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sau Patteggiamento del coimputato e incompatibilità del giudice: orientamenti di legittimità

(riflessioni a margine della recente sentenza 26 giugno 2014 n. 19 delle Sezioni Unite della Cassazione)

 

Silvio Sau

Università di Sassari

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ABSTRACT: This work is inspired by the recent judgment of the Joint Sections of the Supreme Court intervened on an issue of not easy solution which gave rise to a long-standing juridical dispute  in the case of legitimacy: if the hypothesis of incompatibility,  ex art. 34 paragraph 2 of the Criminal Procedure Code, introduced by the verdict of the Constitutional Court  n. 371 of 1996, there is also for the judge in separate legal action , has a plea bargain against a competitor necessary at the same offense.

The judges of supreme court gave an response affirmative to the problem but, nevertheless, in the present case they have excluded it was the aforementioned case of incompatibility. The structure  motivational enriches the specific technical solution with the placement of a series of some exact Wegemarken that make the judgment in speech inescapable under at least two other profiles, in addition to the contingent, on the events that began in September 2013 on the initiative of the  appeal court of Rome: on the one hand, the systematic point which is described in articles; and on the other side of the historical profile, so to speak, as to  the decision in question arises now as a joint needed between what was and what will be on some key questions about the incompatibility of the judge in criminal trial (art. 34 c.p.p.), quite distinct from the other two cases, abstention and recuse, included in the same Chapter VII of Book I Articles. 36, 37 c.p.p.

 

Il presente lavoro trae spunto dalla recente sentenza delle Sezioni unite della Corte di Cassazione intervenute su una problematica di non agevole soluzione che ha dato luogo ad un annoso  contrasto giurisprudenziale in sede di legittimità: se l'ipotesi di incompatibilità ex art. 34 comma 2 c.p.p., introdotta dalla sentenza della Consulta n. 371 del 1996, sussiste anche per il giudice che in separato procedimento, abbia pronunciato sentenza di patteggiamento nei confronti di un concorrente necessario nello stesso reato.

Gli ermellini sono pervenuti a soluzione affermativa del problema ma, tuttavia, nel caso di specie hanno escluso che ricorra il suddetto caso di incompatibilità. L'impianto motivazionale  arricchisce la soluzione tecnica specifica con la posizionatura di una serie di alcune precise Wegemarken che rendono la sentenza in discorso ineludibile sotto almeno due altri profili, oltre a quello contingente, relativo alla vicenda iniziata nel settembre 2013 per iniziativa della Corte d’Appello di Roma: da un lato, il profilo sistematico che viene descritto nell'articolato; e dall’altro lato il profilo storico, se così si può dire, in quanto la decisione in parola  si pone ormai come uno snodo necessario tra ciò che è stato e ciò che dovrà essere in merito ad alcune questioni cruciali relative alla incompatibilità del giudice nel processo penale (art. 34 c.p.p.), fattispecie ben distinta dalle altre due, astensione e ricusazione, comprese nello stesso capo VII del Libro I agli artt.  36, 37 c.p.p.

 

 

1. – Il presente lavoro trae spunto dalla recente sentenza delle Sezioni unite della Corte di Cassazione intervenute a dirimere un contrasto interpretativo sulla annosa problematica inerente l'eventuale incompatibilità[1] del giudice dibattimentale che abbia pronunciato sentenza di applicazione della pena nei confronti di un coimputato, a giudicare gli altri concorrenti nel medesimo reato.

Le dinamiche giurisprudenziali che hanno portato alla predetta sentenza sono state quelle necessarie. La Corte d’Appello di Roma, con ordinanza del 30/09/2013, ha dichiarato inammissibile l’istanza di ricusazione proposta nell’interesse di due coimputati nei confronti dei componenti il Collegio della IV Sezione del Tribunale Capitolino. La questione si è subito rivelata come posizionata lungo un crinale frastagliato da giudizi contrastanti a diversi livelli giurisprudenziali in materia di incompatibilità, ai sensi dell’art. 34, comma 2 c.p.p., per il giudice che, previa separazione della relativa posizione, aveva pronunciato sentenza di “patteggiamento” ai sensi dell’art. 444 c.p.p. Il detto Collegio, dopo aver proceduto ai sensi dell’art. 444 c.p.p. nei confronti di coimputato dei ricorrenti, nello stesso giorno riteneva di procedere al dibattimento nei confronti degli altri due coimputati, nell’interesse dei quali, appunto, la difesa ha proposto istanza di ricusazione ai sensi dell’art. 37 c.p.p. In prima istanza, tuttavia, la stessa difesa aveva sollecitato i giudici perché si astenessero, e questi avevano presentato rituale dichiarazione ai sensi dell’art. 36 c.p.p.; la quale dichiarazione, però, non veniva accolta dal Presidente del Tribunale con la motivazione ormai prevalente in decisioni analoghe: non essere sussistenti profili di incompatibilità in quanto dalla sentenza di “patteggiamento” si evinceva che il detto Collegio neanche implicitamente aveva valutato la posizione dei singoli computati; a questo punto, la difesa proponeva rituale istanza di ricusazione mediante specifica dichiarazione in udienza, formalizzata due giorni dopo; tale istanza, mossa ai sensi dell’art. 37 c.p.p., richiamava altresì l’art. 36 lett. g) c.p.p., l’art. 34 comma 2 c.p.p., nonché, relativa a quest’ultimo, la declaratoria di incostituzionalità pronunciata dalla Corte Costituzionale con la sentenza n. 371/1996 (in sostanza traendo il supporto per l’istanza di ricusazione da elementi interni al perimetro degli elementi propri, invece, della incompatibilità).

La Corte d’Appello di Roma riteneva inammissibile l’istanza di ricusazione, con argomentazione che si poneva sulla stessa linea logica espressa dal Presidente del Tribunale: l’esame della sentenza di patteggiamento rivelava che nessuna valutazione di responsabilità era stata effettuata dal tribunale, e doveva quindi considerarsi destituita di fondamento la tesi difensiva secondo cui, invece, tale valutazione non solo si era verificata ma aveva investito “matematicamente” i due imputati ricorrenti (“matematicamente” nel senso che si trattava di due imputati, il terzo essendo l’attore del “patteggiamento” coinvolto originariamente nel delitto associativo; per cui, in altri termini, il Tribunale non avrebbe potuto non operare una valutazione, sia pure indiretta e sommaria, sulla responsabilità penale dei restanti coimputati “matematicamente” associati nel delitto dal momento che tre erano gli imputati chiamati a rispondere del delitto di associazione per delinquere, cioè il numero minimo per la configurazione del delitto di cui all’art. 416 c.p).

A sua volta il Procuratore Generale presso la Cassazione, con requisitoria in data 27/12/2013, con motivazioni analoghe a quelle espresse nei precedenti gradi di giudizio, ha concluso per il rigetto del ricorso: la «questione in esame si traduce nell’interrogativo se la valutazione - in astratto e in concreto – operata nel procedimento di applicazione della pena alla luce dell’art. 129 cod. proc. pen. sia riconducibile alla valutazione che diviene rilevante (ossia inquinante) ai fini dell’imparzialità (ossia del pre-giudizio) del giudice. Sul piano astratto, la tesi difensiva sarebbe fondata, ma l’accertamento qui rilevante va operato in concreto, come induce a ritenere la stessa Corte costituzionale nella sentenza citata nel ricorso[2]; in caso contrario si sarebbe proceduto ad una declaratoria di illegittimità costituzionale facendo riferimento al tipo di giudizio posto in essere. Esaminando la sentenza di patteggiamento […] risulta che nessuna valutazione, oltre a quella minimale prevista dalla legge, sia stata effettuata, sicché la decisione è immune da vizi censurabili in questa sede. Unica alternativa sarebbe sollevare una questione di legittimità costituzionale tale da modificare il tessuto normativo nel senso di introdurre un motivo astratto e automatico di incompatibilità»[3]. La quinta Sezione della Cassazione assegnataria del ricorso ne rimetteva la trattazione alle Sezioni unite, rilevando l'esistenza di un contrasto giurisprudenziale circa la questione dedotta nei motivi di ricorso.

 

2. – La “sentenza di patteggiamento”, come è noto, non rientra nel breve catalogo di atti compiuti nel procedimento idonei a costituire elemento concretizzante l’incompatibilità del giudice, di cui al comma 2 dell’art. 34 c.p.p., tuttavia neppure si può sottacere che proprio questa norma è stata vessata da decine (almeno una trentina…) di declarazioni di parziale illegittimità costituzionale: comunque, di fronte ad una accezione tassativa del catalogo di cui si è detto, le soluzioni possibili sono in effetti quelle prospettate dalla Sezione V del giudice di legittimità che ha rimesso il ricorso alle Sezioni unite: a) l’accertamento rilevante, pregiudizievole, suscettibile di determinare l’incompatibilità «va operato in concreto»; b) la stessa sentenza n. 371/1996, induce a ritenere che in tal senso sia da ricercare la soluzione possibile (ma cfr. infra); c) la ipotesi di proposizione di questione di legittimità costituzionale, tale da indurre il legislatore ad operare per far rientrare la sentenza di patteggiamento, stretta tra le valutazioni necessarie ai sensi degli artt. 129 e 444 c.p.p., tra i provvedimenti che, in modo automatico, determinino l’incompatibilità del giudice ai sensi dell’art. 34 comma 2 c.p.p. Soluzione quest'ultima che tuttavia, incontrerebbe l’ostacolo di incidere su scelte discrezionali rimesse al legislatore, anche per i riflessi organizzativi ed ordinamentali che essa implicherebbe.

 

3. – Il primo versante di interesse in materia afferisce al tema più generale dell'incompatibilità del giudice in caso di pluralità di procedimenti nei confronti di concorrenti nel medesimo reato.

Al riguardo occorre anzitutto ricordare che secondo un costante indirizzo della Corte costituzionale[4] deve escludersi che il giudice pronunciatosi in un precedente giudizio sulla responsabilità di alcuni concorrenti, sia colpito da incompatibilità in relazione al processo che venga successivamente celebrato nei confronti degli altri. Infatti, sempre secondo l'insegnamento dei giudici della Consulta, non sarebbe ravvisabile una identità dell'oggetto del giudizio, «nell'ipotesi di concorso di persone nel medesimo reato, perché alla comunanza dell'imputazione fa necessariamente riscontro una pluralità di condotte distintamente ascrivibili a ciascuno dei concorrenti le quali, ai fini del giudizio di responsabilità, devono formare oggetto di autonome valutazioni, sotto il profilo tanto materiale che psicologico, e ben possono, quindi, sfociare in un accertamento positivo per l'uno e negativo per l'altro»[5]. Tuttavia, la materia è stata oggetto di una rivisitazione da parte della medesima Corte, che ha individuato delle ipotesi “estreme” in cui detta regola generale non può ritenersi operante. Tra queste, rilievo essenziale assume la sentenza n. 371 del 1996 che, come è noto, ha dichiarato l'incostituzionalità dell'art. 34 comma 2, c.p.p., «nella parte in cui non prevede che non possa partecipare al giudizio nei confronti di un imputato il giudice che abbia pronunciato o concorso a pronunciare una precedente sentenza nei confronti di altri soggetti, nella quale la posizione di quello stesso imputato in ordine alla sua responsabilità penale sia già stata comunque valutata». Si tratta della prima sentenza che riferisce l'incompatibilità del giudice ad una decisione assunta in un altro, diverso, procedimento travalicando la stessa rubrica dell'art.34 c.p.p. che parla di incompatibilità determinata da atti compiuti nel procedimento.

Con la sentenza n. 371 del 1996,dunque, l'incompatibilità viene affrancata dal limite formale dell'identità del procedimento e riferita all'identità dell'oggetto tra il giudizio già compiuto, anche solo incidenter tantum, e il giudizio da compiere. Prevale la logica della garanzia specifica dell'incompatibilità e non la logica della garanzia soggettiva propria dei casi di astensione e ricusazione.

I primi commenti alla sentenza ne mettono in luce la portata "eversiva" e segnalano le possibili ulteriori conseguenze che tale espansione di incompatibilità potrà avere, in quanto nella sentenza si prescinde addirittura dall'esistenza di un concorso, necessario o eventuale, tra gli imputati dei diversi processi.

L'intervento additivo della Consulta, ha posto, tra l'altro, il  profilo  problematico se, nell'ambito di coimputazioni per reati associativi, l'ipotesi di incompatibilità a partecipare al giudizio del magistrato che  abbia pronunciato una precedente sentenza nei confronti di altri soggetti, possa essere estesa anche all'ipotesi in cui la prima decisione sia una sentenza negoziata.

In tali casi si pone, in sostanza, il problema se la valutazione effettuata  dal giudice in sede di patteggiamento nei confronti di uno dei coimputati di reato associativo, valga, di per sé, a determinare una situazione di incompatibilità del giudice che debba accertare la responsabilità a carico degli altri.

In proposito sono sorti tre orientamenti fondamentali nella giurisprudenza di legittimità, alcuni inconciliabili tra loro.

Un primo orientamento[6] esclude alla radice la incompatibilità: il giudice che abbia pronunciato sentenza di applicazione della pena su richiesta ai sensi dell’art. 444 c.p.p. nei confronti di un concorrente nel reato, pur quando questo sia necessariamente in concorso, non è incompatibile con il giudizio degli altri concorrenti che non abbiano patteggiato la pena, dato che la sentenza di patteggiamento non postula la dimostrazione in positivo della responsabilità dell’imputato, ma piuttosto le verifiche indicate nell’art. 129 c.p.p., essendo esclusa dalla sentenza suddetta la valutazione della responsabilità penale dell’imputato[7].

Un secondo orientamento[8] della giurisprudenza di legittimità si pone in una posizione interpretativa intermedia: non escludendo l’attitudine della sentenza ex art. 444 c.p.p. ad assumere valenza pregiudicante ai fini della incompatibilità del giudice, ma circoscrivendo tale valenza alla ipotesi in cui, nel vagliare le altrui posizioni, il giudice stesso abbia effettuato anche una concreta delibazione dell’accusa concernente l’imputato rimasto estraneo alla richiesta di patteggiamento, quando cioè il giudice non si sia limitato al controllo giuridico della fattispecie in causa ed alla verifica della inesistenza di ipotesi di non punibilità, ai sensi dell’art. 129 c.p.p., ma abbia anche proceduto a valutazioni di merito tali da poter vulnerare la posizione del terzo; tale indirizzo è stato confermato anche in relazione a reato necessariamente in concorso: ed ha, per converso, come logica conseguenza, che non si incorre in incompatibilità del giudice quando la sentenza di cui all’art. 444 c.p.p. non contenga alcun cenno alla posizione dell’imputato concorrente allo stesso reato, poiché, in questo caso, il giudice non formula alcun giudizio di responsabilità dell’imputato, ma si limita ad applicare la pena sulla base di quanto previsto dagli artt. 129 e 444 c.p.p., che implicano una “valutazione” naturaliter diversa da quella che è chiamato a compiere il giudice del dibattimento, la quale si fonda su materiali probatori diversi, per cui resta esclusa la possibilità che il giudizio possa essere, o apparire, condizionato dalla propensione naturale a reiterare la propria precedente decisione[9].

Un terzo orientamento[10] si pone in contrapposizione con il primo: con riferimento alla sentenza n. 371/96 della Corte costituzionale, deve ritenersi sussistente la incompatibilità a giudicare un imputato in ogni caso in cui il giudice, in una precedenza sentenza, abbia espresso sia pure incidenter tantum valutazioni sulla sua responsabilità penale: anche la sentenza pronunciata a norma dell’art. 444 c.p.p. integra questa causa di incompatibilità dal momento che, pur fermo restando il principio per cui nella sentenza su richiesta delle parti il giudice non compie un giudizio di colpevolezza pieno ed incondizionato, e certo non “condanna” l’imputato in base al pondus probatorio complesso formatosi in dibattimento, è pur sempre concreto il fatto che egli compie comunque una valutazione di merito (più esattamente una doppia valutazione di merito: in negativo, ex art. 129 c.p.p. sia in positivo ex art. 444 c.p.p. comma 2, che impone la verifica, sia pure sulla base degli atti, che sia corretta la qualificazione del fatto, l’applicazione e la comparazione delle circostanze prospettate dalle parti, nonché congrua la pena indicata). In tal senso, questo orientamento prevede che la sentenza di patteggiamento contenga, in sé, valenza pregiudicante, tanto più in relazione all’ampia escursione disegnata dalla sentenza Cost. 371/96, anche in assenza di espliciti riferimenti, al suo interno, alla posizione di alcuno dei terzi coimputati.

Dunque, nell’ambito della stessa giurisprudenza di legittimità è evidente “la molteplicità” degli indirizzi ravvisabili in merito alla forza pregiudicante della sentenza di patteggiamento. E, si osa aggiungere, una molteplicità di indirizzi disposti lungo un arco semicircolare i cui estremi si trovano su posizioni contrapposte e difficilmente conciliabili: per cui, rebus sic stantibus sembrerebbe ancora reggere l’assiomatica conclusione per la quale «finché manchi una definizione normativa in claris, l’interprete sceglie l’ipotesi complessivamente preferibile»[11].

Che, se si vuole, è la formulazione sintetica della paventata conclusione già avanzata in dottrina appena a ridosso della sentenza Cost. n. 371/96, per cui si sarebbe pervenuti a dover decidere “caso per caso”[12].

 

4. – La sentenza della Corte costituzionale, uno dei punti di riferimento per la soluzione del problema  di cui si è detto, è molto nota e sottoposta a rilevanti analisi, sia in dottrina che in vari livelli giurisprudenziali[13]. Qui ci si limita a richiamarne alcuni elementi cruciali per metterne quindi in risalto uno solo che già conteneva, in nuce, il germe delle soluzioni, o della soluzione, che avrebbero consentito di bypassarla nonostante la rilevanza dei princìpi fondamentali che vi erano esposti, anche a prescindere dal pronto intervento di contenimento posto in essere dalla stessa Corte costituzionale con le sentenze n. 306/ 307 / 308 del 1997, culminate nella sentenza additiva n. 283 del 2000[14].

Nella fattispecie sottoposta all’esame dei giudici della Consulta, uno dei giudici rimettenti prospettava la questione di incompatibilità in relazione alla peculiare ipotesi di reati a concorso necessario, nel caso specifico il reato di associazione per delinquere che non può sussistere senza il concorso di almeno tre persone. Il giudice remittente considerava la questione non priva di rilievo in quanto nella giurisprudenza di legittimità una situazione quale quella verificatasi in seguito alla separazione dei processi non veniva considerata causa di incompatibilità.

Il primo di tali principi, quello forse che destò a suo tempo la maggiore perplessità, era stato posto dalla stessa ordinanza di rimessione della Corte d’Assise di Napoli (20/10/1995) nella quale si riteneva non manifestamente infondata la questione se «alla stregua della più recente giurisprudenza costituzionale, si debba affermare la incompatibilità con la funzione di giudizio per il giudice che abbia, non solo in uno stato anteriore del procedimento ma anche in processi diversi, emesso una valutazione nel merito della stessa materia processuale riguardante il medesimo imputato, ancorché in una decisione non idonea a produrre nei confronti di quest’ultimo gli effetti del giudicato».

Giudicando fondata la questione, il punto forse più innovativo, ma certo il più discusso e problematico, di quelli enunciati dalla Corte nella sentenza di cui si tratta.

Un secondo elemento veniva esposto con la energia scaturente dal riferimento al principio costituzionale del “giusto processo” che «attinge alla pienezza del suo valore solo se inteso nel suo significato sostanziale, ad impedire che uno stesso giudice valuti più volte, in successivi processi, la responsabilità penale di una persona in relazione al medesimo reato». Ed anzi, in modo ancora più ampio ed universalizzante: «la capacità che quel principio possiede trascende, a ben vedere, la particolare struttura dei reati a concorso necessario e abbraccia in un medesimo giudizio di disvalore tutte le ipotesi in cui, qualunque ne sia il motivo, il giudice della sentenza che definisce il processo, abbia incidentalmente espresso valutazioni di merito in ordine alla responsabilità penale di un non imputato in quel processo (a prescindere dalla legittimità di tali valutazioni)».

Conseguentemente, la portata della sentenza n. 371 del 1996 appare assai ampia, riguardando anche i casi di concorso eventuale nel reato, sempre che una valutazione di merito in ordine alla responsabilità del terzo si sia svolta in sentenza.

Ciò che conta, insegnava ancora la sentenza 371/96, ai fini della integrità del principio del giusto processo, è che il giudice del nuovo dibattimento non sia lo stesso che abbia preso parte al primo e che, per la particolare configurazione della fattispecie (reato a “concorso necessario”), abbia dovuto formarsi un convincimento non soltanto sul merito dell’azione penale svolta contro gli imputati, ma anche, seppure incidentalmente, sul merito della posizione del terzo.

 

5. – Sul tema della sfera operativa della sentenza 371/1996, come si è detto, sono intervenute, di recente, le Sezioni unite della cassazione le quali, nel Considerato in diritto, stagliano intanto la sintesi della questione prospettata dalla Sezione remittente: “Se l’ipotesi di incompatibilità del giudice derivante dalla sentenza della Corte costituzionale n. 371 del 1996 […] sussiste anche per il giudice del dibattimento che, in separato giudizio, abbia pronunciato sentenza di applicazione della pena su richiesta nei confronti di un concorrente necessario nello stesso reato oggetto del giudizio”. Gli ermellini, prima di entrare in medas res svolgono innanzi tutto una argomentazione su due fronti, solo in apparenza marginali: da un lato, specificano che in primo luogo va verificata la tempestività della dichiarazione di ricusazione e, con articolata trattazione, concludono che tale dichiarazione deve essere ritenuta tempestivamente proposta; dall’altro lato, in punto di fatto, precisano che, diversamente da quanto ritenuto dalla Corte di appello, nella imputazione a “concorso necessario” di cui all’art. 416 cod. pen (capo B) non risultano coinvolte le imputate le M.D.G e G.I., che rispondono di altre imputazioni, in “concorso non necessario” con i ricorrenti ed altri imputati, e per le quali imputazioni non si pone, e comunque non è stata posta, la tematica del “pregiudizio” derivante dalla sentenza di patteggiamento pronunciata nei confronti di L.L.”. Il reato di cui all’art. 416 cod. pen. è stato infatti contestato non solo all’imputato che ha ritenuto di accedere al patteggiamento e ad altri due coimputati ancora, ma anche ad altri due coimputati (uno dei quali nel frattempo deceduto evento che a giudizio della Corte risulta, nel contesto, irrilevante).

Questa constatazione produce almeno tre risultati concreti: disarticola la logica “matematica” su cui si basava l’istanza di ricusazione, in quanto l’ipotesi di reato associativo perde il carattere di “necessarietà” potendo ben reggersi non sul numero chiuso di tre elementi (il patteggiante e i due ricorrenti), ma anche sul concorso di altri due, non rilevando in questo senso il fatto che nel frattempo uno fosse deceduto; in secondo luogo, sottrae la questione al circoscritto perimetro del “concorso necessario” su cui si basava la sentenza n. 371 del 1996, ed entro il quale essa conserva la sua autorevole efficacia; in merito alla quale, infine, consente la formulazione del principio di diritto per il quale l’ipotesi di incompatibilità del giudice derivante dalla sentenza della Corte costituzionale n. 371 del 1996 […] sussiste anche con riferimento alla ipotesi in cui il giudice del dibattimento abbia, in separato giudizio, pronunciato sentenza di applicazione della pena su richiesta nei confronti di un concorrente necessario dello stesso reato». Dunque, secondo gli ermellini, la valenza operativa della sentenza n. 371 del 1996, resta del tutto intatta se la prima sentenza sia frutto di patteggiamento, ma a determinate e precise condizioni: dovendosi per forza valutare se è presente il numero minimo di tre persone partecipi del reato associativo è chiaro come, per taluno dei coimputati non patteggiante, giudicato successivamente, sussisterà un pregiudizio sia pure limitatamente alla sussistenza di una delle cause di non punibilità di cui all'art. 129, comma 1, c.p.p.

Superato in tal modo  il primo filone interpretativo, la Corte ha pure sconfessato il secondo indirizzo esegetico che ricollega l'effetto pregiudicante al quantum di motivazione espresso nella sentenza di patteggiamento ex art. 444 c.p.p., perché non considera che tale effetto si produce, in parte qua, anche nel caso in cui il giudice del patteggiamento si sia limitato a stabilire la non ricorrenza dei presupposti di cui all'art. 129 comma 1 c.p.p..; con l'ulteriore effetto di avallare una certa “deprecabile esuberanza” di motivazione da parte del giudice del patteggiamento.

La Corte, inoltre, toccando seppur incidentalmente, la più generale problematica della regola di giudizio sottesa al patteggiamento, ha, altresì, evidenziato come in sede di applicazione della pena concordata, il giudice debba solo valutare , la non sussistenza, alla luce degli atti, delle cause di proscioglimento di cui all'art. 129 c.p.p., non essendo tenuto ad esprimere valutazioni di merito in ordine alla responsabilità penale alla stregua dei canoni di valutazione imposti al giudice del dibattimento ( o del rito abbreviato ) dall'art. 530 c.p.p.

Una volta chiarito che il ristretto ambito cognitivo della sentenza di patteggiamento non esclude la possibilità che si verifichi la prima ipotesi di incompatibilità, presa direttamente in esame dalla sentenza n. 371 del 1996 (cioè quella concernente il caso di reato a concorso necessario), la stessa Corte ha poi precisato che nei casi di sentenza patteggiata non si dovrebbe verificare l'ulteriore ipotesi di incompatibilità presa in considerazione dai giudici della Consulta nella predetta sentenza , ovvero il caso in cui , il giudice, «qualunque ne sia stato il motivo ... abbia incidentalmente espresso valutazioni di merito in ordine alla responsabilità penale di un terzo non imputato in quel processo». Ove questa evenienza si concretizzasse , a causa di una indebita sovrabbondanza motivazionale, nei confronti dei soggetti estranei al patteggiamento, si verificherebbe un vulnus alla terzietà del giudice, riconducibile non tanto al catalogo delle incompatibilità di cui all'art. 34 c.p.p., quanto all'ipotesi di ricusazione secondo la linea di contenimento già indicata dalla Corte costituzionale nelle sentenze 306, 307 e 308 del 1997[15] e poi formalmente definita nella sentenza n. 283 del 2000 che, come si è detto, ha sancito l'incostituzionalità dell'art. 37 comma 1 lett.b), nella parte in cui non prevede che possa essere ricusato dalle parti il giudice che chiamato a decidere sulla responsabilità di un imputato, abbia espresso in altro procedimento, anche non penale, una valutazione di merito sullo stesso fatto nei confronti del medesimo soggetto”: a prescindere perciò dal carattere indebito di tale valutazione[16].

Si deve dunque tornare alla concreta azione tecnica del giudice che ha pronunciato la sentenza di patteggiamento: da questa, a giudizio del Collegio esteso, «non è stata espressa alcuna considerazione di merito che possa reputarsi in concreto pregiudicante rispetto alla posizione dei correi».

 

6. – Ma nel contempo, si può sommessamente aggiungere che nella sentenza n. 371/96 si possono individuare due fulcri su cui agiscono ancora le leve che, da un lato, consentono di giudicare insussistente l’ipotesi di incompatibilità del giudice del dibattimento che abbia proceduto al processo di applicazione della pena per un coimputato; e dall’altro, consentono di rafforzare tale giudizio con una argomentazione alquanto stereotipa. Il che comporta anche, si può aggiungere sommessamente, che un più evidente rilievo dato a questi due elementi avrebbe forse contribuito a rendere meno … sconvolgente la sentenza n. 371/1996. Si tratta di due punti che emergono, su una sola riga per ciascuno, dalla sentenza n. 371/96.

Nel primo, si dichiara che le situazioni processuali destinate a ricadere nel disposto di cui all’art. 34 c. p. p. devono essere previste in modo esaustivo nelle norme sulla incompatibilità; per il secondo, a conclusione della sentenza, si legge: «Ai fini delle garanzie costituzionali alle quali la disciplina legale delle incompatibilità deve essere improntata, viene in considerazione solo l’effettivo compimento di tale valutazione, poiché è solo questo a determinare il pregiudizio».

Due proposizioni foriere di risultati, in certo senso, obbligati per quanto concerne la specifica tematica della incompatibilità del giudice che operi nell’ordinario rito dibattimentale nei confronti di imputati correi di alcun altro che abbia invece optato precedentemente per l’applicazione della pena concordata: in primo luogo, l’art, 34 comma 2 c. p. p. non prevede affatto norme sulla incompatibilità in relazione alla sentenza di patteggiamento[17]; in secondo luogo, la incompatibilità si concretizza solo quando la valutazione determinante il pre-giudizio sia stata effettivamente compiuta, e ciò comporta una necessaria…valutazione della valutazione.

Ci si può così avviare alla conclusione di queste considerazioni: con la sentenza n. 19/2014, la Suprema Corte salva il processo specifico vietando una sua regressione al principio e quindi consentendo la “normale” conclusione di esso; salva inoltre il processo in accezione generale dalle conseguenze organizzative ed ordinamentali che conseguirebbero da una applicazione imprudente e, se si può dire, alquanto manichea del principio medesimo; ma salva anche, ribadendoli con energia, alcuni altri principi fondamentali, di non minore pregnanza. Tra questi, il principio già cruciale nella sentenza n. 371/96 e costitutivo nella configurazione del “giusto processo”, circa il diritto ad essere giudicati da giudice non sfiorato da dubbio di pregiudizialità; ma anche il principio relativo alla natura essenzialmente endoprocessuale dell’istituto della incompatibilità di cui all’art. 34 c. p. p.; ed ancora il principio per cui «tutte le incompatibilità […] operano in astratto, non in concreto», per cui «le cause che le determinano [tipizzate appunto nell’art. 34 c.p.p.] sono prevedibili e quindi prevenibili attraverso atti di organizzazione dello svolgimento del processo»; salva infine, riordinando la materia, dalle possibili ambiguità interne al Libro I Capo VII c.p.p., là dove chiarisce che nel caso una pronuncia ex art. 444 c.p.p. faccia riferimento a posizioni ed aspetti esterni a quel giudizio «non dovrebbe parlarsi di un caso di incompatibilità, ma di uno di ricusazione», per cui è stato molto ben osservato che la importanza della pronuncia di cui si tratta «esorbita dall’argomento dell’imparzialità del giudice, toccando essa, sia pure incidentalmente, la più generale problematica inerente alla regola di giudizio del patteggiamento»[18].

 

 



 

[1] In generale sull'istituto dell'incompatibilità v., in particolare, DI CHIARA, L'incompatibilità endoprocessuale del giudice, Torino, 2000; RIVELLO, L'incompatibilità del giudice penale, Milano, 1996; nonché RAFARACI, Art. 34, Commentario breve al codice di procedura penale, Padova, 2005, 88 ss.; TODARO, L'incompatibilità del giudice penale tra indirizzi consolidati e vuoti di tutela, in Cass. pen, 2007, 2074.

 

[2] Corsivo qui aggiunto; ci si riferisce ovviamente a Corte cost., 17 ottobre 1996, n. 371.

 

[3] Un altro caso in cui forse «si può addebitare al Parlamento di essersi accorto con ritardo che i principi della separazione delle funzioni e dell’imparzialità del giudice sono indispensabili al fine di assicurare quello che il nuovo comma 1 dell’art 111 Cost. definisce “giusto processo”» (TONINI, Manuale di procedura penale, XII ed., Milano 2011, 96).

 

[4] V. in particolare Corte cost., 8 maggio 2013, n. 86; Corte cost., 29 novembre 2010, n. 347; Corte cost, 4 giugno 2003, n. 218 Corte cost., 20 novembre 2002, 490.

 

[5]. Corte cost.,13 aprile 1992,186.

 

[6]. V., in particolare, Cass., Sez.II, 20 giugno 2003, LUCARELLI, in CED Cass., n. 226453; Cass., Sez. IV, 14 maggio 1998, Cerciello, in CED Cass., n. 211078; Cass.,Sez.VI, 16 aprile 1998,1385, in CED Cass., n. 210664; Cass., Sez. VI, 3 ottobre 1997,GIALLOMBARDO, in CED Cass., n. 209077

 

[7]. Ma già in sentenze della Corte costituzionale piuttosto risalenti (n. 401/1991 e 261/1992) si specifica che la locuzione “giudizio” è da intendere come comprensiva anche per il “giudizio abbreviato” e che il “patteggiamento” comporta una valutazione sul merito della res iudicanda idonea a radicare la incompatibilità di giudizio.

 

[8]. Al riguardo cfr. Cass., Sez. V, 26 gennaio 2005,CACCIURI, in CED Cass., n. 231490; Cass., Sez. IV, 23 settembre 2003; BROCH, in CED Cass., n. 226409; Cass., Sez. VI, 17 luglio 2003, TAGLIAFERRO, in CED Cass., n. 226511.

 

[9]. Ma su un orientamento diverso circa la interpretazione della natura della sentenza di patteggiamento, CAPRIOLI, Condanna (dir. proc. pen.), in Enc. Dir., Annali, II, t. 1, part. 113: «In realtà, come la più attenta dottrina ha fatto ripetutamente osservare, e come le stesse sezioni unite della Corte di Cassazione hanno finito per ammettere, le coordinate sistematiche nelle quali si inscrive la disciplina della applicazione della pena su richiesta delle parti sono apertamente incompatibili – tanto più dopo le riforme intervenute nel 2001 e nel 2003 – con l’idea che la sentenza patteggiata possa prescindere dall’accertamento di responsabilità dell’imputato: e ciò sia nell’ipotesi “tradizionale” di patteggiamento a pena non superiore a due anni (…) sia a maggior ragione nell’ipotesi “allargata” introdotta dalla l. 12 giugno 2003, n. 134»; ed ancora, ID et ibidem: «Conviene inoltre precisare che anche nella sentenza a pena concordata l’accertamento della colpevolezza dell’imputato deve essere sostenuto da un idoneo apparato giustificativo: oltre ad esibire un elevato tasso di ambiguità, la consolidata opinione di segno contrario […] trascura di fare i conti con parametri costituzionali e disposizioni codicistiche la cui riferibilità alla sentenza patteggiata sembra indiscutibile»; dello stesso tenore, in Commento alla sentenza n. 371/96, in Corr. giur., 1997, 28, SPANGHER: «Analoga conclusione [rispetto a quanto stabilito dalla Corte Costituzionale nella sent. n. 155 del 1996 per il giudizio abbreviato] sembra prospettarsi anche per quanto riguarda il patteggiamento. Nella stessa occasione, infatti, la Corte ha evidenziato come la decisione sulla richiesta di applicazione della pena concordata dalle parti integra un vero e proprio giudizio e non richiede un compito di mera ricezione e certificazione della volontà ritualmente espressa dalle parti (sentenza n. 313 del 1990)…»; nonché, S. CARNEVALE, Imparzialità del giudice dibattimentale che applica la pena al coimputato: una proposta interpretativa nello scenario dei rimedi contro lo iudex suspectus, in Cass. pen., 1999, 1843; CREMONESI, Il patteggiamento nel processo penale, Padova, 2005; GIALUZ, Applicazione della pena, ivi, 13; INZERILLO, Sulla neutralità del giudice che abbia emesso sentenza di patteggiamento per un coimputato, nota a sentenza Cass., Sez. V, 9 febbraio 2001, FOSCALE e AA., in Dir. proc. pen., 2001, 2015; RIVELLO, Un nuovo approfondimento giurisprudenziale sulla tematica di incompatibilità (a proposito di giudice che abbia precedentemente emesso una sentenza di patteggiamento su richiesta di un coimputato nel medesimo reato), in Cass. pen. 1999, 1507; TODARO, L’incompatibilità del giudice penale tra indirizzi consolidati e vuoti di tutela in Cass. pen., 2007, 2074; TRAVERSO, Reato associativo e patteggiamento per un solo coimputato: un limite all’imparzialità del giudice?, in Cass. pen., 1995, 2716; VIGONI, L’applicazione della pena su richiesta delle parti, Milano, 2000.

 

[10]. Cass. Sez. II, 13 gennaio 1999, COMPAGNON, in CED Cass., n. 212785; Cass. Sez. IV, 11 dicembre 1996, DI DONATO, in CED Cass., n. 208192.

 

[11]. CORDERO, Procedura penale, IX ed., Milano, 2012, 175.

 

[12]. POTETTI, Principi fondamentali elaborati dalla Corte costituzionale in tema di art. 34 c.p.p. In particolare: incompatibilità del giudice e concorso di persone nel reato, in Cass. pen. 1997, 943; cui adde, PAESANO, Orientamenti di legittimità in tema di imparzialità del giudice chiamato a pronunciarsi su coimputato non patteggiante, in Cass. pen., 2005, 119.

 

[13]. Cfr. supra, nota 3. e SPANGHER, op. cit., 27: si tratterebbe della prima sentenza «che non si limita ad estendere l’ambito di applicazione della norma [art. 34 c.p.p.], ma che infrangerebbe gli stessi confini della sua rubrica».

 

[14]. Come è noto, la Corte costituzionale con la pronuncia n. 283 del 2000, ha dichiarato l’illegittimità dell’art.37, comma 1, c.p.p. nella parte in cui non prevede come motivo di ricusazione il fatto che il il giudice, chiamato a decidere sulla responsabilità di un imputato, abbia già espresso in un contesto procedimentale diverso, di qualunque natura esso sia, una valutazione di merito sullo stesso fatto nei confronti del medesimo soggetto. Pertanto, secondo quanto statuito dal giudice delle leggi, occorre verificare in concreto se la posizione altrove assunta dall'organo giudicante, sia idonea a pregiudicarne l'imparzialità nel giudizio su una fattispecie soggettivamente ed oggettivamente identica. Si tratta di una pronuncia che, secondo la maggioranza dei commentatori, ha completato il percorso intrapreso con le sentenze nn. 306, 307 e 308 del 1997.

 

[15]. Su tali fondamentali pronunce, cfr., in particolare, DI CHIARA, Appunti in tema di imparzialità del giudice penale, ricusabilità «per invasione» e previa manifestazione «non indebita» di convincimento sui fatti della causa, in Cass.pen., 2001, 1101; POTETTI, Le tappe della giurisprudenza costituzionale verso la terzietà e imparzialità del giudice, dal sistema delle incompatibilità a quello dell'astensione e ricusazione, in Cass.pen., 2001, 1112; RIVELLO, Tre concomitanti pronunce di inammissibilità della Corte costituzionale: l'astensione e la ricusazione come alternative all'incompatibilità, in Giur. cost., 1997, 2882; TODARO, L'incompatibilità del giudice penale, cit., 2079.

 

[16] Sulla sentenza 283 del 2000 della Corte costituzionale v. POTETTI, Le tappe della giurisprudenza costituzionale, cit., 1108 s

 

[17] Ancora SPANGHER, op. cit., 26: «A tale riguardo non sembra azzardato sostenere che nel disciplinare le situazioni di “pregiudizio”, al legislatore deve essere sfuggito qualche profilo dei nuovi meccanismi che venivano introdotti con la riforma del 1988».

 

[18] DELLA TORRE, Per le Sezioni Unite l'incompatibilità introdotta dalla sentenza costituzionale n. 371 del 1996 può essere integrata anche da un patteggiamento, Dir. pen. cont., 30 settembre 2014.