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DEMOCRAZia: il Modello

 

SEBASTIANO TAFARO

Professore Onorario, Università di Bari ‘Aldo Moro’

iuribus@gmail.com

 

 

SOMMARIO: 1. Democrazia oggi. Estraneazione del popolo. – 2. La prospettiva storica. – 3. Popolo e governanti4. Verso un nuovo modello. La democrazia ricorrente.Abstract.

 

 

1. – Democrazia oggi. Estraneazione del popolo

 

Partirei da un postulato, che, per quanto ovvio, è spesso dimenticato.

Perché ci sia democrazia è necessario che il popolo possa partecipare ed intervenire sull’esercizio del potere in ogni momento: altrimenti si assiste all’affermazione ed alla prepotenza di oligarchie di vario genere (politiche, sociali, economiche), cosí come oggi avviene in tutto l’Occidente ed in Italia. Non è ammissibile che il popolo sia interpellato soltanto al momento delle votazioni, peraltro del solo Parlamento, perché questo consegna il Paese agli arbitri dei poteri forti (Stato ed Enti locali, con le vessazioni fiscali, banche, gruppi finanziari, multinazionali ecc.).

Il tema dei diritti inalienabili nella sua complessità ha conosciuto superfetazioni e, alternativamente entusiasmi ed illusioni o scetticismo e disillusione.

Sia le normative sia la bibliografia sia le proposte sono ormai una selva quasi inestricabile.

Spesso si è operato un collegamento con la ‘natura’, che è, a dir poco ‘ambiguo’ e si disperde nella congerie di concezioni della ‘natura’.

Molti preferiscono parlare di diritti umani, senza addentrarsi nei penetralia del loro fondamento e del loro significato.

Ma, anche in questo caso, le incertezze e le perplessità sono molte.

Perciò penso che sia opportuno un approccio differente: quello del riconoscimento della priorità dell’uomo rispetto alla società ed a qualsiasi forma di aggregazione sociale e/o politica.

Personalmente ritengo che occorra affermare con forza che l’uomo è un prius rispetto allo Stato e/o alle unioni di Stati e che in qualsiasi momento debba poter esercitare il proprio diritto a far valere questa sua priorità, dissociandosi dallo Stato.

In proposito, riconsidererei le performanti visioni già espresse da Cicerone, il quale proclamò l’esistenza di tre condizioni  (status) degli uomini: quella individuale, quella della famiglia e quella della società. Ognuna autonoma e sia storicamente che ontologicamente in successione cronologica, di modo che, come sfere intersecanti tra loro ma senza che nessuna si annulli, non è concepibile che l’una sopprima o limiti l’altra.

Oggi, invece, appare di tutta evidenza l’estraneazione dei singoli rispetto alla gestione della politica, sempre piú appannaggio di oligarchie[1].

Questo distacco sembra favorito dall’assenza di forme idonee a consentire al popolo la conoscenza ed il controllo di ciò che fanno o si propone di fare i detentori del potere. Infatti manca o è epidermico il controllo del potere durante l’esercizio di esso.

L’estraneazione tra singoli e ‘poteri’ è oggi ampliata e, in parte, giustificata con la crisi, che si è abbattuta un po’ dappertutto. Infatti, la crisi economico-finanziaria, che sta investendo l’Europa, non sta incidendo solamente sull’economia, perché si proietta in uno scenario di crisi generale dell’assetto delle società (spingendo a parlare di crisi della società dei consumi, di crisi della società del possesso o, piú in generale di crisi dei valori) e, in nome della necessità di interventi, necessari al rilancio, sta sopprimendo ogni espressione della volontà popolare.

Essa, perciò, impone anche una riconsiderazione della democrazia, poiché mi sembra la conseguenza del modo con il quale è stata strutturata la società contemporanea e sono stati concepiti la democrazia e, con essa, lo Stato contemporaneo. Infatti, appare, a mio avviso, evidente la doverosità di una riflessione radicale, diretta a mettere in discussione l’attuale ‘modello’ e a lavorare alla costruzione di un nuovo modello[2] di democrazia, che sappia dare risposte adeguate alle aspirazioni degli uomini, ponendo rimedio all’estraneazione dei singoli rispetto alla gestione della politica, che viene avvertita sempre piú appannaggio di oligarchie[3].

Questo è tanto piú urgente quanto piú vasta diventa la convinzione che oggi la crisi sia irreversibile e che i governanti non affrontano il nodo del problema istituzionale, ma si illudono di potervi porre rimedio con l’adozione di soluzioni provvisorie e parziali, dalle quali spesso nascono illusioni destinate a cadere nel corso degli anni[4].

Poiché, tuttavia, il distacco esistente tra governanti e governati rimane immutato e, anzi, tende a crescere, sono indotto a ritenere che esso sia conseguenza dell’assenza di un’avvertita riflessione progettuale sul ‘modello’ organizzativo piú consono alle necessità del presente, alla cui costruzione non bastano provvedimenti e/o istituti miranti a far fronte all’emergenza.

È su questi aspetti che va incentrato il dibattito sugli assetti congrui alle nostre società; di esso si avverte l’assenza, poiché, pur quando c’è, è frammentario, episodico e, mi sembra, carente di una riflessione organica e prospettica. Non di rado è rissoso e confuso.

Sta di fatto che si dimentica o si sfiora superficialmente uno dei nodi che, sin dall’antichità, è stato ritenuto centrale per assicurare un corretto rapporto tra potere (e ‘potenti’) e singoli o collettività: l’efficace controllo del potere in tutte le sue fasi (prima, durante e dopo il suo esercizio).

 

 

2. – La prospettiva storica

 

Su di esso appare sempre piú grave l’assenza di un’attenta e consapevole considerazione. Eppure si tratta di uno snodo che ha radici molto risalenti.

Fin dall’antichità, particolarmente in Sparta, dove per realizzare il controllo del potere furono creati gli Efori[5] e nella Respublica populi Romani, dove era assoluto e tranciante il controllo dei Tribuni plebis[6], è stata avvertita la necessità di porre argini all’esercizio del potere; non solo attraverso i normali organi dell’organizzazione di tipo costituzionale, ma anche con l’introduzione di autorevoli controllori della correttezza ed opportunità delle scelte operate da qualsiasi ‘potere’[7]. E si ebbe cura di fare in modo che, comunque, la durata sia degli Efori che dei Tribuni fosse limitata nel tempo (duravano, infatti, un solo anno), onde evitare che essi stessi potessero abusare delle proprie prerogative.

Le antiche figure e le istanze di base che ne avevano decretata la nascita sono state riproposte riguardo alla società moderna e contemporanea. Si è aperto un dibattito, oggi di grande attualità, indirizzato alla prospettazione di soluzioni idonee a regolare, in maniera soddisfacente per tutti, il complesso rapporto tra l’esercizio del ‘potere’ ed il popolo, con la finalità di approdare ad un equo bilanciamento tra le prerogative dei singoli uomini ed i detentori del potere; spesso partendo proprio dalle antiche istituzioni dell’Eforato e del Tribunato della plebe.

Vediamo perché.

Eforato. Le caratteristiche scorte nell’Eforato fecero in modo che esso fosse additato come ‘modello’ da quanti avvertivano l’esigenza del controllo del potere e della partecipazione popolare. Perciò, a partire dal sec. XVII venne riproposto come argine al potere del Sovrano. Nel 1603 Johannes Althusius pubblicava la Politica, opera ritenuta l'atto di nascita del diritto pubblico moderno, fondamentale per il pensiero federalista e la riaffermazione della sovranità popolare. Secondo l’autore nella comunità politica vi è un momento unitario, costituito dalla confluenza tra l'operato dei sommi magistrati che esercitano il potere ed il concorso del popolo (con le sue molteplici forme di aggregazioni), il quale si esprime attraverso propri rappresentanti diretti: gli Efori. In tal modo la società si organizza intorno ad un’istanza di guida (espressa dai governanti) e ad un’istanza di partecipazione collegiale, che esprime direttamente la volontà della comunità. Perciò sono gli Efori ad avere l’auctoritas e la potestas piú elevata, proprio perché promanano direttamente dal popolo, consentendo al popolo stesso di farsi valere realmente di fronte all’azione di governo del sommo magistrato. Piú tardi Johann Gottlieb Fichte riprese le fila del rapporto magistrato-popolo, ma da altra angolatura: non quello positivo della rappresentatività, bensí quello del controllo. Egli ripropose l’Eforato non come potere positivo, ma come controllo sul potere.

Le caratteristiche dell’Eforato, tuttavia, sono state spesso anche esaltate nei momenti nei quali si cercava di riposizionare il popolo al centro della vita politica e costituzionale, come avvenne intorno alla metà del secolo XVIII, quando l’Eforato è stato talora ripresentato come modello di giustizia e di difesa delle istanze popolari. Significativa appare la sua riproposizione ad opera del Pagano, il quale lo ipotizzò come organo idoneo a soddisfare l’esigenza di porre in essere efficaci strumenti giuridici volti a impedire ogni forma di usurpazione da parte dei detentori del potere. Compito dell’Eforato, per l’autore partenopeo, era quello di dare spazio al popolo, in modo da garantirlo contro gli abusi di potere e la violazione dei diritti, evitando di diventare a sua volta fonte di potere incontrollato. La ricerca di una forma di controllo efficace e il ricorso all’Eforato (proprio nell’epoca del Pagano) erano oggetto di attenzione e tensioni anche in Francia, attraverso alcune proposte presentate all’Assemblea legislativa. Nel febbraio del 1793, Jacques-Marie Rouzet prospettò la creazione di un organo collegiale di 85 membri preposto al controllo della correttezza delle leggi, da effettuarsi prima ancora della loro approvazione da parte dell’Assemblea. Ai membri di tale organo, il Rouzet, molto prima che il Pagano redigesse il suo Progetto, dava il nome di Efori. La sua proposta si inseriva all’interno del progetto rivolto ad assicurare la legalità, considerata parte essenziale dei diritti dell’uomo. Allo stesso obiettivo si ispirò anche il ben piú articolato e complesso progetto presentato, all’Assemblea, dall’abate Sieyès, il quale prevedeva l’introduzione di un jury constitutionnaire (da lui denominato altrove anche tribunal des droits de l’homme) incaricato di una triplice funzione: vegliare sulla salvaguardia del dettato costituzionale, proporre dei perfezionamenti della Costituzione ed esercitare un controllo sulle sentenze della giurisdizione ordinaria sulla base del diritto naturale. Conseguenza del giudizio dinanzi al jury sarebbe stata la possibilità di dichiarare “nuls et comme non avenus” gli atti incostituzionali. Benché apprezzato da molti, il progetto del Sieyès venne respinto, ma, l’istanza, della quale si faceva portatore, restò un punto di riferimento, per la cultura europea.

Tribunato. Il Tribunato, ripetutamente nel corso del tempo, è stato considerato lo strumento piú immediato ed efficace per la salvaguardia dei diritti e delle aspettative dei cittadini. Per la sua carica potenzialmente rivoluzionaria e la capacità di essere vicino alle esigenze dei cittadini, esso è stato riproposto anche ai tempi d’oggi, riconoscendogli una eccezionale attualità e l’idoneità a contribuire alla soluzione della crisi dello Stato moderno. Il quale avrebbe tanto da guadagnare dal richiamo del modello “giuspubblicistico” dell’antica Roma, particolarmente quello della Repubblica, ritenuto il piú rispettoso della sovranità del popolo. In quel modello i Tribuni erano centrali, al punto che Cicerone arrivava a dire che non si sarebbe potuto parlare di Respublica se non ci fosse stato il Tribunato. L’origine plebea, il suo inserimento nelle lotte patrizio-plebee, prima, per la riforma agraria e, piú in generale, il suo intervento a favore degli oppressi, dettero all’istituzione un fascino trascinante, che perdura ai tempi d’oggi; al punto che alcuni hanno ipotizzato l’attualizzazione del Tribunato, per rimuovere le cause della crisi di fiducia dei cittadini. I Tribuni della plebe erano presenti in alcune città medievali: è rivelatrice la circostanza che il governo popolare cittadino instauratosi a Bologna nel 1300 fosse articolato intorno ai Tribuni della plebe e desse vita a costumi che durarono fino al 1700. Nell’età moderna troviamo il Tribunato al centro del dibattito tra Montesquieu e Jean-Jacques Rousseau riguardo al ‘modello’ piú adatto all’età contemporanea. Al primo, contrario al Tribunato perché convinto che esso fosse inconciliabile con la democrazia rappresentativa di matrice inglese, da lui perseguita, il Rousseau controbatteva con la proposta di introduzione di una magistratura di mediazione (un magistrat intermédiaire) forgiata in assonanza con il Tribunato romano. I rivoluzionari Robespierre e Babeuf, il quale, volendo estremizzare l’affermazione del ruolo del popolo, aveva visto nel Tribunato la soluzione piú pertinente, addirittura mitizzarono il Tribunato. Robespierre però diffidò dei travisamenti degli uomini e propose che fosse il popolo stesso ad esercitare il Tribunato. Babeuf fece del Tribunato il suo modello di eccellenza, tanto che (il 5 ott. 1774) ribattezzò il suo giornale (Journal de la liberté) con il nuovo nome di Tribun du peuple e vide nel Tribunato lo strumento per la giustizia e la lotta dei poveri contro i ricchi ed i potenti, nel perseguimento della democrazia popolare al posto della democrazia borghese. Tra i filosofi il Tribunato, ignorato da Kant, fu riproposto da Schlegel, nella rivalutazione pre-romantica del popolo, il quale vide nell’istituzione di un hochheiliger Tribun lo strumento ultimo di difesa della parte migliore del popolo.

Il Tribunato è stato considerato la figura cui ispirarsi per superare i limiti della ‘democrazia’, consistente nella possibile ‘tirannia’ della ‘maggioranza’. Si è, infatti, affermato che la sola maggioranza, contrariamente a quanto si crede sulla scorta del modello di democrazia degli Stati Uniti d’America, non può essere garanzia di democrazia, poiché può diventare facilmente ‘oligarchia’, per il fatto che essa «fondando il potere della maggioranza, ha trascurato di sottoporlo a questo sindacato permanente >il Tribunato< di cui tutti i poteri hanno bisogno». In quasi tutte le proposte, tuttavia, piú che al complesso dei poteri e delle prerogative dei Tribuni il riferimento prevalente è alla possibilità di opporsi al ‘potere’ dei magistrati e degli organi della repubblica[8].

 

Parziale eredità di siffatte proposte è stata la creazione in Svezia[9] dell’Ombudsman. Esso è proliferato in numerose figure, che, con varie denominazioni (Ombudsman, Médiateur, Defensor del pueblo, Parliamentary Commissioner, Avvocato del popolo, Difensore civico, Défenseur des droits) sembrano procedere in modo irrefrenabile in quasi tutto il mondo, ad eccezione degli USA e dell’Italia, suscitando entusiasmo e speranze[10]. Ciò avviene perché la figura (secondo alcuni erede degli antichi Efori o dei Tribuni plebis ovvero dei piú tardi Defensores Civitatum, sorti nel Basso Impero) è stata concepita proprio come intermediaria tra potere e governati[11], sicché spesso crea l’illusione di potere colmare il solco (come detto, sempre piú profondo) esistente tra ‘potere’ e uomini, oggi avvertito come fonte di disparità ed ingiustizie.

Anche nell’UE vi è un mediatore, erede dell’Ombudsman di matrice svedese, ma con poteri tanto ristretti da incidere poco nella vita dell’UE e sull’effettivo rispetto della dignità umana, proclamata dal Trattato di Lisbona.

In realtà gli Ombudsman sono soltanto una pallida replica del defensor civitatis e del glorioso Tribunato della plebe. Quelle istituzioni erano concepite come reale freno all’esercizio del potere, le odierne figure (Ombudsman, Mediatori, Defensor del Pueblo, Avvocati del popolo, Difensori civici, o comunque sia denominate) sono sorte come espressione del potere stesso o del Parlamento (ma chi si fida piú del Parlamento?) e sono destituite di poteri reali e decisivi, poiché, per lo piú svolgono compiti di denuncia.

Eppure quello del controllo del potere durante il suo esercizio, come si è detto, è un grosso nodo; non basta, eventualmente, sovrintendere all’emanazione dei provvedimenti, occorre controllarne l’effettiva e corretta attuazione. Senza questo controllo, attraverso un organo dotato di poteri incisivi, la stessa democrazia perde senso e diventa un comodo paravento per decisioni unilaterali e non rispondenti all’interesse della collettività; in Italia manca addirittura una figura nazionale di tal fatta, malgrado l’invito rivolto dall’ONU alla fine della prima metà del secolo scorso.

Specialmente per i diritti fondamentali il controllo, per essere efficace, dovrebbe essere preventivo. L’UE ha avvertito la delicatezza di ciò e, prima con il Trattato di Maastricht poi in quello di Lisbona, ha introdotto il principio di precauzione, che dovrebbe consentire di bloccare sul nascere[12] un atto offensivo dell’ambiente o comunque temuto nocivo. Tuttavia ad oggi esso non appare corredato di strumenti di incisiva efficacia.

Qualcosa potrebbe rappresentare la procedura detta VIA[13], ma in molti Paesi è stata depotenziata, perché a pronunciarsi, cosí come essa richiede, sulla non nocività ed opportunità dell’atto e/o del procedimento sospetto non sono chiamati i cittadini-utenti, bensí le Amministrazioni e gli organismi che in molti casi sono essi stessi autori o comunque hanno partecipato alla formazione del potenziale provvedimento sospetto.

 

 

3. – Popolo e governanti

 

Il punto, pertanto, rimane acuto e richiede una radicale riconsiderazione. Cardini della riflessione degli ultimi secoli sono stati ritenuti da un lato l’esigenza che il popolo non si sentisse escluso dalle decisioni fondamentali che lo concernono, dall’altro la prevenzione o il blocco di eventuali abusi da parte dei governanti. In conseguenza di questa impostazione sono apparsi particolarmente significativi gli istituti diretti al controllo dell’esercizio del potere, per assicurare il ‘buon governo’, che va perseguito attraverso la riscoperta della effettiva centralità della sovranità popolare, e per reprimere l’uso arbitrario ed immotivato del potere[14].

Oggi costatiamo l’attualità di queste stesse istanze. Esse sono anche postulate dalla crescente richiesta di tutela dei diritti fondamentali, la quale ha posto a nudo l’inadeguatezza di due fondamenti della ‘democrazia’ occidentale, costituiti dalla rigida affermazione della sovranità statale (o di unioni di Stati) e dal principio della divisione dei poteri. Questi pilastri della democrazia rappresentativa hanno generato una crescente mancanza di protezione di fronte all’Amministrazione Pubblica ed ai cosiddetti ‘poteri forti’, i quali appaiono invasivi, anche in conseguenza del fatto che, nel frattempo, il bilanciamento ed i controlli tra i ‘poteri’ previsti dalla dottrina della divisione dei poteri in realtà non vi è piú. Perché ci sia democrazia è necessario che il popolo possa partecipare ed intervenire sull’esercizio del potere in ogni momento: altrimenti si assiste all’affermazione ed alla prepotenza di oligarchie di vario genere (politiche, sociali, economiche), cosí come oggi avviene in tutto l’Occidente ed in Italia. Non è ammissibile che il popolo sia interpellato soltanto al momento delle votazioni, peraltro del solo Parlamento, perché questo consegna il Paese agli arbitri dei poteri forti (Stato ed Enti locali, con le loro vessazioni fiscali, banche, gruppi finanziari ecc.) e, in ultima istanza ad oligarchie, che operano sotto il semplice paravento della democrazia.

Questo perché non ha funzionato e sempre meno funziona il controllo che doveva essere realizzato attraverso il principio della divisione dei poteri, di modo che l’uomo avverte una crescente mancanza di protezione di fronte all’Amministrazione Pubblica ed ai cosiddetti ‘poteri forti’[15]. Pur non essendo ipotizzabile una democrazia assembleare, del tipo di quella ateniese (ad esempio), occorre trovare soluzioni che rassicurino i ‘governati’ sull’utilizzo del potere per il bene comune e non per finalità personalistiche e, spesso, piú o meno vessatorie ed arbitrarie.

Invero, proprio il perno destinato al corretto esercizio e al controllo del potere, vale a dire la divisione dei poteri, si dimostra sempre piú una mera finzione, incapace di creare il necessario bilanciamento tra poteri e, meno che mai, di assicurare il ruolo protagonista del popolo. Per convincersi di ciò basta un fugace sguardo alla struttura dell’Unione europea.

In essa le cosiddette norme primarie del diritto comunitario sono costituite in primo luogo dalle norme convenzionali, contenute nei Trattati istitutivi della Comunità e negli accordi internazionali successivamente stipulati, al fine di modificarli. A queste norme si affiancano quelle (di diritto derivato), provenienti dai regolamenti CE e dalle direttive del Consiglio o della Commissione (atti normativi) e molte altre tutte non provenienti da alcun organo legislativo. È, poi, anche opinione concorde che possano assumere valore normativo le decisioni ed i pareri e le sentenze della Corte di Giustizia (o del Tribunale di primo grado). Le quali finiscono per rivestire efficacia diretta negli ordinamenti degli Stati membri, assumendo, di conseguenza, il carattere di fonti del diritto comunitario: infatti, l’interpretazione di una norma comunitaria, resa in una pronuncia della Corte di Giustizia, ha carattere di sentenza dichiarativa del diritto comunitario.

Il potere giudiziario - quello che doveva fungere da controllore dell’esecutivo, ponendosi come terzo rispetto all’imparziale applicazione della legge ed ergendosi a garante della legalità e della meritevolezza degli atti dell’esecutivo – è diventato un potere autoreferenziale, senza rapporto reale con il popolo. Nella Costituzione italiana e di molti altri Paesi i giudici, pur dichiarando enfaticamente nelle loro sentenze, di agire in nome del popolo, in realtà sono lontanissimi ed estranei al popolo, il quale né concorre alla loro designazione né li conosce né è reso partecipe in alcun modo alle loro decisioni[16]. Nell’UE poi la loro nomina e la loro conseguente posizione è paradossale, poiché sono emanazione diretta ed esclusiva dei Governi. Invero, secondo l’art. 9 F del Trattato di Lisbona:

 

1. La Corte di giustizia dell'Unione europea comprende la Corte di giustizia, il Tribunale e i tribunali specializzati. Assicura il rispetto del diritto nell'interpretazione e nell'applicazione dei trattati.

 

Gli Stati membri stabiliscono i rimedi giurisdizionali necessari per assicurare una tutela giurisdizionale effettiva nei settori disciplinati dal diritto dell'Unione.

 

La Corte di giustizia è composta da un giudice per Stato membro. È assistita da avvocati generali.

 

Il Tribunale è composto da almeno un giudice per Stato membro.

 

I giudici e gli avvocati generali della Corte di giustizia e i giudici del Tribunale sono scelti tra personalità che offrano tutte le garanzie di indipendenza e che soddisfino le condizioni richieste agli articoli 223 e 224 del Trattato sul funzionamento dell'Unione europea. Sono nominati di comune accordo dai governi degli Stati membri per sei anni. I giudici e gli avvocati generali uscenti possono essere nuovamente nominati.

 

Ciò con buona pace dell’esigenza di garantire a chicchessia un giudice indipendente ed imparziale, precostituito per legge proclamata nell’art. 47 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea, del 2000:

 

Diritto a un ricorso effettivo e a un giudice imparziale. Ogni individuo i cui diritti e le cui libertà garantiti dal diritto dell’Unione siano stati violati ha diritto a un ricorso effettivo dinanzi a un giudice, nel rispetto delle condizioni previste nel presente articolo. Ogni individuo ha diritto a che la sua causa sia esaminata equamente, pubblicamente ed entro un termine ragionevole da un giudice indipendente e imparziale, precostituito per legge.

 

Tutto ciò accade nella paradossale situazione dell’UE, nella quale l’esecutivo è nominato dagli esecutivi degli Stati membri e non ha nessuna relazione né con il Parlamento europeo né, ancor meno, con i governati, salvo il tentativo ancora timido di collegare almeno la presidenza al popolo riflesso dal Trattato di Lisbona!

Come si vede della c.d. divisione dei poteri non resta quasi nulla!

Rimane invece una sorta di paravento che, fonte di illusioni ed ipocrisie, favorisce il consolidamento di oligarchie e burocrazie e che fa sentire impotenti.

Eppure, mentre nell’800 si distingueva tra repubblica e democrazia, a partire da quel periodo si cercò di superare tale distinzione, la quale significava distinguere tra democrazia partecipativa, indicata anche semplicemente parlando di repubblica, e democrazia rappresentativa: si cominciò a distinguere tra democrazia pura, indicativa della democrazia (degli antichi) partecipativa e democrazia, senza aggettivi, corrispondente alla democrazia elettiva e rappresentativa[17].

Attraverso l’ONU e gli altri Organismi internazionali è proprio questo modello di democrazia rappresentativa ad essere assunto come sinonimo di democrazia ed assistiamo al tentativo di esportarlo ed imporlo, addirittura con la forza. In realtà ciò opera forzature dolorose e causa una riduzione ischemica nella delineazione del rapporto tra governanti e governanti, tra uomini e potere.

 

 

4. – Verso un nuovo modello. La democrazia ricorrente

 

Quanto questo sia devastante per alcune culture è sotto gli occhi di tutti e crea tensioni e ribellioni.

All’interno di ciascuno Stato, poi, vi è delusione ed un senso di cocente estraneazione dalla ‘politica’, vissuta come superfetazione, spesso improvvisazione o sopraffazione di pochi (si parla sempre piú spesso di ‘caste’). D’altra parte chi oggi può credere al primato della legge, emanazione di parlamenti sempre piú screditati e strumento di ‘pochi’[18]?

Rebus sic stantibus, cosa fare? Rassegnarsi? Riaffidarsi ancora al rispetto delle ‘regole’ della democrazia rappresentativa, alternando periodi di risveglio democratico con periodi di ‘indignazione’ ed allontanamento dalla vita pubblica o, peggio, ricorrendo ad atti di ribellione?

La verità è che (a mio avviso) vi è la necessità di riprendere il discorso là dove era iniziato, cioè intorno alla seconda metà del sec. XVIII, quando si definirono le basi del modello costituzionale francese, che, desunto da quello inglese, diventò ‘il modello’ universalmente adottato negli Stati contemporanei e, con varianti piú o meno significative, è quello che ancora oggi è seguito. S’impone una discussione profonda ed in grado di ridisegnare il ‘modello’ di Stato e, ovviamente, di Costituzione, sia formale che materiale.

Ritengo che la prorompente esigenza di riconoscimento e protezione dei cosiddetti diritti fondamentali stia dimostrando l’inadeguatezza dei pilastri della ‘democrazia rappresentativa’ e richieda una profonda discussione dei princípi sui quali essa si fonda; nella realtà essi stanno dando spazio crescente all’affermazione di oligarchie, con conseguente estraneazione del popolo. Il nuovo disegno di Costituzione dovrebbe, perciò, partire dalla constatazione dell’inefficacia e del mancato funzionamento della ‘divisione dei poteri’, per ipotizzare una differente configurazione della società, con la riproposizione della centralità dell’uomo, la quale può essere ottenuta solo attraverso forme performanti di controllo del potere, in tutte le sue manifestazioni e durante il suo espletamento.

Purtroppo sono in pochi ad avere intrapreso questa strada, mentre il nodo era ben presente nelle discussioni sulla città antica e nel pensiero dei secoli XVIII-XIX, dal quale deriva la configurazione delle ‘democrazie’ occidentali.

Sinceramente credo che occorra non tanto inseguire rimedi temporanei e/o parziali, quanto ritornare a riflettere su cosa occorra alla società di oggi, ponendo al centro la discussione del ‘modello’, sulla ‘democrazia’, senza remore o prevenzioni. Cosí facendo, forse, si scoprirà che è proprio il modello della democrazia rappresentativa ad essere inadeguato ed anzi fuorviante, rispetto alle esigenze delle comunità, che è soprattutto esperienza e vive di esperienza (cioè della vita)[19].

Perciò, piuttosto che la prospettazione di ipotesi teoriche[20], si potrebbe esperire un approccio realistico, individuando, ove possibile, come sia opportuno cambiare il ‘modello’ che regge le comunità dell’oggi e soprattutto avviando una riflessione della quale qui si vogliono ipotizzare alcune linee iniziali[21].

 

Essenziale riterrei la rivisitazione del principio della divisione dei poteri.

 

Esso è stato ritenuto fondamentale nella democrazia rappresentativa fino al punto di essere ritenuto di per sé idoneo ad assicurare la democrazia (tout court). In realtà si risolve in una limitazione di ruolo per il popolo, il quale è privato della possibilità di interagire sia con il potere esecutivo sia con quello giudiziario e, riguardo al potere legislativo, è ridotto al ruolo di distretto elettorale, che si riunisce soltanto al momento dell’elezione del Parlamento (e talora neanche di tutti i componenti di esso) e poi sparisce dalla scena politica attiva, anche se altri (ovviamente il Parlamento, ma anche l’Esecutivo ed i Giudici) dichiarano di agire in nome suo.

Di conseguenza, immaginare un ‘modello’ che prescinda dalla divisione dei poteri non costituisce motivo di possibili derive antidemocratiche, bensí serve ad eliminare una finzione ed a stimolare la ricerca di forme piú incisive di partecipazione costante del popolo, con controllo effettivo dell’esercizio del potere, che è unico ancorché si manifesti in varie forme, con modalità ed organismi distinti.

In altre parole, anziché assistere al tacito assorbimento di competenze da parte dell’Esecutivo nei confronti del Parlamento o dei Giudici nei confronti del Legislativo, appare meglio e piú realistico affrontare l’ipotesi di una democrazia che ritorni a porre i consociati al centro del Potere e del suo esercizio.

 

Ma qui sorge un interrogativo: si può ipotizzare il ritorno alla democrazia diretta? Si può ipotizzare la consultazione diretta e ricorrente dei consociati? Oggi si parla di democrazia partecipata (talora partecipativa) e si sperimentano varie modalità che dovrebbero consentire ai componenti della comunità di partecipare in qualche modo al momento deliberante delle decisioni, utilizzando, all’uopo, anche le grandi ed innovative possibilità offerte delle nuove tecnologie. Se essa sia realizzabile o se, come è spesso obiettato, sia possibile solo in società e/o gruppi poco estesi è oggetto di verifica. Certo occorre riflettere scandagliando fino in fondo le potenzialità esistenti oggi ed in grado di fare in modo che vi sia una partecipazione dei consociati al momento deliberativo e, aggiungerei, a quello dell’attuazione dei conseguenti atti e/o provvedimenti.

Occorre, comunque, domandarsi: ci sono strumenti per rimediare alla prevalenza oligarchica delle società odierne?

Parecchi, ma da esperire e monitorare continuamente nella loro efficacia.

Ne esemplifico soltanto alcuni con l’avvertenza che, sul punto, occorrerebbe sollecitare un dibattito approfondito. Inizierei con alcune limitate indicazioni.

Primaria mi sembra la reintroduzione dell’etica nel diritto; certamente non nel senso che etica e diritto si debbano identificare, bensí nel senso (kantiano) che l’etica deve essere nel diritto.

Si possono riconsiderare alcune forme di mandato vincolante e la verifica di metà mandato. La Costituzione aveva previsto tempi diversi per l'elezione della Camera e del Senato: mai rispettati. Altrove, ad esempio negli USA, alcuni rappresentanti vengono eletti ad una data altri dopo 2 anni: cosí capita che un Presidente, che non soddisfi piú o non mantenga quanto promesso, perda la maggioranza del Parlamento. In Italia, in nome della Governabilità, invece si vota una soltanto ogni 5 anni, senza vincolo di nessun genere per gli eletti.

Subito dopo si dovrebbe porre mano a una ristrutturazione della Giustizia, la cui grave crisi, acuta particolarmente in Italia, è eclatante ed allontana l’uomo dal diritto. Tanto piú che oggi la tutela giudiziaria è riservata a chi abbia un interesse personale attuale e diretto alla lite. Questo è retaggio consolidato e risale al diritto romano, con la differenza che gli antichi Romani si resero conto che in alcuni casi questi presupposti erano devianti, poiché, dinanzi agli interessi della collettività o di persone deboli, apparve loro opportuno prescindere da tali requisiti e concedere la legittimazione al processo a chiunque, ancorché non portatore di un suo particolare e specifico interesse. Fu questa la felice invenzione dell’azione popolare. Essa consente il controllo sul corretto esercizio del potere. Infatti, poiché qualora chi ne è obbligato non agisca, può vedersi sostituito da chicchessia, ne consegue da un lato uno stimolo a ‘fare’ ciò cui il governante sia tenuto dall’altro un controllo indiretto del suo operato. In altre parole, io, cittadino qualsiasi sarò verosimilmente molto stimolato a verificare ciò che il governante fa se so che, qualora egli non faccia il dovuto, potrò sostituirlo io stesso. L’azione popolare, inoltre, va ben oltre la facoltà di supplenza, perché rappresenta un caso concreto di esercizio diretto della sovranità popolare, normalmente delegata al governante, ma il cui esercizio torna a ciascun cittadino quando chi ne sia tenuto non adempia al suo ufficio/dovere[22]. Considerati la complessità del processo dell’oggi ed i suoi alti costi, sarà opportuno che chi esperisca un’azione popolare possa, per ciò solo, avvalersi del gratuito patrocinio.

L’azione popolare è prevista da molte costituzioni latino-americane, mentre è del tutto assente nel Trattato di Lisbona e, quindi, all’interno dell’UE.

Nell’UE siamo quasi alla beffa: non solo manca l’azione popolare e non vi è traccia di referendum, ma, con toni roboanti, si propaganda come una grande novità a favore dei cittadini la cosiddetta “iniziativa popolare”, per la quale occorrono un milione di firme, in almeno 7 Stati e con una soglia minima per Stato[23] non perché la proposta di legge sia accolta e se ne occupi il Parlamento, ma semplicemente con il valore di suggerimento, perché i cittadini «possono prendere l’iniziativa d’invitare la Commissione europea, nell’ambito delle sue attribuzioni, a presentare una proposta appropriata su materie in merito alle quali tali cittadini ritengono necessario un atto giuridico dell’Unione ai fini dell’attuazione dei trattati». Uno si aspetterebbe che se si mobilitano tanti cittadini in almeno 7 Stati dovrebbero avere il potere di adottare direttamente un provvedimento o almeno di avere la legittima facoltà di sottoporre all’approvazione diretta dei cittadini il provvedimento richiesto.

Insomma tanto rumore quasi per nulla o, comunque, poco?!

Per la Giustizia civile si stanno sperimentando diversi rimedi, ma essi si rivelano parziali e non risolutori. Il piú recente è del 2008, quando l’UE si è posta il problema dell’effettività dell’accesso alla giustizia e della sua reale fruizione; con la direttiva 2008/52/CE del Parlamento europeo e del Consiglio del 21 maggio 2008, entrata in vigore il 12.6.2008, la Commissione ha inteso promuovere il ricorso alla mediazione come metodo di risoluzione consensuale delle controversie in materia civile e commerciale. La direttiva non menziona la materia amministrativa, probabilmente perché per essa vi è la concorrente azione del Médiateur européen.

La direttiva è stata variamente interpretata ed applicata dai singoli Paesi membri. Ad esempio, in Italia, come è noto, è stata intesa dal Governo non come alternativa al processo, ma come rimedio contro la lungaggine eccessiva delle liti. Ho la preoccupazione che, specialmente riguardo all’Italia, il ricorso alle procedure alternative, di là dagli entusiasmi del primo momento, possa non avere molto spazio[24], diversamente dalle esperienze anglosassoni, nelle quali sono nate, che hanno ben altri Weltanschauung. D’altro canto è rivelatrice la circostanza che in Italia la loro introduzione sia stata prefigurata all’interno della semplificazione e della competitività in materia del processo civile[25].

Sta di fatto che queste sono strade che cercano di risolvere la questione della Giustizia senza porre in discussione l’impianto tradizionale del processo, malauguratamente isterilitosi in ritualità e azioni dilatorie, che per l’Italia risalgono al periodo fascista ed in particolare al Chiovenda[26], il quale prefigurò la presenza invasiva del giudice istruttore, creando un monstrum del quale fin dal suo sorgere se ne denunciarono i pericoli e la potenziale inefficienza.

Che la riforma funzioni è da verificare e non vorrei che costituisca un alibi per dilazionare la riforma del processo, sia riguardo ai costi sia riguardo al ruolo delle parti e dei giudici[27]. A mio avviso è su questo che occorre intervenire in via prioritaria, restituendo alle parti il potere di scelta del giudicante (come avveniva nel modello del diritto romano, durante la Respublica, cioè in un sistema a democrazia partecipata), secondo una visione compartecipata e non autoritaria o oligarchica della società[28].

Invero la questione dell’accesso alla Giustizia e dell’organizzazione del processo non è mera questione tecnica e non è risolvibile attraverso modifiche, piú o meno radicali, settoriali o solamente processuali: essa attiene al modo stesso di concepire la società ed il modello sociale e costituzionale cui ispirarsi[29].

Ma in via piú generale e radicale si dovrebbe delineare un nuovo assetto del rapporto tra giudici e popolo.

Oggi i giudici non hanno nessun legame con i cittadini.

L’uomo si sente ed è pressoché impotente. Affidato, per la sua richiesta di ‘giustizia’ ad un meccanismo non sempre ‘terzo’ e spesso avulso dal contesto storico-sociale, tanto che non di rado si hanno sentenze che stupiscono per la loro estraneità al contesto della realtà fattuale ed ai valori della società. Le motivazioni alle sentenze, poi, costituiscono un campo nel quale è spesso impossibile addentrarsi e certamente non sono, come dovrebbero essere, alla portata della comprensione dell’uomo medio[30]. Oserei dire che talvolta sembra di trovarsi di fronte ad un linguaggio tanto tecnico da essere appannaggio esclusivo di pochi, creando un altro motivo di estraneazione dell’uomo dal diritto.

Amo ricordare che la nomina ‘a vita’ dei giudici era motivata dalla necessità di renderli indipendenti dal Sovrano[31] e comunque ancora oggi il giudice resta al suo posto during good behavior. Ma nella Repubblica questo si giustifica ancora? Ne dubiterei. D’altra parte se questa esigenza fosse ancora attuale non si giustifica perché nelle Corti sovranazionali, come la Corte di Giustizia europea i giudici sono designati per un periodo limitato (di 6 anni).

 

Accanto alla riconsiderazione della ‘giustizia’, occorrono prospettare soluzioni adeguate a dare ‘voce’ agli uomini, consentendogli di intervenire riguardo alle decisioni che concernano loro e la collettività.

Appare sempre piú evidente l’opportunità di attribuire l’iniziativa di proposta di legge anche a persone o gruppi che non facciano parte del Parlamento, sia con la forma del referendum propositivo sia attribuendo il potere di proposta ad organi o singoli, che intendano agire per la collettività. Esempio significativo è la costituzione albanese, la quale, in materia di diritti umani, attribuisce il potere di iniziativa legislativa anche all’Avvocato del popolo[32].

Ora la domanda è questa: poiché le questioni diventano sempre piú tecniche ed è palpabile la generale sfiducia nei governi e nei parlamenti, non si dovrebbe dare in qualche modo voce, anche sotto forma di proposta ed eventuale approvazione di legge, al popolo?

Vitale potrebbe essere l’introduzione di difensori dei diritti (la figura esiste in Francia, accano al Médiateur de la République française), da prevedere a tutti i livelli, come difensori degli uomini, dotati di alcune prerogative incisive, come il diritto di seguito (cioè l’obbligo dell’Autorità a dare risposta motivata alla lamentela dei cittadini entro 20 giorni, superando i costi e le lungaggini dei ricorsi e delle cause giurisdizionali) e, in alcuni casi, con la potestà di bloccare gli atti ritenuti ingiusti, fino a quando le Autorità ne dimostrino la fondatezza e la giustezza. Ad essi potrebbe essere riconosciuta la facoltà di proporre ricorso diretto alle Corti Costituzionali e l’esperibilità dell’azione precauzionale. A difesa dei diritti fondamentali, preesistenti al diritto statale: soprattutto riguardo all’ambiente.

 

In conclusione: occorre che il popolo sia riposizionato al centro di ogni decisione o atto e che i Governi siano espressione di esso e non di gruppi forti.

Il quadro, per la verità, è certamente complicato dal fatto che questa forma di democrazia investirebbe soltanto gli atti delle Pubbliche Amministrazioni e non avrebbe possibilità di incidere sulle decisioni delle grandi imprese e dei potentati economici e/o politici e sociali, dai quali, sempre piú spesso, dipendono questioni vitali.

Ecco dunque che, di conseguenza, il campo d’indagine e di intervento si allarga e, diventando piú arduo, impone di considerare ‘potere’ ogni centro decisionale ed autoritario in grado di incidere sulla condizione e sulla qualità della vita degli uomini.

La settorizzazione esistente tra diritto pubblico e diritto privato e la separazione funzionale tra previsione normativante, momento decisionale e processo non aiuta, anzi è di grave ostacolo. Però occorre individuare almeno alcuni capisaldi da cui muoversi.

Il compito, per arduo che sia, spetterebbe ai pensatori e, per lo specifico della materia, ai giureconsulti. Ma essi, rispetto al grande ruolo avuto durante l’esperienza romana e nel medio evo, sono stati estromessi dal grande gioco del diritto. Montesquieu li espunse non menzionandoli in nessun luogo nella sua trama sulla divisione dei poteri. L’esclusione era eclatante e Alexis de Tocqueville s’ingegnò a giustificarla, sostenendone l’opportunità per il fatto che sempre i giureconsulti si erano mostrati corrivi con i potenti. In realtà, in genere, era vero il contrario: erano stati i giuristi a porre gli argini piú resistenti agli arbitrii ed al dispotismo: un nome ed un esempio per tutti, quello di Grozio, che aveva riaffermato il diritto naturale ed aveva fatto scaturire il potere dal contratto sociale. Certo è che eliminati i giureconsulti si erano al tempo stesso eliminate la maggiori voci critiche verso il potere e le sue articolazioni.

Occorre, invece, ritornare alla centralità del pensiero giuridico, come cardine della vita politica e sociale. Esso si è mostrato in grado di arginare gli abusi, tanto riguardo alle materie pubbliche quanto a quelle private[33] ed è l’unico in grado di elaborare soluzioni per riporre la comunità al centro della vita politica e sociale, ponendosi come generatrice, ma anche come controllo del potere.

Da ultimo, mi sembra che sui diritti umani si faccia molta demagogia e non si voglia vedere la realtà, che racchiuderei in un paradosso: il diritto dell’uomo è meglio tutelato là dove gode già di un alto grado di protezione e non là dove necessita di una qualsiasi protezione, perché del tutto inesistente, come nei regimi dittatoriali.

Vogliamo affrontare fino in fondo i nodi di questa problematica? Cominciando dal riflettere sul fatto che le attuali concezioni sono frutto di visioni liberistiche e borghesi e non hanno quel grado di universale condivisione (che invece si finge che abbiano), tanto che in Asia non si concorda con le varie enunciazioni dell’Occidente[34] e l’Islam[35] ha proceduto ad elaborare proprie dichiarazione dei diritti umani.

Molto c’è da dire e molto c’è da fare. Soprattutto occorre ridisegnare il ‘modello’ di società, superando l’astrattezza del concetto di Stato, e proponendo articolazioni veritiere e non schemi logori e spesso forieri di finzioni.

Va avvertito, comunque, che non esiste il modello perfetto e, pertanto, è necessario ipotizzare un ‘modello dinamico’.

L’esperienza dimostra che le soluzioni prospettate spesso suscitano entusiasmo ed attese che, dopo un certo intervallo, scemano e risultano inefficaci, Pertanto la democrazia ha bisogno di sapersi rinnovare e rimodellare costantemente e periodicamente, secondo uno schema il quale non può mai avere la pretesa della perfezione e della validità perenne, ma deve continuamente rimodellarsi, in base alle esigenze dei singoli e delle collettività, e che, perciò, definirei di democrazia ricorrente.

In questo un riferimento significativo potrebbe essere quella della Respublica populi Romani, la quale, nel corso della sua storia, seppe rinnovarsi continuamente, non dimenticando l’insopprimibilità delle prerogative del singolo e della famiglia.

 

 

Abstract

 

 

 

Oggi non si dibatte più sul modello di democrazia, come si faceva nel secolo XVIII. Si dà per scontato che democrazia sia la democrazia rappresentativa, il cui modello viene visto come quello della democrazia tout court e imposto, dove è possibile, a tutti.

Questo ha prodotto l’allontanamento del popolo da ogni decisione fondamentale e dall’esercizio del potere.

Occorre, invece, riconsiderare il modello di democrazia riponendo al centro l’uomo ed introducendo forme, non soltanto formali e giudiziarie, di controllo del potere durante il suo esercizio.

Ma il ‘modello’ non può essere unico e valevole per ogni luogo e per ogni tempo. Deve, invece, essere continuamente rimodellato. Perciò occorre parlare di modello di democrazia ricorrente.

 

Aujourd'hui se discute pas sur le modèle de la démocratie. On suppose que la démocratie est la démocratie représentative.

Cela a abouti à la suppression des personnes de toutes les décisions fondamentales et l'exercice du pouvoir.

Nous devons, cependant, considérer le modèle de la démocratie en plaçant l'homme au centre et à introduire des formes de contrôle du pouvoir, non seulement formelles et judiciaires, au cours de son exercice.

Mais le «modèle» ne peut pas être unique et valable pour chaque emplacement et pour chaque fois. Il doit, bien au contraire, être constamment remodelé. Par conséquent, nous devons penser à un modèle qui je dirais de démocratie récurrente.

Un exemple instructif vient du droit romain.

 

Hoy en día no hay mas discusión sobre el modelo de la democracia. Se supone que la democracia es la democracia representativa.

Esto dio lugar a la eliminación de personas de todas las decisiones fundamentales y el ejercicio del poder.

Debemos, sin embargo, tenga en cuenta el modelo de la democracia mediante la colocación de hombre en el centro e introducir formas de control del poder, no sólo formales y judiciales, durante su ejercicio.

Sin embargo, el "modelo" no puede ser único y válido para cada lugar y para cada tiempo. Se debe, más bien, ser constantemente renovado. Por lo tanto, hay que pensar en un modelo que yo llamaría DEMOCRACIA RECURRENTE.

Un ejemplo instructivo es el derecho romano.

 

 



 

[Per la pubblicazione degli articoli della sezione “Contributi” si è applicato, in maniera rigorosa, il procedimento di peer review. Ogni articolo è stato valutato positivamente da due referees, che hanno operato con il sistema del double-blind]

 

[1] Sul punto, cosí come per la bibliografia che accompagna le riflessioni qui esposte, rinvio al mio articolo Il controllo del potere: ieri ed oggi, in Studi in memoria di Giuseppe Panza [cur. G. TATARANO e R. PERCHINUNNO], Napoli, 2010, 713-737.

 

[2] Questa esigenza appare indilazionabile, dinanzi al fatto che si è generato «un pessimismo duro e compatto come una lastra di piombo. Il futuro non è piú quello di una volta, diceva il poeta Valéry. Oggi lo dice, pressoché all’unisono, il popolo … Nessuna autorità, sia civile sia politica, riscuote piú il consenso del popolo … serve una terapia d'urto, non basterà qualche aspirina. E la crisi di libertà, di giustizia, d'efficienza, di legalità che si è rovesciata sull'Italia è altrettanto micidiale d'una guerra, perché ha corrotto il nostro tessuto connettivo, il nostro paesaggio umano, cosí come le bombe devastano il paesaggio naturale». Perciò occorre intervenire «Rompendo il potere delle corporazioni, delle camarille, delle lobby, che sono un ostacolo all'affermazione dei migliori. Ma al tempo stesso rompendo il potere dei partiti, restituendo lo scettro ai cittadini, innervando la democrazia rappresentativa con un'iniezione di democrazia diretta». Per fare ciò bisogna ridisegnare il modello, partendo dal passato, perché «il rimedio era stato individuato nei secoli scorsi dai nostri antenati, per poi cadere nell'oblio: l'esperienza dell'antica Grecia può ancora impartirci una lezione». Comunque occorrono rimedi radicali, che devono partire dallo smantellamento di quanto non ha funzionato, fossero anche le leggi; riguardo alle quali occorre riandare a quanto disse Voltaire, il quale, ricordando che «Londra divenne una città ordinata dopo che un incendio la ridusse in cenere, obbligando i londinesi a ridisegnare strade e piazze», preconizzò un cambiamento radicale, che partiva dal mutamento delle leggi: «Volete buone leggi? Bruciate quelle che avete, e fatene di nuove»: M. Ainis, La cura. Contro il potere degli inetti per una Repubblica degli eguali, Padova, 2009, XIV- XV.

 

[3] Sul punto, cosí come per la bibliografia che accompagna le riflessioni qui esposte, rinvio al mio articolo Il controllo del potere: ieri ed oggi, cit., 713-737.

 

[4] Di ciò è prova la stessa reiterazione dei tentativi di affidare a nuove figure il compito di creare un collegamento tra governanti e governati.

 

[5] A Sparta l’Eforato, introdotto sul modello dei Cosmi cretesi, secondo alcuni già dal mitico Licurgo, secondo altri piú tardi (130 anni dopo) dal re Teopompo. Gli Efori, dotati di poteri vasti ed incisivi, furono concepiti come freno alla prepotenza dell’oligarchia e dei re. La ragione del crescente potere degli Efori risiedette nel fatto che essi venivano eletti dal popolo e, per questo, erano visti come rappresentanti di esso e quindi anche mallevadori dei diritti dei cittadini. L’ampiezza del potere degli Efori venne bilanciata dalla durata molto breve (soltanto un anno) della magistratura, e dal fatto di potere essere chiamati a rispondere del proprio operato, allo scadere della loro magistratura.

 

[6] L’istanza fondamentale della protezione dei deboli e della difesa dei diritti del popolo trovò migliore ed efficace collegamento con il Tribunato della plebe. Il Tribunato suscitò nell’antichità (ed ancora promana) forti suggestioni, non solo per il fatto che nacque in Roma, i cui destini furono vincenti in tutto il mondo antico e si sono proiettati direttamente nelle età successive, quanto perché evoca l’immagine della contrapposizione tra popolo e potenti in maniera piú diretta e performante: la letteratura sul Tribunato della plebe è tanto copiosa da non poterne dare riferimenti in questa sede; soltanto per una sintesi d’assieme, rinvio ai manuali di Storia del diritto romano, tra i quali AA. VARI, Lineamenti di storia del diritto romano, Milano, 1989, ed in particolare alle esposizioni di L. Capogrossi-F. Càssola, alle pagine 83 s. (Le vicende fino alle XII tavole) 177 ss. (I tribuni della plebe).

 

[7] La prima ideazione di organi in grado di controllare il potere forse risalgono alla pacifica civiltà cretese, la quale, come ricordava Aristotele, ideò l’istituto dei Cosmi, diretto al controllo del potere esercitato dai re.

 

[8] Sui punti qui richiamati v. G. Lobrano, Res publica res populi. La legge e la limitazione del potere, Torino, 1996, cui adde dello stesso autore, Diritto pubblico romano e costituzionalismi moderni, Sassari, 1994.

 

[9] Dove venne concepito come una delle istituzioni rivolte alla progressiva limitazione dell’assolutismo del Re. In proposito si suole fare riferimento all’art. 96 della Costituzione del 1809, il quale previde, accanto al Justitiekansler, un commissario parlamentare (Justitie Ombudsman), scelto tra persone di comprovata capacità tecnica, imparzialità ed integrità, con il preciso compito di controllare l’osservanza delle leggi da parte non solo dei pubblici ufficiali, ma anche dei giudici, ed è munito del potere di citare in giudizio i trasgressori. In realtà il suo nome risale a quasi un secolo prima e piú precisamente ad un decreto del 1713 di Carlo XII che, per l’appunto, istituí l’Högste Ombudsman.

 

[10] Sul punto, rinvio a quanto ho già osservato in, L'eredità dei «tribuni plebis», in [cur. Maria Pia Baccari e Cosimo Cascione] Tradizione romanistica e Costituzione, diretta da Luigi Labruna. Collana «Cinquanta anni della Corte costituzionale della Repubblica italiana», vol. II, Napoli, 2006, 1845 ss.; Le radici. Proposte, in L’avvocato del popolo albanese [cur. A. Loiodice, S. Tafaro, N. Shehu], Torino, 2008, 3 ss.; cui adde N. Shehu, Dall’Högste ombudsman all’avvocato del popolo albanese, in L’avvocato del popolo albanese cit., 3 s.; cui adde: S. Anderson, Ombudsman research a bibliographical essay, in Ombudsman journal 1982, 32 ss.; E. Bernardi, v. Ombudsman, in Nuovissimo Digesto Italiano, Appendice V, Torino, 1982, 413 ss.; P. Birkinshaw, Grievances Remedies and the State, Sweet and Maxwell, London, 1985, 127 ss.; Id., Access to justice in the privatized and regulated state, University Press, Hull, 1991, 68 ss.; D. Borgonovo Re, Ombudsman in diritto comparato, in Digesto delle discipline pubblicistiche, vol. X, Torino, 1995, 306 ss.; D. Butler, V. Bogdanor and R. Summers, (Essays in Honour of Geoffrey Marshall) The Law Politics and the Constitution, Oxford University Press, 1999 chapter 13; T.R. Colint, The Polish Ombudsman in Review of Socialist Law 14 – 3-, 1988; M. Comba, Ombudsman, in Digesto delle discipline pubblicistiche, vol. X, Torino, 1995, 296 ss.; R. Delfino, L’«Ombudsman» come modello di «alternative dispute resolution» nel settore privato, in Rivista trimestrale di diritto e procedura civile XLIX, anno 1995, 248 ss.; G. De Vergottini, v. Ombudsman, in Enc. Dir., XXIX, Torino, 1979, 880 ss.; M. Doyle, The Essential Guide to Appropriate Dispute Resolution, Paperback, 2000; G. Drewry, The Ombudsman: Parochial Stopgap or Global Panacea?, in Administrative Law Facing the Future. Old Constraints and New Horizons (P. Leyland and T. Woods eds.), Blackstone Press, London, 1997, 88 ss.; H. Fix Zamudio, Reflexiones comparativas sobre el Ombudsman, in Memoria de el Colegío Nacional de Mexico, 1979, 99-149; Id., Ombudsman, in Enciclopedia giuridica Treccani, vol. XXI, Roma, 1990, 2 s.; A. Gil Robles-A. Delgado, El control parlamentano de la administración (El Ombudsman), Madrid, 1981; M. Radi, L’extension de l'Ombudsman: triomphe d'une idée ou déformation d’une institution?, in Rev. Int. des Scien. admin. 1997, 530 ss.; W. Haller, The place of the Ombudsman in the world community, in Fourth International Ombudsman Conference Papers, Canberra, 1988, 29 ss.; M.M. Lasage, Les moyens non judiciaires de protection et de promotion des droits de l'homme, in Atti Convegno Siena 28-30 ottobre 1982, Siena, 1982, 35 ss.; A. Legrand, Une institution universelle: l’Ombudsman?, in Rev. Int. Droit comp. 1973; E. Letowska, The Polish Ombudsman: The Commissioner for the Protection of Civil Rights, in International and Comparative Law Quarterly 9 (1), Londres, 1990, 209 ss.; C. Mortati, L’Ombudsman-Il difensore civico (scritti a cura di C. Mortati), Torino, 1974; G. Napione, L'Ombudsman, Giuffrè, Milano, 1969; M.M. Padilla, La institución del Comisionado parlamentano, Buenos Aires, 1972; M. Seneviratne, Ombudsman in the Public Sector, Open University Press, Buckingham, 1994; Id., The European Ombudsman, in Journal of Social Welfare and Family Law 21(3), 1999, 269-278; Id., Ombudsmen 2000 inaugural Lecture 17 april 2000, Centre for legal Research Nottingam Law School, Nottingam, 2000 versione elettronica, 1 ss.; F. Stacey, Ombudsmen Compared, Clarendon Press, Oxford, 1978.

 

[11] Il termine adoperato (Ombudsman), alla lettera, significava ‘uomo che fa da tramite’; perciò viene indicato anche con la parola ‘Mediatore’, la quale ha trovato l’accoglimento piú significativo in Francia dove fu istituito con la legge n° 73-6 del 3 gen. 1973, piú volte completata e/o riformata: dalla legge n° 76-1211 del 24 dic. 1976, dalla legge n° 89-18 del 13 gen. 1989, dalla legge n° 92-125 del 6 feb. 1992 e da ultimo dalla legge n° 2000-321 del 12 apr. 2000. Da ultimo la Francia è andata oltre il mediatore, istituendo la Figura del Défenseur des droits, attraverso la riforma costituzionale del 23 giugno 2008, seguita dalla legge organica no 2011-333 e dalla legge ordinaria no 2011-334 del 29 marzo 2011, la quale ha definito i suoi poteri, unificando in un’unica figura il Médiateur de la République, il Défenseur des Enfants, creato nel 2000, la Haute Autorité de Lutte Contre les Discriminations (halde), creata nel 2004, la Commission Nationale de Déontologie de la Sécurité (cnds), creata nel 2000.

 

[12] P. de Aranjo Ayala, O principio de precauçao e a proteòao juridica de fauna na costituiçao brasileira, in Revista de Dereito ambiental 39, julho-setembro 2005, 147 ss.; L. Boisson de Chazournes, Le principe de précaution: nature, contenu et limites, in Le principe de précaution. Aspects de droit international et communautaire [cur. C. Leben-J. Verhoeven], Paris, 2002; P. Martin-Bidou, Le principe de précaution en droit international de l’environnement, in Revue générale de droit international public 1999, 632 ss.; C. Raffenspergen-J. Tickner, Protecting Public health and the Environment. Implementing the Precautionary principle, Washington, 1999; N. de Sadeleer, Les principes du polleur-payeur, de prévention et de précaution. Essai sur la genèse et la portée juridique de quelques principes juridiques du droit de l’environnement, Bruxelles, 1999; O. Godard, Le principe de précaution dans la conduite des affaires humaines, Paris, 1997; T. O’Riordan-J. Cameron, Interpreting the precautionary principle, London, 1994.

 

[13] Contenuta nella Direttiva 97/11/CE.

 

[14] Per tutti, anche per la bibl., G. Lobrano, Res publica res populi. La legge e la limitazione del potere cit., partic. parte A cap. I; parte B cap. I; parte C cap. II; sul punto (anche per i riferimenti bibliografici), rinvio anche ai miei articoli cit. sopra alla nt. 4., dove risalgo alle radici ed alle motivazioni dell’Ombudsman svedese e delle altre figure che, partendo da esso, sono sorte alluvionalmente.

 

[15] Per capire come la distorsione attuale sia potuta accadere, appare utile rivisitare i termini della quaestio, che ha accompagnato la formazione dello stato contemporaneo. Dobbiamo risalire al pensiero, perdente, di Rousseau ed a quello, che risultò vincente, di Montesquieu, definitivamente fatto prevalere, agli inizi del sec. XIX, da Bénjamin Constant. Al centro della discussione e delle proposte era il modo di concepire la democrazia, che doveva essere l’humus della Res publica. Per Rousseau la Repubblica «è una forma di Stato essenzialmente democratico e quindi necessariamente non rappresentativo». Tale ‘formula’ proponeva come ‘modello’ la res publica romana, dove al centro vi era il populus, e rigettava il sistema rappresentativo (ritenuto fonte di potere aristocratico). A lui si contrappose Montesquieu, il quale, invece, propose come ‘modello’ di democrazia quello della monarchia inglese, fondato sulla rappresentanza, secondo una formula che è risultata vincente, anche perché adottata nel costituzionalismo anglo-americano degli USA, nato dalla convenzione di Filadelfia di stampo nettamente conservatore. In questa costruzione diventava essenziale il bilanciamento dei poteri, che il Montesquieu ritenne assicurato dal rispetto della divisione dei poteri (legislativo, esecutivo e giudiziario), ciascuno dei quali sarebbe stato autonomo ed indipendente dagli altri, mirando al rispetto della legge, cui tutti erano soggetti, ed al controllo ciascuno dell’operato degli altri. In questa costruzione era essenziale sia il primato della legge sia la convinzione che le leggi, frutto sia pur indiretto del popolo, erano ‘giuste’ e garantivano giustizia. Sul punto, per tutti, v. G. LOBRANO, Res publica res populi. La legge e la limitazione del potere cit., 221.

 

[16] Eccezion fatta per l’Inghilterra, che però ha una posizione a sé stante, dove vi sono le giurie popolari, cui è demandata la decisione sul fatto, mentre ai giudici compete la decisione sulle conseguenze di diritto del fatto.

 

[17] A dir il vero la distinzione era già prospettata da Démeurier, ammiratore del sistema rappresentativo inglese e statunitense, e, soprattutto, dall’aristocratico Alexis de Tocqueville, il quale riscosse grande successo proponendo come ‘modello’ di democrazia la costituzione nord-americana, nella sua fortuna opera De la démocratie en Amérique (1835-1840): v. G. Lobrano, Res publica res populi cit., 239 s.

 

[18] Cfr., da ultimo, G. Acocella, Etica, diritto democrazia. La grande trasformazione, Bologna, 2010, nello specifico partic. 92, il quale denuncia l’inadeguatezza della ‘legge’, citando Capograssi (uno dei pensatori piú originali e fecondi dell’età contemporanea, cui appartiene la parte che qui riporto in corsivo): «La volontà di ridurre sempre e comunque ad una legge dello Stato – con i suoi doverosi caratteri di uniformità generale ed astratta – eventi centrali dell'esistenza umana che devono restare affidati alla non ripetibile unicità dell'esperienza umana (e per questa stessa possibilità messa in condizioni di divenire comune), quando proprio la legge viene spogliata dei suoi caratteri universali e comuni per essere assoggettata a pulsioni individuali, significa che: Lo Stato quasi si direbbe si scorpora dall'esperienza giuridica, si entifica in sé diventa un’entità a sé stante perché non è :dirti che un apparato il quale ha il monopolio e la specialità della forza e perché il diritto non è altro che comando imposto con la forza. Lo Stato diventa il creatore del diritto e la volontà di quella forza che si è impadronita di questo appagami diventa diritto. Qui il distacco dell’esperienza giuridica dalla volontà profonda e oggettiva dalla quale nasce diventa completa, si compie in modo perfetto, perché qui questa volontà profonda ed oggettiva è negata radicalmente e con essa s'intende negato tutto il mondo dell'esperienza nel quale essa si manifesta e s'incarna. Tutto il mondo dell’esperienza è privato di ogni valore suo proprio, non esiste piú come valore autonomo, e come autonoma ragione di vita, ed è oggetto della volontà arbitraria della forza che ha conquistato lo Stato, che è riuscita ad impadronirsi di questo meccanismo di forze e di forme che è lo Stato».

 

[19] Cfr. l’illuminata sintesi compiuta da P. Grossi, Società, diritto e Stato. Un recupero per il diritto, Milano, 2006.

 

[20] S’intende non perché se ne sottovaluta l’essenzialità e la rilevanza, bensí perché consapevoli che esse sono già oggetto di attenta e circostanziata riflessione: cfr. F. Fistetti, La svolta culturale dell’Occidente. Dall’età del riconoscimento al paradigma del dono, Perugia, 3a rist. 2010, cui rinvio per la bibliografia e di cui segnalo partic. le pagine 28 ss.

 

[21] Esse erano già in parte emerse nel Convegno Internazionale Democrazia rappresentativa o partecipativa? Crisi della divisione dei poteri, realizzato a Varsavia il 14 maggio 2011 dal CEDICLO (Centro Interdipartimentale di Diritti e Culture Latine ed Orientali dell’Università di Bari) assieme all’Università Lazarsky ed il Dpt. di Bioetica di Varsavia.

 

[22] Di essa si era parlato in Italia al momento dell’emanazione della legge quadro sulla tutela dell’ambiente: la prevedeva il disegno di legge del Governo, ma fu tolta dal Parlamento!

 

[23] Per le quali vi è da superare una griglia di difficoltà, sotto forma di requisiti formali, essendo previsto: A ogni iniziativa sono concessi 12 mesi per la raccolta del milione di firme richieste e i firmatari devono provenire da almeno sette Stati membri. Un numero minimo di firme per Stato membro deve essere raccolto, numero che varia secondo la popolazione. Per l'Italia è 54.000, per la Germania 74.250 e per Malta 3.750. Gli Stati membri hanno l'onere di verificare la validità delle dichiarazioni a sostegno delle firme e potranno scegliere quale tipo d'informazione sia necessaria affinché le firme siano convalidate. Nella maggioranza dei casi, il numero della carta d'identità è obbligatorio. I firmatari dovranno essere cittadini europei e in età di voto. La procedura termina con la decisione della Commissione europea, da adottare entro tre mesi dal completamento della verifica delle firme, se procedere o meno con una proposta legislativa. Tale decisione dovrà essere resa pubblica.

 

[24] Su di esse v. S. Cera - D. Colangeli – F. Paolella, Gli istituti alternativi alla giurisdizione ordinaria, Milano, 2007; G. CabrasD. Chianese – E. Merlino – D. Noviello, Mediazione e conciliazione per le imprese. Sistemi alternativi di risoluzione delle controversie nel diritto italiano e comunitario, Torino, 2003.

 

[25] L.18 giugno 2009 n.69.

 

[26] Cfr. F. Cipriani, Piero Calamandrei e la procedura civile, Napoli, 2009.

 

[27] Per ora costituisce una speranza occupazionale della sterminata massa di avvocati esistente in Italia ed una fonte di guadagno immediato e facile per i tanti centri organizzatori di ‘corsi’ per mediatori e conciliatori, sorti come funghi e che attraverso improbabili percorsi formativi (di 50 ore, a contenuto esclusivamente giuridico), secondo lo Stato italiano, dovrebbero potere formare operatori della mediazione e conciliazione, fuori da un percorso di formazione profondo ed innovativo. Va poi segnalato il tentativo, quasi riuscito, degli avvocati di riservare a sé gran parte della mediazione, senza tener conto che, per dover essere basata sull’equità e la ragionevolezza, essa forse può essere svolta con maggiori possibilità di successo da esperti di altre discipline (a seconda dei casi, da psicologi, operatori sociali, economisti ecc.).

 

[28] Non mi sfugge il peso delle forze contrarie a ciò (da un lato quella degli stessi giudici, dall’altro quella degli avvocati), né trascura l’impatto provocatorio di quanto qui affermato in una società nella quale si ritiene che debba intervenire un’Autorità per designare i giudicanti (persino nelle partite di calcio, che sono materia di società private, non è consentito scegliere l’arbitro agli interessati!).

 

[29] Sul punto, v. le conclusioni espresse da me nell’articolo Mediazione e conciliazione: storia, origini, attualità, in La mediazione. Dalla storia la creazione di valore, Napoli, 2011, 7-46.

 

[30] Veramente io stesso, che pur mastico qualcosa di diritto, faccio spesso fatica a comprendere le sempre piú elaborate sentenze dei giudici.

 

[31] Secondo una lenta conquista iniziata nei confronti di Guglielmo II (sec. XI) e conclusasi nel 1701 con l’Act of Settlement promulgato dalla Regina Anna.

 

[32] Cost. alb. del nov. 1998, art. 63 co. 3.

 

[33] Un esempio illuminante è stato l’apporto dei giuristi per la tutela del consumatore, contro i grandi potentati economici, tradottasi in normative a differenti livelli, nazionali e dell’UE.

 

[34] Cfr. T. Groppi, I diritti umani in Asia, relazione al XVII Colloquio biennale AIDC, Global Law v. Local Law, Brescia 12-14 maggio 2005; E. Friedman, Asia as Fount of Universal Human Rights, in P.Van Ness [a cura di] Debating Human Rights, London, Routledge, 1999, 56.

 

[35] V. la Dichiarazione islamica dei diritti dell'uomo, proclamata il sabato 19 settembre 1981 presso l’UNESCO a Parigi, la quale è la versione islamica della Dichiarazione universale dei diritti dell'uomo e la Dichiarazione del Cairo sui diritti umani nell'Islam, Risoluzione 49/19-P della XIX Conferenza Islamica dei Ministri degli Esteri, 5 agosto 1990. Esse si sono rese necessarie per il fatto che la Dichiarazione universale dei diritti dell'uomo non è compatibile con la concezione della persona e della comunità che ha l'Islam. R. Caspar, Les déclarations des droits de l'homme en Islam depuis dix ans, in Islamochristiana, n.9, 1983; F. Moroni, La nuova Carta islamica dei diritti dell'uomo, in I diritti dell'uomo, cronache e battaglie, n.1 1990; S. Angioi, Le dichiarazioni sui diritti dell'uomo nell'Islam, in I diritti dell'uomo cronache e battaglie, 1, 1998, 15-23.