Appunti
per una semantica della rappresentanza politica. Note ‘libere’
dall’incontro sassarese su “La rappresentanza nel diritto
pubblico”
Università di Sassari
SOMMArI0: 1. La rappresentanza e l’horror vacui. – 2. L’involuzione
della rappresentanza politica e la circolarità della storia. –
3. La critica della rappresentanza: l’inganno
della persona ficta vel repraesentata ed
il recupero del contratto romano di societas.
– 3.1. Le aporie del democraticismo
deliberativista e del repubblicanesimo civico: dalla rappresentanza non si
esce?. – 4. La rappresentanza e le
‘categorie della politica’: sostituzione di persone o sostituzione
di volontà? – 4.1. La
‘costruzione’ del rappresentato: per una teoria interpretativa
delle disposizioni costituzionali sulla rappresentanza. – 5. Conclusioni. – Abstract.
Dinnanzi al tema della
rappresentanza politica, il giuspubblicista prova l’horror vacui di chi fatica non solo a dominare la dimensione
sacrale-teologica della rappresentanza, ma, soprattutto, a mettere a profitto,
a tradurre, a riscrivere
l’approccio filosofico e semiologico-linguistico della rappresentanza
nello spazio della teoria e del diritto costituzionale, che, qui, più
che altrove, ha forse poco di originale da dire. L’originalità, o,
per lo meno, l’utilità per lo studioso di diritto positivo, potrebbe
recuperarsi ove si riuscisse a costruire una teoria interpretativa della
rappresentanza politica, cioè una teoria che sostenga la deduzione di
norme dalle disposizioni costituzionali sulla rappresentanza.
Questa è la
premessa teorica da cui ha preso l’avvio l’incontro sassarese sulla
rappresentanza nel diritto pubblico[1].
Da lì la prima
mossa compiuta: l’emendamento del titolo. Il lemma che, infatti, è
parso più compiutamente restituire il senso dell’incontro, attingendo al contributo della filosofia
politica, è quello di “rappresentanza-rappresentazione”.
È attraverso la rappresentazione che ‘il tutto si lega’,
dimensione teologica e dimensione politica: la rappresentazione è la
struttura teoretica che consente l’analogia del teologico e del politico.
Storici, filosofi e letterati di Berkeley hanno fondato negli anni 80 una
rivista “Representations”:
il legame è proprio la struttura logica della rappresentazione, che
attraversa tutti i linguaggi ed in cui rivive anche il concetto del
‘politico’.
All’emendamento
sono state affiancate due precisazioni. Da un lato, tale integrazione non ha
voluto eliminare la pluralità dei significati di questa espressione, che
resta “sin semantica” e “sincategorematica”[2], perché non
è il nome di una cosa (sempre che le parole abbiano ancora legami con le
cose), ma racchiude in sé significati diversi a seconda dei contesti.
Già Sieyés affermava nel primo discorso termidoriano che «tutto
è rappresentanza in uno stato sociale. Essa è presente ovunque
nell’ordinamento privato come nell’ordinamento pubblico; essa
è la madre dell’industria, della produzione e del commercio, come
pure di ogni progresso liberale e politico. Essa si confonde con
l’essenza stessa della vita sociale»[3]. L’integrazione, quindi, è sembrata utile per ampliare
la discussione, non già per restringerla. Dall’altro, il rimando
al termine di lingua tedesca Repräsentation,
che contrappone semanticamente la rappresentanza del diritto
pubblico-costituzionale alla rappresentanza con mandato (Vertretung) del diritto privato, non ha voluto significare
né la scelta normativa per la concettuologia tedesca o, comunque,
mitteleuropea della rappresentanza, aristocraticamente sciolta, come principio
della forma politica (in contrapposizione al principio di identità),
dalla democrazia (nonché dalla sovranità popolare e dalla
separazione dei poteri), in luogo del contesto
americano, dove ha senso l’espressione “democrazia
rappresentativa”[4], né ha voluto
significare l’opzione prescrittiva per una divaricazione, prevalsa nel
dibattito politico-giuridico weimariano (il riferimento è, come ovvio, a
Schmitt e Leibholz), tra la rappresentanza della sfera del politico e la concezione
privatistica o tecnico-economica. Questo secondo profilo porterebbe, peraltro,
dritto al rapporto di corrispondenza o meno tra la rappresentanza politica e
l’economia politica (nell’accezione classica della divisione del
lavoro accolta nella dottrina costituzionale di Sieyès in Che cos’è il terzo Stato?[5]) e, da lì,
all’autonomia del politico dall’economico[6].
Con questi
avvertimenti, però, l’integrazione del titolo è parsa
giovare alla discussione, alla sua apertura.
Ha consentito di scoprire nella rappresentanza la dialettica tra i registri
dell’identità e dell’alterità-differenze[7], tra il visibile e
l’invisibile, tra l’uno ed il molteplice, tra l’immagine
originale e la copia, che è sottesa all’idea (nella teologia,
nella filosofia e nell’arte) di ‘rappresentazione’ e senza
cui neppure la rappresentanza politica, stretta tra la politica della presenza
e l’idea dell’assenza del rappresentato (sia essa il popolo o la
nazione), si dà. Per restare tale, la rappresentanza moderna non varca mai le frontiere nette
della differenza né raggiunge il cuore dell’identità, un
po’ come il Don Chisciotte che, proprio per tale indecisione, appare a
Foucault la prima opera moderna[8].
A
propria volta, quella dialettica potrebbe aiutare il diritto costituzionale e
la sua eterna (nel senso di primordiale) aspirazione all’unità
dell’agire di una pluralità di uomini – e, quindi, alla
convivenza – a fondare teoricamente la compatibilità tra la logica
della rappresentanza e la logica della differenza/concretezza. In gioco vi
è la relazione tra l’astrazione-universalizzazione
rappresentativa, cui si connettono i concetti di popolo, unità politica
e sovranità, e la concreta differenziazione sociologica, alla quale si
attagliano le idee procedurali e integrative dell’unificazione politica[9].
È dal 1895 che
Orlando ci avverte che quello della rappresentanza è un concetto
problematico ed in crisi[10], ma la sua
problematicità lo ha forse avvalorato. Lungi dal disincantare la
politica, la rappresentanza «infiamma il teatro della politica»[11]. L’obiettivo
polemico potrebbero (dovrebbero) piuttosto essere gli interessi che sfuggono
alla rappresentanza.
Nell’incontro vi
è stata, con tutta probabilità, una lacuna. Non pare eccentrico
inscrivere il ‘gioco’ della rappresentanza/rappresentazione
politica in una economia del ‘segno’. Nella sua archeologia del
sapere della cultura occidentale, Foucault ha visto nella rappresentazione la
conseguenza dello scioglimento del rapporto tra parole e cose[12]. La rappresentazione si
ha dopo la separazione tra similitudine e segni. Allo scioglimento del rapporto
tra parole e cose, l’età classica risponde con l’analisi
della rappresentazione ed il pensiero moderno con la teoria dei segni o meglio
dei significati, da cui noi partiamo per pensare ai segni (logica di Port
Royal, teoria binaria dei segni e teoria generale della rappresentazione)[13]. Ancora, la struttura
teoretica della rappresentazione è, secondo la teologia politica di Cattolicesimo romano e forma politica,
il presentificare: il rendere
presente l’assente, visibile l’invisibile. È, cioè,
una eccedenza, un ‘supplemento’, irriducibile sia alla mera
figurazione o all’immagine nello specchio sia alla pura creazione[14]. Anche nel
‘politico’ la rappresentanza è rimando ad altro, vive nella
logica del segno, non è solo stare al posto di qualcun altro.
L’inclusione
della rappresentazione in una economia del segno potrebbe, allora, aiutare a
comprendere come la tensione immanente alla rappresentanza politica, la sua
aporeticità, deriva, in fondo, dalla sua stessa struttura logica, dalla
sua trascendenza rispetto al mero rispecchiamento del rappresentato, dopo che
le parole si sono sciolte dalle cose.
Il passo successivo da
compiere è riuscire a desumerne una teoria interpretativa della
rappresentanza politica nel diritto positivo.
Ma lasciamo da parte
il non-detto e proseguiamo con ciò che è stato detto
nell’incontro sassarese.
Paolo Caretti ha
esperito il tentativo di delineare l’evoluzione (che si rivelerà
involuzione) del concetto di rappresentanza politica dalle soglie della
modernità sino allo Stato costituzionale contemporaneo. Ha guardato alla
fenomenologia del rapporto rappresentanti/rappresentati nel processo di
decisione politica ed alla sua eziogenesi. Ha, quindi, tenuto insieme nella sua
riflessione sulla rappresentanza politica il tema della sovranità e
della legittimazione all’esercizio del potere con il tema dei sistemi
elettorali.
Lo Stato moderno,
nella forma assunta tra il XVIII e XIX secolo, in quanto rappresentante di Dio,
della ragione, del contratto sociale ovvero della nazione, assolve la funzione
rappresentativa, in sé, in forza delle proprie prestazioni di esercizio
unitario del potere. Il momento elettivo è una fictio iuris (Constant) che consente di delegare l’esercizio
della sovranità (se non la sua titolarità) ai più saggi, a
coloro che sanno interpretare, secondo il liberalismo capacitaire, il bene comune. Il perno del dispositivo rappresentativo sta nella sua capacità di
astrazione.
Il modello si incrina
per l’irrompere dei partiti politici di massa. Nell’esperienza
dello Stato liberale dei primi decenni del XX secolo viene meno la finzione
dell’omogeneità della società da rappresentare, la cui unità
deve essere artificialmente costruita ed il rapporto di rappresentanza non
è più duale, ma è un concatenamento tra tre soggetti
(rappresentati, partito politico e rappresentanti). Quella omogeneità
viene, però, sostanzialmente ricostruita
da una classe egemone, governante, che, in forza del suffragio elettorale
limitato, è portatrice di interessi omogenei e dalla decisione politica
del Parlamento, che rappresenta una frazione omogenea della società. La
rappresentanza nello Stato monoclasse ha, dunque, svolto la funzione di legittimazione
e di unificazione dell’esercizio del potere in forza della
rappresentazione di interessi effettivamente, e non solo fittiziamente,
omogenei. Il prezzo pagato è stato l’unificazione mediante
l’elisione dell’altro,
che non assurgeva neppure alla dignità di rappresentato.
Questa
linearità storica si interrompe nello Stato fascista. Caretti ne
individua la cifra nel ritorno al passato: la rappresentanza torna ad essere un
rapporto duale tra il partito unico e le istituzioni, che esercitano il potere
nello Stato e che del partito sono l’espressione istituzionale. È
il modello dello Stato a partito unico (Staatspartei).
Riemergono, trasfigurate, le ‘finzioni’ del passato: lo Stato come
nuovo sovrano, interprete unico del bene comune, rappresentante in sé,
in quanto entità astratta, degli interessi della società, non
bisognoso di alcun principio di legittimazione se non quello che gli proviene
dalla sua stessa legittimazione. Qui fiorisce la teoria dei diritti riflessi di
Gerber e Laband.
Saranno le Costituzioni
del secondo dopoguerra, nello Stato pluralistico dei partiti (Parteienstaat), a riannodare i fili
della rappresentanza politica attorno al rapporto trilaterale
rappresentati/partiti politici/rappresentanti. La Costituzione, rigida e
‘lunga’, pone a quel rapporto un limite negativo, compendiabile
nella regola del confronto democratico ed un indirizzo positivo, rappresentato
dai principi e valori contenuti nella Costituzione-programma. La rappresentanza
non deve essere solo la forma del confronto democratico tra visioni parziali
del bene comune, ma anche il rapporto sostanziale e ascendente tra
rappresentati e rappresentanti, secondo il principio della sovranità
popolare. Il luogo delle rappresentanze ‘parziali’ è il Parlamento,
ove dialetticamente si costruisce l’unità nazionale,
l’interesse nazionale, che non è più un dato presupposto, a priori, e la regola della formazione
di quelle rappresentanze non può che essere, come intuito da Carlo
Lavagna, una legge elettorale di tipo proporzionale.
Caretti coglie,
però, l’incompiutezza di quel programma. La stagione della
centralità, nella forma di governo, del Parlamento e della sua funzione
di unificazione inclusiva, infatti, è ormai tramontata e le prestazioni
di unità sostanziale richieste alla rappresentanza politica sono rimaste
inadempiute. Le cause sono numerose: dalla scomparsa delle ideologie politiche
del Novecento alla crisi profonda dei partiti politici, alla scarsa cultura
istituzionale della classe politica, ai mutamenti indotti dal processo di
integrazione europea e di globalizzazione economica, alla declinazione in
chiave individualistica dei diritti, nonché all’affermarsi di una
concezione decisionista ed efficientista della democrazia, riassumibile
nell’opposizione tra democrazia della decisione vs democrazia del confronto. Le conseguenze sono: la diffusione di
sistemi elettorali maggioritari, la ipervalorizzazione del momento elettorale
come elemento esaustivo del rapporto rappresentati/rappresentanti, la
personalizzazione esasperata delle leadership,
la sterilizzazione della dialettica tra i rappresentanti e della funzione
unificante del Parlamento, l’eclissi della capacità dei partiti
politici di interpretare e costruire organiche visioni di sviluppo
della società a favore delle capacità taumaturgiche dei leader, nonché
l’accentuarsi delle tendenze neocontrattualistiche o neocorporative dello
Stato contemporaneo. L’epilogo è lo svuotamento del principio
rappresentativo: al popolo si torna a chiedere la delega in bianco a favore di
rappresentanti capaci di riassumere
in sé aspirazioni e valori differenti. La sovranità di un
Parlamento che non rappresenta più gli assenti, che non li rende
presenti, si sostituisce alla sovranità del popolo. La rappresentanza
torna ad essere fittizia come alle soglie della modernità: è la
rappresentanza di una classe politica che, una volta chiamata maggioranza, si
autolegittima in quanto sedicente migliore interprete del ‘bene’
comune.
Circolarmente, la
contemporaneità registra la riemersione di una visione antica della
rappresentanza: la fine è anche l’inizio ed il tempo della storia
è quello dell’eterno ritorno.
Mi pare di poter
intravedere nella riflessione di Caretti la eco della critica schmittiana
all’ideologia liberale, che da tempo ha predetto la trasformazione del
Parlamento da «teatro di una discussione libera e costruttiva di liberi
rappresentanti del popolo» in «teatro di una divisione pluralistica
delle forze sociali organizzate»[15].
Immaginando di dialogare
con Caretti, potrebbe, poi, aggiungersi che l’effetto dis-rappresentativo
del concatenamento tra elettori, partiti ed eletti non è affatto scritto
nel testo costituzionale, né nella ‘forma-partito’ né
nella forma di governo parlamentare (49, 67 e 94, Cost.). Quel concatenamento,
infatti, induce ad interrogarsi non tanto sul rapporto di alterità
necessaria tra sovranità del popolo e sovranità del Parlamento,
ma sulla collocazione del partito politico tra la prima e la seconda. Il
dibattito sul partito politico potrebbe sottrarsi alle obiezioni che si muovono
alla rappresentanza del parlamentarismo liberale, abbandonandone la fisionomia
liberale: la valorizzazione, in chiave istituzionistica, mortatiana e non
già orlandiana, dell’art. 49 potrebbe opporre la democrazia dei
partiti, in quanto surrogato della democrazia diretta[16] alla rappresentanza
libera dell’art. 67. Se, infatti, il modello liberale e sociale di
partito di Orlando era funzionale alla sovranità del parlamento, il
secondo, volto a proiettare i partiti nella sfera della determinazione
dell’indirizzo politico, dava speranza alla prospettiva della
sovranità popolare dell’art. 1, Cost. ed alla possibilità
che la medesima esprimesse una funzione di governo. Non molto diversa è
la ragione della critica alla rappresentanza mediante i partiti in Leibholz[17]: è lì che
lo Stato dei partiti è ritenuto incompatibile con la rappresentanza ed
ascrivibile alla democrazia diretta, perché verrebbe meno la distinzione
tra stato e società. Insomma, i partiti politici potrebbero aiutare a
superare l’obiezione mossa da Rousseau secondo cui il popolo inglese
è libero soltanto durante le elezioni e spezzare il binomio
rappresentanza-schiavitù[18].
Ciò detto,
sulla funzione rappresentativa del Parlamento pesa l’art. 67, Cost. Il
Parlamento rappresenta l’unità politica nella
separazione/indipendenza governanti-governati. Il Parlamento rappresenta ed
è responsabile dinnanzi al popolo? Come ha sottolineato Piero Pinna, la
non revocabilità induce a rispondere negativamente. Manin dice che gli
elettori con sanzioni elettorali al massimo possono impedire la prosecuzione
del rapporto politico: «nel governo rappresentativo la negazione è
più potente dell’affermazione». Ma la non rielezione, con
effetto interdittivo, non è rimozione del governante. Quindi, il governo
parlamentare, come ogni governo rappresentativo, è funzionalmente
indipendente dal popolo, più precisamente dal corpo elettorale, ma ne
dipende organicamente attraverso le elezioni[19].
Caretti ha
stigmatizzato l’involuzione dis-rappresentativa
della rappresentanza politica e, con essa, la crisi della forma di governo parlamentare,
ma la sua prospettiva normativa è rimasta saldamente ancorata al modello
del costituzionalismo parlamentare, di cui andrebbe, appunto, recuperata la,
ormai sbiadita, capacità rappresentativa.
Lobrano ha, invece,
mosso una critica radicale alla rappresentanza politica: dinnanzi ai due
paradigmi dello ius publicum, i.e. il modello del costituzionalismo
medievale-inglese o parlamentare-rappresentativo ed il modello
romano-repubblicano-municipale, la sua scelta è caduta sul secondo[20].
Semplificando,
l’opposizione che Lobrano pone è tra la sovranità del
Parlamento (come dello Stato, della Nazione o della Costituzione) e la
sovranità del popolo, tra la democrazia rappresentativa (che non
è democrazia, nonostante la falsificazione contemporanea del concetto di
democrazia) e la Repubblica, tra il costituzionalismo aristocratico e quello
repubblicano-tribunizio, tra la finzione, generalità ed astrazione della
rappresentanza senza mandato imperativo ed il contratto sociale del popolo
concreto, fatto di uomini-elettori: nel primo modello, che muove
dall’inesistenza di un popolo,
i servitori (Diener) – secondo
la nota riflessione sviluppata da Weber in
Economia e società (1922) – si trasformano in padroni (Herren) dei rappresentati; nel secondo i magistrati sono servi del popolo,
elemento fondante ed eponimo del suo ordinamento.
Il dispositivo
rappresentativo, che accomuna il costituzionalismo di Montesquieu e
Seyés ed il parlamentarismo inglese di Locke ed Hobbes, non può
che significare indifferenza per la volontà degli elettori e per la
rappresentanza territoriale degli interessi. È la messa a frutto della
critica sviluppata da Costantino Mortati che, nel Commentario della
Costituzione italiana a cura di Branca (1975), afferma che nessuna delle
condizioni per consentire l’esercizio della sovranità popolare
dell’art. 1 Cost. sussiste e che nella Costituzione vi è una
poliarchia che realizza la sovranità del parlamento in luogo di quella
del popolo[21].
L’obiettivo
polemico di Lobrano è la persona ficta
vel repraesentata, la persona giuridica, senza la quale la rappresentanza
non funziona, perché le persone rappresentate devono prima essere
costituite artificialmente nello Stato. La critica alla persona giuridica
è tutt’uno con la critica alla rappresentanza: la seconda è
legata da un rapporto genetico di funzionalità con la prima, in quanto
la necessità della rappresentanza della volontà sorge per
sostituire la volontà della persona
ficta e non già per integrare la volontà della
collettività degli uomini, che dalla persona
ficta è stata sostituita. Con la conseguenza che la rappresentanza
è formazione/manifestazione monolitica della volontà esclusiva
della persona fisica rappresentante della persona giuridica. Nella soluzione
medievale-moderna l’unità della collettività si
trasferisce, dunque, nel simulacrum idoli
della persona giuridica. Ma il popolo non può essere astrazione,
perché è unione concreta di cives,
il che non significa che concretezza del popolo ed unità della
organizzazione in societas siano
inconciliabili. Il popolo può entrare unitariamente in relazione con
altri uomini e costituirsi come collettività, ma non ricorrendo al
meccanismo della persona giuridica (e, quindi, della rappresentanza), che
è ipostasi della astratta persona artificiale.
La crisi attuale del
modello rappresentativo non significa, per Lobrano, che siamo senza
Costituzione, in forza del postulato montesquieviano dell’identità
tra costituzione ed equilibrio dei poteri. Significa piuttosto che, di fronte
alla conclamata inaccettabilità della rappresentanza libera, senza
mandato imperativo, come mezzo di formazione-manifestazione della
volontà sovrana e dell’istituto della divisione dei poteri come
mezzo di tutela dei diritti, è il tempo di recuperare il modello
romanista di partecipazione popolare, che vive nelle forme di parlamentarismo
vincolato.
Il dispositivo che
sostituisce la persona fittizia, artificiale, del modello
parlamentare-medievale-moderno è il contratto di società: questo
è la risposta romana al problema della considerazione unitaria di atti
posti in essere da una pluralità di persone in vista della costituzione
e modificazione di diritti. Si tratta di un contratto che ha come causa
l’utilitatis communio degli associandi e che, contro il luogo comune
della irrilevanza esterna della società, perché genererebbe
obbligazioni solo tra i contraenti, tende a mettersi in rapporto con il mondo.
La società è res corporalis,
contro il pregiudizio che l’unità fa il paio con
l’astrazione e si contrappone, per ciò, alla collettività concreta
o fisica. La società agisce con due atti. Prima un emi-atto giuridico
della collettività dei soci (reciprocamente obbligantisi come
unità) esprime la volontà comune, ove ogni socio si esprime come
parte di un tutto/unità, non esprime la volontà come singulus ma concorre alla espressione
dell’unica volontà societaria. Poi, la società si rapporta
agli altri per mezzo di un secondo emi-atto, affidato ad un magistrato,
servitore del popolo. E ciò perché, mentre il rapporto tra i soci
è interpotestativo, contrattuale, tra potestà omologhe, quello
con il magistrato è intrapotestativo, non contrattuale, il secondo
è in potestate del primo. La
distinzione è tra iussum e gubernaculum. Nella soluzione romana i
contraenti si impegnano a perseguire l’utilità individuale
attraverso la previa individuazione (e perseguimento) dell’utilità
comune. Il premio della connessa catarsi è, con Rousseau, la
conservazione della libertà naturale. Le origini di questo schema
potestativo sono nella familia, nel consortium familiare, connotato dalla
assenza di un capo e dalla disponibilità consortile del tutto da parte
di ciascuno, senza quote o partes.
Solo dopo il venire meno dell’iussum
del padre (nei confronti del figlio servo), lo schema si trasforma in volontarismo
societario aperto, si esprime nel contratto, che resta repubblicanamente
adespota.
Da qui Lobrano muove
alla ricerca di manifestazioni del modello tribunizio-municipale che,
carsicamente e spontaneamente, riaffiorano nell’ordinamento, allo scopo
di integrare la logica rappresentativa. Il riferimento non è – e
non lo è a ragione – all’istituto del referendum. Mi
permetto, infatti, di aggiungere che anche la dottrina costituzionalista (Massimo Luciani e, ancora prima,
Böckenförde[22]) ha argomentato la
permanenza in seno al referendum di un elemento rappresentativo (aristocratico
nella prospettiva di Lobrano), di alterità vs identità, perché vi è sempre chi pone la
domanda. Si potrebbe forse andare oltre e notare, addirittura, come dalla
logica rappresentativa non si esce neppure in Rousseau proprio perché,
affinché la volontà generale si dichiari, occorre sempre che
«sia interpellata» (Il
contratto sociale, cap. IV, Libro I), ponendo la domanda
«pertinente»[23]. Così come il
riferimento di Lobrano non è alle più recenti esperienze di
democraticismo deliberativista, partecipativo e/o repubblicanesimo civico: qui
la matrice è la politeia greca
e non già il modello contrattualista romano. La pars construens della riflessione di Lobrano è piuttosto
volta a valorizzare l’ufficio del Sindaco, la sua elezione diretta,
nonché la logica della programmazione che presiede alla affissione del
programma amministrativo all’albo pretorio ai sensi dell’art. 3, l.
81 del 1993: quel programma rafforza il vincolo, per lo meno nella fase
ascendente, tra corpo elettorale e lista dei candidati al Consiglio comunale (e
alla carica di sindaco)[24]. O, ancora,
l’esperienza municipale-federativa del Consiglio delle autonomie locali
di cui all’art. 123, u.c., Cost.
Proseguendo
a distanza il confronto dialettico iniziato con Lobrano durante
l’incontro, potrebbe porsi la questione della tenuta della tesi
continuistica tra rappresentanza medievale e moderna. Quella tesi ha dalla sua,
sulla scia degli studi di Sternberger[25], la critica dell’assioma
del popolo, della finzione dell’identità, nonché dei topoi della modernità vs l’antichità, della
razionalità dell’organizzazione del potere e delle elezioni (che
recupera a propria volta la finzione dell’identità). Questi
argomenti, ove indeboliscono le tesi discontinuistiche nella geneaologia della
rappresentanza, suscitano, come ovvio, imbarazzo per la coscienza democratica
contemporanea. Ma quella critica forse sottovaluta la modernità di
Hobbes, che pone la costruzione dell’unità politica del popolo,
rispetto a Montesquieu ed alla società di ceti. Nella prospettiva di
Lobrano, Hobbes alimenta la finzione della rappresentanza: costruisce la
persona giuridica, ‘artificiale’, mediante il pactum unionis, prodotto dall’innesto nel contratto romano di
società (pactum societatis)
del contratto di soggezione (pactum
subiectionis). In sintesi, Hobbes, distorcendo l’idea giusromanistica
di contratto di società, fa discendere dal postulato dello
‘Stato-persona’ la titolarità della sovranità da
parte dell’astratto popolo Leviatano e non del popolo concreto e la
necessità della ‘rappresentanza’ del Leviatano ad opera di
persone fisiche. A questo argomento potrebbe replicarsi, con Tommaso Gazzolo[26], che in Hobbes il popolo
non esiste prima di essere rappresentato, è il rappresentante, «un
solo uomo» o «una sola persona», che ricostruisce la
moltitudine come popolo, come «una sola persona», «è
l’unità di colui che rappresenta, non quella di chi è
rappresentato, che rende una la persona; ed è colui che rappresenta che
dà corpo alla persona e ad una soltanto»[27]. Con la conseguenza che
il contratto che fonda la rappresentanza ha per oggetto non la regolamentazione
dei rapporti tra il popolo ed il sovrano, entità che non preesistono al
contratto, ma la rinuncia degli individui al diritto naturale e
l’individuazione e la costituzione stessa del sovrano, che, quindi, non
può essere parte del contratto. Ancora, la tesi continuistica della
rappresentanza potrebbe non cogliere nel segno perché nel costituzionalismo
inglese il Parliament è
un’Alta corte di giustizia[28], che deriva la sua
rappresentatività dall’essere un organo giudiziario che tutela
diritti e che non crea, ma certifica l’esistenza della legge[29]. Allo stesso modo, i parlements della Francia d’Ancien Régime sono organi
giudiziari che partecipano al procedimento di produzione degli atti normativi
del monarca: si fondavano sulla rappresentatività dei giudici, dei robins, e non sulla sovranità
legislativa[30].
Quella rappresentanza ha forse poco da dire rispetto alla rappresentanza
contemporanea. Né è propria del parlamentarismo medievale-inglese
l’ancoraggio della tutela dei diritti al governo diviso, limitato
intrinsecamente, cioè politicamente o all’equilibrio dei poteri:
vi era, infatti, una dottrina medievale della limitazione del potere à la Bracton, ma non della
separazione dei poteri; vi è, più di recente, il
costituzionalismo inglese di McIlwain[31] del governo limitato
giuridicamente dall’esterno a tutela dei diritti individuali e fondato
sulla distinzione tra gubernaculum e iurisdictio[32].
Potrebbe, poi,
revocarsi in dubbio che il modello rappresentativo ha significato sempre
emarginazione delle municipalità: nella dottrina costituzionale di
Sieyès[33],
ad esempio, si ritiene che per facilitare il procedimento dialogico che
consenta l’apprensione cognitiva dei bisogni della nazione (vero scopo
della formazione della rappresentanza territoriale) occorre introdurre, come
elemento fondante della rappresentanza politica, un’organizzazione
territoriale che si basi sulle municipalità e sul giudizio di stima che
ogni rappresentante deve ricevere dai suoi elettori. Il territorio è qui
elemento correttivo della rappresentanza, per controllare le capacità
del rappresentante. In ogni caso, le opposizioni sono relative, se si considera
che nel dibattito statunitense i federalisti sono stati i teorici della
rappresentanza, libera, indipendente e gli antifederalisti i teorici della
rappresentanza come rispecchiamento del delegante. Così come potrebbe
porsi la questione terminologica, che a sua volta ne sottende una concettuale,
della contrapposizione, talvolta instaurata (penso sempre a Sieyès), tra
“governo rappresentativo” (o “repubblica”) e
“democrazia”, dove la repubblica, contro la proposta di Lobrano, si
identifica con la rappresentanza.
Contro
l’estensibilità del contratto della società del diritto
romano, che ha il suo archetipo nella famiglia, potrebbe poi sollevarsi non
tanto l’obiezione della mancanza di volontà esterna della societas, ma l’obiezione, con
Schmitt, che le figure che discendono dall’economia possono dar luogo a
un patto sociale, ma non a un patto statale[34] ovvero tutte le obiezioni
di chi distingue la rappresentanza privatistica, trilaterale, da quella
pubblicistica, bilaterale (il riferimento è a Leibholz, Schmitt e
Kelsen). O ancora potrebbe, con Bobbio[35], sostenersi che le koinonai nell’Etica nicomachea di Aristotele erano le società parziali,
con scopi privati, che per i giuristi romani la societas è contratto di diritto privato e che la famiglia
è in realtà non l’archetipo del modello contrattualistico,
da cui deriva il volontarismo societario, ma il modello di società
organicistica per eccellenza, che rinvia ad una concezione paternalistica dello
Stato e che presuppone l’unità, che, quindi, non essendo stata
creata, non ha bisogno di essere rappresentata. Anche per Rousseau (Il contratto sociale, Capitolo II, libro
I), del resto, la società non può avere come origine la famiglia[36].
Contro lo ius publicum romano, potrebbe ancora notarsi
che, per alcuni, la dimensione politica del popolo si affievolisce
nell’epoca romana, con la cooptazione e la trasfigurazione della res-publica in impero[37]. Di contro, però,
alla valorizzazione dell’esperienza greca[38] potrebbe formularsi
qualche dubbio sulla autenticità del paradigma aristotelico di Rousseau.
Ciò nonostante,
la proposta normativa,
contro-fattuale, di Lobrano, che mira ad integrare la logica rappresentativa
con una logica altra, riconducibile
al modello romanista-municipale, ha la capacità di mostrare tutti i
limiti dell’attuale sistema rappresentativo e la sua incoerenza interna.
Basti pensare al sistematico svilimento delle assemblee rappresentative locali
nella giurisprudenza costituzionale contro la lettera dell’art. 114 Cost.
Per restare ad un caso recente, la sentenza n. 39 del 2014 conserva per gli
enti locali (ma non per le Regioni) l’obbligo di adottare i provvedimenti
idonei a rimuovere le irregolarità riscontrate e a ripristinare gli
equilibri di bilancio a seguito dei controlli delle Sezioni regionali della
Corte dei conti sui bilanci preventivi e rendiconti consuntivi e la
preclusione, in caso di mancata adozione, dell’attuazione dei programmi
di spesa per i quali è stata accertata la mancata copertura o l’insussistenza
della relativa sostenibilità finanziaria: sono misure preventive e
coercitive per gli enti controllati. Ci si potrebbe chiedere se, nella
pariordinazione tra gli enti costitutivi della Repubblica, ha ancora senso
attribuire un surplus democratico al
prodotto dell’organo della rappresentanza politica regionale in forza
della maggiore dimensione territoriale e se possa ancora sostenersi che le
assemblee rappresentative territoriali ed i loro ‘prodotti’
soffrono di un deficit democratico
solo perché sono l’espressione elettorale di un territorio
più circoscritto[39]. La carica
“democratica” della sussidiarietà parrebbe, piuttosto, dover
indurre a conclusioni opposte.
La proficuità
della riflessione di Lobrano emerge anche in un’altra direzione. Le
soluzioni cui guarda, de iure condendo,
per correggere il dispositivo della rappresentanza sono lontane dalla ormai
invalsa apologia delle forme di democrazia partecipativa o deliberativa, di cui
Lobrano non manca di sottolineare gli esiti, alle volte, naїve. Appare significativo che chi, come Lobrano, oppone il
modello parlamentare-rappresentativo a quello repubblicano-romano, Montesquieu
a Rousseau, non esalti il democraticismo deliberativista.
Nel dibattito
costituzionalistico, invece, di sovente, si pongono in relazione il
costituzionalismo rousseuaviano con il deliberativismo o con le variegate (ed
irriducibili ad unità) forme di repubblicanesimo civico. L’ideale
deliberativista (Ackermann, ma anche Elster ed Habermas) o repubblicano (Rawls)
valorizza le virtù epistemico-cognitive della deliberazione mediante il
metodo del dialogo razionale, fondato sulla forza dell’argomento migliore
e sullo scambio paritetico di ragioni intorno al bene comune, e mira per quella
via ad estendere il paradigma della ragione pubblica al foro politico, a
dibattere le questioni costituzionali in termini di principi. Curerebbe
così anche i mali (emarginazione del rappresentato, assolutizzazione del
principio di maggioranza, diseguaglianza politica, tensione tra unità e
pluralismo e disgregazione della convivenza) della rappresentanza moderna.
Tale accostamento
appare, però, teoricamente improprio e praticamente inutile.
Innanzitutto, non
è così evidente la coerenza tra il modello rousseauviano e il
deliberativismo. Per Rousseau «se quando il popolo sufficientemente
informato delibera, i cittadini non potessero comunicare tra loro, dal grande
numero di piccole differenze risulterebbe sempre la volontà
generale e la deliberazione sarebbe
sempre buona»[40]. E’ vero che per
Rousseau la volontà generale «tiene conto di tutti i voti»[41], è inclusiva e non
esclusiva. Ma la legge è giusta perché scopre la volontà
generale, giacché ciò che è comune a tutti non può
essere deliberato, ma è presupposto, non può essere voluto, ma
solo conosciuto. I cittadini realizzano il bene comune se votano come membri
della società generale (se non si sono previamente accordati), in quanto
ignorano la volontà degli altri. Per Rousseau, quindi, la discussione
non serve perché la volontà individuale è predeterminata,
esalta le società parziali e corrompe il corpo politico[42]. La parola è
immaginazione e allontana dalla cognizione delle inferenze vero/falso. Ne
deriva l’avversione al principio del discorso, alla retorica, alla
parola. Appare difficile trovare qui immediata corrispondenza con la ragione
pubblica, discorsiva e deliberativa di Rawls e, ancora meno, con il principio
del discorso, l’agire comunicativo, proprio del cognitivismo della
democrazia deliberativa di Habermas ed Elster,
In secondo luogo, l’artificio rappresentativo ricompare
nel repubblicanesimo civico di Rawls[43]. È proprio la
natura rappresentativa della posizione originaria di Rawls al centro della
critica di Habermas; critica che non è altro che la riscrittura
rousseuviana della inalienabilità della volontà generale del
popolo. Rawls ricorre all’idea della rappresentanza come costruzione di somiglianza[44] tra il popolo e i suoi
rappresentanti. Ovvero come atto di
immaginazione che consente, con il ricorso al velo d’ignoranza, la
costruzione del popolo basata non già su caratteristiche condivise,
naturali o sostantive, delle persone, ma solo sulla qualità di cittadini
liberi ed eguali[45].
In realtà si potrebbe dire che la permanenza dell’elemento
rappresentativo in Rawls è un’arma spuntata per segnarne la
distanza da Rousseau. E questo perché lo stesso Rousseau non riesce a
liberarsi sino in fondo dell’aporia rappresentativa. Ricompare nella
figura del Grande legislatore, proprio della fase costituente, quando i
cittadini non sono educati alla cittadinanza, alla volontà generale[46]. Ricompare nella
distinzione tra legislativo/esecutivo, ove il secondo è inteso come
rappresentativo-esecutivo del primo.
In terzo luogo, a ben
vedere, dall’obiezione aristocratico-elitista non si sottraggono neppure
le concezioni deliberative, che propugnano una concezione epistemica della
legge e della deliberazione pubblica. Ma quella concezione, della legge come
atto di ragione, di giudizio, è premoderna, deriva dall’onticismo
medievale e fu propria delle teorie elitiste o capacitaire di Condorcet, Burke e Guizot.
In più, resta
la frustrante sensazione che il punto di vista del deliberativismo e del
proceduralismo discorsivo habermasiano sia, rispetto alle ragioni della
convivenza, «lo sguardo da nessun luogo»[47]. Il difetto di
concretezza che si rimprovera al modello rappresentativo ed alla sua astrazione
del popolo concreto, come condizione per l’inclusione sociale, affligge,
infatti, anche l’universalismo procedurale.
Virgilio Mura, infine,
ha guardato al tema della rappresentanza politica come forma moderna di
legittimazione politica dell’autorità, utilizzando la coppia
concettuale comando-obbedienza. Il Parlamento, infatti, oltre alla funzione
tecnico-economico-macchinica del ‘fare’, ‘produrre’, leggi,
secondo la logica del funzionamento, rinvia al divenire legittimo del potere attraverso la rappresentanza.
Due sono le concezioni
della rappresentanza che Mura ha isolato nella storia del pensiero politico
occidentale, cui corrispondo distinti principi di legittimazione del potere
politico. La prima, elaborata da Rousseau, accolta da Marx e dalla tradizione
radical-democratica e socialista, postula la dipendenza della volontà
del rappresentante dalla volontà del rappresentato. Vi è
sostituzione di persone, lo stare al posto di qualcun altro, ma non vi è
sostituzione di volontà. La sovranità popolare legittima le
assemblee rappresentative. La seconda, che lega Burke, Sieyès, Constant,
Hegel e Mill, prescrive l’indipendenza dei rappresentanti in nome dell’interesse
generale: è l’ideale elitista, che propugna il governo dei capaci,
dei migliori, a cui affida il compito di mettere in forma la volontà comune, che non preesiste[48]. La rappresentanza
diviene anche sostituzione di volontà, eccedenza rispetto al mero stare
al posto di qualcun altro[49]. La sovranità
della nazione o del parlamento è il principio di legittimazione. In
questa secondo concezione, aggiungerei, che la rappresentanza è la sovrastruttura, nella sfera del
‘politico’, della divisione del lavoro nell’economia
politica: è l’origine del dispositivo
governamentale liberale.
Di entrambe le
concezioni Mura trova tracce nel testo costituzionale. L’art. 1 rinvia al
modello radical-democratico. L’art. 67, come l’art. 41 dello
Statuto albertino, rinvia al modello liberale. Conclude per l’incoerenza
della Costituzione. Caretti ha, però, rilevato che l’art. 1
contiene già in sé la contro-obiezione: il popolo esercita la
sovranità nelle «forme e nei limiti della Costituzione», che
consente una interpretazione coerente delle disposizioni.
Ma è sul piano
dei fatti che Mura trova i correttivi
al divieto di mandato imperativo, che rinsaldano il primo modello a discapito
del secondo, arginano la ‘finzione’ della rappresentanza[50] e attenuano
l’indecisione del testo costituzionale: il riferimento è, da un
lato, alle leggi-provvedimento ed alla percezione dei rappresentanti, da parte
degli elettori, come portatori di interessi settoriali-corporativi,
dall’altro, alla dipendenza del deputato, se non dagli elettori, dal
partito politico, sia nel momento della sua designazione che in seno ai gruppi
parlamentari. Il primo fatto pare,
però, ad avviso di chi scrive, inquinare anche il modello rousseuviano.
Per Rousseau l’interesse particolare (individuale) è l’altra
faccia dell’interesse generale. Le differenze devono essere piccole e
numerose e non poche e grandi: «se dalle volontà particolari
togliete il più e il meno che si distruggono a vicenda resta quale somma
delle differenze la volontà generale» (Il
contratto sociale, Libro II, cap. III). La minaccia all’unità,
alla volontà generale, viene, invece, dagli interessi corporativi,
perché interessi comuni ed interessi individuali sono due facce della
stessa medaglia. «E’ da riconoscere che interesse comune e
interesse individuale sono due lati
della stessa costruzione, in quanto l’interesse comune altro non è
che la difesa dello spazio privato, che consente ad ognuno di perseguire il
proprio interesse e ciò che intende come proprio bene»[51]. L’altro, il
mandato imperativo che lega il parlamentare al partito politico, più che
un fatto, potrebbe, sempre secondo
chi scrive, considerarsi imposto dalla norma
ricavabile dalla interpretazione del divieto di mandato imperativo, posto
dall’art. 67, conforme e non giustapposta al ruolo dei partiti politici
delineato dall’art. 49, Cost. Piuttosto, quella norma rischia
l’ineffettività per effetto del fenomeno, disgregativo ed
individualistico, della mobilità parlamentare[52].
Il rimedio proposto da
Mura, coerente con un sistema rappresentativo misto, è la corrispondenza
tra le domande degli elettori e le risposte degli eletti. Affinché il
rimedio funzioni, in gioco non vi è solo la qualità dei
governanti, ma anche la qualità dei rappresentati, la loro educazione
alla cittadinanza. Aggiungo, nella speranza di non travisare il pensiero di
Virgilio Mura, che quella proposta non pare lontana dalla democrazia della
responsività di Dahl.
Orbene, la conclusione
scettica di Mura pone nella filosofia politica la stessa questione che nel
diritto costituzionale ha portato a studiare la rappresentanza partendo dalla
crisi non già del rappresentante, ma del rappresentato[53].
Seguendo Mura (e
Luciani) nel rovesciamento del punto di vista tradizionale, potrebbe esperirsi
il tentativo di non rifuggire dalla rappresentanza politica a condizione di
ripensarla come forza attiva rispetto
al pluralismo sociale. Potrebbe discorrersi di una concezione costruttiva della rappresentanza
dinnanzi alle idee (popolo, nazione..) che non le preesistono.
Ciò non toglie
la possibilità di aderire ad una prospettiva teorica radicalmente
alternativa, quale quella elaborata da Lobrano. Potrebbe, però,
consentire, de iure condito, al
giurista positivo, di proporre una teoria interpretativa della rappresentanza
che, mettendo a frutto i limiti o le aporie della sua struttura teoretica
ovvero del testo scritto o, ancora, della fattualità politica emersi
nelle relazioni di Caretti e Mura, non annichilisca le disposizioni
costituzionali.
L’idea, antica,
è che la salvezza stia nel ripristinare il rapporto della
rappresentanza, come momento empirico-immanente, con l’idea trascendente:
il popolo come totalità è solo un’idea.
Quel rapporto,
però, dinnanzi al popolo “introvabile”[54], irrappresentabile, delle
democrazie pluraliste contemporanee, non può darsi ove si continui a
guardare alla rappresentanza politica come rispecchiamento, immagine, copia,
del sociale, come ad una forza ‘reattiva’, bensì solo ove ad
essa si guardi come ad una forza di
qualità ‘attiva, affermativa e non negativa, forza che combina
e non che dissolve. Quella forza dovrebbe formieren
la persona sociale, essere da contrappeso alla autonomia del sociale dal
politico e, quindi, produrre e costruire la forma dell’unità
politica di un popolo che non c’è, non è più dato o
precostituito. Si mette così a profitto l’aporia costitutiva del
governo rappresentativo, in tensione permanente tra l’istituente e
l’istituito, tra il momento del pluralismo, il ‘sociale’, e
l’unità del ‘politico’, tra differenze e ripetizione.
Contro la ‘poetica’ dell’Uno.
Se, infatti, il legame
sociale è solo «una sperimentazione di storie comuni, non vi
è più nulla da rappresentare, nel senso che non vi è
più nulla da fotografare, poiché la società non può
più essere pensata come una totalità che l’osservatore
è in grado di cogliere dal di fuori»[55]. Il fatto allora che i
rappresentanti rappresentino solo sé stessi potrebbe non essere
patologico o, in ogni caso, non condurre lontano. L’unica
possibilità è che il processo rappresentativo partecipi esso
stesso di una nuova narrazione. La rappresentanza, di fronte al declino delle
categorie del sociale, non può che essere attiva e non riflessiva, nel
senso che costruisce l’identità.
Rappresentare la
società significa allora «alzare e lacerare il velo di astrazione
che la copre per ridarle vita»[56]. Questo lavoro di incarnazione
pone il rappresentante tra due poli contraddittori, quello di identificazione e
quello di distinzione. Eleggere significa distinguere e rappresentante è
una parola che «nel linguaggio costituzionale ha senso solo al plurale»[57]. L’idea della rappresentanza
come somiglianza, come imitazione, è possibile per una società
considerata in modo organico. Ma come rappresentare una società di
individui? Se il cittadino è l’individuo astratto, possiamo
parlare di rappresentanza nel senso di produzione di immagine? Così
«la rappresentanza non si riduce meccanicamente a una procedura di
elezione e di autorizzazione, che non svolge più alcuna funzione di
identificazione»?[58] La rappresentanza
potrebbe, invece, servire non solo a dare figura al popolo, ma anche a trovare
una via di chiarificazione del rappresentato attraverso il rappresentante. La
teoria democratica presuppone che il popolo preesiste alla sua organizzazione
politica. «Ma il popolo è già presente o è solo la
presupposizione del popolo che è presa in considerazione come soggetto
politico?»[59].
Nel secondo caso, oggetto della politica diverrebbe far vivere e attivare
questa presupposizione e trasformarla in soggetto reale. Rosanvallon osserva
che, in questa rifondazione, la rappresentanza abolisce la separazione tra i
due registri della costituzione del soggetto come volontà individuale e
della determinazione di un modo di espressione adeguato della volontà
generale. Se vi è bisogno di un noi per essere sé stessi, allora –
attingendo alla riflessione di Taylor sulla dimensione dialogica
dell’identità – la costruzione di sé e la
costituzione di un mondo comune vanno di pari passo. Si apre così la
prospettiva inedita di una politica della soggettività: «la rappresentanza
politica cerca di scrivere il romanzo di una società, nel medesimo
momento in cui gli individui scrivono il loro diario privato»[60].
Come sostenere
teoricamente questa operazione? E come farlo in modo non repulsivo per la
coscienza democratica contemporanea?
Potrebbe essere di
aiuto la riflessione schmittiana sullo statuto teoretico della rappresentanza,
che non si identifica affatto con il nichilismo implicato dalla rappresentanza
moderna e non pare esaurire la propria forza nell’orizzonte
monistico-aristocratico schmittiano. Lì l’unità del popolo,
nella condizione dell’esistenza politica, non può infatti
autoprodursi nell’identità ma può solo essere prodotta
dalla rappresentanza. Il rappresentante non è prodotto del consenso, ma
viene ad esistere in occasione del consenso, per cui il potere ha un plusvalore
rispetto al consenso[61].
Ciononostante, la
rappresentanza politica potrebbe trarre la forza attiva dall’idea di
rappresentazione come ‘trascendenza’: si rappresentano
‘idee’ e non ‘cose’[62], dalla sua
‘eccedenza’ logica rispetto al rappresentato, alla cui progressione
nell’esistenza pubblica, politica, il rappresentante
contribuisce.
In Schmitt il popolo
può, in virtù di una forte e consapevole assoluta
omogeneità, essere politicamente capace di agire già nella sua
immediata datità. Qui sta il principio di identità, che è
la forma di una presenza immediata nella sua datità. Il principio
contrapposto parte dall’idea che l’unità politica del popolo
in quanto tale non può mai essere presente e, perciò, deve essere
rappresentata da uomini in modo personale. La rappresentanza è quel
principio della forma politica mediante cui qualcosa di assente è reso
presente da una persona, la cui qualità sta nell’essere capace di
rappresentare. Il rappresentato, per suo conto, deve essere capace di
progredire nell’esistenza pubblica. Per Schmitt «La dialettica del
concetto consiste nel fatto che l’invisibile è presupposto come
assente ed è tuttavia al tempo stesso presente [...] qualcosa privo di
valore, qualcosa di basso non può essere rappresentato. Ad esso manca la
specie sviluppata di essere che è capace di emergere nell’essere
pubblico, che è capace di una esistenza [...] un essere accresciuto
è capace di rappresentanza»[63]. Reclama la
rappresentanza ove afferma che «rappresentare significa rendere visibile
e illustrare un essere invisibile per mezzo di un essere che è
pubblicamente presente», onde nella rappresentazione «si manifesta
concretamente una più alta specie di essere»[64]. Nella rappresentanza
sono, cioè, in gioco prestazioni di qualità e valore di rappresentante
e rappresentato: il rappresentante ha una «dimensione pubblica
perché rende visibile il fatto che il rappresentato non è un
essere qualunque, bensì un essere particolare, provvisto della
capacità di progredire nell’esistenza, appunto, pubblica, e perciò
della capacità di essere rappresentato»[65].
Non ci si nasconde che
riorientare in ambiente pluralista la teoria schmittiana della
rappresentanza/rappresentazione incontra non poche difficoltà.
Nell’opera di Schmitt vi sono almeno due soluzioni al problema
dell’unità politica, che è l’‘ossessione’
ma anche il nodo irrisolto del pensiero schmittiano: la prima sembra delineare
l’unità politica non quale presupposto, ma quale prodotto della
decisione sovrana, che ‘miracolosamente’ le imprime forma[66]; la seconda, contaminata
dal pensiero fondato sull’ordinamento concreto, prefigura
l’unità politica del popolo, la sua esistenza politica, come
preesistente alla decisione fondamentale, che segue e non crea la
normalità[67].
La prima declinazione
dell’unità politica potrebbe, però, sorreggere la
costruzione di una rappresentanza che mette en
form una unità politica che
nella democrazia, ideologicamente e territorialmente, pluralista non può
che essere una unità politica da raggiungere e non un baluardo
precostituito da difendere. La Costituzione è la forma pluralistica
della convivenza civile e politica degli individui. Solo il monismo assiologico
può riflettere l’elemento identitario di un popolo autenticamente
unito. Il pluralismo, invece, se preso sul serio, mal si concilia con
l’idea che l’ordinamento presupponga un fine politico unitario ed
ordinante. Il pluralismo non muove dall’unità, ma tende
all’unità attraverso l’agire strategico dei soggetti che
animano il tessuto pluralistico.
Per questa via, si
supererebbe l’opposizione, come principi della forma
dell’unità politica, tra rappresentanza ed identità, tra
governo rappresentativo e democrazia, ponendo la rappresentanza come
costruttrice di identità non preesistente. Ancora, in questa
interpretazione della teologia politica schmittiana, così come
l’unità non esige l’astrazione, così la
rappresentanza non è incompatibile con la logica della differenza e
della possibilità, perché esclude la presenza immediata nella sua
datità.
Per trovare una pacificazione, potrebbe dirsi che
è bene che la rappresentanza politica, in esistenziale tensione (à
la Schmitt) tra identità e differenza, sia aporetica, perché
esclude, da un lato, un potere totalmente sovrapposto alla società,
guidato da una profonda logica dell’identificazione,
dell’incarnazione e dell’immedesimazione, dall’altro, una
appropriazione indebita di sovranità da parte di una frazione del popolo[68].
Da qui potrebbe
tentarsi una lettura del testo costituzionale attraverso cui ‘il tutto si
lega’: la rappresentanza politica della nazione, con divieto di mandato
imperativo, dell’art. 67 non annulla la sovranità del popolo
dell’art. 1, ma è lo strumento che deve avere la capacità
per rendere visibile l’idea, che può vivere solo come eccedenza
rispetto al rappresentato, il quale, a propria volta, deve avere la
capacità di progredire nella propria esistenza politica; i partiti
politici dell’art. 49 sono il mezzo attraverso cui i rappresentati
diventano cittadini ed i rappresentati acquisiscono la capacità di
rappresentare; la rappresentanza dell’art. 87 concorre a definire,
costruire, l’unità nazionale; quell’unità, poi, non
esclude la relazione tra rappresentanza e differenze; a seguire, la recisione
del legame tra rappresentanza e logica dell’uniformità impone di
rivalutare la rappresentatività delle assemblee territoriali e
così via.
Tale rilettura
pluralista del dispositivo rappresentativo in Schmitt (e nella Costituzione)
naufraga, però, ove si metta in discussione che la logica della
presenza/assenza, del visibile/invisibile, del finito/infinito, propria della
rappresentanza/rappresentazione apra davvero alla possibilità
dell’alterità[69].
Se una conclusione
può trarsi dall’incontro sassarese è che per la scienza
giuridica continua ad essere utile guardare al tema della rappresentanza non
già come ad un relitto semantico, come riteneva Luhmann[70], ma come ad un capitolo,
centrale, della dottrina generale dello Stato e come alla categoria
esistenziale, perché politica, della dottrina della Costituzione.
In ordine alla prima
(alla dottrina generale dello Stato), non è, però, sufficiente
guardare alla rappresentanza politico-elettiva.
Le alternative nel
dibattito sulla rappresentanza politica sono note. Si assiste al continuo e
incerto oscillare tra una concezione della rappresentanza vicina al mandato,
basata sul potere d’istruzione e di revoca, da parte del popolo, e una
concezione che nella stessa rappresentanza vede la condizione necessaria di
esistenza, quasi in senso hobbesiano, dello stesso popolo come unità
politica, tra la rappresentanza su mandato imperativo, come surrogato della
democrazia diretta e come implicazione necessaria della eguaglianza e della
sovranità popolare vs la
rappresentanza libera o indipendente, che attinge al criterio di legittimazione
della competenza e rinvia ad una concezione razionalista della politica ed alle
teorie elitiste o della democrazia capacitaire.
Ma il rapporto
rappresentanza-elezioni non è costitutivo. E ciò non solo
perché «l’elezione può essere un mezzo tanto del
principio di rappresentanza quanto di quello dell’identità [...]
ma occorre distinguere quale senso l’elezione abbia nella realtà.
Se deve fondare una vera e propria rappresentanza, allora essa è lo
strumento di un principio aristocratico»[71]. Ma, soprattutto,
perché la struttura teorica della rappresentanza non include
necessariamente l’elezione come metodo di scelta del rappresentante.
Già nel dibattito del 1791 veniva reciso il nesso fra elezioni e
rappresentanza con la teoria dell’elettorato-funzione. La Costituzione
conosce forme di rappresentanza al di fuori dell’elezione a suffragio
universale e diretto. Il Presidente della Repubblica rappresenta
l’unità nazionale. I pubblici impiegati sono al servizio esclusivo
della Nazione. Questa rappresentanza, che sempre presuppone che il
rappresentante renda presente l’idea assente (nazione o popolo), cosa ha
in comune con la rappresentanza elettiva? Si potrebbe pensare, unendo
l’art. 67 e 87 Cost., che la rappresentanza, in tutte le sue
manifestazioni, impone alla politica prestazioni di imparzialità:
l’idea moderna di rappresentanza, l’agire per la società
generale, per la città, per l’interesse generale, è
coerente con la concezione della politica come imparzialità, in quanto
preordinata a garantire l’interesse generale vs interessi particolari, a partire dal pouvoir neutre di Constant, la cui imparzialità non ne
esclude la politicità. Insomma ripensare alla rappresentanza come
categoria autonoma, concettualmente distinta, dal momento democratico, potrebbe
aiutare a scoprirne l’in sé e,
quindi, a gettare luce anche sulla sua declinazione elettiva.
In ordine alla seconda
(alla dottrina della Costituzione), alla rappresentanza (libera) potrebbe
guardarsi, dal lato del potere, come ad un momento del problema del limite,
considerata la sua coerenza con l’idea di sovranità limitata:
nella rappresentanza moderna vi è una legge esterna alla volontà
del popolo. Il potere rappresentativo è un potere che frena, è un
potere ‘catecontico’. La giustizia costituzionale è, a ben
vedere, parte della questione della rappresentanza. La matrice logica della
declinazione della rappresentanza libera non è dissimile dall’idea
del potere limitato sottesa alla pensabilità stessa del controllo di
costituzionalità, che è tutt’uno con la rinuncia
all’unicità del centro di irradiazione del potere politico, alla
diffusività della sovranità popolare ed alla separazione tra
tutela dei diritti e principio democratico e, più in generale, è
coerente con le ragioni del costituzionalismo giuridico vs politico. Alla rappresentanza come luogo dell’unità
potrebbe, poi, opporsi la giurisdizione costituzionale come luogo del
pluralismo. La forza dell’ascesa del controllo di costituzionalità
diminuisce, invece, ove viga il principio di identità, nella forma della
democrazia diretta o della rappresentanza con mandato, che assolutizza il
monismo della volontà generale e rafforza, non a caso, le ragioni del
costituzionalismo politico.
Dal lato delle
libertà, non è difficile cogliere che le diverse teoriche della
rappresentanza implicano diversi concetti o, in ogni caso, concezioni di
libertà (degli antichi e dei moderni).
Tutte queste ragioni
forniscono argomenti per continuare la ricerca, ponendo tra parentesi la
critica di Marx contro il diritto pubblico hegeliano e contro ogni sdoppiamento
delle attività sociali, ossia contro la distinzione di
particolarità e totalità che sarebbe sempre fondamento di
dominio, e pure la critica di Nietzsche ai mondi retrostanti e alla moderna ossessione
per la ragione e razionalità tecnica[72] e non ascoltare il monito
di Adorno in Minima Moralia:
«Un consiglio agli intellettuali: non farsi mai rappresentare»[73]. Oppure, ridimensionando
l’obiettivo, potrebbero aiutarci a gettare un po’ di luce su quello
che, come ricorda Lobrano[74], Hannah Arendt ha
definito il «mistero» della rappresentanza politica[75].
The paper aims to give an account of the issues of
"representation in public law" treated in the Sassari’s meeting
of 6 November 2014, imagining to continue the dialogue with the speakers.
First, the constitutionalist Caretti has performed an attempt to outline the
evolution (which proved involution) of the concept of political representation
from the threshold of modernity up to the State Constitutional contemporary.
Second, the Romanist Lobrano had a radical criticism of the logic of
representation, that opposed the model of constitutionalism-medieval English or
parliamentary-representative to the Roman-republican model, which proposes the
recovery of the contract societas against the deception of the person ficta
vel repraesentata. Finally, the political philosopher Mura looked to
political representation as a modern form of political legitimacy of the
authority and underlined the existence two conceptions of representation in the
history of Western political thought: the replacement of people against the
replacement of will.
The author tries to rethink the representation, which
also today shapes the deliberativist democratism and the Rousseau’s
constitutionalism, as a force of quality 'active' than the social pluralism,
which gives form to the ideas (people, nation .. ) that did not pre-exist.
Il lavoro si propone
di dar conto delle questioni su “La rappresentanza nel diritto
pubblico” messe in gioco nell’incontro sassarese del 6 novembre
2014, immaginando di proseguire il dialogo con i relatori. Alle riflessioni del
costituzionalista Caretti, che ha esperito il tentativo di delineare
l’evoluzione (che si è rivelata involuzione) del concetto di
rappresentanza politica dalle soglie della modernità sino allo Stato
costituzionale contemporaneo, segue la critica radicale della logica della
rappresentanza del romanista Lobrano, che oppone al modello del
costituzionalismo medievale-inglese o parlamentare-rappresentativo il modello
romano-repubblicano-municipale, del quale propone il recupero del contratto di societas
contro l’inganno della persona ficta vel repraesentata. Il
filosofo politico Mura, infine, ha guardato alla rappresentanza politica come
forma moderna di legittimazione politica dell’autorità ed ha
isolato due concezioni della rappresentanza nella storia del pensiero politico
occidentale: la sostituzione di persone vs la sostituzione di
volontà.
L’autrice prova a ripensare la rappresentanza, della quale
neppure il democraticismo deliberativista o il costituzionalismo rousseauviano
paiono sino in fondo liberarsi, come una forza di qualità
‘attiva’ rispetto al pluralismo sociale, che mette in forma le idee
(popolo, nazione..) che non le preesistono.
[1] Il Convegno-dibattito
“La rappresentanza nel diritto
pubblico”, promosso dal Dipartimento di Giurisprudenza
dell’Università degli studi di Sassari, per iniziativa delle
cattedre di diritto costituzionale, si è svolto il 6 novembre 2014,
nell’Aula Magna dell’Ateneo sassarese.
[2] H. Hofmann, Rappresentanza-Rappresentazione.
Parola e concetto dall’antichità all’Ottocento, Milano,
2007, IX.
[3] E. Sieyès, Opinione sul progetto di costituzione, in G. Troisi Spagnolo (a cura di), Opere e testimonianze politiche, Milano, 1993, 790.
[4] L’espressione è coniata da Alexander
Hamilton: The Papers of Alexander
Hamilton, vol. I, 1768-1778, New York, 1961, 255.
[5] Su cui, per le
coordinate minime, vedi M. Goldoni,
La dottrina costituzionale di
Sieyès, Firenze, 2009, 30 ss.
[6] Convergono sul
rapporto politica/economia le riflessioni sulla rappresentanza di G. U. Rescigno, Brevi note metodologiche per riesaminare i concetti collegati di
democrazia, rappresentanza, responsabilità, in L. Carlassare (a cura di), Democrazia, rappresentanza,
responsabilità, Padova, 2001, 9 ss.; V. Onida, Conclusioni,
ivi, 174.
[7] Che non significa
assolutizzazione speculare e reciproca fra identità e alterità, fra
il totalmente medesimo e il totalmente dissimile: A. Cavarero, La bestia
di Derrida, in Iride, 2010, n.
59, 213.
[10] V. E. Orlando, Del fondamento giuridico della rappresentanza politica (1895), ora
in Diritto pubblico generale, Milano,
1954, 417 ss. Più di recente L.
Ornaghi, Atrofia di un’idea.
Brevi note sull’“inattualità” odierna della
rappresentanza politica, in Riv. dir.
cost., 1998, 3 ss.;
[13] Il Linguaggio era un particolare
caso della rappresentazione per i classici o del significato per noi: ancora M. Foucault, op. cit., 79 ss. .
[15]
C. Schmitt, Der Hüter der Verfassung,
(1931), Berlin, 1969, trad. it. A. Caracciolo, Il custode della costituzione, Milano,
1981, 139.
[16] Si ammette l’uso
improprio di un sintagma che, forse, non ha senso, perché, per lo meno
nella giuspubblicistica continentale, la democrazia o è diretta o non
è, è altro, è appunto rappresentanza.
[17] G. Leibholz,
Der Repräsentation in der Demokratie
(1973), tr. it. S. Forti, La
rappresentazione nella democrazia, Milano, 1989, 135 ss.
[18] J. J. Rousseau, Contratto sociale o princìpi del diritto politico, in J. J. Rousseau, Scritti politici, Bari, 1971, L. III, cap. XV, 162-5. In
Sieyès il rapporto si rovescia: è la democrazia diretta che
imporrebbe un’economia basata sulla schiavitù e, se si rinuncia
alla schiavitù, la democrazia diretta riduce la libertà
individuale (sul punto M. Goldoni,
op. cit., 40).
[19] P. Pinna, Il principio di leale collaborazione, l’indipendenza della
magistratura e la separazione del potere, in Alle frontiere del diritto costituzionale. Scritti in onore di Valerio
Onida, Milano, 2011, 1459-60.
[20] Le sue tesi sono
articolatamente esposte in G. Lobrano,
La respublica romana,
municipale-federativa e tribunizia: modello costituzionale attuale, in
questa Rivista, 2004, n. 3; Id., Dottrine della ‘inesistenza’ della
Costituzione e il “modello del diritto pubblico romano”, ivi, 2006, n. 5; Id., La alternativa
attuale tra i binomi istituzionali: “persona giuridica e
rappresentanza” e “società e articolazione dell’iter
di formazione della volontà”. Una ìpo-tesi (mendeleeviana),
ivi, 2011-2012, n. 10.
[21] Virgilio Mura ha,
però, sottolineato che si deve proprio a Costantino Mortati la scrittura
dell’art. 67 Cost. ed, in particolare, l’inciso che i deputati
“rappresentano la Nazione”, al dichiarato scopo di rigettare la
concezione “democratica” di Rousseau a favore di quella
“liberale” di Montesquieu.
[24] Potrebbe aggiungersi
anche la diffusione della logica della programmazione nel circuito del rapporto
Governo-Parlamento con l’art. 19, l. n. 400 del 1988, che alla lett. a)
discorre di «predisposizione della base conoscitiva e progettuale per
l'aggiornamento del programma di Governo» ed alla lett. h) di
predisposizione degli «adempimenti per l'intervento del Governo nella
programmazione dei lavori parlamentari e per la proposizione nelle sedi
competenti delle priorità governative; assicurare una costante e tempestiva
informazione sui lavori parlamentari anche al fine di coordinare la presenza
dei rappresentanti, del Governo; provvedere agli adempimenti necessari per
l'assegnazione dei disegni di legge alle due Camere, vigilando affinché
il loro esame si armonizzi con la graduale attuazione del programma
governativo». A ciò si aggiunge la presentazione del Governo alle
Camere per chiederne la fiducia sulla base di un programma di governo. Nel caso
della l. 400, la previsione di un programma del Governo, su cui il medesimo si
presenta alle Camere per la fiducia, rafforza il vincolo di dipendenza del
Governo dal Parlamento. Siamo ancora lontani da un vincolo diretto tra corpo
elettorale e rappresentanti, ma forse potrebbe desumersene, per lo meno, una
maggiore dipendenza dell'esecutivo dall'organo rappresentativo del corpo
elettorale.
[25]
D. Sternberger, Kritik der dogmatischen
Theorie der Repräsentation, in Schriften,
1971, vol. III, 175 ss., su cui vedi R.
Scognamiglio, Critica della
«teoria dogmatica». La rappresentanza politica per Dolf Sternberger,
in Filosofia politica, 1999, n. 3,
423 ss.
[26] L’argomento,
emerso nel corso del dibattito, è ora sviluppato in T. Gazzolo, Due logiche catecontiche: rappresentazione e stasiologia, in corso
di pubblicazione in Jura Gentium.
[29] N. Matteucci, Introduzione a C. H.
McIlwain, Costituzionalismo antico
e moderno, New York, 1947, trad. it. V. de Caprariis, Costituzionalismo
antico e moderno, Bologna, 1990, 12; C.
H. McIlwain, The High Court of
Parliament and Its Supremacy, Hamden, Conn., 1962.
[30] Sulla thése parlementaire del
costituzionalismo di antico regime F. Di
Donato, La rinascita dello Stato.
Dal conflitto magistratura-politica alla civilizzazione istituzionale europea,
Bologna, 2010.
[32] Sulla
distinzione-complementarietà nei regimi parlamentari contemporanei tra la
dottrina della separazione del potere
di Madison e la dottrina della limitazione
del potere di McIlwain cfr. O. Chessa, Il Presidente della Repubblica parlamentare. Un’interpretazione
della forma di governo italiana, Napoli, 2010, 107 ss.; P. Pinna, L’errata distinzione tra l’indirizzo politico e la garanzia
costituzionale, in Diritto &
questioni pubbliche, 2011, n. 11, 359 ss.
[33] Secondo, almeno, la
lettura offerta da N. Urbinati, Representative Democracy. Principles and
Geneaology, Chicago, 2006, 147-149.
[35] N. Bobbio, Organicismo e individualismo: un’antitesi, in A. M. Petroni, R. Viale (a cura di). Individuale e collettivo. Decisione e razionalità, Milano,
1997, 182.
[38] Ibidem, 190.
[39] L’incoerenza (e,
dunque, la debolezza) dell’argomento è, del resto, apprezzabile
ove si consideri che il problema del deficit
democratico è sollevato anche sul versante opposto dei consessi
massimamente estesi, come quello dell’Unione europea. È,
cioè, argomento adoperato per affermare una cosa e il suo contrario;
è in funzione difensiva dell’unica rappresentanza ritenuta
possibile: quella statale.
[42] Almeno nella lettura
di B. Manin, On Legitimacy and Political Deliberation, in Political Theory, 1987, n. 15, 346 ss.
[43] Nota la struttura
rappresentativa, per ironia della sorte, di tutte le istanze comunitarie di
partecipazione B. Accarino, Rappresentanza, Bologna, 1999, 14.
[44] Ma l’archeologia
del sapere di Foucault ha dimostrato che la rappresentanza-rappresentazione ha
sostituito la somiglianza come forma di conoscenza: M. Foucault, Le parole e
le cose, cit., 50 ss.
[45] Sulla critica di
Habermas a Rawls in Conciliazione tramite
uso pubblico della ragione, in Id.,
L’inclusione dell’altro.
Studi di teoria politica, Milano, 1998, 63 ss. e sulla risposta di Rawls, Risposta a Jǘrgen
Habermas, in Micromega, suppl.
1995, n. 5, 51 ss., basti qui M. Vatter,
Il potere del popolo e la rappresentanza in Rawls e nel repubblicanesimo
civico, in Filosofia politica,
2010, n. 2, 263 ss.
[46] Sulla figura mitica
del Grande legislatore per risolvere i fallimenti della volontà generale
O. Chessa, Il nesso tra libertà e volontà generale nel Contratto
sociale di Jean-Jacques Rousseau, in G. Lobrano, P. Onida (a cura di), Il principio della democrazia. Jean-Jacques
Rousseau. Du Contrat sociale (1762), Napoli, 2012, 116 ss.
[48] Qui il rappresentante
è il ‘padrone’ dei rappresentati, che «distribuisce
loro dall’alto il sole e la pioggia», nella critica di K. Marx, Il 18 Brumaio di Luigi Bonaparte (1852), Roma, 2001, 200.
[49] Hegel, Lineamenti di filosofia del diritto, § 311, scrive che il
rappresentare non ha «neppure più il significato che uno sia al
posto di un altro», perché invece «l’interesse stesso
è realmente presente nel suo rappresentante, così come il
rappresentante è lì per il suo proprio elemento oggettivo».
[50] Che creerebbe solo
un’«illusione di libertà», secondo la nota critica di H. Kelsen, Das problem des Parlamentarismus, Wien-Leipzig, 1924, trad. it. B. Fleury, Il problema del parlamentarismo, in Id., La democrazia, Bologna, 1998, 193 ss.
[52] Sulla mobilità
parlamentare, per tutti, S. Curreri,
Rappresentanza politica e mobilità
parlamentare, in N. Zanon, F. Biondi
(a cura di), Percorsi e vicende attuali
della rappresentanza e della responsabilità politica, Milano, 2001,
189 ss.; P. Caretti, I gruppi parlamentari nell’esperienza
della XIII Legislatura, in L.
Carlassare (a cura di), Democrazia,
rappresentanza, responsabilità, cit., 53 ss.
[53] M. Luciani, Il paradigma della rappresentanza di fronte alla crisi del
rappresentato, in N. Zanon, F.
Biondi (a cura di), Percorsi e
vicende attuali della rappresentanza e della responsabilità politica,
cit., 109 ss.
[54] Di cui discorre P. Rosanvallon, Il popolo introvabile. Storia della rappresentanza democratica in
Francia, Bologna, 2005.
[57] P. L. Roederer,
Abus d’un mot à l’aide
duquel on a fait d’horribles choses, in Journal de Paris, 15 gennaio 1797, riprodotto in Euvres du comte Pierre Louis Roederer,
t. VI, Paris, 1857, 231.
[62]
C. Schmitt, Römischer Katholizismus und
politische Form, München, 1925, tr. it. Cattolicesimo romano e forma politica, a
cura di C. Galli, Milano, 1986, 49-50, 56 e 277.
[63]
C. Schmitt, Verfassungslehre,
München, Leipzig, 1928, trad. it. A. Caracciolo, Dottrina della costituzione, Milano, 1984,
277.
[66] Prevale in C.
Schmitt, Ueber die drei Arten des
Rechtswissenschaftlichen Denkens, Hamburg, 1934, trad. it. I tre tipi di pensiero giuridico, in Id., Le categorie del “politico”, a cura di G. Miglio, P.
Schiera, Bologna, 1972, 260 ss.; Id.,
Politiche Theologie. Vier
Kapitel zur Lehre von der Souveränität, München-Leipzig, 1922, trad. it. Teologia politica. Quattro capitoli sulla
dottrina della sovranità, ivi, 39-40.
[69] Sulla
rappresentanza-rappresentazione come logica ‘catecontica’ della
identità-conservazione-finitudine, cui si opporrebbe, all’interno della
dimensione del teologico-politico, la differente
logica ‘catecontica’ della stasiologia, come pensiero
escatologico dell’apertura, del frammezzo, della possibilità
dell’alterità, vedi T.
Gazzolo, Due logiche catecontiche,
cit.
[71] C. Schmitt, Dottrina della costituzione (1928), Milano, 1984, 337-338. Sul punto cfr. B.
Manin, Principles du gouvernement
représentatif, Paris, 1995, 191-200.
[72] Critiche,
poi, riprese dalla filosofia postmoderna: si rinvia a H. Hofmann, Rappresentanza-Rappresentazione,
cit., XXXI.
[74] G. Lobrano, Dottrine della ‘inesistenza’ della Costituzione e il
“modello del diritto pubblico romano”, cit., spec. nota 27.