant firmitatem, aut conventus, si se non cohibuerit, ecclesiasticam sentiat disciplinam. Dixerunt universi: pax servetur, pacta custodiantur».

 

[15] Vedi supra, nota 11.

 

[16]ISIDORI HISPALENSIS, Etymologiarum, cit., XVIII, 2. MIGNE, P.L., vol. 82, col. 639.

 

[17] E. CORTESE, Il diritto nella storia medievale. II Il basso Medioevo, Roma 1995, 200 ss.

 

[18] c.XLI, C XXIII, qu 3 = S. AURELII AUGUSTINI, De libero arbitrio, I, c 4.

 

[19] G. PICASSO, G. PIANA, G. MOTTA (a cura di), A pane e acqua. Peccati e penitenze nel Medioevo. Il “Penitenziale” di Burcardo di Worms, Bergamo 1986, 70 ss.

 

[20] In tema vedi, M.G. MARÇAIS Mahomet et l’expansion de l’Islam, in C. DIEHL - M.G. MARÇAIS, Le monde oriental de 365 a 1081, Paris 1944, 158 ss.

 

[21] Il termine significa non solo espatrio, ma anche ripudio della città natale e contrapposizione ad essa. Vedi H. LAMMENS, L'Islam croyances et institutions, Beyrouth 1926, 25; T.W. JUYNBOLL, Manuale di diritto musulmano: secondo la dottrina della scuola sciafeita con una introduzione generale (trad. Barrera), Milano 1916, 212.

 

[22] CORANO, XXII.39.42.

 

[23] Vedi M.G. STASOLLA, Guerra e gihàd nel pensiero islamico, alcune riflessioni, in Diritto @ Storia, 4-2005- memorie < http://www.dirittoestoria.it/4/Memorie/Stasolla-Guerra-gihad-islam.htm >.

 

[24] Vedi il commento di S. Noja a AL BUHARI, Detti e fatti del profeta dell’Islam, a cura di V. Vacca, S. Noja, M.Vallaro, Torino 1982, LVI, (eBook 2013): «Il gihàd che i nostri padri, guardando più alla pratica che alla grammatica, resero con “guerra santa” suona tradotto letteralmente “lo sforzo”, cui si deve sottintendere aggiunto: “sulla via di Dio”. La definizione di un dottore dell’Islam è la seguente: il combattere che fa il Musulmano contro l’infedele col quale non abbia alcun patto (perciò non col djmmi finchè rimane fedele al patto) allo scopo di esaltare la parola di Dio altissimo, cioè la fede musulmana riassunta nelle parole della professione di fede: “Non v’è altro dio che Iddio e Maometto è l’inviato di Dio” quindi non allo scopo di fare bottino, al quale secondo alcuni non deve partecipare se nel combattere ha avuto questo scopo».

 

[25] R.C. MARTIN, War, Peace and Statecraft in Islam, in Just War and Jihad, historical and theoretical perspectives on war and peace in western and islamic traditions (a cura di J. Kelsay - J.T. Johnson), New York-Westport-London 1991, 97.

 

[26] Il termine harb significa sia combattimento, sia stato di guerra, e anche nelle relazioni intertribali dell'Arabia pre-islamica indicava l'esercizio della vendetta e della rappresaglia. Vedi M. Khadduri,voce Harb, in Enciclopédie de l’Islam, ( a cura di P.J. Bearman, Th. Bianquis, C.E. Bosworth, E. van Donzel, et W.P. Heinrichsvol) III, 184-185. Cfr. AL BUHARI, Detti e fatti, LVI; cfr. G. DE SANTILLANA - H. von DECHEND, Il mulino di Amleto. Saggio sul mito e sulla struttura del tempo, 8a ed., Milano 1983.

 

[27] CORANO, ILIX.9-13

 

[28] M. KHADDURI, The islamic Law of Nations: Shaibani’s Siyar, Baltimore 1966,17.

 

[29] Può essere rilevante ricordare che nel puro Islam la concezione del diritto è puramente monista: qui diritto è solo il fiqh, cioè quella parte della legge divina (shariah) che regola l’attività esterna del credente. Altre sfere che a noi sembrerebbero giuridiche ne restano al di fuori, così il reggimento della cosa pubblica che resta affidato (in modo non contraddicente alla shariah), al prudente arbitrio del sovrano. Cfr. A. D’EMILIA, Il diritto musulmano comparato con il bizantino dal punto di vista della tipologia del diritto, in IDEM, Scritti di diritto musulmano (a cura di F. Castro), Roma 1976, 194.

 

[30] Il Caetani inseriva già il fenomeno dell’ espansione dell’Islam nel più ampio quadro del moto della civiltà dell’Arabia teso a sfuggire alle sempre più infauste condizioni climatiche. Le conquiste arabe sarebbero state quindi, per tale studioso, una vera emigrazione armata, resa possibile dalla teocrazia fondata da Maometto. Vedi L. CAETANI, Studi di storia orientale, I, Milano 1911, 277.

 

[31] Nel secolo scorso, tuttavia, vi è stato chi ha negato ogni rapporto fra potere e sacralità nell’Islam sostenendo che vi sarebbe invece ammessa la distinzione dello spirituale e del temporale. La tesi, proposta da Shaykh Ali Abdal Razik, sarebbe secondo questo studioso abbastanza diffusa e, in contrasto con l’insegnamento corrente, tenderebbe ad affermare che il messaggio originario dell’Islam sarebbe unicamente di natura religiosa e che tale voleva essere la sola missione del Profeta. Il potere temporale si sarebbe organizzato solo dopo la sua morte. Su ciò vedi M. El SHAKANKIRI, Sacralité, Pouvoir et Droit dans l'Histoire juridique de l'Islam, in Diritto @ Storia, N. 2 – Marzo 2003 < http://www.dirittoestoria.it/lavori2/Contributi/Shakankiri.htm >. La tesi viene avallata anche da A. MECHERGUI, L’emergenza dell’istituzione politica nella storia islamica, in Diritto @ Storia, N. 2 – Marzo 2003 < http://www.dirittoestoria.it/lavori2/Contributi/MECHERGUI.htm >. Per il Merchegui, quando i primi musulmani hanno proclamato Abù Bakr come califfo (khalifa: cioè vicario del profeta o suo successore) sarebbe chiaro che essi non pensavano che si trattasse di un vicario religioso o di una successione nella funzione profetica, bensì semplicemente di una trasmissione dei carichi secolari o temporali.

 

[32] Già sotto i primi Califfi, nel periodo che va dal 633 al 640, gli Arabi conquistarono l’Impero persiano, e gli ex possedimenti romani in Siria ed Egitto. Sotto gli Omayyadi, l’impero arabo comprese parti del subcontinente indiano e dell'Asia centrale, il Medio Oriente, il Nordafrica, e penetrando nel Mediterraneo si spinse in Italia meridionale e nella Penisola iberica, fino ai Pirenei. Il diffondersi dell’Islam seguì, al seguito del geniale comandante Khalid ibn al-Walid, l’espansione delle sue vittoriose insegne di guerra. Vedi L. CAETANI, Studi di storia orientale, III, Milano 1914, 387. Cfr. I.M.N. AL-JUBOURI, Islamic thought. From Mohammed to September 11, 2001, 2010.

 

[33] CORANO, 3.169; 61.4; 4.77; 9.36.123; 47.4; 8.60. «The moral requirement to strive (jihad) in the path of God is a fundamental notion in Islam; closely related to it is the injunction to “command good and combat evil»; così R.C. MARTIN, War Peace and Statecraft, cit., 93.

 

[34] I testi apocalittici, anche nei Paesi cristiani, erano quasi dei manifesti politico-religiosi: su ciò J. FLORI, L’Islam et la fin des temps. L’interprétation profétique des invasions musulmanes dans la Crétienté médiévale, Paris 2007, 141.

 

[35] F.M. DONNER, op. cit., 45. Che l’Islam stesso fosse originariamente un movimento apocalittico è stato sostenuto da più d’uno studioso, a cominciare da P. CASANOVA, Mahomet et la fin du mond: étude critique sur l’Islam primitif, Paris 1911, 24; cfr. A. GÖRKE, Eschatology, History and the common Link, in H. Berg (a cura di), Method and Theory in the Study of Islamic Origins, Leiden-Boston 2003, 181.

 

[36] Anche qui, vi è stato chi ha sostenuto che avrebbe fornito elementi di ispirazione la mitzva dell’antico Israele contro i popoli della terra promessa. Cfr. A.J. WENSINCK, The Oriental Doctrine of the Martyrs, Amsterdam 1921, 22; M. CANARD, La guerre sainte dans le monde islamique et dans le monde chrétienne, in Revue Africaine, 1936, 5 (dell'estr.)

 

[37] J. JOMIER, The Bible and Koran, New York 1964, 102-103; F. M. DONNER, The Sources of Islamic Tradition of War, in Just War and Jihad, cit., 37.

 

[38] CORANO, XVII.16; Cfr. I. GUIDI (a cura di) Il «Mukhtaṣar» o Sommario del diritto malekita di Khalīl ibn Isḥāq al-Jundī, I, Giurisprudenza religiosa ("'Ibādāt"), Milano 1919, 388.

 

[39] CORANO, 3.112.

 

[40] CORANO, XXII, 38; II, 190-193; A. Bausani, L’Islâm, Firenze 1978, 62. D. SANTILLANA, Istituzioni di diritto musulmano malichita con riguardo anche al sistema sciafiita, I, Roma 1926, 68 ss.

 

[41] AL BUHARI, Detti e fatti del profeta dell’Islam, cit., LVI, (vedi supra nota 24).

 

[42] M. KHADDURI, voce Harb, in Encyclopédie de l'Islam, III, Paris, 1966, 184 ss.; nonchè, dello stesso A., War and Peace in the Law of Islam, Baltimore, 1955; W. HEFFENING, Das Islamische Fremdenrecht, Hanover1925.

 

[43] Benchè tale trattato fosse stato violato nei tre anni successivi alla sua stipulazione, la maggior parte dei giuristi si accordarono nel dire che il periodo massimo di pace con il nemico non poteva passare i dieci anni, cioè la durata del trattato di Hudaybiya, così come stipulato all'origine. Decennale sarà infatti la durata prevista per l'armistizio connesso all'accordo  fra Federico II e Al-Kamil su Gerusalemme e i Luoghi Santi. Su ciò E. KANTOROWICZ, Federico II imperatore, (tr. it.), Milano 1976, 174; G. VISMARA, “Impium Foedus”. Le origini della “Respublica christiana”, Milano 1950, ora in Scritti di storia giuridica, 7, Comunità e diritto internazionale, Milano 1989, 94-95. Ogni trattato con i non credenti è dunque una più o meno lunga tregua.

 

[44] CORANO, XVI.9; IX.4; in questo versetto, viene imposto al fedele di annunziare a quelli che non credono un castigo doloroso, facendo eccezione per quelli, fra i politeisti, coi quali è stato stretto un patto speciale e che non lo hanno in alcun modo violato nè hanno prestato soccorso ad alcuno contro i fedeli.

 

[45] CORANO, V.1.

 

[46] D’altra parte, le vicende interne al mondo musulmano furono, sin dall’inizio, assai aggrovigliate. Con l’assassinio del quinto califfo Ali (genero di Maometto) nel 661, la funzione di guida dei Musulmani passò alla casa degli Omaiadi, che fecero di Damasco la loro capitale. Quando il figlio di Ali, Hussein – che nel 680, come nipote di Maometto, aveva avanzato la sua pretese al Califfato – fu annientato a Kerbela (attuale Iraq) assieme ai suoi seguaci, il partito di Ali ebbe i suoi martiri. Di qui ebbe inizio la Scia che, rinnegando tutti i Califfi successivi ad Ali, finì con lo sviluppare – sotto l’influenza persiana – una propria confessione religiosa all’interno dell’Islam. Col termine Sunnah, che si riferiva all’esempio dato dallo stesso Maometto nel corso della sua vita, venne indicata la confessione dei Musulmani “ortodossi” che non seguirono la Scia. Sulle diverse fonti del diritto musulmano vedi E. BUSSI, Principi di diritto musulmano, Bari 2004, 28 ss.

 

[47] E’ lo amân, non un principio generale teso a sancire la loro inviolabilità, che protegge gli ambasciatori, alla stessa stregua dei mercanti. K.H. ZIEGLER, Völkerrechtsgeschichte. Ein Studienbuch, München 1994, 80.

 

[48] Si veniva così a costituire uno stato di Hudna, caratterizzato dall’astensione da ogni ostilità. Nel diritto musulmano il termine richiama l'idea di un accordo internazionale il cui obiettivo era di provocare un cessate il fuoco e fornire le condizioni preventive per la pace fra Musulmani e non Musulmani senza che il territorio di questi ultimi divenisse parte integrante del dâr-al-Islam. La Hudna, infatti, «implique une idée de calme, de paix … dont la signification générale en droit musulman est que les parties intéressées s’abstiennent de toute hostilité entre elles. Le processus conduisant à un traité de paix avec l’ennemi est appelé muhādana ou muwādaʿa, mais l’instrument de la paix est la hudna (traité de paix)». Vedi M. KHADDURI, voce Hudna, in Encyclopédie de l’Islam. Brill Online, 2016. Reference. 24 February 2016 < http://referenceworks.brillonline.com/entries/encyclopedie-de-l-islam/hudna-SIM_2932 >. Cfr. G. WEIGERT, A note on Hudna: Peacemaking in Islam, in War and Society in the Eastern Mediterranean 7th-15th Centuries, a cura di Y. Lev, Leiden-New York-Köln 1997, 401.

 

[49] H. Pirenne, Mahomet et Charlemagne, Bruxelles 1937, tr. it. Maometto e Carlomagno, Roma-Bari, 1976, 153. Questa "chiusura" e contrapposizione sarebbe la radice del costituirsi, in Occidente, di una nuova Comunità di popoli, i cui membri si riconoscono sempre più, oltrechè per un diverso e più elevato grado di associatività, anche per un complesso di norme volte a definire i rapporti reciproci e destinate a costituire il crogiolo del moderno diritto internazionale. Cfr. Vedi G. Vismara, “Impium Foedus”, cit., 81; cfr., dello stesso A. Problemi storici e istituti giuridici della guerra altomedievale, in Ordinamenti militari in Occidente nell’alto Medioevo, Spoleto 1968, 496.

 

[50] «Dalla pace tutti traggono vantaggi: individui, famiglie, popoli, l’intera famiglia umana. Risuonano ancora oggi severamente ammonitrici le parole di Pio XII: "Nulla è perduto con la pace. Tutto può essere perduto con la guerra" ...Nelle assemblee più alte e qualificate considerino a fondo il problema della ricomposizione pacifica dei rapporti tra le comunità politiche su piano mondiale: ricomposizione fondata sulla mutua fiducia, sulla sincerità nelle trattative, sulla fedeltà agli impegni assunti. Scrutino il problema fino a individuare il punto donde è possibile iniziare l’avvio verso intese leali, durature, feconde». Lettera enciclica Pacem in Terris del sommo pontefice Giovanni PP XXIII (11 aprile 1963).

 

[51] «Tra i segni di speranza va pure annoverata la crescita, in molti strati dell'opinione pubblica, di una nuova sensibilità sempre più contraria alla guerra come strumento di soluzione dei conflitti tra i popoli e sempre più orientata alla ricerca di strumenti efficaci ma “non violenti” per bloccare l'aggressore armato. Nel medesimo orizzonte si pone altresì la sempre più diffusa avversione dell'opinione pubblica alla pena di morte anche solo come strumento di “legittima difesa” sociale, in considerazione delle possibilità di cui dispone una moderna società di reprimere efficacemente il crimine in modi che, mentre rendono inoffensivo colui che l'ha commesso, non gli tolgono definitivamente la possibilità di redimersi». Vedi Lettera enciclica Evangelium Vitae del sommo pontefice Giovanni Paolo II (25 marzo 1995).

 

[52] «Omnium vestrum nosse volumus charitatem, quoniam quisquis (quod non optantes dicimus) in hoc belli certamine fideliter mortuus fuerit, regna illi coelestia minime negabuntur». Si tratta di una lettera diretta all’imperatore Lodovico, nella quale il Papa scriveva anche: «Scire vos oportet, quod nunquam ab aliquibus nostros homines sinimus opprimi; sed si necessitas illis incurrerit, praesentialiter vindicamus; quia nostri gregis in omnibus ultores esse debemus, et praecipui adiutores». Vedi Leonis papae IV epistolae et decreta, Ep. I ad exercitum Francorum, in MIGNE, P.L., vol. 110, col. 669; J. D. Mansi, Sacrorum Conciliorum nova et amplissima collectio, Venetiis, MDCCLXIX, XIV, col. 888. Il principio si sarebbe tradotto nel canone grazianeo c.8, C.XXIII, q. VIII.

 

[53]Migne, P.L., CXXVI, col. 816; M.G.H., Epistole, V, 601; cfr. inoltre G. Vismara, Bisanzio e l'Islam: per una storia dei trattati tra la cristianità orientale e le potenze musulmane, in Scritti di storia giuridica, Milano 1987-1996, 7, 151; Idem, Impium Foedus, cit., 62 ss.

 

[54] Sesto Imam fatimide, dal 1003 afflisse cristiani ed ebrei con disposizioni vessatorie che giunsero sino alla confisca di proprietà religiose e luoghi di culto, e ordinò – nel 1009 – la distruzione della Basilica del Santo Sepolcro.

 

[55] In tema vedi J. FLORI, La guerre sainte. La formation de l'idée de croisade dans l’Occident chrétien, Paris 2001; per la cronologia delle spedizioni arabe in Sardegna vedi M.G. STASOLLA, Arabi e Sardegna nella storiografia araba del Medioevo, in Studi Magrebini, XIV, 1982, 1-40.

 

[56] E. BUSSI, Evoluzione storica dei tipi di Stato, (Cagliari 1970 =) Milano 2002 (con introduzione di G. Grasso); P. GROSSI, Le situazioni reali nell’ esperienza giuridica medievale. Corso di Storia del Diritto, Padova 1968, 160 ss.; M. CARAVALE, Ordinamenti giuridici dell’Europa medievale, Bologna 1994, 157; A.J. GUREVIC, Le origini del feudalesimo, Bari 1990, 56-57.

 

[57] L. BUSSI, Il problema della guerra nella prima civilistica, in A Ennio Cortese, Roma 2001, 129.

 

[58] E. BUSSI, Evoluzione storica, cit., 169-171, 176-177. Cfr. M. PRIETZEL, Kriegführung im Mittelalter. Handlungen, Erinnerungen, Bedeutungen, Paderborn – München - Wien - Zürich 2006, 27.

 

[59] Di qui le grandi cerimonie di ringraziamento per la vittoria. M. PRIETZEL, op. cit., 174-175.

 

[60] H. BERMAN, Diritto e rivoluzione. Le origini della tradizione giuridica occidentale, Bologna 2006, 292. P. CONTAMINE, La guerra nel Medioevo, tr. it., Bologna 1986, 117.

 

[61] LL.FF., II.7.

 

[62] Per l’esercizio e il diritto di faida vedi O. BRUNNER, Land und Herrschaft, Grundfragen der territorialen Verfassungsgeschichte Oesterreichs in Mittelalter, 5a ed., Wien 1965, 59 ss.

 

[63] LL.FF, II.53, ed Lugduni 1558, 102. A edictali la Glossa precisava: «et ita videtur quod lex ista non habet locum nisi inter illos qui ei subditi sunt. Sed nunquid tenet francigenas et alios ultramontanos qui ei non sunt subditi? Videtur quod non ex eo quod dicit nostro subiecti imperio etc. Sed dicas quod eos similiter tenet quoniam licet ei non sint sacramento subditi, sunt tamen ratione Imperii Romani sub quo esse debent, cum ipsi fuerint de imperio Iustiniani…». Cfr. E.M. MEIJERS, Les glossateurs et le droit féodal, in Études d’histoire du droit, hrg R. Feenstra u. H.F.W.D. Fischer, Leyden 1959, 3-148. Torna qui il concetto avanzato già nel commento parigino della prima legge del Codice (Cunctos populos quos clementiae nostrae regit imperium) attribuito dal Meijers a Carlo di Tocco: «hic nota quod alios noluit ligare nisi subditos imperio suo». Vedi E.M. MEIJERS, L’histoire des principes fondamentaux du droit international privé à partir du Moyen Age spécialment dans l’Europe Occidentale, Paris 1935, 52.

 

[64] Al titolo Hic finitur lex. LL.FF., II, XXVIII.

 

[65] E. LANDSBERG, Die quaestiones des Azo, Freiburg i.B. 1888, XIII.86-87.

 

[66] C VIII,IV,1. In tema vedi L. BUSSI, Il problema della guerra, cit., 126. Sull’importanza della disciplina del dominium fornita dal Diritto Romano per la sua rinascita medievale vedi M. CARAVALE, Ordinamenti giuridici, cit., 308 ss.

 

[67] Così ad esempio nel famoso episodio della Pace di Bourges, si vede l’arcivescovo Aimone, promotore della pace, attaccare un castello vicino, in quanto il signore del castello si era reso responsabile di rottura della pace. Vedi Les miracles de Saint Benoit, ed. E. De Certain, Paris 1858, 196 ss. = https://archive.org/stream/lesmiraclesdesai00certuoft#page/196/mode/2up.

 

[68] Innocentii quarti Super Libros quinque Decretalium, II, I de iudiciis, c.XIII, Novit ille, ed. Francofurti ad Moenum, MDLXX, 193 v. Interessante in proposito l’inatteso richiamo che un Rabano Mauro, sul finire dell’ottavo secolo, fa della magistratura dei feziali di cui si doveva essere ormai quasi persa la memoria: «Foedus est pax, quae fit inter dimicantes, vel a fide vel a fictialibus [faecialibus], id est a sacerdotibus dictum: per ipsos enim fiebant foedera, sicut per saeculares bella». Vedi RABANO MAURO, De Universo, lib. XX, 1, De bellis, in P.L., III, col.533-534.

 

[69] Vedi Summa "Elegantius in jure divino" seu coloniensis, c. 3, pars duodecima iterum, cap. 4, ed. Fransen, Città del Vaticano 1986, ed. Fransen, Città del Vaticano 1986, 216.

 

[70] Vedi Summa Magistri Rolandi, ed. F. Thaner, Innsbruck 1874 = Aalen 1962, 88 ss.

 

[71] Summa decretorum des Magister Rufinus, ed. H. Singer, Paderborn 1902, 403.

 

[72] Il quale dai giuristi romani era stato precisato sulla scia del concetto di postliminium: perchè non si dava prigionia di guerra se non in costanza di un conflitto che opponesse un nemico in senso tecnico, cioè un altro liber populus; concetto, quest'ultimo, che sulla base del famoso passo di Proculo, viene illustrato da Ulpiano con riferimento ai Germani e ai Parti. Al concetto di hostis si contrappone, per distinzione, quello di praedo, latro, pirata. Così Piacentino scrive: «Sunt autem hostes quibus Romanus populus, vel Imperator, vel ipsi nobis bellum indixerunt: caeteri latrunculi vel praedones appellantur». Vedi Piacentino, Summa Codicis, ad C. VIII.54, de postliminio et redemptis ab hostibus, cit., 414. La glossa Quinque sunt genera gentium (ad D. XLIX.15.24, vel praedones) utilizza il testo di Ulpiano giustapponendo entità eterogenee e affiancando le categorie di hostis populi romani e di latrones a quelle dei populi liberi e degli alii cum quibus non habemus usum, cui si applica il postliminium in pace. E' proprio tale sfasatura, tuttavia, che consente e denuncia l'utilizzazione del concetto nella realtà medievale.

 

[73] The summa parisiensis, c. 2, C. XXIII, q.2, ed. cit., 211

 

[74] Sul punto si esprime abbastanza chiaramente Odofredo che nel suo commento alla l. hostes (D. 50.16.118) identifica il bellum iuris gentium con il bellum iniziato o subito dal popolo romano o dall'Imperatore.

 

[75]Vedi Heinrici de Segusio Cardinalis Hostiensis (Ostiense), Summa aurea, I, rub. de treuga et pace, par. quid sit iustum bellum, ed.Venetiis 1624, col.356.

[76] «Lex autem asserit quod hi quibus populus Romanus bellum indicit, vel ipsi populo Romano hostes proprie dicuntur, caeteri latrunculi (ff. de captivis et postlim.) unde videtur quod bellum quod tota die exercent principes nostri temporis est iniustum». Ostiense, Summa Aurea, I, rub. de treuga et pace, par. quid sit justum bellum, ed. cit., col. 357.

 

[77] Ostiense, Summa Aurea, I, rub. de treuga et pace, par. quid sit iustum bellum, ed. cit., col.359.

 

[78] Innocentii quarti, Super Libros quinque decretalium, II.XXIII  de jurejurando, c. XXIX Sicut et infra, ed. cit., 288 v. La Glossa quinque sunt genera gentium enumera le principali condizioni giuridiche a cui la legge hostes fa riferimento: oltre al populus romanus ed ai latrones vengono individuati anche i populi liberi e quelli a cui si applica il postliminium anche in pace. Quest’ultima categoria offre il modo di distinguere tra il bellum, ossia una guerra formalmente dichiarata contro un nemico riconosciuto come hostis, e un conflitto che comunque giustifica una risposta in termini difensivi. Di particolare interesse la posizione di Odofredo è poi di particolare interesse il suo commento alla lex del digesto relativa ai modo di acquisizione del dominio. Uno dei modi di acquisizione del dominium riconosciuti dallo ius gentium è l’occupazione, ed una condizione nella quale tale acquisizione può verificarsi è la guerra. Orbene, in caso di occupazione bellica, la legge hostes prevede che possano essere acquisiti solo i beni dei nemici e che solo in presenza di nemici si possa attivare l'istituto del postliminium. Sul punto vedi L. BUSSI, Il problema della guerra, cit., 124-125.

 

[79] X.2.2.10. Sul diritto del papa a dichiarare guerra agli infedeli, il da Legnano parte dalla premessa che tutta la christianitas è soggetta alla supremazia del pontefice, il quale ha giurisdizione sulla vita spirituale di ogni individuo, così come l’imperatore la possiede su quella corporale. Vedi GIOVANNI DA LEGNANO, De Bello, De Represaliis et De Duello, ed. T.E. Holland (The Classics of International Law), Oxford 1917, 91 = https://archive.org/stream/tractatusdebello00legnuoft#page/iv/mode/2up .

 

[80] ALANO ANGLICO, Apparatus in ius naturale, c.4, C. XXIII, q1, v. ex edicto.

 

[81] C.H. BEZEMER, A Repetitio by Jacques de Révigny on the creation of the ius gentium, in Tijdschrift voor Rechtsgeschiedenis, 1981, 305.

 

[82] Ostiense, In Primum Decretalium, cit., rub. de treuga et pace, I, Treugas,  176 A.

 

[83]Spesso richiesto di svolgere funzioni di arbitro, anche in ottemperanza a norme canoniche, il Vescovo si preoccupava anzitutto di rappacificare le parti, cioè si comportava da mediatore, da amichevole compositore e solo in un secondo momento come arbitro. «Studendum episcopo est ut dissidentes fratres sive clericos sive laicos ad pacem magis quam ad iudicium cohortentur, Statuta ecclesiae antiqua, c.  52, H.T. BRUNS, Canones apostolorum et conciliorum veteres selecti, I, Berlino 1889, 144. M.R. CIMMA, L’episcopalis audientia nelle costituzioni imperiali da Costantino a Giustiniano, Torino 1989, 71 ss.

 

[84] G. BALLADORE PALLIERI - G. VISMARA, Acta pontificia juris gentium usque ad annum MCCCIV, Milano 1946.

 

[85] L. BUSSI, Mediazioni e arbitrati fra Medioevo ed età moderna, in Diritto @ Storia N.4 – 2005 – Memorie < http://www.dirittoestoria.it/4/Memorie/Bussi-Mediazione-e-arbitrati.htm >; K. BADER, Arbiter, arbitrator seu amicabilis compositor, in Zeitschrift der Savigny Stiftung für Rechtsgeschichte, Kanonistische Abt., XLVI, 1960, 239 ss.

 

[86] BARTOLI a Saxoferrato, Commentaria, Tractatus represaliarum, ed. Venetiis MDCXV, 120 ss.: «Represaliarum materia nec frequens nec quotidiana erat tempore quo in statu debit Romanum vigebat imperium: ad ipsum vero tamquam ad summum monarcham habebatur regressus  et ideo hanc materiam legum doctores et antiqui iuris interpretes minime pertractaverunt. Postea vero peccata nostra meruerunt quod Romanum Imperium prostratum iaceret per tempora multa et reges et principes ac etiam civitates, maxime in Italia, saltem de facto in temporalibus dominum non agnoscerent, propter quod de iniustitiis ad superiorem non possunt haberi regressus, caeperunt represaliae frequentari et sic effecta est frequens et quotidiana materia».

 

[87] D. QUAGLIONI, Politica e diritto nel Trecento italiano. Il «De tyranno» di Bartolo da Sassoferrato (1314-1357). (Con l’edizione critica dei trattati «De Guelphis et Gebellinis», «De regimine civitatis» e «De tyranno»), Firenze 1983, 138: «Primum probatur quia licitum est sibi ius dicere propria auctoritate quando non habetur copia judicis, ut C. de Judeis l. nullus; ff que in fraudem creditorum, l. ait pretor, § si debitorem; et XXIII, q. ii c. Dominus. Si ergo hoc licet pro singulari commodo, multo magis ad liberandam rem publicam, ad quam defendendam omnes admittuntur, ut ff de novi operis nunciatione, l. de pupillo, § finali et l. sequenti. Preterea, si hoc permittitur cuilibet contra depopulatorem agrorum vel desertorem militie, multo magis debet permitti contra eos, qui ipsam rem publicam et eius statum depopulantur et redigunt sub iugo servitutis».

 

[88] RAFFAELE FULGOSIO, Super prima digesti veteris parte, in D. 1,1,5 ex hoc iure, ed. Lugduni 1654, 8.

 

[89] Ibidem.

 

[90] Ciò che si vede chiaramente in BALDO, di cui si confronti il commento al Digesto (In Dig. Vet. Ad D.1,1,5 n25) con il commento al Codice (ad C 3,36,2 n.76).

 

[91] Della cui liceità si interroga la dottrina. Vedi C. ZENDRI, Alberico Gentili e il De iure belli. Metodo e fonti, in Justice et armes au XVIe siècle, 10, 2010, 45-63.

 

[92] «Et hinc patet quod multo magis ex arbitrio principis iuste bellantis pendet continuatio belli…Quarto de damnis ex bello illatis scito quatuor. Primo quod damna omnia ex iusto bello illata non solum repugnantibus, sed cuilibetmembro reipublicae contra quem est iustum bellum absque peccato sunt: nec ad restitutionem tenetur qui intulerunt, etiam si innocentes contigat per accidens damnificari…quia presumitur tota hostis et totam habet pro hoste: et propterea totam damnat ac diripit». Vedi Summula Caietani reverendissimi Thomae de Vio caietani cardinalis, Venetiis 1551, 43. = https://books.google.it/books?id=qFv8E7KAsDEC&pg=PA689&lpg=PA689&dq=summula+Cajetani&source=bl&ots=5vXiuCGPv7&sig=nhaLDlrUTkvtTIZkFeXpQ7jyJJw&hl=it&sa=X&ved=0ahUKEwiG4J69i8LKAhVBtxQKHbuyCEQ4ChDoAQhfMAk#v=onepage&q=summula%20Cajetani&f=false .

 

[93] In tema di rappresaglie vedi G.S. Pene Vidari, Rappresaglia (storia), in Enciclopedia del diritto, xxxviii, 403 ss.

 

[94] P. HAGGENMACHER, Grotius et la doctrine de la guerre juste Paris 1983, 306.

 

[95] Tali affermazioni venivano fondate su D. 10.4.7,3 e D. 41.2.2. Cfr. ALBERTO DA GANDINO, Tractatus de Maleficiis, rubr. De homicidiariis et eorum pena §13, ed.H. Kantorowicz, Albertus Gandinus und das Strafrecht der Scholastik, Berlin 1907, 289: Item pone questionem sepe contingentem de facto. Commune seu Universitas alicuius castri vel ville commisit homicidium vel aliud delictum, pro quo singularis persona deberet, si commisisset, personaliter condemnari; vel eadem, villam, vel castrum combuserunt, ex quibus quis singularis personaliter coerceretur, ut ff. eod. l. III.§ legis  D. 48,8,3,5) et ff. de incendio, ruina, naufragio, l. qui edes (D. 47,9,9) et ff. de penis l. capitalium § nonnunquam v. qui ob inimicitias (D. 48,19,28,12).

 

[96] Per i problemi connessi al possesso vedi E. BUSSI, La formazione dei dogmi di diritto privato nel diritto comune, I, Padova 1937, 93.

 

[97] Si invocava in tal senso il dettato di D. 3.4.7: «Si quid universitati debetur, singulis non debetur».

 

[98] H. GROTII De jure belli ac pacis, III, 12, §§ 7,8, ed. cit., 534-535.

 

[99] E’ nota la posizione negativa di Lutero in proposito: la lotta armata contro i Turchi era destinata a rimanere vana perché equivaleva a combattere uno strumento scelto da Dio per punire la Cristianità. Vedi MARTINUS LUTHER, Resolutiones disputationum de indulgentiarum virtute, Conclusio V, in Werke, Weimar 1883, 1, 534 ss.; la replica alla critica espressa dal Papa con la Bolla Exurge Domine, in IDEM, Assertio omnium articulorum M. Lutheri per Bullam Leonis X novissimam damnatorum, ivi, 7, 140-141.

 

[100]A porre il problema è un nominalista scozzese J. Mair (o Mayor, ), il quale lo risolve in funzione della legittimità della evangelizzazione, e del diritto dei popoli più civilizzati di dominare quelli meno civilizzati. Cfr. P. LETURIA, Maior y Vitoria ante la conquista de America, in Estudios eclesiasticos, XI, 1932, 44-82 (anche in Anuario de la Asociation Fr. de Vitoria, III, 1930-31). Mentre i nativi Americani consideravano gli europei quasi come delle divinità, ne venivano considerati quasi non umani: su ciò A.A. CASSI, Ius Commune tra vecchio e nuovo mondo. Mari, terre, oro nel diritto della conquista (1492-1680), Milano 2004, 35.

 

[101]HENRICUS DE SEGUSIO, In quinque decretalium libri commentaria, nonchè In sextum decretalium librum, Venetiis 1581, II, fol. 128 v. X 3.34.8: Mihi tamen videtur quod in adventu Christi omnis honor et omnis principatus, et omne dominium, et iurisdictio de iure et ex causa iusta...omni infideli subtracta fuerit et ad fideles translata.

 

[102] Per il quale non est quis compellendus ad fidem. Innocentii quarti Pont. Maximi Super Libros quinque Decretalium commentaria, III, 34, De voto et voti redemptione, c.8 Quod super his (c. 8, X, 3, 34), ed. Francofurti ad Moenum, MDLXX, 429 v.

 

[103]Vedi D. DE COVARRUBIAS Y LEYVA, Opera omnia, Antwerpen 1588, I, 497-499.

 

[104] A.A. CASSI, Ius Commune tra vecchio e nuovo mondo, cit., 59 ss e bibliografia ivi citata; K. PENNINGTON, Bartolomé de Las Casas and the Tradition of Medieval Law, in Popes, Canonists, and Texts 1150 - 1550 (Collected Studies Series 412) =   http://faculty.cua.edu/pennington/Law508/LasCasas2.html.

 

[105] «Tanta differentia est inter auctoritatem movendi gladium bellicum et gladium privatum, quanta differentia est inter rem publicam et privatam in defensionem». Vedi Sancti Thomae Aquinatis doctoris angelici opera omnia, VIII, Secunda secundae Summa Theologiae cum commentariis Thomae de Vio Caietani cardinalis, Roma 1895, 40, 1, n. 3, 313. = http://archive.org/stream/operaomniaiussui08thom#page/313/mode/1up.

 

[106] Ibidem

 

[107] Summula Caietani reverendissimi Thomae de Vio caietani cardinalis de peccatis, cit., 41.

 

[108] «Principes non solum habent autoritatem in suos sed etiam parata victoria et recuperatis rebus, et pace etiam et securitate habita, licet vindicare iniuriam ab hostibus acceptam et animadvertere in hostes et punire illos pro iniuriis illatis. Pro cuius probatione notandum quod principes non solum habent auctoritatem in suos sed etiam in extraneos, ad coercendum illos, ut abstineant se ab iniuriis; et hoc jure gentium, et orbis totius auctoritate». F. DE VITORIA, De jure belli, n. 19, ed. Salmanticae MDLXV, 184. = https://books.google.it/books?id=vhyZBkpPXQcC&printsec=frontcover&hl=it&source=gbs_ge_summary_r&cad=0#v=onepage&q&f=false.

 

[109] «Sed respublica habet authoritatem non solum defensionis sed etiam vindicandi se et suos. Et probatur quia ut Aristoteles tradit (3 Politicorum) respublica debet esse sibi sufficiens. Sed non posset suficienter servare bonum publicum, si non posset vindicare iniuriam et animadvertere in hostes. …Pro quo notandum quod perfectum est cui nihil deest, et imperfectum cui aliquid deest; quod totum est perfectum quid. Est ergo perfecta communitas aut respublica quae est per se unum totum, in qua non est alterius reipublicae pars, sed quae habet proprias leges, proprium concilium et proprius magistratus, quale est Regnum Castellae et Aragoniae et alii similes». F. DE VITORIA, De jure belli, 5, ed. cit., 180 v.

 

[110] «Alii reguli sive principes qui non praesunt reipublicae perfectae, sed sunt partes alterius reip. non possunt bellum inferre». F. DE VITORIA. De iure belli, 9, ed cit., 181.

 

[111] «Item non maiorem authoritatem habet princeps supra extraneos, quam supra suos, sed si in suos non potest gladium stringere, nisi fecerint iniuriam,: ergo neque in extraneos». F. DE VITORIA,De iure belli, 13, ed. cit., 182 v.

 

[112] Commentarios ad S. T., in II,II,  40,1, n.3, ed. cit. 8, 313.

 

[113] Inst. De la religion Chrétienne, Paris, 1961, IV, XVI, 214.

 

[114] Commentarios ad S. T., in II,II, 64,3, ed. cit., 9, 70 https://archive.org/stream/operaomniaiussui09thom#page/70/mode/1up

 

[115] HAGGENMACHER, op. cit., 172; VITORIA, De iure belli, n. 13: «unica est et sola causa iusta inferendi bellum iniuria accepta” e richiama S. Agostino; Ibidem, n. 18: “Non solum haec licent, sed ulterius etiam progredi potest princeps iusti belli quantum scilicet necesse est ad parandam pacem, et securitatem ab hostibus».

 

[116] T. MORO, De optimo reipublicae statu sive de nova insula Utopia, (Glasguae MDCCL = https://archive.org/details/deoptimoreipubli00more), trad, ingl. Utopia, (London MDCLXXXIV, https://archive.org/details/utopia1684more) ; JEAN LUIS VIVES De concordia et discordia in humano genere und Liber de pacificatione (Brügge 1529); S. FRANCK Das Kriegsbuechlein des Friedens, Basel 1539.

 

[117] Per es. T. CAMPANELLA, De Monarchia hispanica (Amstelodami MDCXL) = https://archive.org/details/imageGXIII431MiscellaneaOpal); IDEM, De monarchia Messiae (Aesii 1633); EMERIC CRUCE', Le Nouveau Cynée (Paris MDCXXIII).

 

[118] ERASMO DA ROTTERDAM, Adagia, a c. di S. Seidel Menchi, Einaudi 1980, 221.

 

[119] ERASMO DA ROTTERDAM, Il lamento della pace, a cura di Luigi Firpo, Utet, Torino 1967 (con la ristampa dell'editio princeps stampata da Froben, Basilea 1517; riedita anche da Tea, Milano 1993); L'educazione del principe cristiano in La formazione cristiana dell'uomo, a cura di Orlandini Traverso, Rusconi, Milano 1989. Sulla diffusione del pensiero di Erasmo in Spagna, vedi il classico libro di M. BATAILLON, Erasmo y España. Estudios sobre la historia espiritual del siglo XVI, Mexico-Buenos Aires 1966.

 

[120] A. GENTILI, De iure belli libri tres, I, III, ed. T.E. Holland, Londini 1877, 14. (= http://www.archive.org/details/dejurebellilibriOOgent ). Vedine la traduzione italiana a cura di D. Quaglioni: Alberico Gentili il diritto di guerra. (De jure belli libri III, 1598). Introduzione di Diego Quaglioni. Traduzione di Pietro Nencini. Apparato critico a cura di Giuliano Marchetto e Christian Zendri, Milano 2008.

 

[121] Nel De re militari et bello tractatus. La dichiarazione di guerra può essere omessa solo contro i pirati, contro coloro che il Papa o l’Imperatore hanno dichiarato pubblici nemici e contro i vassalli federati o alleati del nemico se gli hanno prestato soccorso. Su ciò R. VENDITTI, Il diritto penale militare nel pensiero di Pierino Belli, in Un giurista tra principi e sovrani. Pietrino Belli a 500 anni dalla nascita, Atti del convegno di studi (a cura di R. Comba e G.S. Pene Vidari), Alba 2004, 46; cfr. G.S.PENE VIDARI, Guerra e diritto nel pensiero di Pietrino Belli, in Diritto @ Storia 4, 2005 =  http://www.dirittoestoria.it/4/Memorie/Pene-Vidari-Guerra-Diritto-Pietrino-Belli.htm .

 

[122] Et itaque scriptum ab interpretibus illud quoque est, proditorie eum agere, qui non indictum movet bellum. A. GENTILI, De iure belli, II, I, ed cit., 124.

 

[123] «Quin et  monitio quaedam bellum praecedere debet,quam nostri diffidationem vocant. Ea est: praeambula belli adverfario facta significatio et velut citatio quaedam, qua qui bellum illaturus est, aduerfarium fuum, de bello à se inferendo, certiorem facit: et ius fuum,ad quod constituto iudicio pervenire non potest, armis se persequturum testatur. Etenim ut iudiciorum conflictus sine citatione non constitit: bella quœ non prœcedit diffidatio,ex insidijs potius quam iure intentata uidentur». Conradi Bruni De legationibus libri quinque, Magonza 1548, 117.

 

[124] H. GROTII, De jure belli ac pacis, l.III, III, V, ed J. Brown Scott, The Classics of International Law, Washington 1913 (= ed. 1646), 450 (https://archive.org/stream/hugonisgrottiide010grotuoft#page/450/mode/1up) .

 

[125] S. PUFENDORF, De jure naturae et gentium libri octo, cit. l. III, cap. IV, § 2, Francofurti et Lipsiae 1744, 359 = https://archive.org/stream/gri_33125011257405#page/n443/mode/2up , § 8, 6, 9, 15.

 

[126] S. PUFENDORF, De jure naturae et gentium libri octo, l. VIII, cap. VI, § 9, ed cit., 439.

 

[127] Aveva ancora spazio l’idea che non si dovessero stringere alleanze con gli infedeli: «…non utique illis quae ad benefaciendum infidelibus nec iis quae ad mutuam utilitatem pertinent aut ad opem ab illis implorandam, nec commixtio nimis arcta cum impiis contagium animis adferat; ne potentia infidelium nimis promoveatur; multo minus ne auxiliis illorum ad nocendum Christianis, quod toties, cum opprobrio Christianae religionis fit, utamur». Vedi U. HUBER, De jure civitatis libri tres, 1684, libro III, sec. IV, cap. III, 619. = https://archive.org/stream/ulricihuberideju00hube#page/620/mode/2up.

 

[128] J.VOET, De jure miliari, cap I, XIV, ed. cit., 19.

 

[129] J.VOET, De jure militari, cit, cap I, XX, ed. cit., 25.

 

[130] A. GENTILI, De iure belli, I, III, ed. cit., 19.

 

[131] A. GENTILI, De iure belli, III, III, ed. cit., 288.

 

[132] Vedi Principes du droit de la nature et des gens extrait du grand ouvrage de m. DE WOLFF par M. FORMEY, Amsterdam 1758, libro IX, cap. VI, §§ IV, V; 294 = https://archive.org/stream/principesdudroi01wolfgoog#page/n303/mode/2up

 

[133] PUFENDORF, De Jure Naturae et Gentium, libro V cap. XIII, 7, ed. cit., 850. https://archive.org/stream/gri_33125011257348#page/n896/mode/1up

 

[134] J. VOET, De jure militari, cap I § VI, 5-6 «Tertium denique, quod ad belli requiro substantiam est ut rite indicatur, seu ut consilio prius, quam armis omnia experiamur...» cfr. cap I § XI «Verum prius omnes, quibus absque vi publica ad sarciendum damnum, aut injuriae ultionem compelli posse creduntur adversarii, tentandas esse vias» cfr. cap I § XXV «Caeterum si subsecuto foedere sublata semel fuerit ac sopita justa belli causa, aut transactum sit de negotio, quod armorum praebere forte potuisset ansam, liberum cuiquam non amplius est ex obsoleta illa atque antiquata causa de novo bellandi quaerere occasionem».

 

[135] E. de VATTEL, Le droit des gens, Leiden 1758, I, 518-519.

 

[136] C. van BYNKERSHOEK, Quaestionum Juris Publici libri duo, l. I, 25, n. 10, ed. Lugduni Batavorum 1737, 185.

 

[137] J.W. TEXTOR, Synopsis Juris Gentium, XX, 50-61, ed. Washington 1916, 52 ss .

 

[138] Cfr. G. ARANGO-RUIZ, voce Controversie internazionali, in: Enciclopedia del Diritto, vol. X, Milano 1962, 398-399. cfr. anche W. SCHÜCKING, Das völkerrechtliche Institut der Vermittlung, Kristiania MCMXXIII, 18. Anche nella Convenzione dell’Aja del 18 Ottobre 1907, art. 2, il ricorso alla mediazione è lasciato ad un apprezzamento discrezionale: «en tant que les circonstances le permettront». Naturalmente un dovere giuridico di ricorrere a questa intromissione o di chiederla per evitare un conflitto armato o per mettervi fine può sorgere da speciali disposizioni di trattati. D. ANZILOTTI, Corso di diritto internazionale, Padova 1954, 33.

 

[139] Così la IIIa Convenzione conclusa alla Conferenza per la pace all’Aia, del 1907: «Art. 1 Le Potenze contraenti riconoscono che le ostilità fra esse non devono cominciare senza un avvertimento preliminare e non equivoco, che avrà sia la forma d’una dichiarazione di guerra motivata, sia quella di un ultimatum con dichiarazione di guerra condizionale. Art. 2 Lo stato di guerra dovrà essere notificato senza indugio alle Potenze neutrali e non produrrà effetto nei loro riguardi che dopo ricevutane notificazione che potrà esser fatta anche col telegrafo. Tuttavia le Potenze neutrali non potrebbero invocare la mancanza di notificazione, se fosse stabilito in modo non dubbio ch’esse conoscevano di fatto lo stato di guerra».