Testatina-internaseconda-memorie

 

 

enricoEnrico Sciandrello

Università di Torino

 

‘NOMEN CONTRACTUS’ ENUOVI CONTRATTI’.

L’AGERE PRAESCRIPTIS VERBIS LABEONIANO TRA TIPICITÀ E ATIPICITÀ CONTRATTUALE

open in pdf

 

Sommario: 1. Premessa. – 2. Agere praescriptis verbis per la tutela di figure contrattuali tipiche. – 3. Agere praescriptis verbis per la tutela di figure contrattuali atipiche. – 4. Il caso dell’aestimatum. – 5. Conclusioni.Abstract.

 

 

1. – Premessa

 

Accolgo con piacere e gratitudine l’invito dei Colleghi dell’Università di Verona, Tommaso dalla Massara e Carlo Pelloso, a partecipare a una nuova riflessione sulla problematica dell’atipicità contrattuale nell’esperienza giuridica romana, tema di cui ho avuto occasione di occuparmi in passato[1] e che, a tutt’oggi, non cessa di destare interesse presso la comunità scientifica romanistica, come si può facilmente arguire da uno sguardo all’odierno panorama dottrinale[2].

Volgendo lo sguardo a nuove prospettive rispetto a quelle già indagate, ritengo opportuno in questa sede tentare un approccio diverso al problema dell’autonomia negoziale, la cui comprensione, oltre a coinvolgere aspetti persistenti in qualsiasi esperienza giuridica, tanto storica quanto contemporanea, risulta necessariamente condizionata dal peculiare sistema di composizione delle controversie tra privati in epoca formulare. La sussunzione della fattispecie concreta in quella astratta individuata dai verba edittali imponeva infatti al giurista romano di muoversi entro una logica di necessaria corrispondenza tra il dato sostanziale e quello processuale[3], il che dimostra come talvolta il problema della tipicità insistesse maggiormente sul versante della previsione dei mezzi di tutela nell’albo pretorio, piuttosto che in relazione ad una precisa volontà di chiudere la strada all’ingresso nell’ordinamento giuridico di nuovi contenuti negoziali, peraltro formalizzabili attraverso il versamento dell’accordo in una stipulatio[4].

Nonostante l’evidenza di quest’ultimo dato, è noto che le fonti conservano un cospicuo numero di testimonianze attestanti il ricorso a soluzioni alternative che presentano, come minimo comune denominatore, l’impiego di un mezzo processuale variamente qualificato[5], ma di cui risulta incontroverso il tratto distintivo a livello formulare, ossia la presenza di praescripta verba con funzione descrittiva della res de qua agitur. È altrettanto noto che tale mezzo processuale sarebbe stato accordato per la prima volta da Labeone, a cui è stato perciò attribuito il merito di aver riconosciuto l’azionabilità dei contratti atipici[6]; a fronte dei dubbi emersi, però, nel corso degli ultimi anni circa l’effettiva portata di questa teoria[7], occorre verificare su quali basi possa ritenersi ancora valido l’orientamento della dottrina maggioritaria, tenendo conto del segnalato rapporto di reciprocità tra la valutazione dei criteri di riconoscimento della fattispecie atipica e le possibilità di tutela individuate a livello processuale.

 

 

2. – Agere praescriptis verbis per la tutela di figure contrattuali tipiche

 

Come anticipato, i recenti studi[8] condotti sugli impieghi labeoniani dell’agere praescriptis verbis hanno evidenziato alcuni aspetti critici della teoria che individua nelle soluzioni adottate dal giurista augusteo per talune vicende negoziali controverse il punto di avvio di una riflessione sul problema dell’atipicità contrattuale nell’esperienza giuridica romana[9]. In particolare, si è osservato che Labeone propose l’uso di tale rimedio processuale al fine di garantire adeguata protezione a pretese nascenti dalla conclusione di contratti tipici, ma non azionabili con lo specifico mezzo di tutela previsto a livello edittale per quel determinato nomen contractus; lo strumento proposto da Labeone avrebbe così rivestito il ruolo di azione generale a carattere sussidiario[10].

Non è necessario in questa sede analizzare tutte le testimonianze in cui è attestato il ricorso da parte di Labeone all’agere praescriptis verbis; piuttosto, mi pare opportuno procedere all’esame dei testi nei quali sono presi in considerazione casi tra loro non omogenei, al fine di valutare la sussistenza di eventuali profili di continuità nelle scelte operate dal giurista.

Cominciamo dunque dalla lettura di D. 18.1.50 (Ulp. 11 ad ed.) che presenta l’ipotesi più semplice dal punto di vista dell’inquadramento contrattuale:

 

Labeo scribit, si mihi bibliothecam ita vendideris, si decuriones Campani locum mihi vendidissent, in quo eam ponerem, et per me stet, quo minus id a Campanis impetrem, non esse dubitandum, quin praescriptis verbis agi possit. Ego etiam ex vendito agi posse puto quasi impleta condicione, cum per emptorem stet, quo minus impleatur.

 

Il caso riguarda la vendita di una biblioteca sottoposta alla condizione che l’emptor (Ego) riesca ad acquistare dai decuriones Campani un’area in cui collocarla; il mancato acquisto dell’area dipendente dal comportamento inattivo di Ego giustifica, secondo Labeone, la concessione di un rimedio processuale a favore del soggetto interessato alla vendita della biblioteca (Tu), il quale potrà agire praescriptis verbis. In conclusione del brano, si ricorda come al tempo di Ulpiano fosse ormai ammessa una tutela ex vendito in base al principio della finzione di avveramento della condizione[11].

È del tutto evidente in questo caso che la scelta di riconoscere l’azionabilità della pretesa di Tu mediante il ricorso all’agere praescriptis verbis non si fonda sulla considerazione che è stato concluso un contratto atipico giudicato comunque meritevole di tutela[12]; l’actio venditi, d’altronde, rappresentava una soluzione impraticabile per tutelare gli interessi dell’attore, la cui pretesa sarebbe stata respinta semplicemente in ragione del fatto che il mancato avveramento della condizione aveva reso la vendita improduttiva di effetti obbligatori. A mio avviso va accolta l’opinione recentemente espressa al riguardo da Fiori[13], secondo cui l’opzione labeoniana è riconducibile ad una valutazione più elastica dell’oportere (ex fide bona) sotteso al contratto di compravendita, tale da ricomprendere anche quello che lo stesso Autore qualifica come «oportere accessorio»[14], concretamente individuabile nell’impegno assunto da Ego di attivarsi per l’acquisto di un locus in cui collocare la biblioteca.

Il contenuto di D. 18.1.50 permette di svolgere già una prima considerazione: non risulta corretto impostare il discorso sull’impiego labeoniano dell’agere praescriptis verbis muovendo dall’idea che tale mezzo processuale fosse stato concepito dal giurista al solo scopo di garantire una tutela civilistica nell’ambito delle convenzioni innominate. La posizione di Labeone sembra qui più che altro orientata a garantire un rigoroso rispetto della bona fides caratterizzante il contratto di compravendita: in tale prospettiva[15], dunque, si spiega la scelta di suggerire un rimedio avente natura civilistica, anziché una semplice formula in factum concepta. Rilevata l’insufficienza della protezione accordata con la formula dell’actio venditi, il cui oportere risultava condizionato dal contenuto edittale della demonstratio, che, con le parole ‘quod…vendidit’, si riferiva evidentemente ad una vendita perfettamente realizzata, sia sul piano della validità che su quello dell’efficacia, è probabile che Labeone avesse preferito affidarsi ad un programma di giudizio costruito in modo tale da poter condizionare l’oportere ex fide bona ad una causa petendi, per così dire, atipica[16]; lo strumento formulare impiegato a tale fine era senz’altro rappresentato dai praescripta verba.

Un problema differente rispetto a quello appena esaminato viene affrontato in un brano papinianeo conservato in D. 19.5.1.1 (Pap. 8 quaest.), dove il giurista severiano riporta il parere di Labeone a proposito di un contratto di locazione marittima.

 

Domino mercium in magistrum navis, si sit incertum, utrum navem conduxerit an merces vehendas locaverit, civilem actionem in factum esse dandam Labeo scribit.

 

La questione riguarda un soggetto dominus mercium che evidentemente intende agire contro un magister navis, senza però essere certo del mezzo processuale a sua disposizione: da un lato l’actio conducti lo qualificherebbe come conduttore della nave nell’ambito di un contratto inquadrabile in una locatio rei (navis), dall’altro l’actio locati rivelerebbe l’esistenza di un contratto di trasporto concluso in qualità di locator mercium vehendarum; dinanzi a questa situazione di incertezza, Labeone suggerisce l’uso di un’actio civilis in factum per evitare il rischio che in sede processuale venga accolta una configurazione contrattuale del rapporto opposta a quella descritta nella formula scelta dall’attore[17].

La qualifica dell’azione indicata da Labeone non deve trarre in inganno: come più volte evidenziato in dottrina[18], infatti, è verosimile che all’actio civilis in factum corrispondesse il mezzo processuale altrove denominato praescriptis verbis; meno sicura è l’attribuzione a Labeone[19] di tale terminologia che potrebbe invece ricondursi a sviluppi successivi di una riflessione sulle caratteristiche formulari dell’agere praescriptis verbis[20].

Sul piano dei presupposti dell’azione, va segnalato che ancora una volta la controversia non sorge in seguito alla conclusione di un contratto atipico[21], ma, a differenza del caso descritto in D. 18.1.50, non vi è certezza sull’inquadramento contrattuale dell’accordo stretto tra le parti, anche se l’alternativa è posta tra due schemi negoziali entrambi riconducibili alla locatio conductio[22]. Il dubbio sulla scelta del mezzo edittale da esperire in questa particolare ipotesi (actio locati o conducti) giustifica, secondo Labeone, la concessione di un rimedio, la cui natura decretale sembra desumibile dal ricorso alla forma gerundiva ‘dandam[23]. E non potrebbe essere altrimenti, visto che, come già osservato a proposito del caso della vendita della biblioteca, si trattava di adattare una formula (edittale) in modo da mutare il rapporto di condizionamento tra l’oportere ex fide bona dell’intentio e il contenuto tipico della demonstratio, versando la descrizione della fattispecie originante la pretesa nei praescripta verba.

La presenza della bona fides come parametro attraverso cui doveva essere valutato il comportamento delle parti nella locatio conductio si rivela qui decisivo allo stesso modo che nell’ipotesi esaminata in precedenza: è perciò verosimile che la valutazione ex fide bona dell’oportere delle azioni nascenti dalla locatio conductio abbia suggerito a Labeone di intervenire sui presupposti della tutela, vincolati, dal punto di vista edittale, alla rigida alternativa ‘quod…conduxit’ / ‘quod…locavit[24], ma sostituibili con l’impiego dei praescripta verba al posto della demonstratio[25].

 

 

3. – Agere praescriptis verbis per la tutela di figure contrattuali atipiche

 

Fin qui sono stati individuati casi nei quali l’agere praescriptis verbis era impiegato da Labeone per tutelare controversie sorte con riguardo a contratti senz’altro tipici, ma per i quali la protezione edittale non si dimostrava efficace: nel primo caso perché il mancato avveramento della condizione aveva reso l’accordo sulla vendita della biblioteca improduttivo di effetti obbligatori, nel secondo perché si voleva porre al riparo la pretesa dell’attore dal rischio legato all’incertezza circa l’uso del mezzo edittale più idoneo nell’ambito di uno schema contrattuale unitario, ma diversamente declinabile a seconda del concreto assetto di interessi divisato dalle parti[26].

Ora occorre verificare se possono essere rintracciati casi nei quali Labeone abbia fatto ricorso all’agere praescriptis verbis per risolvere conflitti nascenti dalla conclusione di contratti atipici. In questa prospettiva, la testimonianza più interessante è senz’altro quella conservata in D. 19.5.19 pr. (Ulp. 31 ad ed.)[27]:

 

Rogasti me, ut tibi nummos mutuos darem: ego cum non haberem, dedi tibi rem vendendam, ut pretio utereris. Si non vendidisti aut vendidisti quidem, pecuniam autem non accepisti mutuam, tutius est ita agere, ut Labeo ait, praescriptis verbis, quasi negotio quodam inter nos gesto proprii contractus.

 

Tu chiede del denaro a mutuo a Ego, il quale, non disponendone, dà una res da vendere affinché il prezzo possa essere usato a tale scopo. Per l’ipotesi in cui Tu non abbia venduto o, pur avendo realizzato la vendita, non abbia ricevuto la mutua pecunia, Labeone ritiene più sicuro agire praescriptis verbis a fronte di una valutazione espressa con le parole ‘quasi negotio quodam inter nos gesto proprii contractus[28], che sembrano alludere a un contratto avente una propria individualità[29].

È del tutto evidente che il caso in questione presenta la combinazione di due schemi negoziali attraverso cui s’intende realizzare un prestito di consumo a favore di Tu. L’indisponibilità di denaro da parte di Ego impedisce di giudicare validamente contratta un’obbligazione da mutuo, ma l’interesse alla conclusione dell’affare induce Ego a consegnare una res vendenda al preteso mutuatario Tu, affinché costui possa usare il prezzo ricavato dalla vendita; questa soluzione escogitata dalle parti sembra integrare un’ipotesi di mandato, piuttosto che di contratto estimatorio[30]. La prima interpretazione[31] appare preferibile non solo in ragione della collocazione palingenetica del passo ulpianeo[32], ma anche per via della mancanza di elementi caratterizzanti la fattispecie dell’aestimatum, la cui peculiarità va individuata nell’alternativa concessa all’accipiens di pagare il prezzo stimato oppure di riconsegnare il bene invenduto[33]: questa seconda opzione è invece esclusa nel caso di specie, anzi è addirittura prospettata come presupposto (‘si non vendidisti’) per la concessione dell’azione praescriptis verbis e, perciò, considerata come ipotesi di inadempimento da parte di Tu.

In ottica processuale, le uniche soluzioni praticabili nell’ambito delle tutele riconosciute a livello edittale erano costituite dalla condictio e dell’actio mandati. Il primo rimedio era senz’altro esperibile come azione generale di ripetizione del datum, il che avrebbe permesso di superare l’ostacolo rappresentato dalla mancata integrazione del contratto di mutuo[34]; il secondo, invece, avrebbe garantito una tutela contrattuale sia nell’ipotesi di mancata vendita che in quella di mancata ricezione della mutua pecunia, in quanto Tu sarebbe risultato comunque inadempiente agli obblighi nascenti dal mandato, che, come noto, in casi di questo genere prevedono non solo l’esatta esecuzione dell’incarico, ma anche il trasferimento delle relative posizioni giuridiche acquisite in capo al mandante.

Poste queste premesse, sarebbe stato logico prospettare l’esperibilità dell’actio mandati e, invece, Labeone ritiene più sicura (‘tutius est’) una tutela affidata all’agere praescriptis verbis. Credo che le ragioni di questa scelta debbano individuarsi nei rilievi proposti da Santoro con riguardo agli elementi che emergono dal confronto tra la fattispecie presentata in D. 19.5.19 pr. e quella descritta in D. 12.1.11 pr[35].

In questo passo, ancora una volta ulpianeo, si contempla una vicenda negoziale che, rispetto a quella su cui intervenne Labeone, risulta identica quanto ai presupposti, ma differente quanto alla considerazione dei possibili risvolti problematici: nel testo, infatti, ci si domanda come regolare il caso in cui la res vendenda perisca fortuitamente prima che l’accipiente riesca ad effettuare la vendita; in altre parole, occorre individuare un criterio per l’accollo del periculum. Ulpiano giudica ‘verissima’ la distinctio di Nerva secondo cui se la res è stata posta in vendita da Ego per un suo evidente interesse[36], allora il periculum sarà a carico di quest’ultimo, indipendentemente quindi dal fatto che l’accordo sottostante prevedesse l’uso del prezzo ricavato come mutua pecunia a vantaggio di Tu; diversamente, se l’unica ragione per cui Ego ha dato una res da vendere è costituita dalla richiesta di Tu, allora costui dovrà sopportare il rischio del perimento fortuito. «Nel primo caso», osserva Santoro[37], «la datio ad vendendum implicherà bene un mandato (mea et tua gratia)», nel secondo, invece, «non avendo io» (scil. Ego) «manifestato l’intenzione di vendere la cosa e non essendo interessato alla conclusione di questo atto, non posso aver posto in essere un mandato (che come mandato tua tantum gratia, sarebbe nullo)».

Santoro conclude il proprio ragionamento ravvisando l’opportunità di attribuire già a Labeone la valutazione dei possibili rischi ai quali si poteva andare incontro se si fosse deciso di tutelare questo genere di casi con l’actio mandati: pur in assenza di un esplicito rinvio sul punto, l’autorevole studioso ritiene, infatti, che anche Labeone avesse considerato per la fattispecie descritta in D. 19.5.19 pr. «l’alternativa tra il caso del dans che ha interesse e volontà di vendere e il caso del dans che non ha tale interesse e tale volontà»; ciò, dunque, spiegherebbe come mai il giurista augusteo reputasse più sicuro agere praescriptis verbis.

Mi sia consentito di aggiungere un altro elemento a favore della tesi di Santoro. Dalla celebre sequenza dell’Enchiridion pomponiano in cui è attestata la successio prudentium all’interno delle scholae sappiamo che Nerva successe a Labeone[38]: in considerazione di questo dato, ritengo perlomeno ipotizzabile che, con riguardo ai casi del tipo ‘dedi tibi rem vendendam, ut pretio utereris’, Labeone non solo avesse già avuto presente la distinctio concernente l’interesse o meno del dans[39], ma addirittura che egli avesse condizionato il parere reso dal suo diretto successore, Nerva padre[40], a proposito del problema dell’accollo del periculum. Stando al contenuto di D. 19.5.19 pr., tale condizionamento potrebbe ravvisarsi nella scelta compiuta da Labeone di concedere un rimedio atipico e, soprattutto, nella giustificazione fornita al riguardo dal giurista, sul cui significato è ora opportuno svolgere alcune riflessioni.

Innanzitutto, l’impiego di ‘quasi[41], che introduce la proposizione comparativa suppositiva ‘negotio quodam inter nos gesto[42], rivela lo sforzo compiuto da Labeone[43] per ricondurre l’affare concluso dalle parti ad un proprius contractus. Tale sintagma evoca l’idea di una figura contrattuale unitariamente considerata[44], che, nel caso di specie, risulta dalla combinazione di elementi del mutuo e del mandato; entrambi i contratti tipici non possono però dirsi perfettamente integrati, poiché, con riguardo al primo, non vi è stata la datio di mutua pecunia, mentre, per quanto concerne il mandato, sussiste la possibilità che il dans (supposto mandante) non avesse interesse a vendere la cosa.

A prescindere dal fatto che in questo caso Labeone avesse in mente il problema dell’atipicità contrattuale, mi pare innegabile che l’operazione interpretativa effettuata dal giurista augusteo abbia condotto al risultato di considerare il negotium inter nos gestum come un aliud[45] rispetto ai contratti tipici coinvolti nell’assetto di interessi predisposto dalle parti. Ciò appare provato, non solo dal ricorso all’agere praescriptis verbis come strumento per la soluzione della controversia[46], ma anche e soprattutto dalle conseguenze che, sul piano della disciplina del negotium complessivamente considerato, ne sono derivate: decisiva, in questo senso, è l’attestazione ulpianea del criterio individuato da Nerva per stabilire le regole in tema di accollo del periculum.

Queste considerazioni non possono, a mio avviso, venire meno dinanzi alla possibilità che l’operazione economica andasse a buon fine e che quindi il profilo dell’incarico di vendere una res altrui venisse assorbito nella causa negoziale del mutuo, ossia il prestito di consumo[47]. È chiaro, infatti, che, laddove il concreto svolgimento dell’attività negoziale non presenti alcun aspetto problematico, non occorre integrare la conventio con regole ulteriori rispetto a quelle già previste dalle parti; altrettanto chiaramente, l’esigenza si pone, invece, quando per un qualunque motivo – anche non imputabile alla condotta di una delle parti, come nel caso del periculum – i termini dell’accordo non vengono rispettati.

Da questo punto di vista, le soluzioni individuate da Labeone e da Nerva corrispondono alle scelte interpretative adottate dal giurista moderno di fronte a fattispecie concrete che presentano una combinazione di elementi riconducibili a due o più contratti tipici, senza, tuttavia, integrare completamente alcuno di essi. In particolare, l’ipotesi prevista in D. 19.5.19 pr. (e in D. 12.1.11 pr.) potrebbe oggi essere inquadrata nella categoria del contratto misto[48], creata dalla scienza civilistica italiana all’evidente scopo di garantire un supporto normativo per la disciplina dei contenuti negoziali stabiliti in concreto dalle parti e di superare così le difficoltà poste dalla deviazione dai tipi contrattuali. Ciò comporta che si proceda scomponendo la fattispecie nei singoli elementi riconducibili ai diversi modelli di riferimento e verificando se per ciascuno di essi è possibile applicare la relativa disciplina (legale) o se, invece, è più opportuno assorbirne uno in quello giudicato prevalente[49]. In tale prospettiva si colloca, ad esempio, la distinctio di Nerva con riguardo al criterio per determinare chi dovesse sopportare il rischio del perimento fortuito della res vendenda: se il dans fosse risultato comunque interessato alla vendita della res, indipendentemente dalla preventiva rogatio di denaro a mutuo della controparte, si sarebbe dovuta applicare la disciplina del mandato che poneva tale rischio a carico di colui che conferiva l’incarico di vendere un proprio bene; in caso contrario, sarebbe riemersa la struttura tipica del mutuo, per cui era previsto l’accollo del periculum in capo all’accipiente mutuatario[50].

Sul versante processuale, l’agere praescriptis verbis era l’unico strumento in grado di garantire una tutela sicura (‘tutius est…agere’) dinanzi all’oscillazione della fattispecie tra due figure contrattuali tipiche, allo stesso modo che per il caso del dominus mercium descritto in D. 19.5.1.1. Tale somiglianza, però, risulta attenuata se si considera che, in quella ipotesi, le incertezze sulla qualificazione giuridica della fattispecie e sulla scelta del relativo mezzo di tutela non dipendevano dalla circostanza che le parti avessero stretto un accordo in cui era prevista una significativa deviazione dagli schemi contrattuali conosciuti; la conventio poteva integrare perfettamente l’uno o l’altro contratto[51], ma secondo un rapporto di reciproca esclusione. Tradotto in termini processuali, ciò significa che l’agere praescriptis verbis serviva solamente a superare l’insidia della qualificazione giuridica della fattispecie, ma, una volta formatosi il convincimento del giudice circa la riconducibilità della conventio a uno specifico nomen contractus, costui avrebbe quasi certamente individuato i contenuti dell’oportere rifacendosi alla disciplina del contratto tipico prescelto. Con riguardo a questo genere di casi non vi è dubbio che l’agere praescriptis verbis labeoniano rappresentasse un rimedio atipico per la tutela di figure contrattuali tipiche[52].

D’altro canto, vista la duttilità di questo mezzo processuale nella rappresentazione della res de qua agitur, non stupisce che Labeone lo ritenesse utilizzabile anche per tutelare ipotesi come quella riportata in D. 19.5.19 pr., che, pur costituendo il risultato della combinazione di due tipi contrattuali, non integrava perfettamente alcuno di essi.

Il profilo di continuità ravvisabile nelle testimonianze che attestano il ricorso all’agere praescriptis verbis da parte di Labeone pare essere la riflessione sulle possibilità di tutela garantite dalle azioni edittali, in relazione a fattispecie che, pur essendo tipiche o comunque ad esse vicine, presentavano caratteristiche tali da non permetterne l’inquadramento nei verba formulari. Valutata negativamente l’esperibilità di una delle azioni previste nell’albo pretorio, Labeone avrebbe suggerito l’impiego di un’azione decretale praescriptis verbis, ma solo nei casi per i quali riteneva che l’oportere ex fide bona dell’azione tipiche di riferimento giustificasse un ampliamento dei confini della tutela civilistica[53].

Sulla base di questi rilievi, appare dunque giustificata la posizione di quanti hanno dubitato che Labeone intendesse effettivamente risolvere il problema del riconoscimento dei nova negotia; le soluzioni accordate dal giurista augusteo sembrano più che altro insistere sul versante processuale e, in particolare, sulle rigidità delle previsioni edittali. Per tale motivo credo che debba essere condiviso il monito, recentemente ribadito in dottrina[54], a non confondere i diversi piani su cui verteva il problema dell’atipicità nell’esperienza giuridica romana: da un lato quello delle azioni, dall’altro quello dei contratti.

Al tempo stesso, ritengo che non possa essere trascurato il carattere fecondo dell’elaborazione labeoniana, che, pur muovendo dal piano delle tutele, finì per coinvolgere inevitabilmente i problemi legati al riconoscimento delle convenzioni innominate, come ha dimostrato l’analisi di D. 19.5.19 pr., specialmente se raffrontata con quella condotta sui primi due testi segnalati nel corso della presente trattazione: in D. 18.1.50 e in D. 19.5.1.1 il ricorso all’agere praescriptis verbis viene prospettato senza bisogno di alcuna giustificazione, se non quella implicita legata all’impossibilità (per la vendita della biblioteca) o all’inopportunità (per la locazione marittima) di esperire le azioni tipiche del rapporto posto in essere dalle parti; in D. 19.5.19 pr., invece, tale rimedio viene giudicato più sicuro rispetto ai mezzi edittali solo a fronte di una valutazione che porta a considerare il negotium gestum, risultante dalla combinazione di elementi del mutuo e del mandato, come un contractus avente una specifica individualità.

Le soluzioni individuate da Labeone nella sua attività di ridefinizione dei confini della tutela civilistica incisero, dunque, anche sulla problematica dei contratti atipici, segnando una strada lungo la quale trovarono protezione altre fattispecie recanti significative deviazioni dai tipi contrattuali. Per comprendere appieno l’importanza della tradizione sviluppatasi grazie all’opera di Labeone, occorre ora soffermarsi sulle ragioni che determinarono il riconoscimento dell’aestimatum quale figura contrattuale autonoma e distinta dalle altre già tipizzate all’interno dell’ordinamento giuridico romano.

 

 

4. – Il caso dell’aestimatum

 

In D. 19.3.1 pr. è conservata una sintesi della trattazione ulpianea in tema di aestimatum, che suscita particolare interesse, poiché ripercorre, seppur a grandi linee e con alcuni guasti attribuibili verosimilmente alla mano dei compilatori giustinianei, le tappe fondamentali di un percorso che condusse la scienza giuridica romana a considerare l’aestimatum un ‘nuovo contratto’[55]. Leggiamo, dunque, il brano riportato in D. 19.3.1 pr. (Ulp. 32 ad ed.)[56]:

 

Actio de aestimato proponitur tollendae dubitationis gratia: fuit enim magis dubitatum, cum res aestimata vendenda datur, utrum ex vendito sit actio propter aestimationem, an ex locato, quasi rem vendendam locasse videor, an ex conducto, quasi operas conduxissem, an mandati. Melius itaque visum est hanc actionem proponi: quotiens enim de nomine contractus alicuius ambigeretur, conveniret tamen aliquam actionem dari, dandam aestimatoriam praescriptis verbis actionem: est enim negotium civile gestum et quidem bona fide. Quare omnia et hic locum habent, quae in bonae fidei iudiciis diximus.

 

Mi sono già soffermato altrove sui problemi esegetici posti dalla testimonianza ulpianea. In questa sede è sufficiente, perciò, esporre i contenuti del passo senza indugiare ulteriormente su alcune problematiche di carattere testuale per le quali mi sento di confermare le conclusioni cui sono pervenuto nel corso di precedenti studi.

La ragione che determinò la previsione edittale di un’azione per l’aestimatum è espressa chiaramente da Ulpiano nella prima parte del brano: la fattispecie rem aestimatam vendendam dare presentava profili di contiguità con alcuni contratti tipici quali la vendita, la locatio conductio e il mandato[57], rendendo quindi ogni volta dubbiosa la scelta del mezzo processuale da impiegare tra quelli contemplati nell’albo pretorio per i suddetti contratti consensuali.

Nella seconda parte del passo, dopo il tratto ‘Melius itaque visum est hanc actionem proponi’, che nell’originale ulpianeo doveva probabilmente anticipare l’esposizione del testo della formula[58], sembra potersi scorgere una digressione sul regime di tutela dell’aestimatum per l’epoca durante la quale il contratto aveva assunto una propria autonoma configurazione rispetto a emptio venditio, locatio conductio e mandatum, ma non risultava ancora provvisto di uno specifico mezzo di tutela a livello edittale[59]: a tale proposito Ulpiano riferisce dell’impiego di un’actio praescriptis verbis, ulteriormente qualificata ‘aestimatoriam[60], per tutte quelle ipotesi in cui vi fosse incertezza circa il nomen di qualche contratto e tuttavia fosse opportuno riconoscere una forma di tutela processuale.

Al termine della propria trattazione, Ulpiano segnala il carattere civile e di buona fede dell’aestimatum, nonché, ovviamente, del relativo iudicium, precisazione che, nel quadro complessivo della testimonianza, serve ad individuare la ragione posta a fondamento dell’esigenza di tutela poco prima manifestata.

A prima vista, l’impostazione del discorso ulpianeo sembra corrispondere a quella rilevata in D. 19.5.1.1 a proposito di un caso di locazione marittima[61], dove, pur avendo le parti concluso un contratto tipico, si prevedeva l’impiego di un’actio civilis in factum per ovviare al problema posto dall’incertezza della qualificazione della fattispecie[62] e che, dal punto di vista espositivo, veniva addirittura rappresentato con lo stesso schema ‘utruman…’ ricorrente in D 19.3.1 pr. In realtà, a me pare che tra le due situazioni non possa stabilirsi un rapporto d’identità: la questione relativa all’incerta qualificazione dell’aestimatum cela un problema di fondo molto più simile a quello preso in considerazione in D. 19.5.19 pr., in quanto, per entrambe le ipotesi, il dubbio sul mezzo processuale da accordare[63] sorge in ragione del fatto che la fattispecie presenta una significativa deviazione dai tipi contrattuali coinvolti nell’operazione economica complessiva. Nel caso dell’aestimatum tale deviazione va individuata nella possibilità concessa all’accipiens di sciogliere il vincolo contrattuale nei confronti del tradens semplicemente attraverso la riconsegna della res aestimata, caratteristica non ravvisabile in alcuno dei contratti tipici menzionati, per i quali, anzi, tale eventualità avrebbe integrato un’ipotesi di inadempimento; tanto è vero che, quando Ulpiano si trova a dover esporre le ragioni di dubitatio che determinarono l’introduzione di una tutela ad hoc per l’aestimatum, egli non può far altro che istituire un confronto con situazioni aventi come minimo comun denominatore il successo dell’operazione economica posta in essere dalle parti, ossia la ricezione dell’aestimatio da parte del tradens.

Come per il caso trattato in D. 19.5.19 pr., anche con riguardo all’aestimatum, il tratto distintivo della fattispecie emerge, dunque, nel momento in cui non si realizza l’obiettivo economico perseguito dai contraenti e occorre perciò predisporre un sistema di regole differenti rispetto a quelle utilizzate per i contratti tipici assunti come modello. Sul piano degli equilibri contrattuali, la posizione di vantaggio riconosciuta all’accipiens veniva contemperata dall’attribuzione a quest’ultimo del rischio di perimento fortuito della res aestimata, aspetto che trova opportuna precisazione nella seconda parte del frammento ulpianeo (D. 19.3.1.1):

 

Aestimatio autem periculum facit eius qui suscepit: aut igitur ipsam rem debebit incorruptam reddere aut aestimationem de qua convenit.

 

Sulla scorta dell’insegnamento labeoniano, i profili di somiglianza sussistenti con emptio venditio, locatio conductio e mandatum legittimarono, dunque, una tutela civilistica (ex fide bona) dell’aestimatum, attuabile mediante il ricorso allo strumento processuale dell’agere praescriptis verbis predisposto a suo tempo dal giurista augusteo; in seguito, tale tutela divenne edittale grazie alla propositio in albo di un’azione de aestimato[64]. Lungo questo percorso sono individuabili due momenti particolarmente significativi: il primo riguarda il distacco della conventio de aestimato dalle figure contrattuali già riconosciute all’interno dell’ordinamento giuridico, il secondo l’emersione del tipo caratterizzante la fattispecie rem aestimatam vendendam dare, che anticipa la previsione edittale costituendone il presupposto[65]. In quest’ultima prospettiva va collocato il riferimento ulpianeo all’ambiguitas de nomine contractus alicuius che pone il problema della qualificazione di un contratto per il quale si era già verificata l’emersione del tipo[66]; solo così si può spiegare coma mai il giurista severiano parlasse di ‘contractus (alicuius)’ con riguardo a una fattispecie priva di un proprium nomen in grado di qualificarla dal punto di vista formale. Se per l’aestimatum non fosse stata prevista una configurazione tipica già prima della sua recezione a livello edittale, probabilmente Ulpiano si sarebbe espresso usando il termine ‘conventio’ anziché ‘contractus’, come sembra potersi ricavare dalla lettura di alcuni brani provenienti dal commento ulpianeo all’edictumDe pactis et conventionibus[67].

Prima di tirare le fila del nostro discorso, occorre soffermarsi ancora un momento sui passaggi, fin qui sinteticamente delineati, che contribuirono al riconoscimento dell’aestimatum quale figura contrattuale autonoma e dotata di specifica protezione edittale.

Il frammento ulpianeo conservato in D. 19.3.1 ci offre, infatti, la possibilità di individuare l’elemento su cui si fondò la caratterizzazione dell’aestimatum e, di conseguenza, la sua emersione come tipo contrattuale. Tale elemento è indicato nel paragrafo 1, dove si ricorda la specificità dell’aestimatio[68] che determina l’accollo del periculum derivante dal perimento fortuito della res aestimata in capo alla parte accipiente. La peculiarità dell’aestimatum, ravvisabile nella vantaggiosa possibilità concessa all’accipiens di tradere aestimationem aut rem aestimatam, si collega, dunque, in modo funzionale alla regola di accollo del periculum elaborata per i casi di consegna di una cosa previamente stimata[69].

L’osservazione ulpianea rappresenta, però, il punto di arrivo della riflessione che condusse al riconoscimento dell’aestimatum come contratto tipico; occorre verificare se nelle fonti possa rintracciarsi una testimonianza in grado di attestare quello che abbiamo in precedenza indicato come momento del distacco della conventio de aestimato dalle figure contrattuali tipiche, ossia il momento nel quale la giurisprudenza romana si trovò a dover rilevare, con riguardo a un caso concreto, la deviazione della suddetta convenzione dai contratti ricordati in apertura di D. 19.3.1 pr., avvertendo perciò la necessità di predisporre un sistema di regole differenti rispetto a quelle normalmente applicate per il modello contrattuale di riferimento. Tale testimonianza può essere individuata in D. 19.5.17.1 (Ulp. 28 ad ed.):

 

Si margarita tibi aestimata dedero, ut aut eadem mihi adferres aut pretium eorum, deinde haec perierint ante venditionem, cuius periculum sit? Et ait Labeo, quod et Pomponius scripsit, si quidem ego te venditor rogavi, meum esse periculum: si tu me, tuum: si neuter nostrum, sed dumtaxat consensimus, teneri te hactenus, ut dolum et culpam mihi praestes. Actio autem ex hac causa utique erit praescriptis verbis.

 

In questo passo Ulpiano considera l’ipotesi di Ego che compie una datio di perle previamente stimate a favore di Tu, con l’intesa che l’accipiente restituisca le stesse o il relativo prezzo. Il problema si pone con riguardo al possibile rischio di perimento fortuito delle perle ante venditionem e, a tale proposito, il giurista severiano ricorda il parere di Labeone, seguito sul punto da Pomponio, secondo cui il periculum andrà accollato in capo alla parte che per prima abbia rivolto la rogatio, il che ovviamente sottintende la volontà di utilizzare come criterio quello dell’interesse alla conclusione del negozio. Nel caso in cui nessuna delle due parti abbia chiesto all’altra, ma entrambe abbiano convenuto di concludere l’affare, l’accipiente risponderà solo per dolo e colpa; l’azione comunque nascente ex hac causa sarà quella praescriptis verbis.

La fattispecie presentata in questo brano è stata oggetto di un vivace dibattito in dottrina[70], poiché talora si è ipotizzata la configurazione di un contratto estimatorio, talaltra di una datio ad inspiciendum. Le perplessità legate alla prima soluzione dipendono essenzialmente dal fatto che viene prospettata una regola di accollo del periculum diversa da quella, poc’anzi ricordata, di cui è conservata traccia in D. 19.3.1.1. In ragione di tale discordanza, si è pensato che potesse trattarsi di una vendita con riserva di gradimento, facendo leva, in particolare, sulla qualifica di ‘venditor[71] attribuita al dans.

In passato mi sono espresso a favore di quest’ultima opzione[72], ma ritengo opportuno tornare nuovamente sulla testimonianza ulpianea, i cui profili di contraddittorietà con il passo di D. 19.3.1.1 potrebbero effettivamente trovare spiegazione nell’ambito dello sviluppo dei problemi legati alle forme di riconoscimento e di tutela dell’aestimatum[73].

La prima considerazione da svolgere riguarda la posizione di Ulpiano, il quale, se avesse ritenuto di inquadrare la fattispecie in un aestimatum, si sarebbe certamente discostato dalla soluzione labeoniana in materia di accollo del periculum e avrebbe fatto ricorso al criterio segnalato in D. 19.3.1.1; che il giurista severiano abbia collocato i pareri di Labeone e Pomponio nell’ambito di una trattazione sui problemi nascenti da ipotesi di datio ad inspiciendum sembra provato dal prosieguo del frammento, dove si prendono in considerazione altri casi espressamente ricondotti al rem inspiciendam dare, ma per i quali non si pone la questione della preventiva aestimatio della cosa da ispezionare[74].

Venendo al contesto in cui operava Labeone, è probabile che il giurista augusteo avesse reso il proprio parere con riguardo ad un caso concreto, per la cui configurazione scelse di assumere come modello la vendita con riserva di gradimento; nulla vieta di supporre, però, che la soluzione sarebbe stata diversa, se solo l’albo pretorio avesse già contemplato all’epoca una specifica actio de aestimato. In fin dei conti, la fattispecie descritta in D. 19.5.17.1 poteva ben integrare un’ipotesi di aestimatum, posto che non si escludesse l’opportunità per l’accipiens di vendere a terzi la res aestimata, anziché acquistarla per sé[75]. Ad ogni modo, il procedimento interpretativo testimoniato in questo caso sembra potersi inscrivere nella situazione illustrata da Ulpiano in D. 19.3.1 pr., da cui si ricava che inizialmente l’aestimatum venne tutelato, a seconda del concreto svolgimento negoziale, con le azioni previste per contratti come vendita, locatio conductio e mandato, salvo poi optare per una tutela praescriptis verbis sulla base della somiglianza rilevata tra l’aestimatum e tali figure contrattuali tipiche (‘est enim negotium civile gestum et quidem bona fide’).

In D. 19.5.17.1 si coglie il passaggio dalla prospettiva della vendita a quella di una conventio atipica[76] per la quale occorreva predisporre un criterio ad hoc, ancora una volta finalizzato a regolare le ipotesi di perimento fortuito della res data. Come osservato per il caso esposto in D. 19.5.19 pr. e D. 12.1.11 pr., infatti, l’indirizzo labeoniano affidava a una valutazione dell’interesse alla conclusione del negozio il ruolo decisivo per stabilire chi dovesse sopportare il periculum; anche in quest’occasione, dunque, si finisce per apprestare una regola differente a quella prevista per il modello contrattuale di riferimento[77].

La considerazione dei possibili sviluppi di accordi negoziali come quello descritto in D. 19.5.17.1 dimostra che nella prospettiva labeoniana l’actio praescriptis verbis (actio autem ex hac causa utique erit praescriptis verbis)[78] servì a tutelare ipotesi nelle quali la combinazione di elementi riconducibili a più figure contrattuali tipiche rendeva necessaria la predisposizione di regole calibrate sullo specifico assetto di interessi divisato dalle parti. Ciò significa che Labeone, pur impostando la propria riflessione sulle possibilità di tutela garantite nell’ambito di modelli negoziali consolidati, finì per riconoscere protezione anche a quelle convenzioni che presentavano tratti distintivi tali da impedirne la qualificazione con l’attribuzione di uno specifico nomen contractus. Nel caso dell’aestimatum, si giunse addirittura all’individuazione di un nuovo tipo contrattuale, ma tale risultato rappresenta il punto di arrivo di un percorso iniziato quando ancora la fattispecie rem aestimatam vendendam dare era tutelata grazie alla sua somiglianza con contratti tipici quali vendita, locatio conductio e mandato: l’avvio di una riflessione sulle peculiarità delle convenzioni de aestimato deve ravvisarsi in relazione ad ipotesi come quella riportata in D. 19.5.17.1, da cui si evince che lo sforzo dell’interprete di ricondurre la fattispecie ad un particolare modello contrattuale era finalizzato a garantire una tutela civilistica (ex fide bona), in concreto attuabile mediante il ricorso ai praescripta verba descrittivi della res de qua agitur; nel contempo, va rilevato come il tentativo di operare la sussunzione del caso concreto nel tipo legale venisse frustrato dalla necessità di predisporre per il negotium gestum regole diverse da quelle stabilite per la fattispecie astratta di riferimento.

 

 

5. – Conclusioni

 

In chiusura occorre riepilogare sinteticamente i dati emersi nel corso della presente indagine.

Innanzitutto, appare condivisibile l’orientamento della dottrina più recente in merito agli impieghi labeoniani dell’agere praescriptis verbis, che venne concepito dal giurista augusteo come uno strumento volto a colmare le lacune edittali, laddove la rigidità dei verba formulari non consentisse di proteggere adeguatamente pretese nascenti dalla conclusione di accordi senz’altro inquadrabili in figure contrattuali tipiche. Risultava decisiva, in questo senso, la circostanza che tali contratti tipici fossero tutelati da iudicia bonae fidei: la valutazione ex fide bona del comportamento delle parti permetteva infatti di ampliare i confini di tutela dell’oportere civilistico, garantendone così la funzionalità anche nei casi in cui fosse condizionato a una descrizione della res de qua agitur diversa da quella tipizzata nella demonstratio delle formule edittali (quod…vendidit, locavit, conduxit, etc.).

Labeone procedette allo stesso modo nei casi di incerta qualificazione della fattispecie. A tale proposito, però, bisogna distinguere a seconda che l’incertezza dipendesse dalla possibilità di ricondurre la fattispecie a due modelli posti in rapporto di reciproca esclusione oppure fosse determinata dalla combinazione di elementi provenienti da due schemi negoziali differenti: in questa seconda ipotesi va ravvisata una tendenza all’elaborazione di regole specifiche, da cui deriva il riconoscimento di un’autonoma rilevanza al concreto assetto di interessi predisposto dalle parti. Tale approccio, che muove pur sempre dalla considerazione dei profili di somiglianza con i tipi contrattuali consolidati a livello edittale, permise dunque di individuare una strada per l’azionabilità delle cosiddette convenzioni innominate.

In taluni casi, la valutazione dei tratti distintivi della fattispecie costituì il punto di partenza di una riflessione che condusse all’individuazione di un nuovo tipo contrattuale, come tale dotato di uno specifico mezzo di tutela nell’albo pretorio: è ciò che accadde con riguardo alle ipotesi di rem aestimatam vendendam dare.

Secondo questa linea ricostruttiva, dunque, appare innegabile che le novità introdotte da Labeone sul piano processuale abbiano finito per incidere sulla problematica dei contratti atipici. Se è vero che risulta che il giurista augusteo non abbia compiutamente elaborato la categoria delle conventiones sine nomine, pervenendo all’individuazione di un elemento obiettivo in grado di fondarne l’azionabilità[79], d’altro canto non può disconoscersi l’importanza della sua riflessione in merito ai problemi di tutela posti dalle fattispecie di cui risultava incerta la qualificazione: in questi casi Labeone non solo garantì un’adeguata protezione processuale mediante l’agere praescriptis verbis, ma fu anche in grado di integrare i contenuti dell’accordo stretto dalle parti, secondo un metodo che, con le dovute cautele, si avvicina a quello utilizzato nella prassi giurisprudenziale contemporanea per regolare i rapporti contrattuali non inquadrabili perfettamente in alcuno dei tipi legali; in tale prospettiva, ad esempio, risultano oggi impiegate categorie come quella del contratto misto[80], a cui ricorrono gli interpreti per ridurre il carattere atipico della fattispecie concreta ad una somma di elementi tipici[81], ognuno dei quali riconducibile ad uno specifico schema contrattuale di riferimento[82].

I limiti di questo approccio, con specifico riguardo all’esperienza giuridica romana, vanno individuati nel fatto che la conventio risultava azionabile soltanto laddove presentasse profili di somiglianza con figure contrattuali tutelate da giudizi di buona fede[83], per cui la valutazione sull’opportunità di ampliare i contenuti dell’oportere ex fide bona era pur sempre rimessa alla discrezionalità dell’interprete[84]. Per altro verso, le soluzioni proposte da Labeone per le fattispecie negoziali di confine avviarono una riflessione sui tratti distintivi dei diversi tipi contrattuali, che ebbe come logica conseguenza quella di individuare gli elementi caratterizzanti i nuovi contratti affermatisi nella prassi commerciale, fino a quel momento inquadrati nell’ambito degli schemi già conosciuti e protetti a livello edittale.

 

 

Abstract

 

The research concerns the issue of recognition of atypical contracts in Roman law, with particular emphasis on solutions prepared by Labeo, who, through the ‘agere praescriptis verbis’, developed a system of protection based on the proximity of the ‘conventiones sine nomine’ to typical contracts, with a similar process to that used today to regulate transactions which do not have a specific discipline at the legislative level.

 



 

[ Gli scritti della sezione “Memorie” sono stati oggetto di valutazione da parte dell’organizzazione scientifica del Convegno, d'intesa con la direzione di Diritto @ Storia ]

 

* [ Atti del Convegno di Studi «Nomen contractus. Tutele edittali nella Roma classica», organizzato dal Dipartimento di Scienze Giuridiche dell’Università di Verona (14 maggio 2013), per iniziativa di Tommaso dalla Massara e Carlo Pelloso. n.d.r.]

 

[1] E. SCIANDRELLO, Studi sul contratto estimatorio e sulla permuta nel diritto romano, Trento, 2011; ID., ‘Actio de aestimato’ e tipicità dei mezzi processuali. Riflessioni su Ulp. 32 ‘ad ed.’ D. 19.3.1 pr., in L. GAROFALO (a cura di), ‘Actio in rem’ e ‘actio in personam’. In ricordo di Mario Talamanca, II, Padova, 2011, 959 ss.

 

[2] Oltre alla bibliografia raccolta in E. SCIANDRELLO, Studi, cit., 7 ss. ntt. 5 e 9, in tempi più recenti, si vedano i contributi di C.A. CANNATA, Labeone, Aristone e il sinallagma, in Iura, LVIII, 2010, 33 ss.; N. DONADIO, L’idea di contratto nel pensiero giuridico romano, in S. CHERTI (a cura di), La nozione di contratto nella prospettiva storico-comparatistica. Materiali didattici, Padova, 2010, 1 ss.; G. ROMANO, Nota sulla tutela del contraente evitto nell’ambito dei c.d. contratti innominati. Il caso dell’actio auctoritatis, in Diritto@Storia, IX, 2010 (Tradizione Romana); ID., Brevi considerazioni su Paul. 32 <33> ‘ad ed.’ D. 19.4.1.4: tra tradizione testuale e proposte emendative, in Teoria e storia del diritto privato, V, 2012; ID., Paul. 32 <33> ‘ad ed.’ D. 19.4.1.1: permuta ed evizione in un noto testo paolino, in Teoria e storia del diritto privato, V, 2012; C. PELLOSO, ‘Do ut des’ e ‘do ut facias’. Archetipi labeoniani e tutele acontrattuali nella giurisprudenza romana tra primo e secondo secolo d.C., in L. GAROFALO (a cura di), Scambio e gratuità. Confini e contenuti dell’area contrattuale, Padova, 2011, 89 ss.; T. dalla MASSARA, La causa del contratto nel pensiero di Aristone: della necessità di un concetto, in L. GAROFALO (a cura di), Scambio e gratuità, cit., 175 ss. (con alcune modifiche, già in Seminarios complutenses de derecho romano, XXII, 2009, 251 ss.); M.F. CURSI - R. FIORI, Le azioni generali di buona fede e di dolo nel pensiero di Labeone, in BIDR, CV (4a serie I), 2011, 145 ss.; R. FIORI, ‘Contrahere’ in Labeone, in E. CHEVREAU - D. KREMER - A. LAQUERRIÈRE-LACROIX (ed.), Carmina iuris. Mélanges en l’honneur de Michel Humbert, Paris, 2012, 311 ss.; ID., The Roman Conception of Contract, in T.A.J. McGINN (ed.), Obligations in Roman Law. Past, Present, and Future, Ann Arbor, 2012, 40 ss.; ID., Proculo e l’agere praescriptis verbis, in J. HALLEBEEK - M. SCHERMAIER - R. FIORI - R. METZGER - J.-P. CORIAT (eds.), Inter cives necnon peregrinos. Essays in honour of Boudewijn Sirks, Göttingen, 2014, 257 ss.; A. SANGUINETTI, D. 19.5.22: Gaio e il ‘iudicium quasi de novo negotio’, in Teoria e storia del diritto privato, V, 2012; G. NICOSIA, Celio Sabino e le dispute su ‘permutatio’ ed ‘emptio venditio’, in Iura, LXII, 2014, 17 ss. Per le evidenti implicazioni sul tema dell’atipicità contrattuale non si può prescindere dalla lettura di L. GAROFALO, Gratuità e responsabilità contrattuale, in L. GAROFALO (a cura di), Scambio e gratuità, cit., 1 ss. (da cui cito), ora in F. MILAZZO (a cura di), Affari, finanza e diritto nei primi due secoli dell'impero. Atti del Convegno internazionale di diritto romano. Copanello, 5-8 giugno 2004, Milano, 2012, 351 ss., nonché in Teoria e storia del diritto privato, V, 2012; sulla scia del contributo di Garofalo v. anche le riflessioni svolte da R. FERCIA, «Fiduciam contrahere» e «contractus fiduciae». Prospettive di diritto romano ed europeo, Napoli, 2012, spec. 117 ss.

 

[3] Per un’efficace rappresentazione in termini concreti di questa corrispondenza con specifico riguardo alla materia contrattuale v. C.A. CANNATA, L’‘actio in factum civilis’, in Iura, LVII, 2008-2009, 15 nt. 10.

 

[4] L’Autore che più di ogni altro ha evidenziato l’importanza di questo dato nella valutazione complessiva dei problemi legati al tema dell’atipicità contrattuale nell’esperienza giuridica romana è senza dubbio M. TALAMANCA, v. Contratto e patto nel diritto romano, in Dig. disc. priv. - Sez. civ., IV, Torino, 1989, 58 ss., ora in A. BURDESE (a cura di), Le dottrine contrattualistiche nella giurisprudenza romana, Padova, 2006 (da cui cito), 39 ss., spec. 59 s.; ID., La tipicità dei contratti romani tra ‘conventio’ e ‘stipulatio’ fino a Labeone, in F. MILAZZO (a cura di), ‘Contractus’ e ‘pactum’. Tipicità e libertà negoziale nell’esperienza tardo-repubblicana. Atti del Convegno di diritto romano e della presentazione della nuova riproduzione della “littera Florentina”. Copanello 1-4 giugno 1988, Napoli-Roma, 1990, 35 ss.; ID., ‘Conventio’ e ‘stipulatio’, in N. BELLOCCI (a cura di), Le teorie contrattualistiche romane nella storiografia contemporanea. Atti del convegno di diritto romano. Siena, 14-15 aprile 1989, Napoli, 1991, 163 ss. In tempi recenti, v. anche N. Donadio, L’idea di contratto, cit., 8 ss.

 

[5] Per una sintesi dei problemi al riguardo rinvio a E. SCIANDRELLO, Studi, cit., 12 ss.

 

[6] Naturalmente in connessione all’elaborazione di una nozione di ‘contractus’ capace di accogliere al suo interno anche le figure contrattuali atipiche recanti il requisito dell’ultro citroque obligatio; v. il celebre passo conservato in D. 50.16.19 (Ulp. 11 ad ed.): Labeo libro primo praetoris urbani definit, quod quaedam agantur, quaedam gerantur, quaedam contrahantur: et actum quidem generale verbum esse, sive verbis sive re quid agatur, ut in stipulatione vel numeratione: contractum autem ultro citroque obligationem, quod Graeci sun£llagma vocant, veluti emptionem venditionem, locationem conductionem, societatem: gestum rem significare sine verbis factam. A tal proposito, v. su tutti R. SANTORO, Il contratto nel pensiero di Labeone, in AUPA, XXXVII, 1983, 5 ss., spec. 146 ss. Per alcune osservazioni critiche in merito alla connessione rilevata tra la presente nozione di contratto e gli impieghi labeoniani dell’agere praescriptis verbis v. infra § 5 nt. 84.

 

[7] V. infra § 2.

 

[8] Mi riferisco in particolare a M.F. CURSI - R. FIORI, Le azioni generali, cit., 145 ss.; v. anche R. FIORI, ‘Contrahere’ in Labeone, cit., 321 ss. Un’apertura, in questo senso, va ravvisata già negli studi di C.A. CANNATA, L’‘actio in factum civilis’, cit., 9 ss.; ID., Labeone, cit., 33 ss.

 

[9] V. in particolare i contributi di R. SANTORO, Il contratto, cit., 5 ss.; A. BURDESE, Sul riconoscimento civile dei c.d. contratti innominati, in Iura, XXXVI, 1985, 14 ss.; ID., Osservazioni in tema di c.d. contratti innominati, in Estudios Iglesias, I, Madrid, 1988, 127 ss.; ID., Sul concetto di contratto e i contratti innominati in Labeone, in Atti del seminario sulla problematica contrattuale in diritto romano. Milano, 7-9 aprile 1987, I, Milano, 1988, 15 ss., ora in A. BURDESE (a cura di), Le dottrine, cit., 113 ss. (da cui cito); F. GALLO, ‘Synallagma’ e ‘conventio’ nel contratto. Ricerca degli archetipi della categoria contrattuale e spunti per la revisione di impostazioni moderne, I, Torino, 1992.

 

[10] Nello specifico, C.A. CANNATA, L’‘actio in factum civilis’, cit., 20, ID., Labeone, cit., 98 parla di «azione contrattuale generale, sussidiaria rispetto alle azioni contrattuali tipiche».

 

[11] Sull’affermazione di questo principio v. M. TALAMANCA, La tipicità, cit., 90 e nt. 213. Cfr. anche F. GALLO, ‘Synallagma’, cit., I, 194 s. e M.F. CURSI - R. FIORI, Le azioni generali, cit., 149 e nt. 12.

 

[12] Su questa linea già F. GALLO, ‘Synallagma’, cit., I, 194 e M.F. CURSI - R. FIORI, Le azioni generali, cit., 149. Di avviso contrario, invece, A. BURDESE, Sul concetto, cit., 32, ora in A. BURDESE (a cura di), Le dottrine, cit., 130 e C.A. CANNATA, Contratto e causa nel diritto romano, in L. VACCA (a cura di), Causa e contratto nella prospettiva storico-comparatistica. II Congresso Internazionale ARISTEC (Palermo, 7-8 giugno 1995), Torino, 1997, 194 s., ora in A. BURDESE (a cura di), Le dottrine, cit., 195. Ad ogni modo, mi pare insuperabile l’osservazione di Fiori secondo cui «una compravendita sottoposta a condizione sospensiva, per quanto divenuta inefficace, non si trasforma per ciò stesso in un novum negotium».

 

[13] M.F. CURSI - R. FIORI, Le azioni generali, cit., 149.

 

[14] M.F. CURSI - R. FIORI, Le azioni generali, cit., 149 e 151.

 

[15] Sull’incidenza della violazione della bona fides nella valutazione dei presupposti per giungere al riconoscimento di un agere praescriptis verbis da parte di Labeone v. F. GALLO, ‘Synallagma’, cit., I, 195.

 

[16] In questo caso, perciò, l’atipicità non riguardava il contenuto negoziale, che abbiamo visto essere quello di un contratto tipico, ma, più banalmente, i verba della demonstratio, la cui rigidità nella descrizione della res de qua agitur impediva l’impiego dell’azione edittale; sulla fondamentale distinzione tra atipicità dell’azione e atipicità della fattispecie si rinvia ancora una volta a M.F. CURSI - R. FIORI, Le azioni generali, cit., 180 ss.

 

[17] Così già C.A. CANNATA, L’‘actio in factum civilis’, cit., 16 e M.F. CURSI - R. FIORI, Le azioni generali, cit., 147.

 

[18] Cfr. R. SANTORO, Il contratto, cit., 96 ss.; ID., ‘Actio civilis in factum’, ‘actio praescriptis verbis’ e ‘praescriptio’, in Studi in onore di Cesare Sanfilippo, IV, Milano, 1983, 683 ss., ora in Scritti minori, I, Torino, 2009, 257 ss.; ID., Aspetti formulari della tutela delle convenzioni atipiche, in N. BELLOCCI (a cura di), Le teorie contrattualistiche, cit., 83 ss., ora in Scritti minori, I, cit., 349 ss.; F. GALLO, ‘Synallagma’, cit., I, 235 ss.; M. ARTNER, Agere praescriptis verbis. Atypische Geschäftsinhalte und klassisches Formularverfahren, Berlin, 2002, 86 ss.; C.A. CANNATA, L’‘actio in factum civilis’, cit., 9 ss., spec. 20; M.F. CURSI - R. FIORI, Le azioni generali, cit., 146. Dubitava della classicità della qualifica ‘civilis in factum’, ma non della corrispondenza all’agere praescriptis verbis labeoniano, A. BURDESE, Sul concetto, cit., 37 s., ora in A. BURDESE (a cura di), Le dottrine, cit., 134 s.

 

[19] Sul punto v. M. TALAMANCA, La tipicità, cit., 100 nt. 250. Più propenso a credere che la qualifica dell’azione sia da attribuire alla mano di Papiniano F. GALLO, ‘Synallagma’, cit., I, 242.

 

[20] Per una sintesi di questi problemi rinvio a E. SCIANDRELLO, Studi, cit., 13 e ntt. 15-16.

 

[21] C.A. CANNATA, L’‘actio in factum civilis’, cit., 16; M.F. CURSI - R. FIORI, Le azioni generali, cit., 147.

 

[22] Sul punto v. R. FIORI, La definizione della ‘locatio conductio’. Giurisprudenza romana e tradizione romanistica, Napoli, 1999, 128 ss.

 

[23] A tal proposito v. quanto già osservato in E. SCIANDRELLO, Studi, cit., 120. Sul punto pare condivisibile l’opinione di C. PELLOSO, ‘Do ut des’, cit., 152 e nt. 114 (sulla scia di A. BURDESE, Su alcune testimonianze celsine, in Mélanges en l’honneur de Carlo Augusto Cannata, Bâle-Genève-Munich, 1999, 13 e nt. 38), secondo cui la prova della natura decretale delle azioni alle quali i giuristi si riferiscono usando il gerundivo ‘dandam’ andrebbe ravvisata nel fatto che, dal punto di vista del pretore, ciò esprime una ‘possibilità’, anziché una ‘doverosità’.

 

[24] Stando al caso prospettato in D. 19.5.1.1, l’alternativa si sarebbe posta tra ‘quod…merces vehendas locavit’ e ‘quod…navem conduxit’.

 

[25] Sul problema legato all’esatta posizione della praescriptio, se all’interno della formula o anteposta alla iudicis nominatio, v. quanto già osservato in E. SCIANDRELLO, Studi, cit., 152 ss., 369 ss. (371 nt. 418 per ragguagli bibliografici, a cui vanno aggiunte le recenti considerazioni espresse al riguardo da M.F. CURSI - R. FIORI, Le azioni generali, cit., 145 s. nt. 1).

 

[26] Su questi problemi e sulla specificità della locatio conductio con riguardo alla presenza di diversi «modelli negoziali» all’interno del «tipo» v. R. FIORI, La definizione, cit., spec. 297 ss.

 

[27] Per un’approfondita analisi del passo, specialmente con riguardo al superamento dei dubbi di genuinità avanzati dalla dottrina più risalente, v. R. SANTORO, Il contratto, cit., 134 ss.

 

[28] Sull’opportunità di ricondurre questa spiegazione al pensiero di Labeone, anziché a quello di Ulpiano, v. A. SCHIAVONE, Studi sulle logiche dei giuristi romani. ‘Nova negotia’ e ‘transactio’ da Labeone a Ulpiano, Napoli, 1971, 92; R. SANTORO, Il contratto, cit., 140 s.; F. GALLO, ‘Synallagma’, cit., I, 181 s.; M.F. CURSI - R. FIORI, Le azioni generali, cit., 158. Da ultimo, v. anche A. SANGUINETTI, D. 19.5.22, cit., 60 e, specialmente, nt. 50 per una dettagliata esposizione delle tesi avanzate in dottrina.

 

[29] In questo senso, si veda la traduzione di F. GALLO accolta in S. SCHIPANI (a cura di), Iustiniani Augusti Digesta seu Pandectae. Digesti o Pandette dell’Imperatore Giustiniano. Testo e traduzione, III (12-19), Milano, 2007, 467 s. Su questo tratto del brano torneremo più avanti nel corso della trattazione; per una sintesi delle soluzioni interpretative prospettate in dottrina si rinvia a A. SANGUINETTI, D. 19.5.22, cit., 62 s. nt. 52.

 

[30] A favore di questa interpretazione E. BETTI, Sul valore dogmatico della categoria ‘contrahere’ in giuristi proculiani e sabiniani, in BIDR, XXVIII, 1915, 32 e A. SCHIAVONE, Studi, cit., 91.

 

[31] V. per tutti R. SANTORO, Il contratto, cit., 138; A. BURDESE, Sul riconoscimento civile, cit., 32; F. GALLO, ‘Synallagma’, cit., I, 180 nt. 43. Intermedia, invece, la posizione di M.F. CURSI - R. FIORI, Le azioni generali, cit., 157 secondo cui non può escludersi del tutto la possibilità di configurare un caso di aestimatum: «la richiesta di nummi da parte di Tu costituisce un parametro pecuniario cui corrisponde la scelta di Ego di fornire la res evidentemente stimata proporzionale alla richiesta, cosicché l’aestimatio risulta per facta concludentia dalla struttura stessa del negozio». Sulla ragione che ci porta a scartare questa ipotesi v. infra nel testo.

 

[32] Cfr. O. LENEL, Palingenesia iuris civilis, II, Leipzig, 1889 (rist. a cura di L. CAPOGROSSI COLOGNESI, Roma, 2000), c. 624, che include il brano ulpianeo tra quelli dedicati al commento della rubrica ‘mandati vel contra’. Non pare fondata, invece, l’ipotesi del Lenel (Palingenesia, cit., I, c. 514) circa l’originaria collocazione del parere labeoniano sotto la clausola edittale ‘de aestimato’, in quanto, come già rilevato da A. SANGUINETTI, D. 19.5.22, cit., 65 nt. 54, è altamente improbabile che un’azione specifica de aestimato fosse già stata prevista nell’albo pretorio al tempo del giurista augusteo (sul punto v. E. SCIANDRELLO, Studi, cit., 104 nt. 84 e le considerazioni che svolgeremo infra § 4).

 

[33] Alternativa che deriva dall’aestimatio della res vendenda fatta dal tradens e di cui non vi è traccia nel passo ulpianeo (cfr. E. SCIANDRELLO, Studi, cit., 107 ss., 191 s.; su questa linea anche A. SANGUINETTI, D. 19.5.22, cit., 65 s. nt. 54).

 

[34] Sul punto v. già M.F. CURSI - R. FIORI, Le azioni generali, cit., 158.

 

[35] D. 12.1.11 pr. (Ulp. 26 ad ed.): Rogasti me, ut tibi pecuniam crederem: ego cum non haberem, lancem tibi dedi vel massam auri, ut eam venderes et nummis utereris. Si vendideris, puto mutuam pecuniam factam. Quod si lancem vel massam sine tua culpa perdideris prius quam venderes, utrum mihi an tibi perierit, quaestionis est. Mihi videtur Nervae distinctio verissima existimantis multum interesse, venalem habui hanc lancem vel massam nec ne, ut, si venalem habui, mihi perierit, quemadmodum si alii dedissem vendendam: quod si non fui proposito hoc ut venderem, sed haec causa fuit vendendi, ut tu utereris, tibi eam perisse, et maxime si sine usuris credidi.

 

[36] R. SANTORO, Il contratto, cit., 140 ipotizza che questo interesse possa astrattamente ravvisarsi nella speranza, coltivata da Ego, di vedere corrisposta per la vendita della res una somma superiore rispetto a quella richiesta a mutuo da Tu. Oltre a questa eventualità, certamente configurabile, ritengo si possa individuare un interesse anche nel semplice proposito di affidare ad altri il compito (magari difficile) di vendere un bene proprio; nel caso di specie, non si può dunque escludere che la richiesta di prestito di denaro effettuata da Tu abbia indotto Ego a cogliere l’opportunità di disfarsi di beni che evidentemente aveva già in animo di vendere.

 

[37] R. SANTORO, Il contratto, cit., 139.

 

[38] D. 1.2.2.48 (Pomp. l. sing. ench.): Et ita Ateio Capitoni Massurius Sabinus successit, Labeoni Nerva, qui adhuc eas dissensiones auxerunt. Hic etiam Nerva Caesari familiarissimus fuit. Massurius Sabinus in equestri ordine fuit et publice primus respondit: posteaque hoc coepit beneficium dari, a Tiberio Caesare hoc tamen illi concessum erat.

 

[39] Sul punto R. SANTORO, Il contratto, cit., 140 si limita a osservare quanto segue: «se ne deve desumere» – dalla mancanza di un esplicito riferimento all’interesse del dans in D. 19.5.19 pr. – «che Labeone abbia considerato solo quest’ultimo caso» – ossia quello in cui tale interesse non è ravvisabile – «e abbia perciò del tutto escluso che nella fattispecie ricorressero gli estremi del mandato? Noi crediamo che l’ammetterlo significherebbe avere ben scarso concetto della sensibilità interpretativa di quel giurista».

 

[40] Cfr. O. LENEL, Palingenesia, cit., I, c. 787.

 

[41] Collegato al precedente ‘ita’, che a questo punto non sarebbe introduttivo della frase incidentale ‘ut Labeo ait’; sul punto v. R. SANTORO, Il contratto, cit., 141 s. Per ulteriori ragguagli bibliografici sul punto v. A. SANGUINETTI, D. 19.5.22, cit., 62 nt. 52.

 

[42] Sul valore comparativo ipotetico di ‘quasi’ quando usato davanti a nomi o participi in ablativo assoluto v. A. TRAINA - T. BERTOTTI, Sintassi normativa della lingua latina. Teoria3, Bologna, 2003, 472.

 

[43] Su questo aspetto v. già A. SCHIAVONE, Studi, cit., 92. Secondo M.F. CURSI - R. FIORI, Le azioni generali, cit., 159 va sottolineata l’importanza di ‘quodam’ che, accostato a ‘quasi’, «esprime una sfumatura di significato ben precisa, e cioè la volontà di attenuare l’arditezza di un paragone». Da ultimo, v. anche A. SANGUINETTI, D. 19.5.22, cit., 62 e nt. 51 ove bibliografia sul punto.

 

[44] Così anche M.F. CURSI - R. FIORI, Le azioni generali, cit., 159. Secondo A. SANGUINETTI, D. 19.5.22, cit., 62 s., invece, la sfumatura di significato più appropriata sarebbe quella di «contratto inteso in senso proprio», cosicché, nell’ambito della giustificazione complessivamente considerata (‘quasi…contractus’), si esprimerebbe la necessità di tutelare il negotium «in forza di una finzione: poiché Ego e Tu hanno gestito l’affare come se avessero dato esecuzione ad un contratto propriamente inteso, anche se in realtà un contratto non era stato concluso, è opportuno agire praescriptis verbis»; tale interpretazione sarebbe giustificata, secondo lo studioso (op. cit., 67 s.), dal fatto che nella datio rei vendendae non è ravvisabile il requisito dell’ultro citroque obligatio previsto nella nozione labeoniana di contratto. In realtà, a me pare che qui ‘proprius’ abbia un valore corrispondente a ‘specifico’, ‘particolare’, ‘peculiare’ (cfr. anche F. GALLO, ‘Synallagma’, cit., I, 181); in assenza di altre attestazioni del sintagma ‘proprius contractus’, si veda l’accostamento dell’aggettivo all’espressione ‘nomen contractus’ in D. 2.14.7.1 (Ulp. 4 ad ed.), ove, con riguardo alle convenzioni che generano azioni, si afferma che ‘in suo nomine non stant, sed transeunt in proprium nomen contractus’, intendendosi evidentemente che la conventio passa in un particolare nomen contractus, ossia assume una specifica denominazione contrattuale (cfr. C.A. CANNATA, L’‘actio in factum civilis’, cit., 12). Tale significato appare consono rispetto al problema di valutare come specifica e, dunque, unitaria una fattispecie (il negotium gestum appunto) nella quale vengono coinvolti elementi riconducibili a due distinti schemi contrattuali; inoltre, come avremo modo di osservare in seguito (v. infra § 5 nt. 84), non sembra che, nelle soluzioni concrete adottate da Labeone, l’impiego dell’agere praescriptis verbis fosse condizionato dall’esigenza di individuare nella fattispecie considerata il requisito dell’ultro citroque obligatio.

 

[45] Nella stessa prospettiva sembra potersi collocare la testimonianza conservata in D. 18.1.80.3 (Lab. 5 post. a Iav. epit.): Nemo potest videri eam rem vendidisse, de cuius dominio id agitur, ne ad emptorem transeat, sed hoc aut locatio est aut aliud genus contractus. Sul punto v. M. TALAMANCA, La tipicità, cit., 103 nt. 261. In tempi recenti, v. la posizione di R. FIORI, ‘Contrahere’ in Labeone, cit., 320 s., il quale, oltre a dubitare del fatto che l’espressione ‘aliud genus contractus’ potesse riferirsi a un contratto atipico (v. in particolare nt. 36, ove si ricorda l’interpretazione risalente ad ACCURSIUS, gl. genus contractus ad D. 18.1.80.3), rileva come in questa testimonianza il problema di Labeone fosse «solo quello della determinazione del tipo contrattuale ai fini della scelta dell’actio». Sulla prima osservazione ci sentiamo di dissentire, poiché non si comprende a quale altra figura contrattuale tipica (oltre alla locatio) potesse essere ricondotta l’ipotesi descritta nel passo; con riguardo alla seconda, invece, è realistico pensare che Labeone avesse in mente il problema della tutela processuale e che, quindi, cercasse di individuare gli elementi riconducibili ad uno o più contratti tipici per verificare la possibilità di concedere un rimedio edittale. L’annotazione finale, però, rileva che il giurista non considerava perfettamente integrato alcun contratto tipico, evidentemente perché, come in D. 19.5.19 pr., l’assetto di interessi predisposto dalle parti prevedeva la combinazione di elementi provenienti da due tipi contrattuali distinti (vendita e locazione).

 

[46] Di per sé non decisivo visto quanto rilevato supra § 2.

 

[47] Su questo dato si fonda invece l’esclusione del carattere atipico della conventio secondo la ricostruzione proposta da M.F. CURSI - R. FIORI, Le azioni generali, cit., 160 (v. anche nt. 62, dove viene richiamato D. 12.1.11 pr., evidentemente nel tratto in cui si afferma ‘si vendideris, puto mutuam pecuniam factam’).

 

[48] Nell’ambito della letteratura civilistica contemporanea v. per tutti R. SACCO - G. DE NOVA, Il contratto3, II, in R. SACCO (diretto da), Trattato di diritto civile, Torino, 2004, 448 ss. Nel panorama scientifico italiano, il primo contributo monografico espressamente dedicato al tema risulta essere quello di G. DE GENNARO, I contratti misti. Delimitazione, classificazione e disciplina. Negotia mixta cum donatione, Padova, 1934, nella cui introduzione l’Autore, dopo aver segnalato i primi tentativi di «elaborazione dommatica e sistematica della categoria dei contratti misti» ad opera di studiosi di area germanica, rilevava come, in fin dei conti, il problema posto da questo genere di rapporti contrattuali fosse persistente anche nelle esperienze giuridiche del passato, in quanto espressione di un fenomeno connesso alla continua evoluzione della realtà sociale. Per tale ragione, la categoria dei contratti misti è stata da sempre accostata a quella dei contratti atipici, talvolta intesa come specificazione di quest’ultima, talaltra come categoria intermedia tra i contratti nominati e quelli innominati (per ragguagli bibliografici e giurisprudenziali v. R. SACCO - G. DE NOVA, Il contratto, II, cit., 439 s. nt. 1 e 448 s. ntt. 1-3), suscitando in questo modo il problema più pesantemente avvertito dalla dottrina civilistica e riducibile all’interrogativo posto già a suo tempo da De Gennaro (op. cit., 3): «sussunzione sotto un tipo legale o considerazione come un contratto innominato?». A questo interrogativo la prassi giurisprudenziale ha risposto seguendo senz’altro la prima soluzione, tanto da giustificare alcune reazioni in dottrina che in tale atteggiamento ha ravvisato una forte limitazione al principio di autonomia negoziale sancito in sede codicistica (art. 1322 c.c.); tra i primi ad avviare questa riflessione vanno segnalati R. SACCO, Autonomia contrattuale e tipi, in Riv. trim. dir. proc. civ., 1966, 785 ss. e G. DE NOVA, Il tipo contrattuale, Padova, 1974 (rist. anastatica con premessa e postfazione dell’Autore, Napoli, 2014).

 

[49] Sul punto v. R. SACCO - G. DE NOVA, Il contratto, II, cit., 449 s., dove si osserva che la tendenza della giurisprudenza è quella di procedere all’applicazione della disciplina del contratto giudicato prevalente, anziché, come suggerisce la dottrina, combinare le regole dei due tipi contrattuali.

 

[50] Si noti come le differenti soluzioni adottate nell’ambito dei casi tipici di mandato e mutuo siano conseguenti all’applicazione della regola generale ‘res perit domino’: è quindi probabile che, per la specifica ipotesi presa in esame da Labeone e poi da Nerva, la valutazione circa la sussistenza o meno dell’interesse del dans fosse legata anche al giudizio sugli effetti della dazione compiuta da quest’ultimo, che solo in un caso (quello più vicino al mutuo) era da considerarsi traslativa della proprietà.

 

[51] A seconda che il dominus mercium venisse considerato conductor navis o locator mercium vehendarum; v. supra § 2.

 

[52] Cfr. M.F. CURSI - R. FIORI, Le azioni generali, cit., 180 ss.

 

[53] Per tutti v. M. TALAMANCA, Note su Ulp. 11 ‘ad ed.’ D. 4.3.9.3. Contributo alla storia dei c.d. contratti innominati, in Scritti in onore di Elio Fazzalari, I, Milano, 1993, 238; ID., La ‘bona fides’ nei giuristi romani: «Leerformeln» e valori dell’ordinamento, L. GAROFALO (a cura di), Il ruolo della buona fede oggettiva nell’esperienza giuridica storica e contemporanea. Atti del Convegno internazionale di studi in onore di Alberto Burdese (Padova-Venezia-Treviso, 14-15-16 giugno 2001), IV, Padova, 2003, 54.

 

[54] Cfr. M.F. CURSI - R. FIORI, Le azioni generali, cit., 181 s. (e nt. 129 dove è richiamata sul punto la posizione di A. PERNICE, Parerga. III. Zur Vertragslehre der römischen Juristen, in ZSS, IX, 1888, 252 ss.); v. anche R. FIORI, ‘Contrahere’ in Labeone, cit., 323.

 

[55] Questa espressione viene qui impiegata per evocare il moderno sintagma ‘nuovi contratti’, con cui generalmente si indicano gli schemi contrattuali disciplinati dal legislatore successivamente all’entrata in vigore del Codice Civile o, più semplicemente, quelli che, pur non trovando specifica regolamentazione nella legge, hanno assunto una stabile configurazione nella prassi negoziale; cfr. R. SACCO - G. DE NOVA, Il contratto, II, cit., 455 s.

 

[56] Per ragguagli bibliografici sul passo rinvio a E. SCIANDRELLO, Studi, cit., 100 nt. 80.

 

[57] Cfr. E. SCIANDRELLO, Studi, cit., 107 ss.

 

[58] Cfr. E. SCIANDRELLO, Studi, cit., 125 e nt. 128.

 

[59] Cfr. E. SCIANDRELLO, Studi, cit., 122 ss. ntt. 124-126, 160 ss.; ID., ‘Actio de aestimato’, cit., 991 ss.

 

[60] Sui problemi posti dalla presenza dell’aggettivo ‘aestimatoriam’ e sulle proposte emendative avanzate in dottrina v. E. SCIANDRELLO, ‘Actio de aestimato’, cit., 976 ss.

 

[61] V. supra § 2.

 

[62] Colgono questa continuità C.A. CANNATA, L’‘actio in factum civilis’, cit., 21 s. e M.F. CURSI - R. FIORI, Le azioni generali, cit., 152.

 

[63] Come osservato supra § 3, pur in assenza di un esplicito riferimento alla possibilità di azionare la conventio mediante rimedi edittali, è evidente che, per il caso riportato in D. 19.5.19 pr., l’alternativa si poneva tra una condictio e un’actio mandati, mezzi rispetto ai quali veniva giudicato più sicuro (‘tutius’) agere praescriptis verbis.

 

[64] Sulle possibili differenze tra il programma di giudizio usato in via decretale e quello poi concepito a livello edittale rinvio a E. SCIANDRELLO, Studi, cit., 147 ss.

 

[65] A tale riguardo C. BEDUSCHI, A proposito di tipicità e atipicità dei contratti, in Riv. dir. civ., XXXII, 1986, 351 osserva: «se si guardano le cose a fondo, occorre riconoscere che il carattere della legalità non è essenziale al fenomeno della tipicità, ed anzi l’offusca, in quanto l’indiscutibilità del dettato legislativo mette in ombra le vere ragioni di sussistenza del modello, rappresentate…dalla sua coerenza interiore». È quasi superfluo rilevare che questo discorso riguarda non solo l’esperienza giuridica attuale, ma anche quella del passato; sul punto avremo modo di tornare infra § 5 nt. 81.

 

[66] Cfr. C. BEDUSCHI, A proposito, cit., 352 il quale riconosce al termine ‘tipo’ una doppia valenza, poiché «sta ad esprimere ciò che è caratteristico, peculiare, e però nel medesimo tempo ricorrente, uniforme».

 

[67] Mi riferisco a D. 2.14.1.4 (Ulp. 4 ad ed.): Sed conventionum pleraeque in aliud nomen transeunt: veluti in emptionem, in locationem, in pignus vel in stipulationem, ma soprattutto a D. 2.14.7 pr. (Ulp. 4 ad ed.): Iuris gentium conventiones quaedam actiones pariunt, quaedam exceptiones. 1. Quae pariunt actiones, in suo nomine non stant, sed transeunt in proprium nomen contractus: ut emptio venditio, locatio conductio, societas, commodatum, depositum et ceteri similes contractus. Sulla collocazione palingenetica di questi notissimi brani v. O. LENEL, Palingenesia, cit., II c. 431 e 432. Sui problemi che la sequenza ulpianea pone con riguardo alla materia contrattuale – specialmente in relazione al celebre dictum di Pedio (D. 2.14.1.3) per cui ‘nullum esse contractum, nullam obligationem, quae non habeat in se conventionem’ – v. L. GAROFALO, Gratuità, cit., 45 ss.

 

[68] Sull’importanza di questo elemento v. C. BEDUSCHI, A proposito, cit., 363 ss.,

 

[69] Sugli effetti dell’aestimatio con riguardo al profilo del periculum v. quanto già osservato in E. SCIANDRELLO, Studi, cit., 85 ss.

 

[70] V. la bibliografia raccolta in E. SCIANDRELLO, Studi, cit., 172 nt. 223, 174 nt. 226, a cui vanno aggiunti i recenti contributi di M.F. CURSI - R. FIORI, Le azioni generali, cit., 151 ss. e F. ZABATTA, Contratto estimatorio e permuta in diritto romano, in SDHI, LXXIX, 2013, 970 ss.

 

[71] Sui problemi di tradizione testuale legati all’impiego di questo termine v. E. SCIANDRELLO, Studi, cit., 176 ss.

 

[72] V. E. SCIANDRELLO, Studi, cit., 178 ss.

 

[73] In questo senso, accolgo i rilievi mossi alla mia interpretazione da F. ZABATTA, Contratto estimatorio, cit., 972 s.; ritengo perciò opportuno collocare il parere di Labeone in una prospettiva diacronica che tenga conto della possibilità che il giurista augusteo stesse proponendo una soluzione per un caso concreto sottoposto al suo giudizio (in tale direzione v. anche l’osservazione di C.A. CANNATA, recensione a E. SCIANDRELLO, Studi, cit., in Iura, LX, 2012, 326).

 

[74] Cfr. D. 19.5.17.2 (Ulp. 28 ad ed.): Papinianus libro octavo quaestionum scripsit, si rem tibi inspiciendam dedi et dicas te perdidisse, ita demum mihi praescriptis verbis actio competit, si ignorem ubi sit: nam si mihi liqueat apud te esse, furti agere possum vel condicere vel ad exhibendum agere. Secundum haec, si cui inspiciendum dedi sive ipsius causa sive utriusque, et dolum et culpam mihi praestandam esse dico propter utilitatem, periculum non: si vero mei dumtaxat causa datum est, dolum solum, quia prope depositum hoc accedit. Si veda anche il § 4: Si, cum mihi vestimenta venderes, rogavero, ut ea apud me relinquas, ut peritioribus ostenderem, mox haec perierint vi ignis aut alia maiore, periculum me minime praestaturum: ex quo apparet utique custodiam ad me pertinere.

 

[75] Nell’impostazione complessiva del frammento ulpianeo, invece, si restringe la soluzione labeoniana alla logica della vendita con riserva di gradimento.

 

[76] Di avviso contrario M.F. CURSI - R. FIORI, Le azioni generali, cit., 153.

 

[77] Non può escludersi, inoltre, che la previsione di un simile criterio per l’accollo del periculum, in cui, oltre alla possibile rogatio rivolta da una delle parti, si contemplava in via residuale anche l’ipotesi ‘si…dumtaxat consensimus’, fosse giustificata dalla necessità di porre attenzione agli eventuali profili di somiglianza con un’altra figura contrattuale tipica, il mandato, di cui occorreva valutare l’emersione qualora l’accipiens avesse ricevuto le perle stimate con l’obiettivo concordato di venderle: in questo modo, l’indagine volta a individuare chi per primo avesse effettuato la rogatio sarebbe risultata consona alla prospettiva del mandato (a vendere), mentre quella residuale si sarebbe adattata meglio alla vendita con riserva di gradimento a favore di Tu.

 

[78] Pur volendo attribuire quest’ultima frase ad Ulpiano, non paiono sussistere dubbi sul fatto che Labeone suggerisse già di fare ricorso all’agere praescriptis verbis. Sul punto v. R. SANTORO, Il contratto, cit., 119 s.; A. BURDESE, Sul riconoscimento civile, cit., 22 s.; M. TALAMANCA, La tipicità, cit., 98; F. GALLO, ‘Synallagma’, cit., I, 201 s. La questione non viene sollevata, infatti, da M.F. CURSI - R. FIORI, Le azioni generali, cit., 152.

 

[79] Tale scopo venne perseguito, invece, da Aristone, come attesta il celebre passo ulpianeo conservato in D. 2.14.7.2 (Ulp. 4 ad ed.): Sed et si in alium contractum res non transeat, subsit tamen causa, eleganter Aristo Celso respondit esse obligationem. Ut puta dedi tibi rem ut mihi aliam dares, dedi ut aliquid facias: hoc sun£llagma esse et hinc nasci civilem [obligationem]<actionem>…; per ragguagli bibliografici sul passo rinvio a E. SCIANDRELLO, Studi, cit., 241 nt. 91, a cui va aggiunto il recente contributo di C. PELLOSO, ‘Do ut des’, cit., 89 ss., spec. 125 ss.

 

[80] V. supra § 3 nt. 48. Oltre alla categoria del contratto misto, la dottrina civilistica e la prassi giurisprudenziale hanno individuato quella del contratto complesso, distinta dalla prima perché riguarda convenzioni che presentano tutti gli elementi essenziali di due tipi legali, anziché solo alcuni in combinazione tra loro. Sul punto v. E. ROPPO, v. Contratto, in Dig. disc. priv. - Sez. civ., IV, Torino, 1989, 120. Sui problemi legati all’effettiva tenuta dei confini individuati per distinguere queste due categorie v. R. SACCO - G. DE NOVA, Il contratto, II, cit., 448 s.

 

[81] Su questo versante non sono mancate manifestazioni di perplessità da parte di autorevoli esponenti della dottrina civilistica: in particolare, secondo R. SACCO, Autonomia contrattuale, cit., 788, tale approccio al fenomeno dell’atipicità finisce per svilire il principio di autonomia contrattuale sancito dal nostro ordinamento, al punto da non poter attribuire ad esso alcuna funzione se non quella di impedire che il giudice dichiari nulli gli accordi non inquadrabili in alcuno dei tipi previsti dalla legge. A tale obiezione ha efficacemente risposto C. BEDUSCHI, A proposito, cit., 351 ss., osservando che il tipo, se correttamente inteso dal punto di vista concettuale, ossia come schema che permette di cogliere le connessioni tra i singoli elementi di cui è composto, non può costituire un limite all’autonomia contrattuale, bensì un prezioso supporto al quale l’interprete si affida per risolvere coerentemente questioni ricorrenti nell’ambito dei rapporti contrattuali instaurati di volta in volta dalle parti.

 

[82] Il richiamo all’esperienza civilistica italiana serve in questa sede per evidenziare la persistenza di alcuni aspetti intimamente connessi al fenomeno dell’atipicità negoziale e che prescindono, dunque, dal fatto di essere collocati in una realtà giuridica disposta ad accogliere il principio di autonomia contrattuale. In particolare, tali aspetti riguardano la mentalità tipizzante con cui gli interpreti si pongono dinanzi ai casi concreti di convenzioni atipiche; ciò è da ascrivere principalmente a due fattori: da un lato, è difficile immaginare che in una qualunque fattispecie non possa ravvisarsi almeno un elemento riconducibile a una figura contrattuale conosciuta (cfr. E. ROPPO, v. Contratto, cit., 119), dall’altro, va considerata la propensione dell’interprete ad operare secondo regole e principi consolidati all’interno dell’ordinamento giuridico in vista di una sua complessiva coerenza (sul punto v. G. DE NOVA, Il tipo, cit., 3 ss.).

 

[83] Secondo M. TALAMANCA, La tipicità, cit., 99, non può escludersi che, al tempo di Labeone, il recente fenomeno di civilizzazione dei iudicia bonae fidei avesse determinato per i «giuristi una maggiore libertà nel concedere – sul piano del ius civile – azioni, al di fuori dei limiti rigorosi in astratto derivanti dalla “tipicità” del sistema».

 

[84] Come già osservava M. TALAMANCA, La tipicità, cit., 102 s. e nt. 261, la definizione labeoniana di contratto – conservata in D. 50.16.19 (v. supra nt. 6) – pare non rilevare nelle decisioni concrete del giurista augusteo; laddove è attestato l’impiego del termine ‘contractus’ con riguardo a casi concreti di convenzione atipica (tra i testi che abbiamo richiamato nella presente indagine, si veda principalmente D. 19.5.19 pr., ma anche D. 18.1.80.3 riportato supra § 3 nt. 45), sembra infatti che Labeone si ponesse il problema della vicinanza della fattispecie a figure contrattuali conosciute, piuttosto che della sussistenza in essa del requisito dell’ultro citroque obligatio. Posto in questi termini, il problema non è dunque quello di verificare se Labeone avesse elaborato una nozione di ‘contractus’ capace di accogliere al suo interno anche le convenzioni atipiche; l’apertura all’atipicità si realizzò attraverso una riflessione sulle caratteristiche essenziali dei singoli tipi contrattuali e sul loro impiego come schemi interpretativi per l’individuazione di nuove fattispecie negoziali, alle quali si poteva riconoscere tutela civilistica mediante l’agere praescriptis verbis negli spazi concessi dalla procedura formulare, ossia nei casi in cui l’editto prevedeva per uno dei modelli contrattuali di riferimento una protezione affidata a un iudicium bonae fidei.