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foto_chessa_oLA NOVITÀ DELLE ORIGINI

RECENTI SVILUPPI DEL PENSIERO COSTITUZIONALE ORIGINALISTA

 

OMAR CHESSA

Università di Sassari

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SOMMARIO: 1. L’originalismo e la difficoltà contromaggioritaria. – 2. Il rifiuto dell’attivismo giudiziale. – 3. Una novità antica. – 4. Il vecchio originalismo. – 5. Il «summing problem». – 6. Intenzioni astratte e concrete. – 7. Intenzione semantica e politica. – 8. Il nuovo originalismo. – 9. Il problema della normatività dell’original public meaning. – 10. La forza dell’originalismo. – 11. La debolezza dell’originalismo: l’irresistibile pervasività del moral reading. – Abstract.

 

 

1. – L’originalismo e la difficoltà contromaggioritaria

 

Il problema fondamentale della giurisdizione costituzionale è la c.d. «difficoltà contromaggioritaria», ovverosia la sua legittimazione nel processo decisionale democratico. Il dilemma ormai classico è la spettanza dell’ultima parola: a chi spetta decidere se c’è veramente contrasto tra le norme legislative adottate dalla rappresentanza politica del popolo e le norme costituzionali sui diritti fondamentali (o su altri principi di giustizia)?

Il compito del judicial review of legislation, infatti, è principalmente quello di accertare una divergenza interpretativa tra il legislatore e la corte costituzionale  (o le corti giudiziali comuni) in ordine al significato normativo delle disposizioni costituzionali: una divergenza che può nascere dal fatto che i giudici interpretino il dettato costituzionale secondo criteri morali diversi da quelli presupposti dalle scelte legislative. Quando questo succede, è come se gli organi giurisdizionali pretendessero di esercitare un controllo sostanziale sulla legislazione, a substantive constitutional review, cioè un controllo “nel merito”, che interessa alfine l’indirizzo politico-morale prescelto dal legislatore e che, per questo motivo, può essere giudicato un travisamento dei compiti che naturalmente spettano al potere giudiziario.

Come disse negli anni ’60 del secolo scorso Alexander Bickel (cui si deve il conio della formula «counter-majoritarian difficulty»): «il contrasto tra legge e costituzione è in molti casi tutt’altro che auto-evidente (self-evident), perché «è, piuttosto, una questione di valutazione politica (an issue of policy) che qualcuno deve decidere»; e se l’incostituzionalità di una legge non è self-evident e può perciò generare un disaccordo che qualcuno deve risolvere, allora per Bickel «il problema è chi (debba farlo): le corti, lo stesso legislatore, il presidente o forse le giurie popolari dei processi penali ovvero in via ultimativa e definitiva il popolo attaverso il processo elettorale?»[1].

Sennonché, una volta posto il problema, Bickel non si spinse fino al punto di negare il judicial review of legislation e neppure escluse che la garanzia giurisdizionale della costituzione dovesse operare con riguardo alle clausole costituzionali di principio, alle c.d. «open-ended provisions»: addirittura pervenne alla conclusione che «le corti, quando esercitano il controllo di costituzionalità delle leggi, non possono evitare di compiere ripetutamente difficili scelte sostanziali tra valori in competizione, e in effetti tra concezioni politiche, sociali e morali, che sono inevitabilmente controverse»[2]. In ciò, peraltro, è seguito dalla dottrina americana maggioritaria, che in prevalenza imposta il problema del disaccordo e la conseguente «difficoltà contromaggioritaria» come il problema di stabilire quale sia il metodo corretto d’interpretazione costituzionale e non come il problema di stabilire se il judicial review of legislation debba esserci oppure no: il mainstream della constitutional theory statunitense non discute se il controllo giudiziale di costituzionalità sia legittimo, ma come deve svolgersi se intende continuare a esserlo[3].

Il testo costituzionale, infatti, non interpreta se stesso. Occorrono criteri d’interpretazione delle disposizioni, che a loro volta non sono direttamente offerti o chiaramente desumibili dagli enunciati scritti. Ecco perciò che, a cavallo tra gli anni ’70 e ’80 del secolo scorso, s’affaccia sulla scena della teoria costituzionale americana l’originalismo[4]: una dottrina, o famiglia di dottrine, il cui obiettivo animatore comune è impedire che la pratica del judicial review si tramuti in un substantial constitutional review, ossia in un controllo sostanziale delle scelte legislative di moralità politica.

 

 

2. – Il rifiuto dell’attivismo giudiziale

 

Per il pensiero originalista la fedeltà al testo costituzionale è sempre il criterio più sicuro di legittimazione del judicial review, sicché sarebbe escluso che i giudici (costituzionali e comuni) possano cimentarsi nella formulazione di giudizi morali distinti e alternativi rispetto a quelli del legislatore. E che l’obiettivo polemico dell’originalismo sia proprio l’attivismo giudiziale lo prova il fatto che i primi contributi originalisti al dibattito costituzionalistico nascano per reazione alla giurisprudenza innovativa della Warren Court in tema di diritti civili[5].

Ma l’alternativa tra attivismo giudiziale e «judicial restraint» è ancora più risalente, e il dilemma si pose con drammatica urgenza fin dal caso Lochner v. New York del 1905[6]. Come è noto, è una pronuncia che oramai tutti, unanimente, giudicano errata, anche se non per le medesime ragioni: alcuni pensano che fosse sbagliata perché era erroneo il giudizio di moralità politica formulato dai giudici della Corte suprema, altri perché era scorretto che i giudici della Corte suprema formulassero un giudizio di moralità politica. Questo è il dilemma che ancora oggi ci portiamo dietro e che si ripropose con la giurisprudenza sui diritti civili degli anni ’50, ’60 e ’70, cioè con i casi Brown v. Board of Education (1954), Griswold v. Connecticut (1965) e Roe v. Wade (1973): furono decisioni giuste perché era giusto il giudizio di moralità politica su cui si reggevano o furono sbagliate perché in questi casi la Corte suprema rivendicò il diritto/dovere di compiere giudizi di moralità politica che avrebbero dovuto riservarsi al legislatore?

Per gli originalisti è vero il secondo corno del dilemma. Il difetto che accomunerebbe Lochner ai casi Brown, Griswold e Roe, sarebbe il medesimo: la Corte avrebbe imposto le proprie visioni morali, politiche e sociali a quelle del popolo espresse mediante la legislazione, mettendo con ciò a repentaglio la legittimità del judicial review[7].

 

 

3. – Una novità antica

 

L’occasione della fioritura originalista fu, sì, la reazione conservatrice nei confronti degli indirizzi seguiti dalla Warren Court, ma questo non ha impedito all’originalismo di rappresentare se stesso come lo spirito più antico e genuino del costituzionalismo americano.

Robert Bork, uno dei principali esponenti del pensiero originalista, ricollega le proprie tesi al noto passo hamiltoniano dei Federalist Papers n. 78, dove si riprende la tesi montesquieiana del potere giudiziario come potere “nullo” (il cui ruolo sarebbe limitato all’applicazione di un diritto che altri hanno creato) e dove si afferma che se il giudiziario esercitasse la «volontà» in luogo del «giudizio», il governo rappresentativo sarebbe sovvertito: per Bork solo l’approccio originalista potrebbe circoscrivere il ruolo giudiziale dentro questo termini. Ci sarebbe dunque una sorta di «original understanding of the original understanding», nel senso che il canone interpretativo originalista rientrerebbe nell’«original understanding» dei padri costituenti, ossia rientrebbe nell’intenzione originaria dei costituenti l’auspicio che la costituzione sia interpretata secondo le intenzioni dei costituenti[8].

Inoltre, come l’interpretivismo, anche l’originalismo sarebbe presupposto dalla dottrina enunciata in Marbury v. Madison. Ne offrirebbe la riprova esplicita un passo redatto dallo stesso Chief Justice Marshall qualche anno dopo, nel caso Ogden v. Saunders (1827), laddove con riguardo all’applicazione della costituzione si afferma che «deve prevalere l’intenzione dello strumento (the intention of the instrument); (…) questa intenzione deve evincersi dalle sue parole; (…) le sue parole devono essere comprese nel senso in cui sono generalmente usate da coloro per i quali lo strumento era destinato; (…) e non possono riferirsi a oggetti (…) non contemplati dai framers»[9]. Probabilmente l’idea marshalliana che l’interpretazione della costituzione dovesse tenere conto dell’intento dei framers fu elaborata per osmosi col canone dell’intenzione legislativa, che nel diritto inglese assisteva tradizionalmente l’applicazione degli atti legislativi del Parlamento e che, per comprensibili ragioni, era ben noto e praticato anche nelle colonie americane[10].

L’originalismo è quindi il punto di arrivo di tanti percorsi: c’è l’identificazione della costituzione americana scritta con gli atti legislativi del Parlamento inglese, che induceva a estendere i metodi tradizionali dell’interpretazione legislativa al problema nuovo dell’interpretazione costituzionale; c’è l’idea hamiltoniana del potere giudiziario come funzione politicamente “neutra”, che deve essere, ad un tempo, al servizio della volontà legislativa degli organi rappresentativi e al servizio della volontà costituente del popolo sovrano[11]; e c’è anche il convincimento che fosse nell’intenzione degli autori della costituzione vincolare l’interpretazione costituzionale futura alle loro stesse intenzioni.

Ma su tutti questi sentieri spicca una via maestra, e cioè l’idea che l’originalismo sarebbe il solo rimedio a quello che Robert Bork chiama «Madisonian Dilemma», ossia al dilemma di tenere assieme «due principi opposti che devono essere costantemente conciliati. Il primo principio è l’auto-governo, in base al quale su molti ambiti le maggioranze hanno il diritto di decidere per il solo fatto di essere maggioranze. Il secondo è che ci sono alcune cose che le maggioranze non devono fare alle minoranze, cioè alcuni ambiti in cui l’individuo non può essere costretto dalle decisioni maggioritarie». Ebbene, il dilemma nasce dal fatto che «né alle maggioranze né alle minoranze può affidarsi, rispettivamente, il compito di definire la propria sfera di autorità democratica e libertà individuale»[12].

L’originalismo dunque salvaguarderebbe sia il principio democratico che il principio garantista, perche offrirebbe un metodo d’interpretazione costituzionale che, da un lato, consentirebbe alle corti di sindacare legittimamente la validità delle leggi e che, dall’altro, neutralizzerebbe il pericolo che il judicial review of legislation possa invadere l’ambito riservato alle scelte legittime del legislatore democratico. La domanda di fondo della constitutional theory è, infatti, questa: “in che modo deve svolgersi il ragionamento giudiziale se intende, ad un tempo, vigilare sul rispetto delle libertà costituzionali e assicurare i diritti della maggioranza?” [13]. E l’originalismo giustificherebbe se stesso accreditandosi come il solo metodo che possa fornire un criterio certo d’interpretazione costituzionale, in base al quale tracciare in modo netto e inequivocabile la linea di confine tra autorità (democratica collettiva) e libertà (individuale)[14].

Ma in cosa consiste, precisamente, il metodo offerto dal costituzionalismo originalista?

 

 

4. – Il vecchio originalismo

 

Come già accennato, più che una dottrina l’originalismo è una famiglia di dottrine, una corrente di pensiero cui hanno contribuito molti autori e la cui evoluzione non si è ancora arrestata, tanto che oggi si distingue tra old originalism e new originalism.

Ogni forma di originalismo, però, condivide l’idea che il criterio interpretativo che meglio di altri onora la fedeltà al testo costituzionale, restituendo legittimità al judicial review, sia il metodo della ricostruzione storica: un metodo che, per usare le parole di Keith Whittinghton, tratta «il significato della Costituzione rinvenibile al momento della sua iniziale adozione come autoritativo ai fini dell’interpretazione costituzionale che è svolta nel tempo presente»[15].

Questa formulazione offre una definizione generale, spendibile per ogni tipo di approccio originalista. Infatti, abbraccia sia l’idea che l’interpretazione giudiziale della costituzione debba lasciarsi guidare dal criterio eticamente neutrale della ricostruzione storico-empirica delle intenzioni originarie dei padri costituenti, sia l’idea che le parole del testo costituzionale debbano sempre intendersi nel significato che avevano nel momento storico della loro redazione ed entrata in vigore. A quest’alternativa corrispondono due diverse forme di originalismo: l’original intent originalism, che caratterizza la prima fase di questa corrente di pensiero, cioè l’old originalism; e l’original meaning originalism, che caratterizza invece la seconda fase, ancora in corso, ossia il new originalism.

Ormai presso gli stessi autori originalisti è saldamente radicato il convincimento che il nuovo originalismo sia un’evoluzione migliorativa del vecchio, non foss’altro perché la sua elaborazione si è resa necessaria proprio per correggere i difetti di costruzione teorica che sfibravano il canone interpretativo dell’original intent of the framers. Ma comunque è utile partire da quest’ultimo, perché così è più facile comprendere quali problemi il new originalism sia riuscito a risolvere effettivamente e quali invece sono rimasti insoluti.

Il vecchio originalismo s’identifica essenzialmente con la dottrina interpretativa dell’original intent of the framers, perché asserisce la necessità che il documento costituzionale sia interpretato conformemente alle intenzioni originarie dei costituenti: solo così – per i fautori dell’original intent originalism – sarebbe possibile arginare la discrezionalità giudiziale a beneficio della certezza del diritto e dell’istanza democratico-rappresentativa[16].

Ma quest’orientamento non ebbe vita lunga. I punti di debolezza erano numerosi e troppo evidenti perché venissero ignorati. Il primo lavoro scientifico che in modo analitico e sistematico svela l’insostenibilità dell’old originalism è un energico articolo di Paul Brest del 1981[17].

 

 

5. – Il «summing problem»

 

Anzitutto Brest osserva che il canone dell’original intent non distingue tra coloro che scrissero e adottarono il testo costituzionale e coloro che lo ratificarono: poiché non è detto che le intenzioni dei primi fossero uguali a quelle dei secondi, c’è il problema di stabilire quali debbano contare come vincolanti per l’interprete[18]. Ma ancora più complicato è risalire all’intento vincolante quando l’interpretazione ha per oggetto le disposizioni costituzionali che derivano da amendments al testo originario: in questo caso, infatti, è ben più alto il numero degli attori costituzionali che hanno partecipato e contribuito al processo decisionale modificativo della costituzione; e la possibilità che molteplici intenzioni divergenti siano confluite in un medesimo esito è ancora più elevata, con ciò rendendo praticamente impossibile ricostruire la trama dei moventi[19].

Anche ammesso che sia possibile circoscrivere la platea di coloro il cui intent è rilevante, si tratterà comunque di un organo collegiale. Ma in tal caso ci troviamo dinanzi all’insormontabile difficoltà di dover accertare quale fosse l’intenzione collettiva di un organo composto di molti membri, ciascuno provvisto di una propria intenzione particolare: può darsi, infatti, che con riguardo a una questione specifica i framers o non avessero nessuna intenzione particolare o che ne avessero diverse. Peraltro è quasi scontato che persone diverse nutrano aspirazioni diverse ed è perfino possibile che una stessa persona abbia più intenzioni contrastanti. Ebbene, in questi casi «quali regole – si chiede Paul Brest – determinano l’intento istituzionale di un multimember body[20].

È quello che Robert Bennet chiama «the summing problem», e cioè il problema di capire «se e come possiamo muovere da stati della mente di individui a uno stato della mente dell’organo nel suo complesso»[21]. In altre parole, come debbano essere sommate le intenzioni individuali di coloro che partecipano al processo deliberativo, al fine di ricavare l’intenzione collettiva dell’organo collettivo di cui fanno parte e cui è imputata la decisione?

Attenzione, la questione non è quella di decidere in che modo si debba formare la volontà dell’organo, perché in questo caso la risposta, molto semplice, è che debbono sommarsi i voti espressi individualmente e verificare se la proposta di delibera ha raggiunto la soglia di maggioranza prescritta. Il problema che, invece, c’interessa è quello di capire in che modo possiamo ricostruire l’intenzione sottesa all’atto che è stato deliberato dalla maggioranza: e mentre è relativamente semplice sommare i voti espressi, al fine di stabilire se l’atto è stato adottato oppure no, al contrario non è altrettanto semplice sommare le intenzioni, le motivazioni individuali al fine di capire quale sia la motivazione, l’intenzione collettiva che spiega il senso, l’obiettivo dell’atto deliberato. Contare le intenzioni non è facile come contare i voti.

Ad esempio, quale dovrebbe o potrebbe essere la soglia di maggioranza? Quella che rileva è l’intenzione che è comune a tutti coloro che fanno parte della maggioranza approvativa? Ma è raro, se non impossibile, che ci sia coincidenza tra maggioranza dei voti e maggioranza delle intenzioni. Allora, ciò che conta è la maggioranza della maggioranza? E se sì, è la maggioranza assoluta o relativa di coloro che hanno costituito la maggioranza approvativa? [22]

A tutte queste domande non esiste risposta.

 

 

6. – Intenzioni astratte e concrete

 

Tuttavia il «summing problem» non è l’unico argomento che efficacemente possa rivolgersi contro l’original intent originalism. Potrebbe sostenersi, ad esempio, che il canone dell’original intent fagociterebbe se stesso, dal momento che numerose evidenze storiche attesterebbero che l’intento dei framers della costituzione americana non era quello di prescrivere questo metodo interpretativo: vale a dire, non era nell’intento dei costituenti prescrivere che le disposizioni costituzionali fossero lette tenendo conto dell’intento dei costituenti[23].

Un argomento di questo tipo è speso pure da Ronald Dworkin, specialmente quando distingue tra «concetti» e «concezioni». A suo giudizio era nell’intento dei costituenti che la Costituzione americana contenesse il concetto di libertà, di equal protection, di cruel punishment, ecc., e che non recepisse invece le specifiche concezioni che di questi concetti potevano averne i framers. Difatti, la costituzione ci dice che dobbiamo essere liberi o ci dice che dobbiamo essere liberi nel modo in cui i padri costituenti ritenevano che si dovesse essere liberi? La costituzione vieta i trattamenti irragionevolmente diseguali o quei trattamenti che i padri costituenti ritenevano fossero irragionevolmente diseguali? Per Dworkin il testo costituzionale incorpora le intenzioni «astratte» dei framers, non le loro intenzioni «concrete». Il loro intento era quello di vietare le pene crudeli (cruel punishment), non quello di vietare le pene che gli stessi framers ritenevano fossero crudeli.

Ma come facciamo a sapere e dire che la Costituzione incorpora intenzioni astratte e non concrete? Ossia, che l’intenzione originaria dei costituenti fosse proprio quella di sancire principi astratti e non già quella di prescrivere ciò che loro precisamente e specificamente pensavano che corrispondesse ai principi astratti? [24]

L’indizio principale è lo stesso testo costituzionale, nel modo in cui è formulato: pullula, infatti, di espressioni linguistiche astratte, le cui potenzialità semantiche sono più ampie di qualsiasi specifica lista di esempi concreti riconducibili al loro campo di significati. E se – come osserva Dworkin – i costituenti «usarono un linguaggio astratto» è «perché intesero fissare principi astratti», sicché il loro proposito era proprio quello di stabilire una costituzione priva di «riferimenti codificati alle loro opinioni (o quelle dei loro contemporanei) sul miglior modo di applicare tali principi»[25]. Del resto – può aggiungersi – se i costituenti avessero voluto manifestare un intento più specifico e concreto, avrebbero sicuramente trovato le parole per farlo e avrebbero impiegato formulazioni che più precisamente rispecchiavano i loro convincimenti. Invece, come già detto, preferirono sancire principi astratti e non già quelle che loro ritenevano fossero corrette applicazioni concrete dei principi astratti. Hanno detto “comportati giustamente”, e non già “comportati nel modo che corrisponde alla nostra concezione di ciò che deve intendersi per comportamento giusto”.

L’obiettivo palese di Dworkin è quello di volgere l’originalismo contro la premessa di fondo da cui prende le mosse: se il judicial review of legislation è legittimo alla condizione che i giudici dimostrino fidelity to the Constitution, allora è più fedele alla Costituzione ricercare le intenzioni astratte dei costituenti che non quelle concrete. Ma in questo modo si ottiene un altro risultato importante. Se la fedeltà alla Costituzione esige la ricerca delle intenzioni astratte in luogo di quelle concrete, storicamente collocate, allora sarebbe la stessa Costituzione a prevedere che i giudici esercitino il judicial review formulando giudizi di moralità politica: come sarebbe possibile, infatti, interpretare e applicare i principi costituzionali astratti senza sottoporli a moral reading? Ecco dunque che, a dispetto delle tesi originaliste, le valutazioni giudiziali di moralità politica sarebbero una pratica costituzionalmente fondata, un modo di onorare la Costituzione (americana) e non il suo tradimento[26].

Ad esempio, quando i costituenti dissero che le pene crudeli (cruel punishments) sono costituzionalmente proibite, intendevano dire che deve considerarsi vietato ciò che è realmente, oggettivamente crudele, e non ciò che loro, magari a torto, pensavano che fosse crudele. Ma per scoprire cosa è realmente crudele, e quindi vietato dalla Costituzione, occorre formulare il miglior giudizio morale su ciò che deve intendersi per “crudeltà” e per “comportamento crudele”, cioè occorre la formulazione di giudizi morali, ossia un esercizio d’«interpretazione costruttiva».

 

 

7. – Intenzione semantica e politica

 

Da quello che si è detto finora parrebbe che anche il moral reading sia una forma di original intent originalism. Infatti, per Dworkin le «abstract clauses» della Costituzione americana proverebbero che l’intento originario dei costituenti era proprio quello di affidare ai giudici la formulazione di giudizi morali autonomi. Tuttavia è dubbio che il moral reading pretenda di poggiare su un fondamento intenzionalista proprio come l’old originalism. Per diverse ragioni.

La prima ragione è che lo stesso intenzionalismo avrebbe bisogno, a sua volta, di essere fondato in qualche modo. Se l’intento dei framers era quello di escludere che si tenesse conto del loro intento concreto, perché invero ciò che intendevano prescrivere era che si tenesse conto del loro intento astratto, bisogna prima ancora spiegare perché sia in qualche modo vincolante l’intento dei framers, a prescindere se sia quello concretto o astratto. C’è insomma il sospetto che l’argomento si avviti in un circolo vizioso e in una tautologia: il fatto che dobbiamo attenerci all’intento concreto o astratto dei Founders perché questo era il loro original intent, cioè il fatto che che dobbiamo seguire la volontà dei Padri perché questa era quello che volevano, ancora una volta non offre risposta alla domanda del perché la loro volontà sia per noi vincolante. Ora, è evidente che nel caso di Dworkin l’intento originario dei framers è evocato al fine di provare che non dobbiamo seguire l’intento originario dei framers. Ma questo genera un paradosso irrisolvibile: se non tengo conto dell’intento dei costituenti, assecondo il loro intento; ma se decido di non assecondare l’intento che esclude l’intento come canone interpretativo, allora vuol dire che userò l’intento come canone interpretativo…In ogni caso, si tratta di un argomento circolare, considerato che non offre nessuna ragione del perché ci si debba conformare all’intento (quale che sia il contenuto della sua prescrizione, cioè lasciando da parte la questione se indichi o no la necessità di attenersi all’intento)[27].

La seconda ragione è che anche se si fonda il moral reading sull’intento originario dei costituenti, c’è da dire però che questo intento non è ricostruibile autonomamente rispetto alle parole del testo: è, infatti, rivelato dal linguaggio costituzionale, che è perciò l’unica via d’accesso alla volontà e ai propositi dei framers. Alla fine, anche se il lessico è quello intenzionalista, la sostanza è ben altra. Lo prova la distinzione tra «intenzione semantica» e «intenzione politica», anch’essa di conio dworkiniano. La prima indica «ciò che gli autori della Costituzione intendevano dire», mentre la seconda «ciò che si aspettavano che fosse la conseguenza del dire quello che hanno detto»[28]. Per Dworkin il compito dell’interprete che volesse rimanere fedele alla costituzione è ricostruire la prima, disinteressandosi della seconda. Ma c’è da chiedersi se la ricerca dell’intenzione semantica abbia ancora qualcosa a che vedere con un approccio di tipo intenzionalista.

Infatti, se vogliamo che il concetto di “intenzione” sia adoperato in modo intellegibile, dobbiamo intenderlo come se si riferisse a qualcosa di ontologicamente diverso dalle parole scritte della costituzione: una cosa è il testo, un’altra è l’intenzione di chi lo scrisse. E anche se il primo veicola la seconda, non c’è dubbio che il veicolo sia altro dall’oggetto veicolato. Al contrario, l’intenzione semantica è ciò che i costituenti intendevano dire con le parole che hanno usato: quindi è un altro modo di chiamare il significato di quelle parole. Il significato delle parole del testo costituzionale è ciò che i framers intendevano dire con quelle parole, e viceversa, quello che i framers intendevano dire non è altro che il significato delle parole che hanno usato.

È chiaro perciò che se l’originalismo fosse la ricerca dell’intenzione semantica, il concetto di “intenzione” servirebbe a ben poco come criterio risolutivo d’interpretazione costituzionale. E in ogni caso, se l’intenzione originaria dei framers è il significato delle parole che hanno adoperato, allora non occorre e non si deve intraprendere nessuna investigazione storica empirica, diretta a ricostruire quali fossero i pensieri e gli obiettivi dei costituenti: i loro pensieri e obiettivi sono quelli che risultano dal significato delle parole che hanno scritto, e al di fuori di quelle parole non c’è altro mezzo che possa legittimamente testimoniare cosa effettivamente volessero e pensassero. Le sole intenzioni che meritano di essere considerate sono quelle manifestate dalle parole che hanno impiegato. È una prospettiva d’indagine che nella sostanza rimuove l’approccio intenzionalista. Se le intenzioni dei costituenti sono identificate con i significati del testo costituzionale, le scopriamo dopo aver interpretato le loro parole, e non prima.

Al contrario, per l’old originalism le intenzioni dei costituenti non si scoprono interpretando le loro parole, ma sono o devono essere il criterio per interpretarle. Esistono quindi in modo indipendente rispetto a quello che è scritto nella Costituzione; e se si sovrappongono a questo testo, come cartina di tornasole o come occhiali da lettura, possono aiutarci nella messa a fuoco dei significati costituzionali. Mentre per Dworkin l’intenzione degli autori della costituzione si è oggettivata nel documento costituzionale, risolvendosi interamente nelle sue parole fino al punto che non può sapersi quali esse fossero se non attraverso quelle parole (correttamente interpretate), invece per gli originalisti l’intenzione è veicolata dal testo, ma può altresì essere ricostruita prescindendone: o perlomeno, devono poter presumere questo, altrimenti non potrebbero dire che l’intenzione è criterio d’interpretazione del testo.

Ma una volta asserito che le intenzioni sono distinguibili dal testo che pretende di veicolarle e che sono ricostruibili autonomamente rispetto alle parole scritte della costituzione, il testo diventa solo uno degli strumenti di manifestazione delle intenzioni[29]. E allora bisognerebbe spiegare perché quelle intenzioni dei framers che non sono corroborate dal testo, ma che tuttavia siamo in grado di conoscere mediante una ricostruzione storica obiettiva, non dovrebbero prevalere sul testo e smentirlo, degradandolo a fonte di cognizione imperfetta di una volontà accertabile in modo più fedele con altri mezzi.

Insomma, se ciò che conta è l’intenzione degli autori del testo costituzionale e se questa intenzione è accertabile pure per altra via che non per mezzo del testo, come dovremmo comportarci qualora si accertasse che in realtà il testo costituzionale è una traduzione imprecisa o infedele delle reali intenzioni di chi lo scrisse? In questo caso dobbiamo fedeltà al testo costituzionale o alle intenzioni dei suoi autori? Se diciamo che è il testo a dover prevalere, allora esso vale per una ragione diversa dal fatto di essere il veicolo di un’intenzione: e non si capirebbe quindi perché per interpretarne il senso dovremmo badare all’intenzione di qualcuno anziché ad altro. Se invece diciamo che deve prevalere l’intenzione e se a questa possiamo giungere per vie indipendenti dal testo, allora perché attingere a una fonte di seconda mano quando abbiamo accesso a una di prima? Perché mai non dovremmo ricavare norme direttamente dalle intenzioni dei framers storicamente ricostruite e guardare al documento costituzionale come un indice presuntivo ma non conclusivo di ciò che vollero?

Nel primo caso la fedeltà al testo ci spinge lontano dall’intenzione, anzi esige proprio che non si tenga conto del dato intenzionale. Nel secondo caso il primato dell’intenzione c’induce ad abbandonare la fedeltà al testo. Comunque l’original intent originalism non sarebbe una teoria su cosa debba intendersi per fedeltà alla costituzione.

 

 

8. – Il nuovo originalismo

 

Le critiche all’originalismo intenzionalista hanno fatto breccia. Sono rimasti in pochi ormai a ragionare di original intent. E la gran parte di coloro che un tempo sembravano propendere per una qualche forma di intenzionalismo adesso preferiscono parlare di original meaning[30].

Robert Bork ne è l’esempio paradigmatico. Con la monografia dei primi anni ’90 del secolo scorso imprime una svolta al pensiero originalista, abbandonando l’approccio intenzionalista e abbracciando l’idea che lo scopo dell’interpretazione costituzionale sia quello di ricercare il significato originario delle parole usate nel documento costituzionale[31]. E il significato originario non è altro che «il significato compreso al tempo in cui fu approvato l’atto normativo» (the meaning understood at the time of the law’s enactment). Per Bork «è importante essere chiari sul punto. Non si tratta di andare alla ricerca di un’intenzione soggettiva (…) quando i legislatori fanno uso di determinate parole, le norme che ne risultano sono quelle che le suddette parole significano ordinariamente». Ciò che conta è il «public understanding, not subjective intentions»[32].

La svolta è netta. Ciò che rileva è quello che la società del tempo avrebbe inteso come significato delle parole del testo, sicché bisogna enucleare «the original public meaning» lasciando da un canto le aspettative individuali ovvero le intenzioni personali, più o meno recondite, di questo o quel framer. Per ricostruire il «significato pubblico originario» occorre invece rifarsi «ai dibattiti pubblici dell’epoca, agli articoli di giornale, ai dizionari del tempo, e via dicendo», cioè a tutto ciò che possa testimoniare quali fossero i significati che ordinariamente le persone del tempo assegnavano alle parole usate nel documento costituzionale[33].

Diversamente dal canone dell’original intent, che apre alla possibilità di una dissociazione e conflitto tra testo e intenzione, il criterio dell’original public meaning tiene fermo che l’intenzione dei costituenti è primariamente rivelata dalle parole della costituzione e dal modo in cui quelle parole erano impiegate al tempo della loro redazione scritta: non bisogna andare a ricercare quali fossero realmente le intenzioni dei framers, per poi magari scoprire che non erano veicolate adeguatamente dal testo costituzionale, ma invece occorre verificare quali significati venissero attribuiti a quelle parole nel periodo storico in cui vissero i costituenti[34].

Pure in questo caso l’interpretazione costituzionale consiste di un’investigazione storica empirica, ma non c’è il pericolo che questa ricerca sconfessi il testo costituzionale: è circoscritta, infatti, entro i confini delle parole contenute nel documento costituzionale, visto che il suo obiettivo è (ri-)scoprire il loro «original understanding or meaning» e non certo la reale intenzione che ne avrebbe motivato la redazione. L’intento dei framers sarebbe, così, tutt’uno col significato obiettivo che le parole della costituzione avevano al tempo della loro scrittura.

Il nuovo originalismo, con la sua enfasi sull’original public meaning, sembra sottrarsi alla critica dworkiniana (e, prima ancora, a quelle di Brest e Powell). Il «significato pubblico originario», infatti, non pare confondibile con l’«intenzione politica o concreta» dei costituenti, di cui parla Dworkin: non sarebbe «ciò che gli autori della Costituzione si aspettavano che fosse la conseguenza del dire quello che hanno detto»[35], ma somiglierebbe parecchio a «ciò che gli autori della Costituzione intendevano dire», cioè a quella che sempre Dworkin chiama «intenzione semantica». Cos’è infatti «ciò che gli autori della Costituzione intendevano dire» se non il significato delle parole che hanno scelto di impiegare? E se questo significato non fosse quello che, al tempo, era comunemente associato a quelle parole, quale altro mai avrebbe potuto essere?

Ovviamente Dworkin non sottoscriverebbe questa conclusione. E anzi, sosterrebbe – come in effetti fece – che invero, così argomentando, si starebbe surrettiziamente proponendo, ancora una volta, la vecchia «intenzione politica», cioè la ricerca di «ciò che gli autori della Costituzione si aspettavano che fosse la conseguenza del dire quello che hanno detto»[36].

Tuttavia, posta così, la questione se il significato pubblico originario delle parole contenute nel documento costituzionale sia o non sia ciò che i costituenti si aspettavano che fosse l’effetto di queste parole, è irresolubile: per un verso sembra difficile negare che i costituenti si aspettassero che le parole prescelte fossero intese nel significato che avevano allora, ma per l’altro non si può contestare che, obbedendo a uno scrupolo analitico rigoroso, le convenzioni linguistiche in uso in una data epoca siano qualcosa di diverso dagli effetti auspicati o dai propositi di coloro che ne facessero uso.

Quale che sia la soluzione del dilemma, il vero problema rimane però un altro: e cioè, se le critiche rivolte al criterio dell’original intent possano rivolgersi con uguale efficacia anche nei confronti dell’original public meaning originalism; o se, invece, esistano buone ragioni normative a sostegno del nuovo originalismo.

 

 

9. – Il problema della normatività dell’original public meaning

 

Il new originalism gode ormai di un consenso molto ampio negli USA, che taglia trasversalmente la separazione tra studiosi che hanno un orientamento politico liberal e studiosi con un approccio conservative [37] .

Probabilmente ciò è dovuto al fatto che non è una teoria monolitica, ma una famiglia di dottrine diverse. Tutte però sono accomunate da due idee fondamentali, che Lawrence B. Solum chiama «Fixation Thesis» e «Constrain Thesis». La prima idea afferma che «il significato di ciascuna disposizione della Costituzione si fissa nel momento in cui la disposizione viene scritta ed è adottata/ratificata». La seconda afferma che questo significato originario, fissato nel momento storico in cui la disposizione costituzionale ha preso vita, vincola l’interprete con la stessa forza obbligante del testo cui inerisce[38].

Peraltro gli argomenti polemici che furono rivolti contro l’originalismo intenzionalista difficilmente potrebbero colpire queste due tesi fondamentali del nuovo originalismo: dal «summing problem» di Brest alla distinzione tra «intenzione astratta e concreta» (o «semantica e politica») di cui parlava Dworkin, niente di tutto questo parrebbe spendibile contro l’idea che la costituzione debba intendersi in accordo col suo significato pubblico originario, fissato al momento della sua entrata in vigore[39].

Ma l’assenza di ragioni contrarie non è, di per sé, una ragione a favore. Anche se il nuovo originalismo è immune dal potente arsenale che venne adoperato contro il vecchio, questa circostanza però non esime dallo spiegare perché sia doveroso conformarsi ai suoi precetti.

Un primo tentativo di offrire risposta al problema potrebbe essere quello di fare leva sull’idea del rule of law, che «è largamente accolta nelle democrazie contemporanee», visto che «i valori, a essa associati, di certezza, prevedibilità e stabilità del diritto sono tra i più importanti di un sistema costituzionale ben funzionante»: ebbene, «considerare il significato pubblico originario della Costituzione come la legge suprema del Paese è il mezzo tramite cui i principi del diritto costituzionale possono essere fissati e quindi preservati dal conflitto ideologico e politico»[40].

Ma se la ragione a supporto dell’originalismo è semplicemente quella di arginare la discrezionalità giudiziale, conferendo stabilità e certezza agli orientamenti giurisprudenziali, quest’obiettivo potrebbe ottenersi in tanti altri modi: ad esempio, stabilendo che la costituzione debba interpretarsi secondo le indicazioni dottrinali contenute nel più diffuso manuale di diritto costituzionale oppure secondo qualsiasi altro criterio prestabilito alla luce del quale non ci siano dubbi su cosa i giudici sarebbero tenuti a fare. Se ciò che conta è la prevedibilità e la certezza della decisione giudiziale, basta accordarsi su un criterio che la garantisca: e non importa quale esso sia, basta che sia in grado di ancorare le pronunce giudiziali a qualcosa che ne assicuri la stabilità[41].

Ciò prova indirettamente che non è sufficiente evocare la certezza del diritto per giustificare la normatività dell’original public meaning e che occorrono argomenti aggiuntivi per dimostrare che la stabilità e prevedibilità del diritto giurisprudenziale debba conseguirsi attraverso questo canone anziché con altri. Sarebbe sbagliato pensare che basti rilevare la strumentalità dei canoni originalisti rispetto all’obiettivo (pur pregevole) del rule of law e della certezza del diritto giurisprudenziale: in più se ne deve accertare la legittimità.

E dunque la domanda giusta è: perchè il canone originalista sarebbe più legittimo di altri criteri egualmente capaci di assicurare la certezza del diritto giurisprudenziale?

Un’altra possibile risposta è che i canoni originalisti sarebbero preferibili ad altri in virtù della loro superiore legittimità democratica. La normatività dell’originalismo trarrebbe, così, alimento dal medesimo principio che fonderebbe la normatività della costituzione: la sovranità popolare. Obbedendo alla costituzione nel suo significato pubblico originario, si onorerebbe il popolo sovrano che la volle. Mentre lo stesso non potrebbe dirsi se si accogliesse l’idea che la costituzione o i suoi significati possano cambiare al di fuori dell’apposita procedura di revisione costituzionale.

È una linea argomentativa che si riallaccia a una lunga tradizione di pensiero, che abbiamo visto risalire sino a Marbury v. Madison e ai passi hamiltoniani dei Federalist Papers. Ma nonostante la veneranda età, o forse proprio a causa della stessa, presenta più acciacchi che punti di forza. Anzitutto non fu il popolo sovrano né a redigere e adottare, né a ratificare la costituzione federale americana (così come non fu direttamente il popolo sovrano ad approvare la costituzione repubblicana italiana), ma i rappresentanti elettivi di un corpo elettorale composto secondo criteri che non prevedevano ancora il suffragio universale, visto che ne erano esclusi le donne e gli schiavi di colore. A questo devono aggiungersi i fenomeni di sfacciato «malaportionment» nella conformazione dei collegi elettorali dell’epoca, composti in modo del tutto indifferente al principio democratico “un uomo, un voto”: tutti i collegi, infatti, esprimevano un unico seggio, nonostante alcuni contassero poche migliaia o centinaia di elettori, mentre altri centinaia di migliaia. Insomma, bisognerebbe chiedersi quanto possa considerarsi democraticamente vincolante un «significato pubblico originario» che si era fissato in correlazione alle credenze e ai valori di una società che ancora non aveva maturato al proprio interno il principio one man, one vote, nonché l’idea che le donne e gli schiavi di colore fossero persone pleno iure, cittadini titolari di uguali diritti politici[42].

È vero che quello che vale per l’esperienza costituzionale americana non è detto che debba valere anche per altre. Ad esempio, il caso della costituzione repubblicana italiana è diverso, perché l’assemblea costituente del 1946 fu eletta a suffragio universale diretto e con metodo proporzionale: tutti i maggiorenni, donne e uomini, poterono votare. Tuttavia rimane comunque la differenza tra potere popolare sovrano e potere rappresentativo delegato, sicchè neppure con riguardo all’esperienza italiana può dirsi che la costituzione sia, a rigore, una genuina manifestazione di volontà popolare.

Quale conclusione dobbiamo trarne, dunque? Che l’original public meaning della costituzione sia vincolante solo alla condizione che il testo approvato dall’assemblea costituente sia sottoposto ad approvazione popolare diretta in forma referendaria? Che il significato del documento costituzionale è fissato al momento della sua adozione soltanto se questo documento può direttamente imputarsi alla volontà popolare non rappresentata?

 

 

10. – La forza dell’originalismo

 

Ci troviamo di fronte a un nodo teorico importante. Se una costituzione è stata scritta e approvata da rappresentanti elettivi, senza nessuna forma di approvazione popolare diretta, perche mai la rappresentanza elettiva di ora deve intendere quel testo secondo un significato fissato nel passato?[43]

Alla questione non si può fornire nessuna risposta sensata assumendo come sfondo normativo il principio democratico di sovranità popolare. Non può essere questo, infatti, il motivo per cui occorre attenersi all’original public meaning. La ragione vera è che se non si facesse così, i procedimenti di formazione degli atti normativi sarebbero processi decisionali insensati.

Non c’è dubbio che a volte i legislatori sono come “diavoli che fanno pentole, ma non coperchi” e che spesso dagli atti normativi derivano conseguenze inintenzionali, che frustrano gli obiettivi che mediante la loro adozione ci si proponeva di conseguire. Questo succede quando un nuovo testo viene a inserirsi in una rete di connessioni sistematiche preesistenti che non è stata valutata adeguatamente oppure quando le formulazioni linguistiche sono approssimative al punto di sconfessare, anziché supportare, il proposito perseguito. Quando ciò accade, il legislatore non può accusare nessun altro se non sé medesimo. Significa che non è stato in grado di padroneggiare il significato linguistico convenzionale delle altre parole presenti nella legislazione vigente.

Supponiamo invece che il legislatore non faccia errori e che la sua valutazione delle connessioni sistematiche preesistenti non sia superficiale. Sceglie perciò con cura e abilità le parole giuste e l’esito del processo decisionale è un atto normativo potenzialmente in grado di veicolare in modo efficace la sua volontà, senza che la possibilità dell’interpretazione sistematica possa costituire un ostacolo. Ma ciò nondimeno supponiamo che il suo intento sia comunque frustrato, perché nel frattempo l’evoluzione della lingua ha rimescolato le carte, modificando la portata semantica delle parole, fino al punto che le parole del testo non possono più adoperarsi per esprimere quello per cui sono state scelte. In questo caso è successo che le convenzioni linguistiche abbiano registrato un mutamento rispetto al momento storico in cui il testo normativo fu approvato ed entrò in vigore. Ebbene, occorre rassegnarsi a questo fatto, come se si trattasse di una calamità naturale per cui non esistono rimedi? Oppure occorre prendere atto che è invece opportuno risalire ai significati originari delle parole usate, se si vuole ricostruire correttamente il senso dell’atto normativo e se si vuole dare un senso all’idea stessa di procedimento legislativo come processo decisionale?

È lampante, infatti, che non avrebbe senso adoperarsi per ottenere l’approvazione di una legge, se poi le parole che reca non sono intese nel significato che convenzionalmente avevano al momento della loro redazione. In un testo si fissa una volontà, un’intenzione: e a tale scopo si scelgono appositamente talune parole in luogo di altre, avendo cura di privilegiare quei termini che per il loro significato si prestano meglio di altri a veicolare il proposito desiderato. Ma tutto questo è frustrato se, ad esempio, dopo cinquant’anni quelle parole acquistano un significato convenzionale diverso: di fatto, quell’atto normativo avrà acquistato, forse del tutto casualmente, un significato che non era certo quello per il quale era stato adottato; o forse non avrà più significato alcuno.  Insomma, un procedimento legislativo (ordinario o costituzionale che sia) regola e canalizza la formazione di una volontà; e questa volontà è senza dubbio quella che risulta dalle parole usate e non da altro. Ma che ne è di essa, se le parole non sono più intese nel significato per il quale furono scelte? È come se quel procedimento decisionale avesse prodotto una deliberazione diversa da quella che ne è effettivamente scaturita.

Per tutte queste ragioni, le parole degli atti normativi debbono intendersi nel loro significato originario convenzionale, cioè public. Se i giudici disattendessero questo canone interpretativo, per assecondare l’evoluzione linguistica dei significati convenzionali, allora non avrebbero alcun senso le regole sui procedimenti di formazione degli atti normativi e diverrebbero del tutto inefficaci le garanzie che sono associate a queste norme procedimentali.

Si può provare a fare qualche esempio tratto dalla costituzione repubblicana italiana. L’art. 6 dice che «la Repubblica tutela con apposite norme le minoranze linguistiche». Per «minoranze linguistiche», nel 1948 s’intendeva, e ancora oggi s’intende, quei gruppi di persone che parlano una lingua diversa dalla lingua nazionale parlata dalla maggioranza di coloro che risiedono nel territorio nazionale. Supponiamo però che la formula «minoranze linguistiche» subisca un’evoluzione semantica e che, a un certo punto, arrivi a definire convenzionalmente quei gruppi di persone che soffrono di disabilità e minorazioni riguardanti le capacità linguistiche: come deve comportarsi l’interprete e, in particolare, il giudice? Deve rifarsi al vecchio o al nuovo significato convenzionale? È palese che se decide di assecondare questo mutamento linguistico, assegnerà all’art. 6 un significato che non corrisponde a quello che il testo voleva e vuole dire; e il processo deliberativo attraverso cui alcune parole erano state scelte in luogo di altre sarà stato del tutto inutile e insensato.

Ancora un altro esempio. L’art. 20, sempre della Costituzione italiana, dice che «il carattere ecclesiastico (…) d’una associazione o istituzione» non può essere causa di «speciali gravami fiscali per la sua costituzione». Sappiamo che per «gravame fiscale» s’intendeva nel ’48, e ancora oggi s’intende, l’essere soggetti a obblighi tributari. Sicché l’art. 20 deve intendersi come se vietasse al legislatore di imporre speciali obblighi fiscali a un’associazione o istituzione per il solo fatto di avere carattere ecclesiastico. Supponiamo, però, che a seguito di un’imprevedibile e bizzarra evoluzione linguistica la formula «gravame fiscale» giunga a denotare il possesso di un patrimonio finanziario, immobiliare, ecc.: ebbene, se gli interpreti accogliessero questo nuovo uso linguistico convenzionale, la lettura dell’art. 20 sarebbe quasi ribaltata, perché accrediterebbe il divieto per le associazioni o istituzioni ecclesiastiche di avere un proprio patrimonio. È quello che l’art. 20 voleva e vuole dire?

Oppure, si prenda l’art. 23, per il quale «nessuna prestazione personale (…) può essere imposta se non in base alla legge». Supponiamo che l’evoluzione linguistica arrivi ad assegnare alla formula «prestazione personale» un significato ristretto ben preciso, che coincide con lo svolgimento di attività di prostituzione sessuale: se l’interprete ritiene che il significato convenzionale presente debba preferirsi al significato convenzionale passato, allora il senso dell’art. 23 sarà divenuto quello secondo cui il legislatore può imporre lo svolgimento di attività prostitutive…

Nel caso della Costituzione italiana, come di qualsiasi altra che sia relativamente recente, occorre uno sforzo immaginativo enorme (ed estremo) per trarre dal testo esempi di parole il cui contenuto semantico potrebbe diventare molto diverso da quello convenzionale originario. Tuttavia, man mano che un testo costituzionale invecchia, questi fenomeni diventanto più frequenti e quelle che dal principio parevano ipotesi di scuola un poco forzate possono invece inverarsi, come è provato paradigmaticamente dalla costituzione americana.

Ad esempio, nel Preambolo della costituzione americana si legge che il popolo ha stabilito la costituzione anche al fine di «insure domestic tranquillity», cioè – letteralmente – per «assicurare la tranquillità domestica». Col trascorrere dei secoli è accaduto che nella lingua inglese l’aggettivo «domestic» sia prevalentemente riferito a ciò che attiene all’ambito propriamente familiare. La sfera domestica è perciò naturalmente separata e contrapposta a quella pubblica. Ma se «domestic» fosse inteso in questo senso, il Preambolo sarebbe insensato, visto che è difficile immaginare un nesso di causalità diretta tra l’adozione di una costituzione e l’ottenimento della serenità familiare: questa può non esserci anche se la costituzione è ottima e può esserci anche se la costituzione è pessima. Sarebbe dunque preferibile rifarsi all’original public meaning e intendere «domestic» come lo intendevano allora, cioè come un aggettivo riferito non all’ambito familiare ristretto e privato, ma come riferito all’ambito più ampio della comunità nazionale e della sfera pubblica: la «domestic tranquillity» è la tranquillità della Nazione, è l’assenza di disordini, lotte e guerre dentro i confini nazionali.

Tutto risolto, dunque? Per sciogliere ogni dubbio d’interpretazione costituzionale basterà ricostruire il «significato pubblico originario» delle parole costituzionali? L’original public meaning è la guida sicura dell’interpretazione costituzionale?

 

 

11. – La debolezza dell’originalismo: l’irresistibile pervasività del moral reading

 

La risposta è no. Con riguardo al problema specifico del disaccordo morale vertente sull’interpretazione dei diritti fondamentali e altri principi di giustizia, l’originalismo non è di nessun aiuto[44]. E non si tratta di un profilo secondario, visto che il progetto teorico originalista nacque col proposito di ancorare la giurisprudenza sui diritti fondamentali a parametri certi, che non fornissero l’occasione per l’esercizio di un «substantive constitutional review», cioè per l’esercizio di un controllo di moralità politica sulla legislazione.

Dobbiamo chiederci, infatti, se con riguardo ai diritti fondamentali e ai principi di giustizia in genere può esistere qualcosa come un «significato pubblico originario», cioè un senso obiettivo condiviso. Ad esempio, esiste un significato pubblico condiviso su cosa renda libere le persone? La nostra comune esperienza ci dice di no. E se non fosse così, non esisterebbero il problema del disaccordo e la difficoltà contro-maggioritaria. Il dibattito, anche lacerante, su quali siano i contenuti, i limiti, i confini dei diritti fondamentali dimostra che si confrontano più visioni diverse, più posizioni teorico-generali e più concezioni sulle corrette modalità applicative concrete: non c’è un public meaning condiviso, ma ce ne sono tanti controversi. E se tra uno o due secoli gli storici o dei costituzionalisti di fede originalista provassero a ricercare evidenze empiriche circa il significato pubblico condiviso che, ad esempio, l’America di oggi assegna al right to privacy, dovrebbero giungere sconsolati alla conclusione che non ce n’è uno in particolare, ma molti, se non moltissimi.

Ciò detto, perché mai dovremmo pensare che non fosse così anche all’epoca in cui la costituzione americana fu scritta o in cui furono adottati i suoi emendamenti? Nel First Amendment (del 1791) compare la parola «freedom» (nella formula «freedom of speech») e nel V Amendment (anch’esso del 1791) compare la parola «liberty» (nella formula «nor shall any person be deprived of life, liberty, or property, without due process of law»): c’era un public meaning condiviso sul significato preciso di questi valori oppure – come è più ragionevole credere – anche allora c’era un dibattito filosofico la cui analisi potrebbe dimostrare che più idee di libertà circolavano nella società del tempo?

Può replicarsi che nel 1791 il dibattito di filosofia politica e morale non era così sviluppato come lo è ai tempi nostri e che quindi c’era una sola idea di libertà, monoliticamente condivisa dalla società del tempo. In effetti nel 1791 John Stuart Mill non aveva ancora pubblicato On Liberty e Benjamin Constant non aveva ancora scritto il suo saggio sulla libertà degli antichi e dei moderni. Però Hobbes, Locke, Rousseau e Montesquieu avevano già pubblicato i loro lavori e tutti questi si preoccupavano di definire, in modo diretto o indiretto, esplicito o implicitio, il concetto di libertà: lo fecero tutti allo stesso modo, cosicché le loro opere contribuirono a scolpire il public meaning della parola libertà in uso nella società americana di allora?

Ma ammettiamo pure che per definire l’original public meaning di concetti valutativi come “libertà”, “uguaglianza”, “giustizia”, “crudeltà”, ecc., si debba tracciare una linea temporale che separa coloro le cui idee possono prendersi in considerazione e coloro che invece, appartenendo alla posterità, devono ignorarsi: quindi, con riguardo agli emendamenti del 1791, Locke sì, ma Mill e Constant no. Come dobbiamo regolarci, però, se queste stesse parole – ad esempio, “libertà” – compaiono in emendamenti di molti anni dopo? Nel XIV Amendment, che è del 1868, si legge che: «nor shall any State deprive any person of life, liberty, or property, without due process of law». La formula è molto simile a quella del V Amendment, come si vede. A quel tempo Mill e Constant avevano già pubblicato le loro opere (e così pure Karl Marx…): ciò significa che i confini dell’original public meaning devono allargarsi per tenere conto, oltre che di John Locke, anche di Mill e Constant (e Marx?), col risultato che quando s’interpreta la «liberty» di cui al V Amendment non si potrà andare oltre Locke, mentre quando s’interpreta la «liberty» di cui parla il XIV Amendment è doveroso tenere conto pure degli scrittori successivi? Abbiamo quindi due diverse idee di libertà nella costituzione americana?

Se poi lasciamo da parte il caso semplice rappresentato dal concetto di «liberty» per volgere l’attenzione al concetto di “crudeltà”, l’inutilità del canone originalista è ugualmente palese. Mi riferisco, ovviamente, ai problemi interpretativi legati al divieto di «cruel punishment» dell’VIII Amendment, adottato nel 1791, cioè dalla generazione dei Framers. La gran parte degli originalisti – specialmente quelli conservatives – ritiene che la società americana di allora avesse una percezione della crudeltà, e di ciò che deve considerarsi crudele, diversa dalla nostra contemporanea; e in particolare ritiene che il significato pubblico originario del sostantivo “crudeltà” e dell’aggettivo “crudele” non potesse essere riferito alla pena di morte: lo dimostrerebbe il fatto che nel 1791 era ampiamente prevista e che continuò ad esserlo negli anni a venire.

Parrebbe dunque che, nel caso delle «cruel punishments», il significato pubblico originario consegni un dato inequivocabile: la società del 1791 non considerava la pena di morte un esempio di crudeltà. Tuttavia c’è il sospetto che questa ricostruzione riduca troppo i confini del public meaning, rappresentando il contesto sociale dell’epoca come se fosse meno pluralista di quanto fosse in realtà. Sicuramente nel dibattito filosofico e giuridico c’era chi prendeva posizione contro la pena di morte. Nel 1764, più di venticinque anni prima dell’entrata in vigore dell’VIII Amendment, Cesare Beccaria pubblicò Dei delitti e delle pene, la cui tesi centrale è – come è noto – il ripudio della pena di morte (cui è negata ogni legittimità). È un testo che ebbe grande successo e influenza in tutta Europa, tanto da divenire uno dei manifesti dell’Illuminismo. Fu apprezzata dai filosofi dell’Encyclopedie e tradotta in francese con le note di Denis Diderot. Per il tramite della cultura francese di allora, conobbe una grande circolazione pure nella cultura americana (imbevuta di pensiero illuministico francese ed europeo, in genere). Possiamo sostenere, allora, che al significato pubblico originario del concetto di crudeltà fosse estranea la pena capitale?

Il canone dell’original public meaning può essere di una qualche utilità con i termini osservativi, ma è del tutto inutile con i termini valutativi. I primi, infatti, denotano oggetti: ed è del tutto comprensibile e ragionevole cercare di capire quali parole, in una data epoca, denotassero certi oggetti o quali oggetti fossero denotati da certe parole. I secondi, invece, esprimono concetti etici: e anche se può essere tutt’altro che irragionevole chiedersi in che modo s’intendesse un concetto etico in una data epoca, è alquanto improbabile che si possano raccogliere risposte univoche, soprattutto se i concetti investigati sono quelli che tipicamente appartengono al discorso politico moderno. In altre parole, quando sono in gioco termini costituzionali valutativi, nessuna ricerca storico-empirica può assicurare la certezza e univocità dell’attribuzione di significato. E quando l’attività interpretativa non potrà essere utilmente indirizzata dal vincolo dei precedenti e della ricostruzione sistematica, è inevitabile che dovremo lasciarci guidare dal miglior giudizio morale formulabile[45].

In conclusione, dove non arriva il canone originalista si estende il dominio del moral reading of the Constitution. I due metodi non sono alternativi, ma complementari.

 

 

Abstract

 

Originalism is one of the solutions that american constitutional theory offers to solve the «counter-majoritarian difficulty», but it could apply to all the constitutional experiences. All the originalists insists that the meaning of the Constitution is fixed: the words and phrases of the constitutional text have the same meanings today as they did when the Constitution was enacted. But we can distinguish between an old and a new originalism. The first one argues that the interpreters must read the constitutional text trying to search the original intent of the Framers’. The second one repudiates any form of intentionalism and proposes a diffe-rent methodology, based on the original public meaning of the text, that is the meaning that the words and phrases had (or would have had) to or-dinary members of the public during the time of the enactment.

The essay analyses the two forms of originalism, trying to discover which one is preferable and expounding a comparation with the rival method called the moral reading of the Constitution, which was proposed by Ronald Dworkin.

 

 

 



 

[Per la pubblicazione degli articoli della sezione “Contributi” si è applicato, in maniera rigorosa, il procedimento di peer review. Ogni articolo è stato valutato positivamente da due referees, che hanno operato con il sistema del double-blind]

 

[1] A. BICKEL, The Least Dangerous Branch. The Supreme Court at the Bar of Politics, Boobs-Merrill, New Haven, Conn., Yale University Press, 1962, 3 (trad. mia). La letteratura in tema di «counter-majoritarian difficulty» è ormai sterminata, una vera e propria «ossessione accademica», la cui storia è narrata in cinque parti da B. FRIEDMAN, The History of the Countermajoritarian Difficulty, Part One: The Road to Judicial Supremacy, in New York University Law Review, vol. 73, 1998, 333-433; ID., The History of the Countermajoritarian Difficulty, Part II: Reconstruction’s Political Court, in The Georgetown Law Journal, vol. 91, 2002, 1-65; ID., The History of the Countermajoritarian Difficulty, Part Three: The Lesson of Lochner, in New York University Law Review, vol. 76, 2001, 1383-1455; ID., The History of the Countermajoritarian Difficulty, Part Four: Law’s Politics, in University of Pennsylvania Law Review, vol. 148, no. 4, 2000, 971-1064; ID., The Birth of an Academic Obsession: The History of the Countermajoritarian Difficulty, Part Five, in The Yale Law Journal, vol. 112, no. 2, 2002, 153-259.

 

[2] A. BICKEL, op. cit., 43 (trad. mia). 

 

[3] Per F.I. MICHELMAN, Brennan and Democracy (1999), trad. ital. La democrazia e il potere giudiziario. Il dilemma costituzionale e il giudice Brennan, Edizioni Dedalo, Bari, 2004, 62, la constitutional theory avrebbe come scopo «quello di spiegare, e forse giustificare, la pratica, apparentemente non democratica, del governo ‘dei giudici’ nella quale la volontà politica popolare viene vagliata alla luce di un diritto ‘superiore’ amministrato dagli stessi giudici»; e una volta individuati «i principi che possono giustificarla, o le credenze normative che possono spiegarne l’uso che ne fa il nostro sistema istituzionale (…) i teorici costituzionalisti cercano di applicarli in funzione prescrittiva, quali criteri per la soluzione delle controversie relative sia al significato della Costituzione, sia all’elaborazione del miglior metodo per l’individuazione di tale significato». Come si vede, la giustificazione teorica del judical review non serve tanto a risolvere il problema se debba esserci, quanto a definire come debba svolgersi, ossia come interpretare il testo costituzionale per ricavarne criteri di giudizio della costituzionalità delle leggi.

 

[4] La parola originalism fu coniata da P. BREST, The Misconceived Quest for the Original Understanding, in Boston University Law Review, vol. 60, 1980, 204, che peraltro era fortemente critico – come vedremo – nei confronti delle tesi che con questo lemma volle definire.

 

[5] Che sotto il profilo storico sia questa l’origine dell’originalismo è affermazione diffusa. Per tutti, vedi K.E. WHITTINGTON, The New Originalism, in The Georgetown Journal of Law and Public Policy, 2004, vol. 2, 599 (trad. mia), per il quale «quando alla fine degli anni ‘60 divenne sempre più controversa la giurisprudenza rivoluzionaria della Warren Court sui diritti civili, i critici sempre più spesso fecero ricorso all’original intent per fondare il loro disaccordo con le decisioni innovative della Corte». Ma ancor prima l’osservazione era reperibile in J. HARRISON, Forms of Originalism and the Study of History, in Harvard Journal of Law and Public Policy, vol. 26, 2003, 84-84.

 

[6] 198 U.S. 45 (1905). La pronuncia è notissima. Una legge dello Stato di New York limitava a dieci il numero massimo di ore lavorative giornaliere per i panettieri. Si trattava di uno dei primi esempi di legislazione lavoristica, perché era diretta a migliorare le condizioni lavorative di una categoria di lavoratori dipendenti. Tuttavia la Corte Suprema ne dichiarò l’incostituzionalità, ritenendo che fosse lesiva della libertà contrattuale e dei diritti d’iniziativa economica privata: i giudici giunsero a questa conclusione, muovendo evidentemente da una concezione fortemente liberista dei rapporti tra datore di lavoro e dipendente e da una sorta di darwinismo sociale ispirato dalle teorie di Herbert Spencer (come peraltro venne rilevato dal Justice Holmes nella sua celebre opinione dissenziente alla pronuncia Lochner (198 U.S. 75-76, HOLMES, J., dissenting, trad. mia): «una costituzione non deve intendersi come se incorporasse una particolare teoria economica, sia questa di tipo paternalistico o diretta a istituire una relazione organica tra cittadino e stato ovvero ispirata al laissez faire»).

 

[7] Il punto è particolarmente sottolineato da K.E. WHITTINGTON, op. ult. cit., 601 (trad. mia): «un tema nodale della critica originalista alla Corte era la sostanziale continuità tra Lochner v. New York e Griswold v. Connecticut. Un’intrigante caratteristica delle critiche mosse alla Corte in questo periodo è il fatto che rispecchiassero l’obiezione che fondamentalmente i New Dealers degli anni ’30 muovevano alla Lochner Court: e cioè che i giudici (…) ‘legiferassero dal loro scranno’».

 

[8] R. BORK, The Tempting of America. The Political Seduction of the Law, Touchstone Edition, New York, 1991, 153 ss.

 

[9] 25 U.S. (12 Wheat.) 213, 332 (1827) (separate opinion).

 

[10] A giudizio di R.W. BENNET, Originalism and the Living Constitutionalism, in L.B. SOLUM, R.W. BENNET, Constitutional Originalism. A Debate, Cornell University Press, Ithaca and London, 2011, 80 (trad. mia), l’opinione marshalliana in Ogden v. Saunders riflette «l’approccio all’interpretazione legislativa» che era proposto negli scritti classici di William Blackstone, ben noti nelle colonie americane, anche se naturalmente rivolti al diverso contesto giuridico dell’ordinamento britannico: come scrive Bennet, «poiché sia gli atti legislativi (del Parlamento britannico) che la Costituzione Americana hanno forma scritta, quest’enfasi sull’intenzione legislativa sembrava pianamente trasferibile alla nuova ‘super-legge’ americana».

 

[11] Come ribadito di recente da T.B. COLBY, The Sacrifice of the New Originalism, in The Georgetown Law Journal, vol. 99, 2011, 714, «originalism was born of a desire to constrain judges. Judicial constraint was its heart and soul».

 

[12] Le parti virgolettate sono tratte da R. BORK, The Tempting of America, cit., 139 ss. (trad. mia). Vale la pena osservare che il «dilemma madisoniano», se riferito specificamente al judicial review, non è altro che la «difficoltà contromaggioritaria» di cui parlava Alexander Bickel.

 

[13] Infatti, a giudizio di R. BORK, The Tempting of America, cit., 140 (trad. mia), «nel risolvere il dilemma madisoniano, le corti devono proteggere con energia i diritti inviduali, dimostrandosi altrettanto scrupolose nell’assicurare il diritto delle maggioranze a governare».

 

[14] Per R. BORK, op. ult. cit., 143 (trad. mia), «soltanto l’approccio dell’original understanding combina assieme i criteri che qualsiasi teoria della constitutional adjudication deve conciliare se vuole avere una legittimazione democratica».

 

[15] K.E. WHITTINGTON, The New Originalism, cit., 599 (trad. mia).

 

[16] A detta di R.H. BORK, Neutral Principles and Some First Amendment problems, cit., 6 (trad. mia), solo questo criterio storico obiettivo, «che è esterno rispetto alla volontà dei giudici», potrebbe impedire che le personali preferenze politiche si riversino nell’interpretazione costituzionale. La tesi è ribadita in ID., The Constitution, Original Intent, and Economic Rights, in San Diego Law Review, vol. 23, 1986, 826 (trad. mia): «il solo modo in cui la Costituzione può limitare i giudici è che i giudici interpretino le parole del documento conformemente alle intenzioni di coloro che ne scrissero, proposero e ratificarono le disposizioni e gli emendamenti». Fautori dell’original intent erano anche: R. BERGER, Government by Judiciary. The Transformation of the Fourteenth Amendment, Harvard University Press, Cambridge Mass., 1977 (che però cito dalla 2d edition, Liberty Fund, Indianapolis, del 1997, 408), secondo cui «se la Corte potesse sostituire il proprio significato a quello inteso dai Framers (…) riscriverebbe la costituzione senza limiti»; W.H. RENQUIST, The Notion of a Living Constitution, in Texas Law Review, vol. 54, 695 (trad. mia), il quale stigmatizzava il fatto che i giudici ponessero i propri valori al posto «di quelli che potrebbero ricavarsi dal linguaggio e dall’intento dei framers»; H.P. MONAGHAN, Our Perfect Constitution, in New York University Law Review, vol. 56, 1981, 353 ss.; ed infine E. MEESE III, Speech Before the American Bar Association, July 9, 1985, ripubblicato in P.G. CASSEL (a cura di), The Great Debate: Interpreting Our Written Constitution, The Federalist Society, Washington DC ,1986, e disponibile in Attorney General Edwin MEESE III, The Great Debate, Before the American Bar Association, July 9, 1985, The Federalist Society, http://www.fed-soc.org/resources/id.49/default.asp (November 21, 2008. Un elenco ampio è, infine, contenuto in V. KESAVAN, M.S. PAULSEN, The Interpretive Force of the Constitution’s Secret Drafting History, in The Georgetown Law Journal, vol. 91, 2003, 1124-1125.

 

[17] The Misconceived Quest for the Original Understanding, cit., 204-238. Va detto però che Brest, dopo aver definito l’originalismo come «the familiar approach to constitutional adjudication that accords binding authority to the text of the Constitution or the intentions of its adopters», elenca (a pag. 205) «three fundamental methods of originalism: interpretation of the text of the Constitution, interpretation of the intentions of its adopters, and inference from the structure and relationships of government institution». L’originalismo indicherebbe, quindi, non solo la ricerca dell’original intent, ma anche qualsiasi forma di textualism (cioè l’idea che «the language of a legal provision» sia «the primary or exclusive source of law»), nonché i metodi dell’interpretazione sistematica (che consisterebbero nell’inferire norme non già da specifiche disposizioni, isolatamente considerate, ma dal complesso delle disposizioni vigenti, ossia – per dirlo con le parole di C.L. BLACK, Structure and Relationship in Constitutional Law, Louisiana State University Press, 1969, 7 (trad. mia), citato dallo stesso Brest a pag. 217 – dalle «strutture e relazioni create dalla costituzione in tutte le sue parti o in quelle principali»). Ma qui mi soffermerò solo sugli argomenti che Brest adduce contro l’intentionalism.

 

[18] P. BREST, op. ult. cit., 214-215.

 

[19] E infatti P. BREST, op. ult. cit., 214 (trad. mia), alla domanda «who are the Adopters?» risponde che, mentre gli «Adopters della Costituzione del 1787 erano una porzione dei delegati della Convenzione di Filadelfia e le maggioranze o supermaggioranze di partecipanti alle convenzioni di ratifica in nove stati», invece «per tutti gli emendamenti alla Costituzione, tranne uno, gli Adopters erano i due terzi o più dei membri di ciascuna Camera del Congresso e almeno una maggioranza di legislatori in due terzi degli organi legislativi statali». A ben vedere, lo stesso potrebbe dirsi per la Costituzione italiana vigente: è astrattamente più facile (anche se comunque, in sé, molto difficile) ricostruire l’intento dei Padri Costituenti che non l’intento degli attori che entrano in gioco nel procedimento di revisione costituzionale. In questo secondo caso, infatti, quali sono coloro il cui intento deve considerarsi vincolante? I parlamentari, già di per sé numerosi, che hanno approvato il disegno di legge costituzionale, o gli elettori, numerosissimi, che eventualmente approvano il testo in sede referendaria?

 

[20] P. BREST, op. ult. cit., 212.

 

[21] R.W. BENNET, Originalism and the Living Constitutionalism, cit., 87.

 

[22] Anche R.W. BENNET, op. cit., 88-89 (trad. mia), si chiede se la regola maggioritaria stabilita per le deliberazioni dell’organo collegiale possa valere anche per determinare quale sia la «governing intention» dell’organo o se invece occorra «la maggioranza della maggioranza che ha adottato il testo ovvero basti una pluralità di coloro che fanno parte della maggioranza approvativa».

 

[23] Lo studioso che più di ogni altro ha sviluppato quest’argomento è sicuramente H.J. POWELL, The Original Understanding of Original Intent, in Harvard Law Review, vol. 98, no. 5, 1985, 885 ss. spec. 948 (trad. mia), il quale nella conclusione del suo lungo saggio e alla luce di un’approfondita investigazione storica osserva che, sì, «è comune affermazione che la ‘intenzione interpretativa’ dei costituenti fosse quella secondo cui gli interpreti della Costituzione dovessero ricostruirne il senso attingendo ai propositi, alle aspettative e alle intenzioni dei framers», ma aggiunge che «la (sua) ricerca dimostra che quest’assunzione è errata. Delle numerose opzioni ermeneutiche che erano disponibili al tempo dei costituenti nessuna corrisponde alla moderna nozione di intenzionalismo (…) In quel tempo la formula ‘original intent’ si riferiva alle ‘intenzioni’ delle parti sovrane del patto costituzionale, quali risultavano dal linguaggio della Costituzione o attraverso interpretazioni sistematiche (structural methods of interpretation); non si riferiva alle personale intenzioni dei costituenti o di qualsiasi altro. Il legame tra l’intenzionalismo attuale e le vecchie teorie interpretative è puramente retorico».

 

[24] È lo stesso problema che – proprio con riguardo all’approccio dworkiniano al tema dell’originalismo – si pone K.E. WHITTINGTON, Dworkin’s Originalism: The Role of Intentions in Constitutional Interpretation, in The Review of Politics, vol. 62, no. 2, 2000, 203 (trad. mia): «la questione è come sappiamo che la Costituzione contiene intenzioni tanto astratte quanto concrete, e che in sede interpretativa le prime sono da preferire alle ultime».

 

[25] Le parti virgolettate sono tratte da R. DWORKIN, The Ardous Virtue of Fidelity: Originalism, Scalia, Tribe, and Nerve, in Fordham Law Review, vol. 65, 1997, 1253 (trad. mia).

 

[26] La tesi che «il moral reading porti la moralità politica nel cuore del diritto costituzionale» e che sia il modo più appropriato di intendere la Costituzione americana è affermata in termini generali in R. DWORKIN, Freedom’s Law. The Moral Reading of the American Constitution, Oxford University Press, New York, 1996, 2 ss. (trad. mia). Sul legame tra moral reading e fidelity to the Constitution, in antitesi alle tesi originaliste, vedi il successivo R. DWORKIN, The Arduous Virtue of Fidelity: Originalism, Scalia, Tribe, and Nerve, cit., 1249-1268; nonché ID., Reflections on Fidelity, in Fordham Law Review, vol. 65, 1997, 1799-1818, che replica alle osservazioni critiche rivolte alle tesi dworkiniane nel corso di un dibattito svoltosi sulle pagine della Fordham Law Review. Dibattito cui parteciparono: J.E. FLEMING, Fidelity to Our Imperfect Constitution, Fordham Law Review, vol. 65, 1997, 1335-1355; C.A. MacKINNON, «Freedom from Unreal Loyalties: on Fidelity in Constitutional Interpretation, Fordham Law Review, vol. 65, 1997, 1773-1780; J. RUBENFELD, On Fidelity in Constitutional Law, in Fordham Law Review, vol. 65, 1997, 1469-1488; F. SCHAUER, Constitutional Invocations, in Fordham Law Review, vol. 65, 1997, 1295-1312; R. WEST, Integrity and Universality: A Comment on Ronald Dworkin’s Freedom’s Law, in Fordham Law Review, vol. 65, 1997, 1313-1334; M.W. McCONNELL, The Importance of Humility in Judicial Review: A Comment on Ronald Dworkin’s «Moral Reading» of the Constitution, in Fordham Law Review, vol. 65, 1997, 1269-1293.

 

[27] Lo riconoscono anche autori di sicura fede originalista. Ad esempio, recentemente J.O. McGINNIS, M.B. RAPPAPORT, Originalism and the Good Constitution, Harvard University Press, Cambridge (Mass.) - London, 2013, Kindle Edition, pos. 70 di 6482 (trad. mia), scrivono che «probabilmente la difesa meno persuasiva (dell’originalismo) è che dovremmo essere originalisti perché i padri costituenti erano originalisti. Ma questo argomento è circolare, perché cerca di difendere l’autorità della costituzione originaria appellandosi alle opinioni di coloro che la fecero».

 

[28] R. DWORKIN, The Arduous Virtue, cit., 1256 (trad. mia).

 

[29] Che l’intentionalism degli old originalists conducesse verso questo esito era già intuito da P. BREST, The Misconceived Quest for the Original Understanding, cit., 209: «il testo delle disposizioni (costituzionali) è spesso un’utile guida per le intenzioni di chi lo ha adottato, ma non gode di uno status privilegiato rispetto ad altre fonti».

 

[30] Ma ovviamente non mancano coloro che ancora oggi propendono per una qualche forma di originalismo intenzionalista. Vedi R.G. NATELSON, The Founders’ Hermeneutic: The Real Original Understanding of Original Intent, in Ohio State Law Journal, vol. 68, 2007, 1239-1305; R.S. KAY, Original Intention and Public Meaning in Constitutional Interpretation, in Northwestern University Law Review, vol, 103, n. 2, 2009, 703-726; L. ALEXANDER, Simple-Minded Originalism, in G. HUSCROFT, B.W. MILLER (edited by), The Challenge of Originalism. Theories of Constitutional Interpretation, Cambridge University Press, New York, 2011, 87-98; S. FISH, The Intentionalist Thesis Once More, in G. HUSCROFT, B. W. MILLER (edited by), The Challenge of Originalism, cit., 99-120. Va osservato, inoltre, come pure la dottrina italiana – nella misura in cui aderisce a un orientamento originalista – ragiona sempre di “intento originario dei costituenti”, sostanzialmente identificando l’originalismo con l’intenzionalismo: ne sono la prova (tutti) i contributi ospitati nel volume collettaneo curato da F. GIUFFRÈ, I. NICOTRA, Lavori preparatori ed original intent nella giurisprudenza della Corte costituzionale, Atti del seminario svoltosi a Catania il 5 ottobre 2007, G. Giappichelli Editore, Torino, 2008; e, prima ancora, il saggio di A. POGGI, L’“intenzione del costituente” nella teoria dell’interpretazione costituzionale. Spunti per una sua definizione alla luce della dottrina americana dell’“original intent of the Framers”, in Dir. pubbl., 1997, 153 ss. Vedi inoltre M. DOGLIANI, Il “posto” del diritto costituzionale, in Giur. cost., 1993, 525 ss.; Id., Il doppio “temperamento” del giuspositivismo nell’opera di Alessandro Pace, in Dir. pubbl., n. 2, 2012, 732 (che riconduce al’originalismo intenzionalista anche la dottrina di A. PACE, Problematica delle libertà costituzionali. Parte generale, III ediz., Cedam, Padova, 2003, 23, «laddove si afferma che è necessario fare in modo che “delle norme costituzionali ricognitive di diritti si prospettino interpretazioni non in contrasto con l’equilibrio e la prudenza che caratterizzarono l’opera del Costituente”»); M. LUCIANI, Interpretazione costituzionale e testo della Costituzione. Osservazioni liminari, in G. AZZARITI (a cura di), Interpretazione costituzionale, Giappichelli Editore, Torino, 2007, 48, per il quale l’interpretazione costituzionale, diversamente da quella legislativa, «sollecita un più robusto ancoraggio alla voluntas dell’autore storico»; P. BIANCHI, Le trappole dell’originalismo, in Studi in onore di Franco Modugno, I, Editoriale Scientifica, Napoli, 2011, 281-311 (che però dà conto, da p. 292 ss., della «variante» statunitense costituita dall’original public meaning). Sempre a riprova del fatto che per la letteratura italiana esiste nella sostanza solo l’originalismo intenzionalista, vedi R. GUASTINI, Interpretare e argomentare, Giuffrè, Milano, 2011, 439-440, che identifica, erroneamente, ogni forma di originalismo con l’idea secondo la quale «ai testi si deve attribuire il significato corrispondente all’intenzione dell’autorità normativa (nel caso delle costituzioni: i “padri costituenti”)», peraltro riconducendo a questo approccio autori e opere notoriamente ascrivibili al new originalism (e quindi refrattari a qualsiasi forma di intenzionalismo), come Keith Whittington, Lawrence B. Solum, e Antonin Scalia dopo la svolta (cioè lo Scalia autore di A Matter of Interpretation). Infine, vedi A. BALDASSARRE, La normatività della Costituzione e i suoi «nemici», in Riv. dir. cost., 2007, 33 ss., il quale appiattisce completamente – ma erroneamente – il pensiero di Bork e Scalia sul paradigma vetero-originalista dell’original intent.

 

[31] Infatti, va ricordato che nel 1986 R. BORK, The Constitution, Original Intent, and Economic Rights, cit., 823 (trad. mia), ancora scriveva che «un giudice dovrebbe considerarsi vincolato dalle intenzioni originarie di coloro che scrissero, proposero e ratificarono la Costituzione»; e ciò nel presupposto che «l’intento originario (sia) il solo fondamento legittimo delle decisioni costituzionali».

 

[32] Tutti i virgolettati sono di R. BORK, The Tempting of America, cit., 143, 144 (trad. mia).

 

[33] Il virgolettato è sempre di R. BORK, op. ult. cit., 144 (trad. mia). Però va detto – come lo stesso Bork riconosce – che lo spunto era già in H.P. MONAGHAN, Stare decisis and Constitutional Adjudication, in Columbia Law Review, vol. 88, no. 4, 1988, 725 (trad. mia), per il quale occorre «focalizzare il significato pubblico del linguaggio nel momento in cui la Costituzione fu adottata». Monaghan cita a sostegno di questa tesi l’autorità di A. HAMILTON, Opinion on the Constitutionality of an Act to Establish a Bank (1791), in ID., Papers of Alexander Hamilton, H. Syrett ed., 1967, 111 (trad. mia): «quale che fosse l’intenzione dei framers di una costituzione, o di altro atto normativo, quest’intenzione deve essere ricercata nello strumento stesso (cioè, nell’atto normativo, ndr), in accordo con le usuali e prestabilite regole d’interpretazione». Va inoltre ricordato che, subito dopo Monaghan ma prima di Bork, il passaggio dall’original intent all’original meaning era anche in A. SCALIA, Originalism: The Lesser Evil, in Cincinnati Law Review, vol. 57, 1989, 860 ss.

 

[34] La letteratura che analizza il passaggio dall’original intent all’original meaning raggiunge livelli quantitativi considerevoli. Vedi almeno: R.E. BARNETT, An Originalism for Nonoriginalists, in Loyola Law Review, vol. 45, 1999, 1-39 (cui si deve il conio di New Originalism); K.E. WHITTINGTON, The New Originalism, cit., 599-613; V. KESAVAN, M.S. PAULSEN, The Interpretive Force of the Constitution’s Secret Drafting History, cit., 1113-1214; L.B. SOLUM, We Are All Originalists Now, in R.W. BENNET, L.B. SOLUM, Constitutional Originalism, cit., 1-77; M.C. DORF, Integrating Normative and Descriptive Constitutional Theory: The Case of Original Meaning, in The Georgetown Law Journal, vol. 85, 1997, 1765-1822; J.O. McGINNIS, M.B. RAPPAPORT, Originalism and the Good Constitution, cit., passim; R.S. KAY, Original Intention and Public Meaning in Constitutional Interpretation, cit., 703-726; M.N. BERMAN, K. TOH, On What Distinguishes New Originalism from Old: A Jurisprudential Take, in Fordham Law Review, vol. 82, 2013, 545-576; J.E. FLEMING, Are We All Originalist Now? I Hope Not!, in Texas Law Review, vol. 91, 2013, 1785-1813; ID., The Inclusiveness of the New originalism, in Fordham Law Review, vol. 82, 2013, 433-452; T.B. COLBY, The Sacrifice of the New Originalism, cit., 713-778.

 

[35] Che è la definizione dell’«intenzione politica» offerta da R. DWORKIN, The Arduous Virtue, 1256 (trad. mia).

 

[36] Sono i termini essenziali del noto dibattito tra Dworkin e Scalia che può leggersi in A. SCALIA, A Matter of Interpretation. Federal Courts and the Law, Princeton University Press, Princeton-New Jersey, 1997. Su questo dibattito vedi il saggio di T.L. BOOHER, Putting Meaning in Its Place: Originalism and Philosophy of Language, in Law and Philosophy, vol. 25, n. 4, 2006, 387-416; e di A. MARMOR, Meaning and Belief in Constitutional Interpretation, in Fordham Law Review, vol. 82, 2013, 577-596.

 

[37] Non sono pochi, infatti, i “nuovi originalisti” che cercano di dimostrare come il metodo originalista non sia incompatibile con letture liberal della costituzione americana. Ad esempio, J.E. RYAN, Laying Claim to the Constitution: The Promise of New Textualism, in Virginia Law Review, vol. 97, n. 7, 2011, 1525, scrive che «progressive academics (…) have largery accepted the importance of text and history in constitutional interpretation». Vedi anche A.R. AMAR, Re-thinking Originalism: Original Intent for Liberals (and for Conservatives and Moderates, Too), in Slate (Sept. 21, 2005), http://www.slate.com/articles/news_and_politics/jurisprudence/2005/09rethinking_originalism.html; K.E. WHITTINGTON, Is Originalism Too Conservative?, in Harvard Journal of Law & Public Policy, vol. 34, n. 1, 2011, 29-41. Altri invece assumono un approccio più dubitativo, se non proprio critico circa la possibilità di conciliare originalismo e posizioni politiche progressiste: R. POST, R. SIEGEL, Originalism as a Political Practice: The Right’s Living Constitution, in Fordham Law Review, Vol. 75, 2006, 545-574; R.H. FALLON, Are Originalist Constitutional Theories Principled, or Are They Rationalizations for Conservatism?, in Harvard Journal of Law & Public Policy, vol. 34, n. 1, 2011, 5-28;

 

[38] Il virgolettato è tratto da L.B. SOLUM, Originalism and Constitutional Construction, in Fordham Law Review, vol. 82, 2013, 459 (trad. mia), ma le tesi cui rinvia erano già estesamente illustrate in ID., We Are All Originalists Now, in R.W. BENNET, L. SOLUM, Constitutional Originalism, cit., 2 ss. Come si vede, la «Fixation Thesis», vista la sua formulazione ampia, può comprendere declinazioni diverse, dalla tesi secondo cui ciò che è «fixed» è «the original public meaning» alla tesi – avanzata da J.O. McGINNIS, M.B. RAPPAPORT, Originalism and the Good Constitution, pos. 2277 e ss. di 6482 (Kindle edition) – secondo cui ciò che è «fixed» sono gli «Original Methods Originalism», ossia i metodi d’interpretazione giuridica che erano prevalenti al tempo in cui il testo venne scritto. E ancora, sembra poter ricomprendere anche l’«Original Intent Originalism», cioè il canone interpretativo che era centrale nell’«old originalism»: pure in questo caso, infatti, abbiamo qualcosa che è stato fissato nel momento storico in cui il testo ha acquistato vigore. Tuttavia, come ho già detto, il nuovo originalismo è tale anche perche, o soprattutto perché, sostituisce all’original intent l’original meaning.

 

[39] Non per caso R.E. BARNETT, An Originalism for Nonoriginalists, cit., 622, 623, (trad. mia), afferma che la distinzione dworkiniana tra «semantic-originalism and expectations-originalism» contribuisce a «chiarire il movimento dall’original intentions originalism all’original meaning intentionalism». Peraltro, sempre Barnett osserva che anche i più feroci critici dell’intenzionalismo originalista, come Brest e Powell, prospettarono la possibilità di un «moderate originalism» (vedi, infatti, P. BREST, The Misconceived Quest for the Original Undertanding, cit., 231).

 

[40] I virgolettati sono tratti da L.B. SOLUM, We Are All Originalists Now, cit., 38 (trad. mia), che però non aderisce a questa linea argomentativa (ma ne scorge un esempio in D.H. GINSBURG, Originalism and Economic Analysis: Two Case Studies of Consistency and Coherence in Supreme Court Decision Making, in Harvard Journal of Law and Public Policy, vol. 33, 2010, 225-226).

 

[41] Giustamente L.B. SOLUM, We Are All Originalists Now, cit., 38 (trad. mia), osserva che «l’originalismo non è l’unico metodo che possa assicurare il rule of law: lo stesso obiettivo potrebbe conseguirsi in altri modi».

 

[42] Come è stato osservato da R.H. DAHL, How Democratic Is the American Constitution?, Yale University Press, New Haven & London, Second Edition, 2003, passim, la costituzione americana fu tutt’altro che una manifestazione genuina di sovranità popolare: la sua democratizzazione fu un evento successivo (che – a giudizio di Dahl – forse non si è compiuto ancora del tutto).

 

[43] Questa domanda è solo una variazione della questione chiamata «dead hand of the past» (cioè, «mano morta del passato») su cui vedi l’ampio saggio di A.M. SAMAHA, Dead Hand Arguments and Constitutional Interpretation, in Columbia Law Review, vol. 108, 2008, 606-680.

 

[44] E quindi non può condividersi la tesi di M. DOGLIANI, Il doppio “temperamento” del giuspositivismo nell’opera di Alessandro Pace, cit., 732, secondo cui «nell’interpretazione della costituzione, i casi difficili vanno risolti riconoscendo la priorità del metodo originalista».

 

[45] La distinzione tra termini osservativi e valutativi è, nella sostanza, non diversa dalla distinzione tra «concetti criteriali» e «concetti interpretativi», proposta da tempo da R. DWORKIN e approfondita e affinata in Giustizia per i ricci, Feltrinelli, Milano, 2013, 187 ss. Inoltre quelli che qui chiamo «termini valutativi» corrispondono a quello che W.B. GALLIE, Essentially Contested Concepts, in Proceedings of the Aristotelian Society, New Series, vol. 56, 1955-1956, 167-198, indicava con la formula «concetti essenzialmente contestati».