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Buffoni-Foto 67 -1Appunti per una semantica della rappresentanza politica. Note ‘libere’ dall’incontro sassarese su “La rappresentanza nel diritto pubblico”

 

LAURA BUFFONI

Università di Sassari

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SOMMArI0: 1. La rappresentanza e l’horror vacui. – 2. L’involuzione della rappresentanza politica e la circolarità della storia. – 3. La critica della rappresentanza: l’inganno della persona ficta vel repraesentata ed il recupero del contratto romano di societas. – 3.1. Le aporie del democraticismo deliberativista e del repubblicanesimo civico: dalla rappresentanza non si esce?. – 4. La rappresentanza e le ‘categorie della politica’: sostituzione di persone o sostituzione di volontà? – 4.1. La ‘costruzione’ del rappresentato: per una teoria interpretativa delle disposizioni costituzionali sulla rappresentanza. – 5. Conclusioni. – Abstract.

 

 

1. – La rappresentanza e l’horror vacui

 

Dinnanzi al tema della rappresentanza politica, il giuspubblicista prova l’horror vacui di chi fatica non solo a dominare la dimensione sacrale-teologica della rappresentanza, ma, soprattutto, a mettere a profitto, a tradurre, a riscrivere l’approccio filosofico e semiologico-linguistico della rappresentanza nello spazio della teoria e del diritto costituzionale, che, qui, più che altrove, ha forse poco di originale da dire. L’originalità, o, per lo meno, l’utilità per lo studioso di diritto positivo, potrebbe recuperarsi ove si riuscisse a costruire una teoria interpretativa della rappresentanza politica, cioè una teoria che sostenga la deduzione di norme dalle disposizioni costituzionali sulla rappresentanza.

Questa è la premessa teorica da cui ha preso l’avvio l’incontro sassarese sulla rappresentanza nel diritto pubblico[1].

Da lì la prima mossa compiuta: l’emendamento del titolo. Il lemma che, infatti, è parso più compiutamente restituire il senso dell’incontro, attingendo al contributo della filosofia politica, è quello di “rappresentanza-rappresentazione”. È attraverso la rappresentazione che ‘il tutto si lega’, dimensione teologica e dimensione politica: la rappresentazione è la struttura teoretica che consente l’analogia del teologico e del politico. Storici, filosofi e letterati di Berkeley hanno fondato negli anni 80 una rivista “Representations”: il legame è proprio la struttura logica della rappresentazione, che attraversa tutti i linguaggi ed in cui rivive anche il concetto del ‘politico’.

All’emendamento sono state affiancate due precisazioni. Da un lato, tale integrazione non ha voluto eliminare la pluralità dei significati di questa espressione, che resta “sin semantica” e “sincategorematica”[2], perché non è il nome di una cosa (sempre che le parole abbiano ancora legami con le cose), ma racchiude in sé significati diversi a seconda dei contesti. Già Sieyés affermava nel primo discorso termidoriano che «tutto è rappresentanza in uno stato sociale. Essa è presente ovunque nell’ordinamento privato come nell’ordinamento pubblico; essa è la madre dell’industria, della produzione e del commercio, come pure di ogni progresso liberale e politico. Essa si confonde con l’essenza stessa della vita sociale»[3]. L’integrazione, quindi, è sembrata utile per ampliare la discussione, non già per restringerla. Dall’altro, il rimando al termine di lingua tedesca Repräsentation, che contrappone semanticamente la rappresentanza del diritto pubblico-costituzionale alla rappresentanza con mandato (Vertretung) del diritto privato, non ha voluto significare né la scelta normativa per la concettuologia tedesca o, comunque, mitteleuropea della rappresentanza, aristocraticamente sciolta, come principio della forma politica (in contrapposizione al principio di identità), dalla democrazia (nonché dalla sovranità popolare e dalla separazione dei poteri), in luogo del contesto americano, dove ha senso l’espressione “democrazia rappresentativa”[4], né ha voluto significare l’opzione prescrittiva per una divaricazione, prevalsa nel dibattito politico-giuridico weimariano (il riferimento è, come ovvio, a Schmitt e Leibholz), tra la rappresentanza della sfera del politico e la concezione privatistica o tecnico-economica. Questo secondo profilo porterebbe, peraltro, dritto al rapporto di corrispondenza o meno tra la rappresentanza politica e l’economia politica (nell’accezione classica della divisione del lavoro accolta nella dottrina costituzionale di Sieyès in Che cos’è il terzo Stato?[5]) e, da lì, all’autonomia del politico dall’economico[6].

Con questi avvertimenti, però, l’integrazione del titolo è parsa giovare alla discussione, alla sua apertura. Ha consentito di scoprire nella rappresentanza la dialettica tra i registri dell’identità e dell’alterità-differenze[7], tra il visibile e l’invisibile, tra l’uno ed il molteplice, tra l’immagine originale e la copia, che è sottesa all’idea (nella teologia, nella filosofia e nell’arte) di ‘rappresentazione’ e senza cui neppure la rappresentanza politica, stretta tra la politica della presenza e l’idea dell’assenza del rappresentato (sia essa il popolo o la nazione), si dà. Per restare tale, la rappresentanza moderna non varca mai le frontiere nette della differenza né raggiunge il cuore dell’identità, un po’ come il Don Chisciotte che, proprio per tale indecisione, appare a Foucault la prima opera moderna[8].

A propria volta, quella dialettica potrebbe aiutare il diritto costituzionale e la sua eterna (nel senso di primordiale) aspirazione all’unità dell’agire di una pluralità di uomini – e, quindi, alla convivenza – a fondare teoricamente la compatibilità tra la logica della rappresentanza e la logica della differenza/concretezza. In gioco vi è la relazione tra l’astrazione-universalizzazione rappresentativa, cui si connettono i concetti di popolo, unità politica e sovranità, e la concreta differenziazione sociologica, alla quale si attagliano le idee procedurali e integrative dell’unificazione politica[9].

È dal 1895 che Orlando ci avverte che quello della rappresentanza è un concetto problematico ed in crisi[10], ma la sua problematicità lo ha forse avvalorato. Lungi dal disincantare la politica, la rappresentanza «infiamma il teatro della politica»[11]. L’obiettivo polemico potrebbero (dovrebbero) piuttosto essere gli interessi che sfuggono alla rappresentanza.

Nell’incontro vi è stata, con tutta probabilità, una lacuna. Non pare eccentrico inscrivere il ‘gioco’ della rappresentanza/rappresentazione politica in una economia del ‘segno’. Nella sua archeologia del sapere della cultura occidentale, Foucault ha visto nella rappresentazione la conseguenza dello scioglimento del rapporto tra parole e cose[12]. La rappresentazione si ha dopo la separazione tra similitudine e segni. Allo scioglimento del rapporto tra parole e cose, l’età classica risponde con l’analisi della rappresentazione ed il pensiero moderno con la teoria dei segni o meglio dei significati, da cui noi partiamo per pensare ai segni (logica di Port Royal, teoria binaria dei segni e teoria generale della rappresentazione)[13]. Ancora, la struttura teoretica della rappresentazione è, secondo la teologia politica di Cattolicesimo romano e forma politica, il presentificare: il rendere presente l’assente, visibile l’invisibile. È, cioè, una eccedenza, un ‘supplemento’, irriducibile sia alla mera figurazione o all’immagine nello specchio sia alla pura creazione[14]. Anche nel ‘politico’ la rappresentanza è rimando ad altro, vive nella logica del segno, non è solo stare al posto di qualcun altro.

L’inclusione della rappresentazione in una economia del segno potrebbe, allora, aiutare a comprendere come la tensione immanente alla rappresentanza politica, la sua aporeticità, deriva, in fondo, dalla sua stessa struttura logica, dalla sua trascendenza rispetto al mero rispecchiamento del rappresentato, dopo che le parole si sono sciolte dalle cose.

Il passo successivo da compiere è riuscire a desumerne una teoria interpretativa della rappresentanza politica nel diritto positivo.

Ma lasciamo da parte il non-detto e proseguiamo con ciò che è stato detto nell’incontro sassarese.

 

 

2. – L’involuzione della rappresentanza politica e la circolarità della storia

 

Paolo Caretti ha esperito il tentativo di delineare l’evoluzione (che si rivelerà involuzione) del concetto di rappresentanza politica dalle soglie della modernità sino allo Stato costituzionale contemporaneo. Ha guardato alla fenomenologia del rapporto rappresentanti/rappresentati nel processo di decisione politica ed alla sua eziogenesi. Ha, quindi, tenuto insieme nella sua riflessione sulla rappresentanza politica il tema della sovranità e della legittimazione all’esercizio del potere con il tema dei sistemi elettorali.

Lo Stato moderno, nella forma assunta tra il XVIII e XIX secolo, in quanto rappresentante di Dio, della ragione, del contratto sociale ovvero della nazione, assolve la funzione rappresentativa, in sé, in forza delle proprie prestazioni di esercizio unitario del potere. Il momento elettivo è una fictio iuris (Constant) che consente di delegare l’esercizio della sovranità (se non la sua titolarità) ai più saggi, a coloro che sanno interpretare, secondo il liberalismo capacitaire, il bene comune. Il perno del dispositivo rappresentativo sta nella sua capacità di astrazione.

Il modello si incrina per l’irrompere dei partiti politici di massa. Nell’esperienza dello Stato liberale dei primi decenni del XX secolo viene meno la finzione dell’omogeneità della società da rappresentare, la cui unità deve essere artificialmente costruita ed il rapporto di rappresentanza non è più duale, ma è un concatenamento tra tre soggetti (rappresentati, partito politico e rappresentanti). Quella omogeneità viene, però, sostanzialmente ricostruita da una classe egemone, governante, che, in forza del suffragio elettorale limitato, è portatrice di interessi omogenei e dalla decisione politica del Parlamento, che rappresenta una frazione omogenea della società. La rappresentanza nello Stato monoclasse ha, dunque, svolto la funzione di legittimazione e di unificazione dell’esercizio del potere in forza della rappresentazione di interessi effettivamente, e non solo fittiziamente, omogenei. Il prezzo pagato è stato l’unificazione mediante l’elisione dell’altro, che non assurgeva neppure alla dignità di rappresentato.

Questa linearità storica si interrompe nello Stato fascista. Caretti ne individua la cifra nel ritorno al passato: la rappresentanza torna ad essere un rapporto duale tra il partito unico e le istituzioni, che esercitano il potere nello Stato e che del partito sono l’espressione istituzionale. È il modello dello Stato a partito unico (Staatspartei). Riemergono, trasfigurate, le ‘finzioni’ del passato: lo Stato come nuovo sovrano, interprete unico del bene comune, rappresentante in sé, in quanto entità astratta, degli interessi della società, non bisognoso di alcun principio di legittimazione se non quello che gli proviene dalla sua stessa legittimazione. Qui fiorisce la teoria dei diritti riflessi di Gerber e Laband.

Saranno le Costituzioni del secondo dopoguerra, nello Stato pluralistico dei partiti (Parteienstaat), a riannodare i fili della rappresentanza politica attorno al rapporto trilaterale rappresentati/partiti politici/rappresentanti. La Costituzione, rigida e ‘lunga’, pone a quel rapporto un limite negativo, compendiabile nella regola del confronto democratico ed un indirizzo positivo, rappresentato dai principi e valori contenuti nella Costituzione-programma. La rappresentanza non deve essere solo la forma del confronto democratico tra visioni parziali del bene comune, ma anche il rapporto sostanziale e ascendente tra rappresentati e rappresentanti, secondo il principio della sovranità popolare. Il luogo delle rappresentanze ‘parziali’ è il Parlamento, ove dialetticamente si costruisce l’unità nazionale, l’interesse nazionale, che non è più un dato presupposto, a priori, e la regola della formazione di quelle rappresentanze non può che essere, come intuito da Carlo Lavagna, una legge elettorale di tipo proporzionale.

Caretti coglie, però, l’incompiutezza di quel programma. La stagione della centralità, nella forma di governo, del Parlamento e della sua funzione di unificazione inclusiva, infatti, è ormai tramontata e le prestazioni di unità sostanziale richieste alla rappresentanza politica sono rimaste inadempiute. Le cause sono numerose: dalla scomparsa delle ideologie politiche del Novecento alla crisi profonda dei partiti politici, alla scarsa cultura istituzionale della classe politica, ai mutamenti indotti dal processo di integrazione europea e di globalizzazione economica, alla declinazione in chiave individualistica dei diritti, nonché all’affermarsi di una concezione decisionista ed efficientista della democrazia, riassumibile nell’opposizione tra democrazia della decisione vs democrazia del confronto. Le conseguenze sono: la diffusione di sistemi elettorali maggioritari, la ipervalorizzazione del momento elettorale come elemento esaustivo del rapporto rappresentati/rappresentanti, la personalizzazione esasperata delle leadership, la sterilizzazione della dialettica tra i rappresentanti e della funzione unificante del Parlamento, l’eclissi della capacità dei partiti politici di interpretare e costruire organiche visioni di sviluppo della società a favore delle capacità taumaturgiche dei leader, nonché l’accentuarsi delle tendenze neocontrattualistiche o neocorporative dello Stato contemporaneo. L’epilogo è lo svuotamento del principio rappresentativo: al popolo si torna a chiedere la delega in bianco a favore di rappresentanti capaci di riassumere in sé aspirazioni e valori differenti. La sovranità di un Parlamento che non rappresenta più gli assenti, che non li rende presenti, si sostituisce alla sovranità del popolo. La rappresentanza torna ad essere fittizia come alle soglie della modernità: è la rappresentanza di una classe politica che, una volta chiamata maggioranza, si autolegittima in quanto sedicente migliore interprete del ‘bene’ comune.

Circolarmente, la contemporaneità registra la riemersione di una visione antica della rappresentanza: la fine è anche l’inizio ed il tempo della storia è quello dell’eterno ritorno.

Mi pare di poter intravedere nella riflessione di Caretti la eco della critica schmittiana all’ideologia liberale, che da tempo ha predetto la trasformazione del Parlamento da «teatro di una discussione libera e costruttiva di liberi rappresentanti del popolo» in «teatro di una divisione pluralistica delle forze sociali organizzate»[15].

Immaginando di dialogare con Caretti, potrebbe, poi, aggiungersi che l’effetto dis-rappresentativo del concatenamento tra elettori, partiti ed eletti non è affatto scritto nel testo costituzionale, né nella ‘forma-partito’ né nella forma di governo parlamentare (49, 67 e 94, Cost.). Quel concatenamento, infatti, induce ad interrogarsi non tanto sul rapporto di alterità necessaria tra sovranità del popolo e sovranità del Parlamento, ma sulla collocazione del partito politico tra la prima e la seconda. Il dibattito sul partito politico potrebbe sottrarsi alle obiezioni che si muovono alla rappresentanza del parlamentarismo liberale, abbandonandone la fisionomia liberale: la valorizzazione, in chiave istituzionistica, mortatiana e non già orlandiana, dell’art. 49 potrebbe opporre la democrazia dei partiti, in quanto surrogato della democrazia diretta[16] alla rappresentanza libera dell’art. 67. Se, infatti, il modello liberale e sociale di partito di Orlando era funzionale alla sovranità del parlamento, il secondo, volto a proiettare i partiti nella sfera della determinazione dell’indirizzo politico, dava speranza alla prospettiva della sovranità popolare dell’art. 1, Cost. ed alla possibilità che la medesima esprimesse una funzione di governo. Non molto diversa è la ragione della critica alla rappresentanza mediante i partiti in Leibholz[17]: è lì che lo Stato dei partiti è ritenuto incompatibile con la rappresentanza ed ascrivibile alla democrazia diretta, perché verrebbe meno la distinzione tra stato e società. Insomma, i partiti politici potrebbero aiutare a superare l’obiezione mossa da Rousseau secondo cui il popolo inglese è libero soltanto durante le elezioni e spezzare il binomio rappresentanza-schiavitù[18].

Ciò detto, sulla funzione rappresentativa del Parlamento pesa l’art. 67, Cost. Il Parlamento rappresenta l’unità politica nella separazione/indipendenza governanti-governati. Il Parlamento rappresenta ed è responsabile dinnanzi al popolo? Come ha sottolineato Piero Pinna, la non revocabilità induce a rispondere negativamente. Manin dice che gli elettori con sanzioni elettorali al massimo possono impedire la prosecuzione del rapporto politico: «nel governo rappresentativo la negazione è più potente dell’affermazione». Ma la non rielezione, con effetto interdittivo, non è rimozione del governante. Quindi, il governo parlamentare, come ogni governo rappresentativo, è funzionalmente indipendente dal popolo, più precisamente dal corpo elettorale, ma ne dipende organicamente attraverso le elezioni[19].

 

 

3. – La critica della rappresentanza: l’inganno della persona ficta vel repraesentata ed il recupero del contratto romano di societas

 

Caretti ha stigmatizzato l’involuzione dis-rappresentativa della rappresentanza politica e, con essa, la crisi della forma di governo parlamentare, ma la sua prospettiva normativa è rimasta saldamente ancorata al modello del costituzionalismo parlamentare, di cui andrebbe, appunto, recuperata la, ormai sbiadita, capacità rappresentativa.

Lobrano ha, invece, mosso una critica radicale alla rappresentanza politica: dinnanzi ai due paradigmi dello ius publicum, i.e. il modello del costituzionalismo medievale-inglese o parlamentare-rappresentativo ed il modello romano-repubblicano-municipale, la sua scelta è caduta sul secondo[20].

Semplificando, l’opposizione che Lobrano pone è tra la sovranità del Parlamento (come dello Stato, della Nazione o della Costituzione) e la sovranità del popolo, tra la democrazia rappresentativa (che non è democrazia, nonostante la falsificazione contemporanea del concetto di democrazia) e la Repubblica, tra il costituzionalismo aristocratico e quello repubblicano-tribunizio, tra la finzione, generalità ed astrazione della rappresentanza senza mandato imperativo ed il contratto sociale del popolo concreto, fatto di uomini-elettori: nel primo modello, che muove dall’inesistenza di un popolo, i servitori (Diener) – secondo la nota riflessione sviluppata da Weber in Economia e società (1922) – si trasformano in padroni (Herren) dei rappresentati; nel secondo i magistrati sono servi del popolo, elemento fondante ed eponimo del suo ordinamento.

Il dispositivo rappresentativo, che accomuna il costituzionalismo di Montesquieu e Seyés ed il parlamentarismo inglese di Locke ed Hobbes, non può che significare indifferenza per la volontà degli elettori e per la rappresentanza territoriale degli interessi. È la messa a frutto della critica sviluppata da Costantino Mortati che, nel Commentario della Costituzione italiana a cura di Branca (1975), afferma che nessuna delle condizioni per consentire l’esercizio della sovranità popolare dell’art. 1 Cost. sussiste e che nella Costituzione vi è una poliarchia che realizza la sovranità del parlamento in luogo di quella del popolo[21].

L’obiettivo polemico di Lobrano è la persona ficta vel repraesentata, la persona giuridica, senza la quale la rappresentanza non funziona, perché le persone rappresentate devono prima essere costituite artificialmente nello Stato. La critica alla persona giuridica è tutt’uno con la critica alla rappresentanza: la seconda è legata da un rapporto genetico di funzionalità con la prima, in quanto la necessità della rappresentanza della volontà sorge per sostituire la volontà della persona ficta e non già per integrare la volontà della collettività degli uomini, che dalla persona ficta è stata sostituita. Con la conseguenza che la rappresentanza è formazione/manifestazione monolitica della volontà esclusiva della persona fisica rappresentante della persona giuridica. Nella soluzione medievale-moderna l’unità della collettività si trasferisce, dunque, nel simulacrum idoli della persona giuridica. Ma il popolo non può essere astrazione, perché è unione concreta di cives, il che non significa che concretezza del popolo ed unità della organizzazione in societas siano inconciliabili. Il popolo può entrare unitariamente in relazione con altri uomini e costituirsi come collettività, ma non ricorrendo al meccanismo della persona giuridica (e, quindi, della rappresentanza), che è ipostasi della astratta persona artificiale.

La crisi attuale del modello rappresentativo non significa, per Lobrano, che siamo senza Costituzione, in forza del postulato montesquieviano dell’identità tra costituzione ed equilibrio dei poteri. Significa piuttosto che, di fronte alla conclamata inaccettabilità della rappresentanza libera, senza mandato imperativo, come mezzo di formazione-manifestazione della volontà sovrana e dell’istituto della divisione dei poteri come mezzo di tutela dei diritti, è il tempo di recuperare il modello romanista di partecipazione popolare, che vive nelle forme di parlamentarismo vincolato.

Il dispositivo che sostituisce la persona fittizia, artificiale, del modello parlamentare-medievale-moderno è il contratto di società: questo è la risposta romana al problema della considerazione unitaria di atti posti in essere da una pluralità di persone in vista della costituzione e modificazione di diritti. Si tratta di un contratto che ha come causa l’utilitatis communio degli associandi e che, contro il luogo comune della irrilevanza esterna della società, perché genererebbe obbligazioni solo tra i contraenti, tende a mettersi in rapporto con il mondo. La società è res corporalis, contro il pregiudizio che l’unità fa il paio con l’astrazione e si contrappone, per ciò, alla collettività concreta o fisica. La società agisce con due atti. Prima un emi-atto giuridico della collettività dei soci (reciprocamente obbligantisi come unità) esprime la volontà comune, ove ogni socio si esprime come parte di un tutto/unità, non esprime la volontà come singulus ma concorre alla espressione dell’unica volontà societaria. Poi, la società si rapporta agli altri per mezzo di un secondo emi-atto, affidato ad un magistrato, servitore del popolo. E ciò perché, mentre il rapporto tra i soci è interpotestativo, contrattuale, tra potestà omologhe, quello con il magistrato è intrapotestativo, non contrattuale, il secondo è in potestate del primo. La distinzione è tra iussum e gubernaculum. Nella soluzione romana i contraenti si impegnano a perseguire l’utilità individuale attraverso la previa individuazione (e perseguimento) dell’utilità comune. Il premio della connessa catarsi è, con Rousseau, la conservazione della libertà naturale. Le origini di questo schema potestativo sono nella familia, nel consortium familiare, connotato dalla assenza di un capo e dalla disponibilità consortile del tutto da parte di ciascuno, senza quote o partes. Solo dopo il venire meno dell’iussum del padre (nei confronti del figlio servo), lo schema si trasforma in volontarismo societario aperto, si esprime nel contratto, che resta repubblicanamente adespota.

Da qui Lobrano muove alla ricerca di manifestazioni del modello tribunizio-municipale che, carsicamente e spontaneamente, riaffiorano nell’ordinamento, allo scopo di integrare la logica rappresentativa. Il riferimento non è – e non lo è a ragione – all’istituto del referendum. Mi permetto, infatti, di aggiungere che anche la dottrina costituzionalista (Massimo Luciani e, ancora prima, Böckenförde[22]) ha argomentato la permanenza in seno al referendum di un elemento rappresentativo (aristocratico nella prospettiva di Lobrano), di alterità vs identità, perché vi è sempre chi pone la domanda. Si potrebbe forse andare oltre e notare, addirittura, come dalla logica rappresentativa non si esce neppure in Rousseau proprio perché, affinché la volontà generale si dichiari, occorre sempre che «sia interpellata» (Il contratto sociale, cap. IV, Libro I), ponendo la domanda «pertinente»[23]. Così come il riferimento di Lobrano non è alle più recenti esperienze di democraticismo deliberativista, partecipativo e/o repubblicanesimo civico: qui la matrice è la politeia greca e non già il modello contrattualista romano. La pars construens della riflessione di Lobrano è piuttosto volta a valorizzare l’ufficio del Sindaco, la sua elezione diretta, nonché la logica della programmazione che presiede alla affissione del programma amministrativo all’albo pretorio ai sensi dell’art. 3, l. 81 del 1993: quel programma rafforza il vincolo, per lo meno nella fase ascendente, tra corpo elettorale e lista dei candidati al Consiglio comunale (e alla carica di sindaco)[24]. O, ancora, l’esperienza municipale-federativa del Consiglio delle autonomie locali di cui all’art. 123, u.c., Cost.

Proseguendo a distanza il confronto dialettico iniziato con Lobrano durante l’incontro, potrebbe porsi la questione della tenuta della tesi continuistica tra rappresentanza medievale e moderna. Quella tesi ha dalla sua, sulla scia degli studi di Sternberger[25], la critica dell’assioma del popolo, della finzione dell’identità, nonché dei topoi della modernità vs l’antichità, della razionalità dell’organizzazione del potere e delle elezioni (che recupera a propria volta la finzione dell’identità). Questi argomenti, ove indeboliscono le tesi discontinuistiche nella geneaologia della rappresentanza, suscitano, come ovvio, imbarazzo per la coscienza democratica contemporanea. Ma quella critica forse sottovaluta la modernità di Hobbes, che pone la costruzione dell’unità politica del popolo, rispetto a Montesquieu ed alla società di ceti. Nella prospettiva di Lobrano, Hobbes alimenta la finzione della rappresentanza: costruisce la persona giuridica, ‘artificiale’, mediante il pactum unionis, prodotto dall’innesto nel contratto romano di società (pactum societatis) del contratto di soggezione (pactum subiectionis). In sintesi, Hobbes, distorcendo l’idea giusromanistica di contratto di società, fa discendere dal postulato dello ‘Stato-persona’ la titolarità della sovranità da parte dell’astratto popolo Leviatano e non del popolo concreto e la necessità della ‘rappresentanza’ del Leviatano ad opera di persone fisiche. A questo argomento potrebbe replicarsi, con Tommaso Gazzolo[26], che in Hobbes il popolo non esiste prima di essere rappresentato, è il rappresentante, «un solo uomo» o «una sola persona», che ricostruisce la moltitudine come popolo, come «una sola persona», «è l’unità di colui che rappresenta, non quella di chi è rappresentato, che rende una la persona; ed è colui che rappresenta che dà corpo alla persona e ad una soltanto»[27]. Con la conseguenza che il contratto che fonda la rappresentanza ha per oggetto non la regolamentazione dei rapporti tra il popolo ed il sovrano, entità che non preesistono al contratto, ma la rinuncia degli individui al diritto naturale e l’individuazione e la costituzione stessa del sovrano, che, quindi, non può essere parte del contratto. Ancora, la tesi continuistica della rappresentanza potrebbe non cogliere nel segno perché nel costituzionalismo inglese il Parliament è un’Alta corte di giustizia[28], che deriva la sua rappresentatività dall’essere un organo giudiziario che tutela diritti e che non crea, ma certifica l’esistenza della legge[29]. Allo stesso modo, i parlements della Francia d’Ancien Régime sono organi giudiziari che partecipano al procedimento di produzione degli atti normativi del monarca: si fondavano sulla rappresentatività dei giudici, dei robins, e non sulla sovranità legislativa[30]. Quella rappresentanza ha forse poco da dire rispetto alla rappresentanza contemporanea. Né è propria del parlamentarismo medievale-inglese l’ancoraggio della tutela dei diritti al governo diviso, limitato intrinsecamente, cioè politicamente o all’equilibrio dei poteri: vi era, infatti, una dottrina medievale della limitazione del potere à la Bracton, ma non della separazione dei poteri; vi è, più di recente, il costituzionalismo inglese di McIlwain[31] del governo limitato giuridicamente dall’esterno a tutela dei diritti individuali e fondato sulla distinzione tra gubernaculum e iurisdictio[32].

Potrebbe, poi, revocarsi in dubbio che il modello rappresentativo ha significato sempre emarginazione delle municipalità: nella dottrina costituzionale di Sieyès[33], ad esempio, si ritiene che per facilitare il procedimento dialogico che consenta l’apprensione cognitiva dei bisogni della nazione (vero scopo della formazione della rappresentanza territoriale) occorre introdurre, come elemento fondante della rappresentanza politica, un’organizzazione territoriale che si basi sulle municipalità e sul giudizio di stima che ogni rappresentante deve ricevere dai suoi elettori. Il territorio è qui elemento correttivo della rappresentanza, per controllare le capacità del rappresentante. In ogni caso, le opposizioni sono relative, se si considera che nel dibattito statunitense i federalisti sono stati i teorici della rappresentanza, libera, indipendente e gli antifederalisti i teorici della rappresentanza come rispecchiamento del delegante. Così come potrebbe porsi la questione terminologica, che a sua volta ne sottende una concettuale, della contrapposizione, talvolta instaurata (penso sempre a Sieyès), tra “governo rappresentativo” (o “repubblica”) e “democrazia”, dove la repubblica, contro la proposta di Lobrano, si identifica con la rappresentanza.

Contro l’estensibilità del contratto della società del diritto romano, che ha il suo archetipo nella famiglia, potrebbe poi sollevarsi non tanto l’obiezione della mancanza di volontà esterna della societas, ma l’obiezione, con Schmitt, che le figure che discendono dall’economia possono dar luogo a un patto sociale, ma non a un patto statale[34] ovvero tutte le obiezioni di chi distingue la rappresentanza privatistica, trilaterale, da quella pubblicistica, bilaterale (il riferimento è a Leibholz, Schmitt e Kelsen). O ancora potrebbe, con Bobbio[35], sostenersi che le koinonai nell’Etica nicomachea di Aristotele erano le società parziali, con scopi privati, che per i giuristi romani la societas è contratto di diritto privato e che la famiglia è in realtà non l’archetipo del modello contrattualistico, da cui deriva il volontarismo societario, ma il modello di società organicistica per eccellenza, che rinvia ad una concezione paternalistica dello Stato e che presuppone l’unità, che, quindi, non essendo stata creata, non ha bisogno di essere rappresentata. Anche per Rousseau (Il contratto sociale, Capitolo II, libro I), del resto, la società non può avere come origine la famiglia[36].

Contro lo ius publicum romano, potrebbe ancora notarsi che, per alcuni, la dimensione politica del popolo si affievolisce nell’epoca romana, con la cooptazione e la trasfigurazione della res-publica in impero[37]. Di contro, però, alla valorizzazione dell’esperienza greca[38] potrebbe formularsi qualche dubbio sulla autenticità del paradigma aristotelico di Rousseau.

Ciò nonostante, la proposta normativa, contro-fattuale, di Lobrano, che mira ad integrare la logica rappresentativa con una logica altra, riconducibile al modello romanista-municipale, ha la capacità di mostrare tutti i limiti dell’attuale sistema rappresentativo e la sua incoerenza interna. Basti pensare al sistematico svilimento delle assemblee rappresentative locali nella giurisprudenza costituzionale contro la lettera dell’art. 114 Cost. Per restare ad un caso recente, la sentenza n. 39 del 2014 conserva per gli enti locali (ma non per le Regioni) l’obbligo di adottare i provvedimenti idonei a rimuovere le irregolarità riscontrate e a ripristinare gli equilibri di bilancio a seguito dei controlli delle Sezioni regionali della Corte dei conti sui bilanci preventivi e rendiconti consuntivi e la preclusione, in caso di mancata adozione, dell’attuazione dei programmi di spesa per i quali è stata accertata la mancata copertura o l’insussistenza della relativa sostenibilità finanziaria: sono misure preventive e coercitive per gli enti controllati. Ci si potrebbe chiedere se, nella pariordinazione tra gli enti costitutivi della Repubblica, ha ancora senso attribuire un surplus democratico al prodotto dell’organo della rappresentanza politica regionale in forza della maggiore dimensione territoriale e se possa ancora sostenersi che le assemblee rappresentative territoriali ed i loro ‘prodotti’ soffrono di un deficit democratico solo perché sono l’espressione elettorale di un territorio più circoscritto[39]. La carica “democratica” della sussidiarietà parrebbe, piuttosto, dover indurre a conclusioni opposte.

 

 

3.1. – Le aporie del democraticismo deliberativista e del repubblicanesimo civico: dalla rappresentanza non si esce?

 

La proficuità della riflessione di Lobrano emerge anche in un’altra direzione. Le soluzioni cui guarda, de iure condendo, per correggere il dispositivo della rappresentanza sono lontane dalla ormai invalsa apologia delle forme di democrazia partecipativa o deliberativa, di cui Lobrano non manca di sottolineare gli esiti, alle volte, naїve. Appare significativo che chi, come Lobrano, oppone il modello parlamentare-rappresentativo a quello repubblicano-romano, Montesquieu a Rousseau, non esalti il democraticismo deliberativista.

Nel dibattito costituzionalistico, invece, di sovente, si pongono in relazione il costituzionalismo rousseuaviano con il deliberativismo o con le variegate (ed irriducibili ad unità) forme di repubblicanesimo civico. L’ideale deliberativista (Ackermann, ma anche Elster ed Habermas) o repubblicano (Rawls) valorizza le virtù epistemico-cognitive della deliberazione mediante il metodo del dialogo razionale, fondato sulla forza dell’argomento migliore e sullo scambio paritetico di ragioni intorno al bene comune, e mira per quella via ad estendere il paradigma della ragione pubblica al foro politico, a dibattere le questioni costituzionali in termini di principi. Curerebbe così anche i mali (emarginazione del rappresentato, assolutizzazione del principio di maggioranza, diseguaglianza politica, tensione tra unità e pluralismo e disgregazione della convivenza) della rappresentanza moderna.

Tale accostamento appare, però, teoricamente improprio e praticamente inutile.

Innanzitutto, non è così evidente la coerenza tra il modello rousseauviano e il deliberativismo. Per Rousseau «se quando il popolo sufficientemente informato delibera, i cittadini non potessero comunicare tra loro, dal grande numero di piccole differenze risulterebbe sempre la volontà generale  e la deliberazione sarebbe sempre buona»[40]. E’ vero che per Rousseau la volontà generale «tiene conto di tutti i voti»[41], è inclusiva e non esclusiva. Ma la legge è giusta perché scopre la volontà generale, giacché ciò che è comune a tutti non può essere deliberato, ma è presupposto, non può essere voluto, ma solo conosciuto. I cittadini realizzano il bene comune se votano come membri della società generale (se non si sono previamente accordati), in quanto ignorano la volontà degli altri. Per Rousseau, quindi, la discussione non serve perché la volontà individuale è predeterminata, esalta le società parziali e corrompe il corpo politico[42]. La parola è immaginazione e allontana dalla cognizione delle inferenze vero/falso. Ne deriva l’avversione al principio del discorso, alla retorica, alla parola. Appare difficile trovare qui immediata corrispondenza con la ragione pubblica, discorsiva e deliberativa di Rawls e, ancora meno, con il principio del discorso, l’agire comunicativo, proprio del cognitivismo della democrazia deliberativa di Habermas ed Elster,

In secondo luogo, l’artificio rappresentativo ricompare nel repubblicanesimo civico di Rawls[43]. È proprio la natura rappresentativa della posizione originaria di Rawls al centro della critica di Habermas; critica che non è altro che la riscrittura rousseuviana della inalienabilità della volontà generale del popolo. Rawls ricorre all’idea della rappresentanza come costruzione di somiglianza[44] tra il popolo e i suoi rappresentanti. Ovvero come atto di immaginazione che consente, con il ricorso al velo d’ignoranza, la costruzione del popolo basata non già su caratteristiche condivise, naturali o sostantive, delle persone, ma solo sulla qualità di cittadini liberi ed eguali[45]. In realtà si potrebbe dire che la permanenza dell’elemento rappresentativo in Rawls è un’arma spuntata per segnarne la distanza da Rousseau. E questo perché lo stesso Rousseau non riesce a liberarsi sino in fondo dell’aporia rappresentativa. Ricompare nella figura del Grande legislatore, proprio della fase costituente, quando i cittadini non sono educati alla cittadinanza, alla volontà generale[46]. Ricompare nella distinzione tra legislativo/esecutivo, ove il secondo è inteso come rappresentativo-esecutivo del primo.

In terzo luogo, a ben vedere, dall’obiezione aristocratico-elitista non si sottraggono neppure le concezioni deliberative, che propugnano una concezione epistemica della legge e della deliberazione pubblica. Ma quella concezione, della legge come atto di ragione, di giudizio, è premoderna, deriva dall’onticismo medievale e fu propria delle teorie elitiste o capacitaire di Condorcet, Burke e Guizot.

In più, resta la frustrante sensazione che il punto di vista del deliberativismo e del proceduralismo discorsivo habermasiano sia, rispetto alle ragioni della convivenza, «lo sguardo da nessun luogo»[47]. Il difetto di concretezza che si rimprovera al modello rappresentativo ed alla sua astrazione del popolo concreto, come condizione per l’inclusione sociale, affligge, infatti, anche l’universalismo procedurale.

 

 

4. – La rappresentanza e le ‘categorie della politica’: sostituzione di persone o sostituzione di volontà?

 

Virgilio Mura, infine, ha guardato al tema della rappresentanza politica come forma moderna di legittimazione politica dell’autorità, utilizzando la coppia concettuale comando-obbedienza. Il Parlamento, infatti, oltre alla funzione tecnico-economico-macchinica del ‘fare’, ‘produrre’, leggi, secondo la logica del funzionamento, rinvia al divenire legittimo del potere attraverso la rappresentanza.

Due sono le concezioni della rappresentanza che Mura ha isolato nella storia del pensiero politico occidentale, cui corrispondo distinti principi di legittimazione del potere politico. La prima, elaborata da Rousseau, accolta da Marx e dalla tradizione radical-democratica e socialista, postula la dipendenza della volontà del rappresentante dalla volontà del rappresentato. Vi è sostituzione di persone, lo stare al posto di qualcun altro, ma non vi è sostituzione di volontà. La sovranità popolare legittima le assemblee rappresentative. La seconda, che lega Burke, Sieyès, Constant, Hegel e Mill, prescrive l’indipendenza dei rappresentanti in nome dell’interesse generale: è l’ideale elitista, che propugna il governo dei capaci, dei migliori, a cui affida il compito di mettere in forma la volontà comune, che non preesiste[48]. La rappresentanza diviene anche sostituzione di volontà, eccedenza rispetto al mero stare al posto di qualcun altro[49]. La sovranità della nazione o del parlamento è il principio di legittimazione. In questa secondo concezione, aggiungerei, che la rappresentanza è la sovrastruttura, nella sfera del ‘politico’, della divisione del lavoro nell’economia politica: è l’origine del dispositivo governamentale liberale.

Di entrambe le concezioni Mura trova tracce nel testo costituzionale. L’art. 1 rinvia al modello radical-democratico. L’art. 67, come l’art. 41 dello Statuto albertino, rinvia al modello liberale. Conclude per l’incoerenza della Costituzione. Caretti ha, però, rilevato che l’art. 1 contiene già in sé la contro-obiezione: il popolo esercita la sovranità nelle «forme e nei limiti della Costituzione», che consente una interpretazione coerente delle disposizioni.

Ma è sul piano dei fatti che Mura trova i correttivi al divieto di mandato imperativo, che rinsaldano il primo modello a discapito del secondo, arginano la ‘finzione’ della rappresentanza[50] e attenuano l’indecisione del testo costituzionale: il riferimento è, da un lato, alle leggi-provvedimento ed alla percezione dei rappresentanti, da parte degli elettori, come portatori di interessi settoriali-corporativi, dall’altro, alla dipendenza del deputato, se non dagli elettori, dal partito politico, sia nel momento della sua designazione che in seno ai gruppi parlamentari. Il primo fatto pare, però, ad avviso di chi scrive, inquinare anche il modello rousseuviano. Per Rousseau l’interesse particolare (individuale) è l’altra faccia dell’interesse generale. Le differenze devono essere piccole e numerose e non poche e grandi: «se dalle volontà particolari togliete il più e il meno che si distruggono a vicenda resta quale somma delle differenze la volontà generale» (Il contratto sociale, Libro II, cap. III). La minaccia all’unità, alla volontà generale, viene, invece, dagli interessi corporativi, perché interessi comuni ed interessi individuali sono due facce della stessa medaglia. «E’ da riconoscere che interesse comune e interesse  individuale sono due lati della stessa costruzione, in quanto l’interesse comune altro non è che la difesa dello spazio privato, che consente ad ognuno di perseguire il proprio interesse e ciò che intende come proprio bene»[51]. L’altro, il mandato imperativo che lega il parlamentare al partito politico, più che un fatto, potrebbe, sempre secondo chi scrive, considerarsi imposto dalla norma ricavabile dalla interpretazione del divieto di mandato imperativo, posto dall’art. 67, conforme e non giustapposta al ruolo dei partiti politici delineato dall’art. 49, Cost. Piuttosto, quella norma rischia l’ineffettività per effetto del fenomeno, disgregativo ed individualistico, della mobilità parlamentare[52].

Il rimedio proposto da Mura, coerente con un sistema rappresentativo misto, è la corrispondenza tra le domande degli elettori e le risposte degli eletti. Affinché il rimedio funzioni, in gioco non vi è solo la qualità dei governanti, ma anche la qualità dei rappresentati, la loro educazione alla cittadinanza. Aggiungo, nella speranza di non travisare il pensiero di Virgilio Mura, che quella proposta non pare lontana dalla democrazia della responsività di Dahl.

 

 

4.1. – La ‘costruzione’ del rappresentato: per una teoria interpretativa delle disposizioni costituzionali sulla rappresentanza

 

Orbene, la conclusione scettica di Mura pone nella filosofia politica la stessa questione che nel diritto costituzionale ha portato a studiare la rappresentanza partendo dalla crisi non già del rappresentante, ma del rappresentato[53].

Seguendo Mura (e Luciani) nel rovesciamento del punto di vista tradizionale, potrebbe esperirsi il tentativo di non rifuggire dalla rappresentanza politica a condizione di ripensarla come forza attiva rispetto al pluralismo sociale. Potrebbe discorrersi di una concezione costruttiva della rappresentanza dinnanzi alle idee (popolo, nazione..) che non le preesistono.

Ciò non toglie la possibilità di aderire ad una prospettiva teorica radicalmente alternativa, quale quella elaborata da Lobrano. Potrebbe, però, consentire, de iure condito, al giurista positivo, di proporre una teoria interpretativa della rappresentanza che, mettendo a frutto i limiti o le aporie della sua struttura teoretica ovvero del testo scritto o, ancora, della fattualità politica emersi nelle relazioni di Caretti e Mura, non annichilisca le disposizioni costituzionali.  

L’idea, antica, è che la salvezza stia nel ripristinare il rapporto della rappresentanza, come momento empirico-immanente, con l’idea trascendente: il popolo come totalità è solo un’idea.

Quel rapporto, però, dinnanzi al popolo “introvabile”[54], irrappresentabile, delle democrazie pluraliste contemporanee, non può darsi ove si continui a guardare alla rappresentanza politica come rispecchiamento, immagine, copia, del sociale, come ad una forza ‘reattiva’, bensì solo ove ad essa si guardi come ad una forza di qualità ‘attiva, affermativa e non negativa, forza che combina e non che dissolve. Quella forza dovrebbe formieren la persona sociale, essere da contrappeso alla autonomia del sociale dal politico e, quindi, produrre e costruire la forma dell’unità politica di un popolo che non c’è, non è più dato o precostituito. Si mette così a profitto l’aporia costitutiva del governo rappresentativo, in tensione permanente tra l’istituente e l’istituito, tra il momento del pluralismo, il ‘sociale’, e l’unità del ‘politico’, tra differenze e ripetizione. Contro la ‘poetica’ dell’Uno.

Se, infatti, il legame sociale è solo «una sperimentazione di storie comuni, non vi è più nulla da rappresentare, nel senso che non vi è più nulla da fotografare, poiché la società non può più essere pensata come una totalità che l’osservatore è in grado di cogliere dal di fuori»[55]. Il fatto allora che i rappresentanti rappresentino solo sé stessi potrebbe non essere patologico o, in ogni caso, non condurre lontano. L’unica possibilità è che il processo rappresentativo partecipi esso stesso di una nuova narrazione. La rappresentanza, di fronte al declino delle categorie del sociale, non può che essere attiva e non riflessiva, nel senso che costruisce l’identità.

Rappresentare la società significa allora «alzare e lacerare il velo di astrazione che la copre per ridarle vita»[56]. Questo lavoro di incarnazione pone il rappresentante tra due poli contraddittori, quello di identificazione e quello di distinzione. Eleggere significa distinguere e rappresentante è una parola che «nel linguaggio costituzionale ha senso solo al plurale»[57]. L’idea della rappresentanza come somiglianza, come imitazione, è possibile per una società considerata in modo organico. Ma come rappresentare una società di individui? Se il cittadino è l’individuo astratto, possiamo parlare di rappresentanza nel senso di produzione di immagine? Così «la rappresentanza non si riduce meccanicamente a una procedura di elezione e di autorizzazione, che non svolge più alcuna funzione di identificazione»?[58] La rappresentanza potrebbe, invece, servire non solo a dare figura al popolo, ma anche a trovare una via di chiarificazione del rappresentato attraverso il rappresentante. La teoria democratica presuppone che il popolo preesiste alla sua organizzazione politica. «Ma il popolo è già presente o è solo la presupposizione del popolo che è presa in considerazione come soggetto politico?»[59]. Nel secondo caso, oggetto della politica diverrebbe far vivere e attivare questa presupposizione e trasformarla in soggetto reale. Rosanvallon osserva che, in questa rifondazione, la rappresentanza abolisce la separazione tra i due registri della costituzione del soggetto come volontà individuale e della determinazione di un modo di espressione adeguato della volontà generale. Se vi è bisogno di un noi per essere sé stessi, allora – attingendo alla riflessione di Taylor sulla dimensione dialogica dell’identità – la costruzione di sé e la costituzione di un mondo comune vanno di pari passo. Si apre così la prospettiva inedita di una politica della soggettività: «la rappresentanza politica cerca di scrivere il romanzo di una società, nel medesimo momento in cui gli individui scrivono il loro diario privato»[60].

Come sostenere teoricamente questa operazione? E come farlo in modo non repulsivo per la coscienza democratica contemporanea?

Potrebbe essere di aiuto la riflessione schmittiana sullo statuto teoretico della rappresentanza, che non si identifica affatto con il nichilismo implicato dalla rappresentanza moderna e non pare esaurire la propria forza nell’orizzonte monistico-aristocratico schmittiano. Lì l’unità del popolo, nella condizione dell’esistenza politica, non può infatti autoprodursi nell’identità ma può solo essere prodotta dalla rappresentanza. Il rappresentante non è prodotto del consenso, ma viene ad esistere in occasione del consenso, per cui il potere ha un plusvalore rispetto al consenso[61].

Ciononostante, la rappresentanza politica potrebbe trarre la forza attiva dall’idea di rappresentazione come ‘trascendenza’: si rappresentano ‘idee’ e non ‘cose’[62], dalla sua ‘eccedenza’ logica rispetto al rappresentato, alla cui progressione nell’esistenza pubblica, politica, il rappresentante contribuisce. 

In Schmitt il popolo può, in virtù di una forte e consapevole assoluta omogeneità, essere politicamente capace di agire già nella sua immediata datità. Qui sta il principio di identità, che è la forma di una presenza immediata nella sua datità. Il principio contrapposto parte dall’idea che l’unità politica del popolo in quanto tale non può mai essere presente e, perciò, deve essere rappresentata da uomini in modo personale. La rappresentanza è quel principio della forma politica mediante cui qualcosa di assente è reso presente da una persona, la cui qualità sta nell’essere capace di rappresentare. Il rappresentato, per suo conto, deve essere capace di progredire nell’esistenza pubblica. Per Schmitt «La dialettica del concetto consiste nel fatto che l’invisibile è presupposto come assente ed è tuttavia al tempo stesso presente [...] qualcosa privo di valore, qualcosa di basso non può essere rappresentato. Ad esso manca la specie sviluppata di essere che è capace di emergere nell’essere pubblico, che è capace di una esistenza [...] un essere accresciuto è capace di rappresentanza»[63]. Reclama la rappresentanza ove afferma che «rappresentare significa rendere visibile e illustrare un essere invisibile per mezzo di un essere che è pubblicamente presente», onde nella rappresentazione «si manifesta concretamente una più alta specie di essere»[64]. Nella rappresentanza sono, cioè, in gioco prestazioni di qualità e valore di rappresentante e rappresentato: il rappresentante ha una «dimensione pubblica perché rende visibile il fatto che il rappresentato non è un essere qualunque, bensì un essere particolare, provvisto della capacità di progredire nell’esistenza, appunto, pubblica, e perciò della capacità di essere rappresentato»[65].

Non ci si nasconde che riorientare in ambiente pluralista la teoria schmittiana della rappresentanza/rappresentazione incontra non poche difficoltà. Nell’opera di Schmitt vi sono almeno due soluzioni al problema dell’unità politica, che è l’‘ossessione’ ma anche il nodo irrisolto del pensiero schmittiano: la prima sembra delineare l’unità politica non quale presupposto, ma quale prodotto della decisione sovrana, che ‘miracolosamente’ le imprime forma[66]; la seconda, contaminata dal pensiero fondato sull’ordinamento concreto, prefigura l’unità politica del popolo, la sua esistenza politica, come preesistente alla decisione fondamentale, che segue e non crea la normalità[67].

La prima declinazione dell’unità politica potrebbe, però, sorreggere la costruzione di una rappresentanza che mette en form una unità politica che nella democrazia, ideologicamente e territorialmente, pluralista non può che essere una unità politica da raggiungere e non un baluardo precostituito da difendere. La Costituzione è la forma pluralistica della convivenza civile e politica degli individui. Solo il monismo assiologico può riflettere l’elemento identitario di un popolo autenticamente unito. Il pluralismo, invece, se preso sul serio, mal si concilia con l’idea che l’ordinamento presupponga un fine politico unitario ed ordinante. Il pluralismo non muove dall’unità, ma tende all’unità attraverso l’agire strategico dei soggetti che animano il tessuto pluralistico.   

Per questa via, si supererebbe l’opposizione, come principi della forma dell’unità politica, tra rappresentanza ed identità, tra governo rappresentativo e democrazia, ponendo la rappresentanza come costruttrice di identità non preesistente. Ancora, in questa interpretazione della teologia politica schmittiana, così come l’unità non esige l’astrazione, così la rappresentanza non è incompatibile con la logica della differenza e della possibilità, perché esclude la presenza immediata nella sua datità.

Per trovare una pacificazione, potrebbe dirsi che è bene che la rappresentanza politica, in esistenziale tensione (à la Schmitt) tra identità e differenza, sia aporetica, perché esclude, da un lato, un potere totalmente sovrapposto alla società, guidato da una profonda logica dell’identificazione, dell’incarnazione e dell’immedesimazione, dall’altro, una appropriazione indebita di sovranità da parte di una frazione del popolo[68].

Da qui potrebbe tentarsi una lettura del testo costituzionale attraverso cui ‘il tutto si lega’: la rappresentanza politica della nazione, con divieto di mandato imperativo, dell’art. 67 non annulla la sovranità del popolo dell’art. 1, ma è lo strumento che deve avere la capacità per rendere visibile l’idea, che può vivere solo come eccedenza rispetto al rappresentato, il quale, a propria volta, deve avere la capacità di progredire nella propria esistenza politica; i partiti politici dell’art. 49 sono il mezzo attraverso cui i rappresentati diventano cittadini ed i rappresentati acquisiscono la capacità di rappresentare; la rappresentanza dell’art. 87 concorre a definire, costruire, l’unità nazionale; quell’unità, poi, non esclude la relazione tra rappresentanza e differenze; a seguire, la recisione del legame tra rappresentanza e logica dell’uniformità impone di rivalutare la rappresentatività delle assemblee territoriali e così via.

Tale rilettura pluralista del dispositivo rappresentativo in Schmitt (e nella Costituzione) naufraga, però, ove si metta in discussione che la logica della presenza/assenza, del visibile/invisibile, del finito/infinito, propria della rappresentanza/rappresentazione apra davvero alla possibilità dell’alterità[69].

 

 

5. – Conclusioni

 

Se una conclusione può trarsi dall’incontro sassarese è che per la scienza giuridica continua ad essere utile guardare al tema della rappresentanza non già come ad un relitto semantico, come riteneva Luhmann[70], ma come ad un capitolo, centrale, della dottrina generale dello Stato e come alla categoria esistenziale, perché politica, della dottrina della Costituzione.

In ordine alla prima (alla dottrina generale dello Stato), non è, però, sufficiente guardare alla rappresentanza politico-elettiva. 

Le alternative nel dibattito sulla rappresentanza politica sono note. Si assiste al continuo e incerto oscillare tra una concezione della rappresentanza vicina al mandato, basata sul potere d’istruzione e di revoca, da parte del popolo, e una concezione che nella stessa rappresentanza vede la condizione necessaria di esistenza, quasi in senso hobbesiano, dello stesso popolo come unità politica, tra la rappresentanza su mandato imperativo, come surrogato della democrazia diretta e come implicazione necessaria della eguaglianza e della sovranità popolare vs la rappresentanza libera o indipendente, che attinge al criterio di legittimazione della competenza e rinvia ad una concezione razionalista della politica ed alle teorie elitiste o della democrazia capacitaire.

Ma il rapporto rappresentanza-elezioni non è costitutivo. E ciò non solo perché «l’elezione può essere un mezzo tanto del principio di rappresentanza quanto di quello dell’identità [...] ma occorre distinguere quale senso l’elezione abbia nella realtà. Se deve fondare una vera e propria rappresentanza, allora essa è lo strumento di un principio aristocratico»[71]. Ma, soprattutto, perché la struttura teorica della rappresentanza non include necessariamente l’elezione come metodo di scelta del rappresentante. Già nel dibattito del 1791 veniva reciso il nesso fra elezioni e rappresentanza con la teoria dell’elettorato-funzione. La Costituzione conosce forme di rappresentanza al di fuori dell’elezione a suffragio universale e diretto. Il Presidente della Repubblica rappresenta l’unità nazionale. I pubblici impiegati sono al servizio esclusivo della Nazione. Questa rappresentanza, che sempre presuppone che il rappresentante renda presente l’idea assente (nazione o popolo), cosa ha in comune con la rappresentanza elettiva? Si potrebbe pensare, unendo l’art. 67 e 87 Cost., che la rappresentanza, in tutte le sue manifestazioni, impone alla politica prestazioni di imparzialità: l’idea moderna di rappresentanza, l’agire per la società generale, per la città, per l’interesse generale, è coerente con la concezione della politica come imparzialità, in quanto preordinata a garantire l’interesse generale vs interessi particolari, a partire dal pouvoir neutre di Constant, la cui imparzialità non ne esclude la politicità. Insomma ripensare alla rappresentanza come categoria autonoma, concettualmente distinta, dal momento democratico, potrebbe aiutare a scoprirne l’in sé e, quindi, a gettare luce anche sulla sua declinazione elettiva.

In ordine alla seconda (alla dottrina della Costituzione), alla rappresentanza (libera) potrebbe guardarsi, dal lato del potere, come ad un momento del problema del limite, considerata la sua coerenza con l’idea di sovranità limitata: nella rappresentanza moderna vi è una legge esterna alla volontà del popolo. Il potere rappresentativo è un potere che frena, è un potere ‘catecontico’. La giustizia costituzionale è, a ben vedere, parte della questione della rappresentanza. La matrice logica della declinazione della rappresentanza libera non è dissimile dall’idea del potere limitato sottesa alla pensabilità stessa del controllo di costituzionalità, che è tutt’uno con la rinuncia all’unicità del centro di irradiazione del potere politico, alla diffusività della sovranità popolare ed alla separazione tra tutela dei diritti e principio democratico e, più in generale, è coerente con le ragioni del costituzionalismo giuridico vs politico. Alla rappresentanza come luogo dell’unità potrebbe, poi, opporsi la giurisdizione costituzionale come luogo del pluralismo. La forza dell’ascesa del controllo di costituzionalità diminuisce, invece, ove viga il principio di identità, nella forma della democrazia diretta o della rappresentanza con mandato, che assolutizza il monismo della volontà generale e rafforza, non a caso, le ragioni del costituzionalismo politico.

Dal lato delle libertà, non è difficile cogliere che le diverse teoriche della rappresentanza implicano diversi concetti o, in ogni caso, concezioni di libertà (degli antichi e dei moderni).

Tutte queste ragioni forniscono argomenti per continuare la ricerca, ponendo tra parentesi la critica di Marx contro il diritto pubblico hegeliano e contro ogni sdoppiamento delle attività sociali, ossia contro la distinzione di particolarità e totalità che sarebbe sempre fondamento di dominio, e pure la critica di Nietzsche ai mondi retrostanti e alla moderna ossessione per la ragione e razionalità tecnica[72] e non ascoltare il monito di Adorno in Minima Moralia: «Un consiglio agli intellettuali: non farsi mai rappresentare»[73]. Oppure, ridimensionando l’obiettivo, potrebbero aiutarci a gettare un po’ di luce su quello che, come ricorda Lobrano[74], Hannah Arendt ha definito il «mistero» della rappresentanza politica[75].

 

 

Abstract

 

The paper aims to give an account of the issues of "representation in public law" treated in the Sassari’s meeting of 6 November 2014, imagining to continue the dialogue with the speakers. First, the constitutionalist Caretti has performed an attempt to outline the evolution (which proved involution) of the concept of political representation from the threshold of modernity up to the State Constitutional contemporary. Second, the Romanist Lobrano had a radical criticism of the logic of representation, that opposed the model of constitutionalism-medieval English or parliamentary-representative to the Roman-republican model, which proposes the recovery of the contract societas against the deception of the person ficta vel repraesentata. Finally, the political philosopher Mura looked to political representation as a modern form of political legitimacy of the authority and underlined the existence two conceptions of representation in the history of Western political thought: the replacement of people against the replacement of will.

The author tries to rethink the representation, which also today shapes the deliberativist democratism and the Rousseau’s constitutionalism, as a force of quality 'active' than the social pluralism, which gives form to the ideas (people, nation .. ) that did not pre-exist.

 

 

Il lavoro si propone di dar conto delle questioni su “La rappresentanza nel diritto pubblico” messe in gioco nell’incontro sassarese del 6 novembre 2014, immaginando di proseguire il dialogo con i relatori. Alle riflessioni del costituzionalista Caretti, che ha esperito il tentativo di delineare l’evoluzione (che si è rivelata involuzione) del concetto di rappresentanza politica dalle soglie della modernità sino allo Stato costituzionale contemporaneo, segue la critica radicale della logica della rappresentanza del romanista Lobrano, che oppone al modello del costituzionalismo medievale-inglese o parlamentare-rappresentativo il modello romano-repubblicano-municipale, del quale propone il recupero del contratto di societas contro l’inganno della persona ficta vel repraesentata. Il filosofo politico Mura, infine, ha guardato alla rappresentanza politica come forma moderna di legittimazione politica dell’autorità ed ha isolato due concezioni della rappresentanza nella storia del pensiero politico occidentale: la sostituzione di persone vs la sostituzione di volontà.

L’autrice prova a ripensare la rappresentanza, della quale neppure il democraticismo deliberativista o il costituzionalismo rousseauviano paiono sino in fondo liberarsi, come una forza di qualità ‘attiva’ rispetto al pluralismo sociale, che mette in forma le idee (popolo, nazione..) che non le preesistono.

 

 



 

[1] Il Convegno-dibattito “La rappresentanza nel diritto pubblico”, promosso dal Dipartimento di Giurisprudenza dell’Università degli studi di Sassari, per iniziativa delle cattedre di diritto costituzionale, si è svolto il 6 novembre 2014, nell’Aula Magna dell’Ateneo sassarese.

 

[2] H. Hofmann, Rappresentanza-Rappresentazione. Parola e concetto dall’antichità all’Ottocento, Milano, 2007, IX.

 

[3] E. Sieyès, Opinione sul progetto di costituzione, in G. Troisi Spagnolo (a cura di), Opere e testimonianze politiche, Milano, 1993, 790.

 

[4] L’espressione è coniata da Alexander Hamilton: The Papers of Alexander Hamilton, vol. I, 1768-1778, New York, 1961, 255.

 

[5] Su cui, per le coordinate minime, vedi M. Goldoni, La dottrina costituzionale di Sieyès, Firenze, 2009, 30 ss. 

 

[6] Convergono sul rapporto politica/economia le riflessioni sulla rappresentanza di G. U. Rescigno, Brevi note metodologiche per riesaminare i concetti collegati di democrazia, rappresentanza, responsabilità, in L. Carlassare (a cura di), Democrazia, rappresentanza, responsabilità, Padova, 2001, 9 ss.; V. Onida, Conclusioni, ivi, 174.

 

[7] Che non significa assolutizzazione speculare e reciproca fra identità e alterità, fra il totalmente medesimo e il totalmente dissimile: A. Cavarero, La bestia di Derrida, in Iride, 2010, n. 59, 213.

 

[8] M. Foucault, Le parole e le cose. Un’archeologia delle scienze umane, Milano, 2013, 61-63.

 

[9] P. Rosanvallon, Il Politico. Storia di un concetto, Soveria Mannelli, 2005, 20.

 

[10] V. E. Orlando, Del fondamento giuridico della rappresentanza politica (1895), ora in Diritto pubblico generale, Milano, 1954, 417 ss. Più di recente L. Ornaghi, Atrofia di un’idea. Brevi note sull’“inattualità” odierna della rappresentanza politica, in Riv. dir. cost., 1998, 3 ss.;

 

[11] L. Jaume, Autour de Hobbes: représentation et fiction, in Droits, 1995, n. 21, 103. 

 

[12] M. Foucault, op. cit., 50 ss.

 

[13] Il Linguaggio era un particolare caso della rappresentazione per i classici o del significato per noi: ancora M. Foucault, op. cit., 79 ss. .

 

[14] G. Duso, La rappresentanza politica. Genesi e crisi del concetto, Milano, 2003, 151 e 174 ss.

 

[15] C. Schmitt, Der Hüter der Verfassung, (1931), Berlin, 1969, trad. it. A. Caracciolo, Il custode della costituzione, Milano, 1981, 139.

 

[16] Si ammette l’uso improprio di un sintagma che, forse, non ha senso, perché, per lo meno nella giuspubblicistica continentale, la democrazia o è diretta o non è, è altro, è appunto rappresentanza.

 

[17] G. Leibholz, Der Repräsentation in der Demokratie (1973), tr. it. S. Forti, La rappresentazione nella democrazia, Milano, 1989, 135 ss.

 

[18] J. J. Rousseau, Contratto sociale o princìpi del diritto politico, in J. J. Rousseau, Scritti politici, Bari, 1971, L. III, cap. XV, 162-5. In Sieyès il rapporto si rovescia: è la democrazia diretta che imporrebbe un’economia basata sulla schiavitù e, se si rinuncia alla schiavitù, la democrazia diretta riduce la libertà individuale (sul punto M. Goldoni, op. cit., 40).

 

[19] P. Pinna, Il principio di leale collaborazione, l’indipendenza della magistratura e la separazione del potere, in Alle frontiere del diritto costituzionale. Scritti in onore di Valerio Onida, Milano, 2011, 1459-60.

 

[20] Le sue tesi sono articolatamente esposte in G. Lobrano, La respublica romana, municipale-federativa e tribunizia: modello costituzionale attuale, in questa Rivista, 2004, n. 3; Id., Dottrine della ‘inesistenza’ della Costituzione e il “modello del diritto pubblico romano”, ivi, 2006, n. 5; Id., La alternativa attuale tra i binomi istituzionali: “persona giuridica e rappresentanza” e “società e articolazione dell’iter di formazione della volontà”. Una ìpo-tesi (mendeleeviana), ivi, 2011-2012, n. 10.

 

[21] Virgilio Mura ha, però, sottolineato che si deve proprio a Costantino Mortati la scrittura dell’art. 67 Cost. ed, in particolare, l’inciso che i deputati “rappresentano la Nazione”, al dichiarato scopo di rigettare la concezione “democratica” di Rousseau a favore di quella “liberale” di Montesquieu.

 

[22] Democrazia e rappresentanza, in Quaderni costituzionali, 1985, 227 ss.

 

[23] L. Althusser, L’impensato d J.-J. Rousseau, a cura di V. Morfino, Milano, 2003, 56.

 

[24] Potrebbe aggiungersi anche la diffusione della logica della programmazione nel circuito del rapporto Governo-Parlamento con l’art. 19, l. n. 400 del 1988, che alla lett. a) discorre di «predisposizione della base conoscitiva e progettuale per l'aggiornamento del programma di Governo» ed alla lett. h) di predisposizione degli «adempimenti per l'intervento del Governo nella programmazione dei lavori parlamentari e per la proposizione nelle sedi competenti delle priorità governative; assicurare una costante e tempestiva informazione sui lavori parlamentari anche al fine di coordinare la presenza dei rappresentanti, del Governo; provvedere agli adempimenti necessari per l'assegnazione dei disegni di legge alle due Camere, vigilando affinché il loro esame si armonizzi con la graduale attuazione del programma governativo». A ciò si aggiunge la presentazione del Governo alle Camere per chiederne la fiducia sulla base di un programma di governo. Nel caso della l. 400, la previsione di un programma del Governo, su cui il medesimo si presenta alle Camere per la fiducia, rafforza il vincolo di dipendenza del Governo dal Parlamento. Siamo ancora lontani da un vincolo diretto tra corpo elettorale e rappresentanti, ma forse potrebbe desumersene, per lo meno, una maggiore dipendenza dell'esecutivo dall'organo rappresentativo del corpo elettorale.

 

[25] D. Sternberger, Kritik der dogmatischen Theorie der Repräsentation, in Schriften, 1971, vol. III, 175 ss., su cui vedi R. Scognamiglio, Critica della «teoria dogmatica». La rappresentanza politica per Dolf Sternberger, in Filosofia politica, 1999, n. 3, 423 ss.

 

[26] L’argomento, emerso nel corso del dibattito, è ora sviluppato in T. Gazzolo, Due logiche catecontiche: rappresentazione e stasiologia, in corso di pubblicazione in Jura Gentium.

 

[27] T. Hobbes, Levitano, XVII, Roma-Bari, 2001, 134.

 

[28] U. Mattei, Common Law. Il diritto anglo-americano, Torino, 1992, 77 ss.

 

[29] N. Matteucci, Introduzione a C. H. McIlwain, Costituzionalismo antico e moderno, New York, 1947, trad. it. V. de Caprariis, Costituzionalismo antico e moderno, Bologna, 1990, 12; C. H. McIlwain, The High Court of Parliament and Its Supremacy, Hamden, Conn., 1962.

 

[30] Sulla thése parlementaire del costituzionalismo di antico regime F. Di Donato, La rinascita dello Stato. Dal conflitto magistratura-politica alla civilizzazione istituzionale europea, Bologna, 2010.

 

[31] Cfr. C. H. McIlwain, op. ult. cit., passim e spec. 89 ss.

 

[32] Sulla distinzione-complementarietà nei regimi parlamentari contemporanei tra la dottrina della separazione del potere di Madison e la dottrina della limitazione del potere di McIlwain  cfr. O. Chessa, Il Presidente della Repubblica parlamentare. Un’interpretazione della forma di governo italiana, Napoli, 2010, 107 ss.; P. Pinna, L’errata distinzione tra l’indirizzo politico e la garanzia costituzionale, in Diritto & questioni pubbliche, 2011, n. 11, 359 ss.

 

[33] Secondo, almeno, la lettura offerta da N. Urbinati, Representative Democracy. Principles and Geneaology, Chicago, 2006, 147-149.

 

[34] A. Di Marco, Thomas Hobbes nel decisionismo giuridico di Carl Schmitt, Napoli, 1999, 497.

 

[35] N. Bobbio, Organicismo e individualismo: un’antitesi, in A. M. Petroni, R. Viale (a cura di). Individuale e collettivo. Decisione e razionalità, Milano, 1997, 182. 

 

[36] Lo nota L. Althusser, L’impensato di J.-J. Rousseau, cit., 25. 

 

[37] V. Mura, Categorie della politica. Elementi per una teoria generale, Torino, 2004, 182 ss.

 

[38] Ibidem, 190.

 

[39] L’incoerenza (e, dunque, la debolezza) dell’argomento è, del resto, apprezzabile ove si consideri che il problema del deficit democratico è sollevato anche sul versante opposto dei consessi massimamente estesi, come quello dell’Unione europea. È, cioè, argomento adoperato per affermare una cosa e il suo contrario; è in funzione difensiva dell’unica rappresentanza ritenuta possibile: quella statale.

 

[40] J. J. Rousseau, Le contrat social, trad. it. R. Gatti, Il contratto sociale, Milano, 2005, 80.

 

[41] Ivi, 77.

 

[42] Almeno nella lettura di B. Manin, On Legitimacy and Political Deliberation, in Political Theory, 1987, n. 15, 346 ss.

 

[43] Nota la struttura rappresentativa, per ironia della sorte, di tutte le istanze comunitarie di partecipazione B. Accarino, Rappresentanza, Bologna, 1999, 14.

 

[44] Ma l’archeologia del sapere di Foucault ha dimostrato che la rappresentanza-rappresentazione ha sostituito la somiglianza come forma di conoscenza: M. Foucault, Le parole e le cose, cit., 50 ss.

 

[45] Sulla critica di Habermas a Rawls in Conciliazione tramite uso pubblico della ragione, in Id., L’inclusione dell’altro. Studi di teoria politica, Milano, 1998, 63 ss. e sulla risposta di Rawls, Risposta a Jǘrgen Habermas, in Micromega, suppl. 1995, n. 5, 51 ss., basti qui M. Vatter, Il potere del popolo e la rappresentanza in Rawls e nel repubblicanesimo civico, in Filosofia politica, 2010, n. 2, 263 ss.  

 

[46] Sulla figura mitica del Grande legislatore per risolvere i fallimenti della volontà generale O. Chessa, Il nesso tra libertà e volontà generale nel Contratto sociale di Jean-Jacques Rousseau, in G. Lobrano, P. Onida (a cura di), Il principio della democrazia. Jean-Jacques Rousseau. Du Contrat sociale (1762), Napoli, 2012, 116 ss. 

 

[47] T. Nagel, The View from Nowhere, Oxford, 1986.

 

[48] Qui il rappresentante è il ‘padrone’ dei rappresentati, che «distribuisce loro dall’alto il sole e la pioggia», nella critica di K. Marx, Il 18 Brumaio di Luigi Bonaparte (1852), Roma, 2001, 200.

 

[49] Hegel, Lineamenti di filosofia del diritto, § 311, scrive che il rappresentare non ha «neppure più il significato che uno sia al posto di un altro», perché invece «l’interesse stesso è realmente presente nel suo rappresentante, così come il rappresentante è lì per il suo proprio elemento oggettivo».

 

[50] Che creerebbe solo un’«illusione di libertà», secondo la nota critica di H. Kelsen, Das problem des Parlamentarismus, Wien-Leipzig, 1924, trad. it. B. Fleury, Il problema del parlamentarismo, in Id., La democrazia, Bologna, 1998, 193 ss.

 

[51] G. Duso, La rappresentanza politica. Genesi e crisi del concetto, Milano, 2003, 64-65.

 

[52] Sulla mobilità parlamentare, per tutti, S. Curreri, Rappresentanza politica e mobilità parlamentare, in N. Zanon, F. Biondi (a cura di), Percorsi e vicende attuali della rappresentanza e della responsabilità politica, Milano, 2001, 189 ss.; P. Caretti, I gruppi parlamentari nell’esperienza della XIII Legislatura, in L. Carlassare (a cura di), Democrazia, rappresentanza, responsabilità, cit.,  53 ss.

 

[53] M. Luciani, Il paradigma della rappresentanza di fronte alla crisi del rappresentato, in N. Zanon, F. Biondi (a cura di), Percorsi e vicende attuali della rappresentanza e della responsabilità politica, cit., 109 ss.

 

[54] Di cui discorre P. Rosanvallon, Il popolo introvabile. Storia della rappresentanza democratica in Francia, Bologna, 2005.

 

[55] Ibidem, 336.

 

[56] Ibidem, 46.

 

[57] P. L. Roederer, Abus d’un mot à l’aide duquel on a fait d’horribles choses, in Journal de Paris, 15 gennaio 1797, riprodotto in Euvres du comte Pierre Louis Roederer, t. VI, Paris, 1857, 231.

 

[58] Questi gli interrogativi che pone P. Rosanvallon, op. ult. cit., 23.

 

[59] Ibidem, 337.

 

[60] Ibidem, 339.

 

[61] G. A. Di Marco, op. cit., 490.

 

[62] C. Schmitt, Römischer Katholizismus und politische Form, München, 1925, tr. it. Cattolicesimo romano e forma politica, a cura di C. Galli, Milano, 1986, 49-50, 56 e 277.

 

[63] C. Schmitt, Verfassungslehre, München, Leipzig, 1928, trad. it. A. Caracciolo, Dottrina della costituzione, Milano, 1984, 277.

 

[64] Ibidem, 277.

 

[65] G. A. Di Marco, op. cit., 501. 

 

[66] Prevale in C. Schmitt, Ueber die drei Arten des Rechtswissenschaftlichen Denkens, Hamburg, 1934, trad. it. I tre tipi di pensiero giuridico, in Id., Le categorie del “politico”, a cura di G. Miglio, P. Schiera, Bologna, 1972, 260 ss.; Id., Politiche Theologie. Vier Kapitel zur Lehre von der Souveränität, München-Leipzig, 1922, trad. it. Teologia politica. Quattro capitoli sulla dottrina della sovranità, ivi, 39-40.

 

[67] Permea la Dottrina della Costituzione, cit., 168 ss.

 

[68] Stigmatizza tali polarizzazioni P. Rosanvallon, Il politico, cit., 35.

 

[69] Sulla rappresentanza-rappresentazione come logica ‘catecontica’ della identità-conservazione-finitudine, cui si opporrebbe, all’interno della dimensione del teologico-politico, la differente logica ‘catecontica’ della stasiologia, come pensiero escatologico dell’apertura, del frammezzo, della possibilità dell’alterità, vedi T. Gazzolo, Due logiche catecontiche, cit.

 

[70] N. Luhmann, Die Wissenschaft der Gesellschaft, Frankfurt am Main, 1992, 479 ss.

 

[71] C. Schmitt, Dottrina della costituzione (1928), Milano, 1984, 337-338. Sul punto cfr. B. Manin, Principles du gouvernement représentatif, Paris, 1995, 191-200.

 

[72] Critiche, poi, riprese dalla filosofia postmoderna: si rinvia a H. Hofmann, Rappresentanza-Rappresentazione, cit., XXXI.

 

[73] T. W. Adorno, Minima Moralia, parte II, 1945.

 

[74] G. Lobrano, Dottrine della ‘inesistenza’ della Costituzione e il “modello del diritto pubblico romano”, cit., spec. nota 27.

 

[75] H. Arendt, Le origini del totalitarismo (1951), Milano, 1989.