Testatina-Tradizione2013

 

 

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Università di Cagliari

 

Querela inofficiosi testamenti’ e ‘iudicatum’: problemi e prospettive tra II e III secolo *

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SOMMARIO: 1. Note minime sulla configurabilità di una ‘giurisdizione costitutiva’ nell’esperienza romana classica. - 2. Il fieri del iusex sententia iudicis’ nella prospettiva di Paolo. - 3. La svolta antoniniana: la regolarità del contraddittorio come presupposto per l’auctoritas rei iudicatae. – 4. Caducazione soggettivamente parziale del testamento e meccanismi di conformazione all’auctoritas rei iudicatae. - 5. La progressiva elaborazione di un iudicium rescindens ‘costitutivo’ nell’esperienza classica della cognitio extra ordinem.Abstract.

 

 

1. – Note minime sulla configurabilità di una ‘giurisdizione costitutiva’ nell’esperienza romana classica

 

È noto come si discuta, in dottrina, in ordine alla natura della querela inofficiosi testamenti: come sia, specificamente, controverso se la tutela avverso il testamento inofficioso possa o meno accostarsi, per certi versi, all’attuale nozione di ‘giurisdizione costitutiva’, stante la natura lato sensu impugnatoria del rimedio[1]. La questione appare di vivo interesse, tanto più ove si consideri che, come normalmente si ritiene, il processo classico – quello, per intenderci, dell’ordo iudiciorum privatorum – non parrebbe mostrare al suo interno vere e proprie figure di tutela costitutiva: o, meglio, non parrebbe conoscerle sul piano del ius civile, potendosi al limite ravvisare una situazione tendenzialmente analoga a quella che connota l’esperienza contemporanea nel rapporto tra la restitutio in integrum pretoria, e la concessione di un’actio sul presupposto di essa.

Quanto rilevato impone, peraltro, una prima ricognizione, innanzitutto terminologica, del contesto di riferimento.

Si è parlato di ‘giurisdizione costitutiva’: ciò che, nei rapporti fra privati, va oggi ricondotto al precetto di cui all’art. 2908 cod. civ., a mente del quale, «nei casi previsti dalla legge, l’autorità giudiziaria può costituire, modificare o estinguere rapporti giuridici, con effetto tra le parti, i loro eredi e aventi causa».

Se questi sono i termini, a noi ben noti, della questione, ha mai il diritto romano conosciuto un qualcosa di analogo già sul piano del ius civile? Se si eccettua la peculiarità della in iure cessio, in cui il risultato attributivo non rappresenta un ‘esito’ processuale, ma consegue semmai ad una ‘condotta’ processuale – il cedere – cui è riconosciuta progressivamente natura negoziale[2], la risposta, a mio parere, va ricercata proprio all’interno della disciplina, innanzitutto processuale, della querela inofficiosi testamenti. E difatti, qualunque idea si abbia sulle origini – centumvirali o pretorie – della nostra figura di tutela, per età classica la querela – si è autorevolmente osservato, nell’alveo di una riflessione ottimamente avviata, in particolare, dal Marrone[3] – «porta alla caduta del testamento e all’apertura della successione ab intestato», avendo funzione rescindente; e, specificamente, «la rescissione ha valore nell’ambito stesso del ius civile, senza che ci sia necessità di ricorrere a rimedi pretori»[4].

Ed è appunto su questi profili – che a mio avviso concorrono con la restitutio in integrum ad individuare il principium, nella scienza giuridica europea, della ‘giurisdizione costitutiva’ delle moderne codificazioni – che dovremo ora soffermarci. Al riguardo, converrà esaminare, innanzitutto, alcuni passi in cui la querela inofficiosi testamenti appare riferibile al contesto processuale del lege agere centumvirale, per poi vagliare alcune specifiche ipotesi in cui essa sembra proposta nell’alveo della cognitio extra ordinem.

 

 

2. – Il fieri del iusex sententia iudicis’ nella prospettiva di Paolo

 

Innanzitutto, una risposta agli interrogativi che ci siamo or ora posti può essere forse data ove si tenti di indagare sull’idea per cui, nel caso dell’impugnazione del testamento davanti al collegio centumvirale, ius ex sententia iudicis fit: un’espressione, questa, che già ha suscitato una certa attenzione in dottrina[5], e che ritroviamo – con specifica attenzione per il nostro tema d’indagine – in un passo delle Quaestiones di Paolo. Essa, quasi istintivamente, non può non indurci alla percezione di una certa qual assonanza con il verbum legis contemporaneo codificato nell’art. 2908 cod. civ.: in quel potere, oggi genericamente attribuito all’autorità giudiziaria, di costituire modificare o estinguere rapporti giuridici riecheggia, a mio parere, l’idea che in determinati contesti sia in fin dei conti la sententia iudicis a ius facere.

Esaminiamo, allora,

 

Paul. 2 quaest. D. 5.2.17.1: Cum contra testamentum ut inofficiosum iudicatur, testamenti factionem habuisse defunctus non creditur. non idem probandum est, si herede non respondente secundum praesentem iudicatum sit: hoc enim casu non creditur ius ex sententia iudicis fieri: et ideo libertates competunt et legata petuntur.

 

Proviamo ora a ripercorrere il ragionamento del giurista.

Nel momento in cui viene pronunciata una sentenza contra testamentum, in quanto inofficiosum, non si ritiene – non creditur – che il defunto avesse la testamenti factio; tuttavia, non è lo stesso nell’ipotesi in cui la sentenza sia favorevole al querelante in un contesto contumaciale, perché in questo caso la sententia iudicis non è idonea a ius facere. Ne consegue – conclude il giurista, dovendosi ritenere classica anche questa parte del passo[6] – che spettano le libertà, ed i legati possono essere pretesi.

Va, innanzitutto, evidenziato come la disciplina della querela non possa non risentire del fatto che il processo centumvirale rappresentava una ‘radice attuale’, ancora in epoca imperiale, del lege agere quiritario, il cui esito – come ha dimostrato il Marrone – si risolveva in una sentenza dotata di «efficacia pregiudiziale illimitata»[7].

Ci troviamo qui di fronte, peraltro, ad una distinzione – quella che fa leva sulla partecipazione o meno dell’heres scriptus al processo – introdotta dai divi fratres[8], e quindi ad un contesto ascrivibile agli anni 161-169 [9]. Specificamente, a seguito della sponsio praeiudicialis prodromica alla legis actio per condictionem, od al limite a quella per iudicis postulationem[10], si deve ritenere che la fattispecie riguardasse l’heres scriptus che contestasse la lite onde evitare le sanzioni – quali che fossero – per l’indefensio[11], ma non partecipasse poi alla fase apud iudicem del processo centumvirale: la parte contumace, nel contesto del lege agere, perdeva, infatti, la lite senza alcuno specifico controllo – diremmo oggi – ‘di merito’[12], sicché l’intervento imperiale doveva avere la funzione di evitare possibili frodi processuali in danno dei legatari e dei servi manomessi.

Su questi punti avremo modo di ritornare nel prossimo paragrafo: per il momento, è significativo osservare come il dato testuale rilevante per comprendere il ragionamento di Paolo s’incentri sul significato da attribuirsi al credere, correlabile al fieri del ius in forza della sententia.

Superando – lo si diceva – i sospetti al tenore del testo pervenutoci[13], è nell’alveo della correlazione tra ‘credere’ e ‘fieri’ che si coglie l’elaborazione concettuale di una consapevole distinzione, di recente evidenziata[14], tra pazzia ‘vera’ e pazzia ‘artificiosa’, di per sé implicante una difficoltà tendenzialmente irrisolta sul piano del riconoscimento e dell’elaborazione concettuale della figura d’invalidità rilevante. Ed allora, il complessivo andamento del discorso di Paolo mi pare in linea con l’idea per cui, «formalmente, la sentenza Cvirale di inofficiosità era una sentenza dichiarativa di nullità; sostanzialmente, rescindeva un testamento sino allora valido»[15].

Ma di quest’ultimo aspetto discuteremo a conclusione della nostra indagine. Quanto sinora emerso, nondimeno, ci porta ad intuire almeno un ulteriore punto nevralgico: la tutela esperita può considerarsi solo formalmente in personam, avuto riguardo all’oportere conseguente alla sponsio praeiudicialis; nondimeno, sul piano della sua funzione sostanziale, essa si configura contra testamentum, ed il convenuto – diremmo oggi, l’intimato che risulti controinteressato alla demolizione dell’atto – è individuato in base alla qualità di erede testamentario. È dunque in conseguenza della sentenza che il testamento vien meno, e ciò non già perché difetti senz’altro la testamenti factio, posto che, in tal caso, il testamento risulterebbe ipso iure affetto da invalidità originaria ed immediata[16]; ma perché non può farsi affidamento (habuisse … non creditur) sulla sua configurabilità.

Va evidenziato, d’altronde, come altro sia dire ‘testamenti factionem habuisse non creditur’, altro ‘testamenti factionem non habuisse creditur’: il giurista non afferma che il de cuius ‘non avesse’ la capacità di testare, ma semmai che ‘non si ritiene’ che l’avesse: ed in questo, specificamente, mi paiono particolarmente illuminanti le espressioni che figurano in due testi normalmente ricordati a dimostrazione dell’opponibilità, in linea di principio, della sentenza centumvirale agli onorati testamentari ed ai servi manomessi, dove i fideicommissa ab intestato data non sono dovuti quia crederetur quasi furiosus testamentum facere non potuisse, in quanto l’attribuzione proviene quasi a demente[17].

Per cogliere appieno le implicazioni sottese dal ragionamento di Paolo è necessario, nondimeno, approfondire un ulteriore profilo dell’impostazione del giurista. Esaminiamo, al riguardo, il principium del frammento delle Quaestiones da cui abbiamo avviato le nostre riflessioni:

 

Paul. 2 quaest. D. 5.2.17 pr.: Qui repudiantis animo non venit ad accusationem inofficiosi testamenti, partem non facit his qui eandem querellam movere volunt. unde si de inofficioso testamento patris alter ex liberis exheredatis ageret, quia rescisso testamento alter quoque ad successionem ab intestato vocatur, et ideo universam hereditatem non recte vindicasset: hic si optinuerit, uteretur rei iudicatae auctoritate, quasi centumviri hunc solum filium in rebus humanis esse nunc, cum facerent intestatum, crediderint.

 

Al di là della innegabile difficoltà linguistica del passo, che si presenta sconnesso e contraddittorio in verosimile esito di problematiche manipolazioni, è ben possibile leggere, nel suo fondo classico, i tratti essenziali della fattispecie esaminata: si tratta di un’ipotesi in cui a determinarsi a non mobilitare il processo è l’uno di due liberi exheredati, che repudiantis animo non venit ad accusationem inofficiosi testamenti. In sostanza, uno dei due figli del testatore intende rispettare la volontà del padre: egli, cioè, non intende dolersi del testamento che ne dispone l’exheredatio, sicché solo il fratello, pure exheredatus, propone la querela. Una volta che la domanda di quest’ultimo sia accolta, sorge la questione di diritto su cui Paolo si sofferma: giova al fratello querelante la rinuncia all’impugnazione, che si risolve in sostanziale rinuncia a ‘divenire’ erede, dell’altro?

La risposta di Paolo emerge tra notevoli difficoltà testuali.

È verosimile che la criticità del testo, a seguire l’esegesi del Voci[18], consegua ad un tentativo di superare, in sede compilatoria, le tracce di un ius controversum che avrebbe contrapposto all’opinione di Papiniano – proclive a ritenere che, qualora di due exheredati agisca uno solo di essi, questi possa conseguire non già l’intera eredità, ma unicamente la propria quota[19] – a quella di Paolo, la quale appare semmai orientata, come si diceva, nel senso che exheredatus partem non facit ogni qual volta egli «non voglia o non possa ottenere la sua quota»[20], con conseguente operatività del meccanismo dell’accrescimento.

Su un punto, in particolare, trovo convincente la lettura del Voci: il passo, secondo l’insigne Autore, «riguarda la rinuncia di uno tra gli eredi necessari. Questa rinuncia giova agli altri: exheredatus non facit partem»[21]. Il che impone, peraltro, alcune precisazioni.

Se questa è, infatti, l’elaborazione paolina del caso, a mio parere è come se il giurista dicesse che l’alter ex liberis exheredatis che agisce nel disinteresse implicante repudium del fratello a rigore non rivendicherebbe recte l’universa hereditas, in quanto l’esito dell’impugnazione, travolgendo l’intero testamento, determinerebbe la chiamata ab intestato anche di quest’ultimo; nondimeno, la sentenza centumvirale presenterà un’auctoritas rei iudicatae che ha qui un valore soggettivo ‘pregnante’, nel senso che – pur se implicitamente – il iudicatum individua inequivocabilmente il vincitore non soltanto come destinatario della vocazione legittima, ma più precisamente come unico soggetto cui la stessa possa dirsi riferibile.

Consegue, cioè, al giudicato il fatto che egli debba considerarsi giuridicamente l’unico figlio del testatore[22]: l’animus repudiantis del fratello, in altre parole, fa di quest’ultimo un semplice terzo, al quale è come tale opposta l’auctoritas rei iudicatae[23].

Si spiega così l’apparente contraddizione – conseguenza, a mio parere, di un infelice rimaneggiamento, che peraltro non sembra precludere l’intelligenza del passo, piuttosto che di un diretto intervento compilatorio dovuto alla condivisione, negli ambienti giustinianei, della posizione di Papiniano[24] – tra l’universam hereditatem non recte vindicare ed il rei iudicatae auctoritate uti. Ed allora, proprio perché Paolo va alla ricerca di un percorso euristico suscettibile di giustificare la sua distanza, in ragione della peculiarità della fattispecie esaminata, dalla lettura di Papiniano, in questo caso è come se i centumviri abbiano fatto affidamento – crediderint – sul fatto che il querelante fosse l’unico figlio del de cuius, nel momento in cui lo hanno reso intestato[25]. Ancora una volta, dunque, l’argomentazione del giurista – tutta interna al ius civile, nella prospettiva dell’individuazione dei confini del giudicato e della conformazione ad esso – s’incentra sul verbo credere: possiamo dire, anzi, che la giustificazione teorica sottesa dall’intero ragionamento di Paolo – condotto, giova ribadire, con riferimento alla sentenza centumvirale[26] – fa leva sulla polarità tra ‘credere’ e ‘fieri’ / ‘facere’, suscettibile di incidere, a seconda del contesto, ora sulla configurabilità della testamenti factio (fr. 7.1), ora sull’in rebus humanis esse nunc (fr. 7 pr.)[27] di un filius del testatore.

Tirando le fila di questa prima ricognizione, sarebbe allora lecito chiedersi se sia possibile scorgere in questo ragionamento i dati essenziali di uno svolgimento, storico e sistematico, che dia conto almeno di uno dei punti di partenza che, dall’esperienza romana, condurranno alla configurazione contemporanea della giurisdizione costitutiva, così da prospettarsi, seppur in nuce, i presupposti logici che porteranno all’attuale meccanismo della ‘Anfechtung’, specie nel momento in cui la querela diverrà, progressivamente, una procedura cognitoria extra ordinem[28]. La risposta a questo interrogativo, come vedremo, deve essere, almeno a mio parere, in senso positivo: occorre peraltro, prima di suggerire una qualche conclusione, approfondire il discorso su alcuni importanti svolgimenti di epoca antoniniana cui sinora abbiamo fatto solo qualche breve cenno.

 

 

3. – La svolta antoniniana: la regolarità del contraddittorio come presupposto per l’auctoritas rei iudicatae

 

Come abbiamo visto a conclusione del discorso avviato nel paragrafo precedente, Paolo introduce, nel tratto delle Quaestiones confluito in D. 5.2.17.1, un’importante precisazione, sulla quale dobbiamo ora adeguatamente soffermarci. In esito all’epistula dei divi fratres, di cui si è detto e di cui ora ulteriormente diremo, la sententia iudicis può ius facere solo se pronunciata all’esito di un processo connotato da un «regolare contraddittorio»[29]: è sin troppo evidente che la preoccupazione della cancelleria imperiale, con riferimento a questa casistica, era quella di vanificare – lo accennavamo poc’anzi – un’eventuale collusione tra querelante ed erede testamentario, in danno degli onorati a titolo particolare. Vediamo dunque la soluzione normativa alla quale era pervenuta la cancelleria imperiale in epoca antoniniana, ricordata in un passo di Ulpiano confluito nel l. XIV dell’ad edictum che ce ne tramanda una significativa traccia testuale:

 

Ulp. 14 ad ed. D. 49.1.14.1: Quotiens herede non respondente secundum adversarium sententia datur, rescriptum est nihil nocere neque legatis neque libertatibus. et hoc divorum fratrum epistula continetur ad Domitium in haec verba: quod absente possessore nec quoquam nomine eius respondente pronuntiatum est, non habet rei iudicatae auctoritatem nisi adversus eum solum qui adesse neglexerit. quare his, qui testamento libertates vel legata vel fideicommissa acceperunt, salvae sunt actiones, si quas habuerunt, perinde ac si nihil esset iudicatum: < ? > et ideo adversus eum qui vicit permittimus eis agere < ? >.

 

Dal frammento emerge con chiarezza che la sentenza centumvirale[30] resa in assenza di regolare contraddittorio non ha l’auctoritas rei iudicatae se non adversus eum solum qui adesse neglexerit: la sentenza rescindente, in altri termini, finisce, in questi casi, per avere un’efficacia soggettivamente limitata alle parti del processo, per modo che restano salvae le actiones spettanti a chi, per avventura, possa veder pregiudicate le proprie ragioni da un’ipotetica rilevanza erga omnes della sentenza stessa.

Sul punto, ad ogni modo, mi pare difficile sostenere che i legatari, i fedecommissari ed i servi manomessi «avrebbero potuto agire, disconoscendo il contenuto della sentenza e ponendo nuovamente in discussione la questione dell’inofficiosità del testamento»[31]: ritengo, infatti, che, se le rispettive actiones sono salvae, l’inopponibilità della sentenza rescindente per vulnus alla regolarità del contraddittorio non imponesse loro un siffatto onere, e che la giurisprudenza a cavaliere tra II e III secolo abbia inteso addentrarsi – lo mostra bene proprio il discorso di Paolo in D. 5.2.17.1, che appunto considero sostanzialmente genuino[32] – per le vie che, nella casistica considerata, giustificano il competere delle libertates e la tutela dei legata.

Ma chi dovrebbe essere il legittimato passivo di queste pretese? L’erede testamentario, che però non potrebbe contare sul patrimonio ereditario, in quanto inter partes il testamento è rescisso? Oppure l’erede ‘necessario’ ab intestato?

Per quanto possa apparire paradossale, a conservare il testo del passo di Ulpiano nel suo tratto finale[33], quanto meno come traccia di un più ampio discorso che doveva figurare nel richiamo al provvedimento imperiale[34], la soluzione – in adesione all’esegesi del Voci[35] – parrebbe proprio questa: le actiones originariamente esperibili contro l’erede testamentario restano salvae avverso l’erede ‘necessario’, ovvero il vincitore divenuto erede ab intestato, che è quindi naturale destinatario della pretesa dei legati e fedecommessi, così come, per estensione di questo principio, deve ritenersi unico legittimato al contraddittorio in eventuali processi de libertate. Siamo di fronte ad una lettura in cui riecheggia, a mio parere, la clausola si quis omissa causa testamenti ab intestato possideat hereditatem, inserita dal Lenel[36] nel titolo XXVI, De testamentis, della sua ricostruzione dell’editto perpetuo. Così come, infatti, il pretore poneva rimedio alla calliditas di quanti eludessero la vocazione testamentaria in danno, principalmente, degli onorati a titolo particolare, analogamente la contumacia nel processo centumvirale, di per sé sola determinante l’eventum litis, è considerata dalla cancelleria imperiale indice sintomatico di un’analoga calliditas.

Ed allora, la peculiarità della soluzione voluta dai divi fratres si apprezza in particolare non tanto ove sia preteso un legato ad effetto reale, quanto nell’ipotesi della tutela apprestata per i legati obbligatori: l’actio ex testamento, cioè, per apparente paradosso è salva avverso un erede non testamentario, ed è verosimile che – in ragione appunto dell’inconfigurabilità dell’auctoritas rei iudicatae se non adversus eum solum qui adesse neglexerit – fosse concessa perinde ac si nihil esset iudicatum mediante la tecnica formulare della trasposizione dei soggetti, in modo che nell’intentio figurasse l’heres (testamentario) soccombente nella querela in quanto contumace, e nella condemnatio il relativo vincitore, ovvero l’heres (‘necessario’) ab intestato.

Nel quadro sinora emerso, se l’inconfigurabilità dell’effetto caducatorio erga omnes della sentenza è assoluta nell’ipotesi del contraddittorio irregolare, non eccessivamente divergente è la soluzione nella peculiare eventualità del iudicium perlusorium: siamo forse qui alle origini dell’impugnazione della sentenza per collusione in danno di terzi[37].

Consideriamo, infatti, il principium del passo di Ulpiano, di cui ci siamo occupati poc’anzi:

 

Ulp. 14 ad ed. D. 49.1.14 pr.: Si perlusorio iudicio actum sit adversus testamentum, an ius faciat iudex, videndum. et divus Pius, cum inter coniunctas personas diceretur per collusionem in necem legatariorum et libertatium actum, appellare eis permisit. et hodie hoc iure utimur, ut possint appellare: sed et agere causam apud ipsum iudicem, qui de testamento cognoscit, si suspicantur non ex fide heredem causam agere.

 

Nell’ipotesi, tenuta presente in più loci paralleli nel Digesto[38], di impugnazione testamentaria dolosamente promossa – per collusione intervenuta inter coniunctas personas, ovvero tra soggetti che ben possono avere una convergenza d’interessi alla conservazione dell’asse all’interno della cerchia familiare – in danno dei legatari e delle liberationes legatae, Ulpiano – che con ogni probabilità discuteva, diversamente da quanto si è ipotizzato per il fr. 14.1, di un’ipotesi processuale riferibile alla cognitio extra ordinem[39] – ci informa di un’altra costituzione imperiale, con la quale Antonino Pio[40] aveva concesso ai servi manomessi ed ai legatari il rimedio dell’appello[41], e comunque – parrebbe – una possibilità di intervento di costoro davanti al medesimo giudice investito della cognizione sul testamento[42].

Al di là della indubbiamente problematica configurazione espositiva del passo[43], il complessivo andamento del discorso induce a ritenere che, salva la reazione dei soggetti che potrebbero subire un pregiudizio, la sentenza è comunque astrattamente idonea a ius facere, a differenza del caso della contumacia dell’heres scriptus intimato: in quest’ultimo caso, cioè, la collusione tra querelante ed erede testamentario che non si difende e determina così invariabilmente l’esito della causa è valutata in re ipsa; nondimeno, un’analoga soluzione non viene seguita per l’ipotesi, ben difficilmente dimostrabile, di collusione processuale intervenuta in un contesto connotato da un contraddittorio apparentemente regolare. Mentre, dunque, nell’ipotesi della contumacia la sentenza produce effetti ‘costitutivi’ unicamente nei confronti del querelante e del controinteressato che adesse neglexerit, in tutti gli altri casi l’auctoritas rei iudicatae si configura erga omnes, pur assicurando ai soggetti da essa virtualmente pregiudicati un meccanismo di reazione.

 

 

4. – Caducazione soggettivamente parziale del testamento e meccanismi di conformazione all’auctoritas rei iudicatae

 

Esaminati i presupposti processuali per l’integrazione erga omnes dell’auctoritas rei iudicatae, siamo ora in grado di valutare se la giurisprudenza romana abbia elaborato, con riferimento alla casistica dell’impugnazione testamentaria, meccanismi di conformazione al giudicato. La risposta a questo interrogativo è, a mio parere, in senso positivo: già abbiamo visto l’emersione di un percorso interpretativo in questa direzione nella soluzione di Paolo confluita in D. 5.2.17 pr., che mostra come l’auctoritas rei iudicatae non si risolva in automatismi del sistema, ma imponga semmai all’interpretatio dei giuristi di individuare di volta in volta soluzioni che, come è ovvio che sia, creano esse stesse diritto.

Al riguardo, è interessante osservare come, accanto al regime civilistico dell’invalidità testamentaria per la praeteritio dei sui, contribuisca ad un’apertura nel senso del superamento del dogma classico dell’alternatività tra vocazione ab intestato e vocazione testamentaria[44] la querela inofficiosi testamenti esperita con esito alterno – quanto Ulpiano considerava tutto sommato frequente[45] – avverso una pluralità di heredes testamentari.

In disparte i testi che assai genericamente alludono alla ‘vittoria parziale’ del querelante[46], mi pare significativo per la nostra indagine un passo di Papiniano:

 

Papin. 14 quaest. D. 5.2.15.2: Filius, qui de inofficiosi actione adversus duos heredes expertus diversas sententias iudicum tulit et unum vicit, ab altero superatus est, et debitores convenire et ipse a creditoribus conveniri pro parte potest et corpora vindicare et hereditatem dividere: verum enim est familiae erciscundae iudicium competere, quia credimus eum legitimum heredem pro parte esse factum: et ideo pars hereditatis in testamento remansit, nec absurdum videtur pro parte intestatum videri.

 

In questa ipotesi, un filius impugna, verosimilmente davanti ai centumviri[47], il testamento nei confronti di due eredi. Non sappiamo se si tratti di heredes extranei o meno: nondimeno, parrebbe ragionevole congettura ipotizzare che solo il soccombente sia extraneus, quanto potrebbe forse contribuire a giustificare per quale ragione delle due querelae una sola venga accolta.

La particolarità della fattispecie[48] consente, a mio parere, di escludere, in linea di principio, un vero e proprio contrasto[49] – almeno su questo punto – tra la posizione di Papiniano e quella di Paolo, che parrebbe radicarsi su una casistica differente[50]. A mio parere, infatti, altro è la querela separatamente esperita contro due soggetti, che si risolva in un esito processuale antinomico[51], di cui ora ci occuperemo; altro la querela esperita vittoriosamente in conseguenza della contumacia della controparte e quindi in assenza di una valutazione ‘di merito’ da parte del giudice centumvirale (Paul. D. 5.2.17.1)[52]; altro ancora la valutazione della posizione dell’exheredatus che non intenda impugnare repudiantis animo (Paul. D. 5.2.17 pr.)[53].

Ciò chiarito, può dirsi che «la vittoria parziale esclude l’erede istituito, che è stato vinto, dalla successione: la sua quota è acquistata, ab intestato, dall’erede necessario, con la conseguenza che coesistono due eredi, l’uno ex testamento, l’altro ab intestato. Salvo il titolo, ch’è diverso, la posizione dell’uno è uguale a quella dell’altro: l’erede necessario rivendica pro parte le cose ereditarie, conviene i debitori, è convenuto dai creditori, può esperire l’azione di divisione dell’eredità»[54].

In sostanza, ottenute due distinte sentenze, di cui una sola favorevole al filius querelante, emerge una regola di conformazione al giudicato rescindente, secondo la quale egli risulta legitimus heres (ovvero, erede ‘necessario’ e ab intestato) pro parte: non può non essere heres, perché una sentenza travolge il testamento; non può esserlo per l’intero, in quanto una seconda sentenza lo ‘conferma’. Il giurista elabora questo risultato conformativo all’interno del ius civile: l’opzione secondo cui – come è noto – nemo pro parte testatus pro parte intestatus decedere potest non è ritenuta un dogma immutabile[55] nel momento in cui è lo stesso ius civile a fornire all’interpretatio i dati essenziali per ricamarne il perimetro.

Ed in quest’ordine di idee, la caducazione – a questo punto soggettivamente parziale – del testamento rappresenta il rescindente che apre le porte ad un rescissorio, costituito dalla legittimazione all’actio familiae erciscundae per ottenere la divisione della quota[56]. Si rileverà poi, al riguardo, come anche Papiniano correli ad un credere la giustificazione della configurazione del rescissorio: l’azione divisoria spetta non già perché il vincitore sia ‘tout court’ erede ab intestato, ma semmai quia credimus eum legitimum heredem pro parte esse factum.

Egli, in sostanza, non ‘è’ erede legittimo: riteniamo – dice il giurista – che lo sia ‘divenuto’.

Qui il giurista, ad ogni modo, fa riferimento ai creditori, non anche ai legatari. Per i creditori, a ben vedere, è del tutto indifferente il regime della vocazione: e difatti, un diverso meccanismo governa – sempre secondo Papiniano – la sorte dei legati, che sono – come dire – ‘parzialmente’ validi[57], come risulta bene da

 

Papin. 7 resp. D. 31.76 pr.: Cum filius divisis tribunalibus actionem inofficiosi testamenti matris pertulisset atque ita variae sententiae iudicum exstitissent, heredem, qui filium vicerat, pro partibus, quas aliis coheredibus abstulit filius, non habiturum praeceptiones sibi datas, non magis quam ceteros legatarios actiones, constitit. sed libertates ex testamento competere placuit, cum pro parte filius de testamento matris litigasset. quod non erit trahendum ad servitutes, quae pro parte minui non possunt: plane petetur integra servitus ab eo qui filium vicit, partis autem aestimatio praestabitur: aut si paratus erit filius pretio accepto servitutem praebere, doli summovebitur exceptione legatarius, si non offerat partis aestimationem, exemplo scilicet legis Falcidiae.

 

nonché da un rescriptum della cancelleria di Gordiano, che mostra di seguire – pur se, con ogni probabilità, ormai nel solco della cognitio extra ordinem[58] – la linea tracciata da Papiniano per il giudizio centumvirale[59]:

 

Imp. Gordianus A. Prisciano C. 3.28.13: Cum duobus heredibus institutis, uno ex quinque, altero ex septem unciis, adversus eum qui ex septem unciis heres scriptus fuerat iusta querella contendisse, ab altero autem victum fuisse adlegas, pro ea parte, qua resolutum est testamentum, cum iure intestati qui obtinuit succedat, neque legata neque fideicommissa debentur, quamvis libertates et directae competant et fideicommissariae praestari debeant (a. 239).

 

Esaminiamo separatamente i due testi.

Nel primo caso, un filius impugna, con separate iniziative processuali, il testamento della madre nei confronti di una pluralità – che la fonte lascia indeterminata – di eredi testamentari controinteressati, uno dei quali vince la causa, ottenendo la conferma della propria istituzione. In linea di principio, quest’ultimo non può pretendere i legati per praeceptionem disposti a suo favore a carico delle partes che il querelante ha ottenuto dagli altri coeredi: stessa soluzione è data per le actiones spettanti agli altri legatari. Dunque i legati restano a carico delle partes riferibili alla vocazione testamentaria confermata all’esito della controversia, per modo che, come si diceva, sono ‘parzialmente validi’. Il caso reale doveva riguardare, con ogni probabilità, la sorte di legati ad effetto traslativo: sicché il giurista chiarisce come spettino le libertates disposte in via testamentaria, per il favor che le assiste; e come, nondimeno, l’ontologica indivisibilità della libertas legata non offra un buon modello ricostruttivo anche per l’attribuzione per legato di diritti reali che l’esperienza giuridica romana considera indivisibili, come le servitutes. In quest’ultima evenienza, secondo Papiniano, petetur integra servitus, salvo l’aestimatio partis protetta dall’exceptio doli, secondo il modello della lex Falcidia.

Veniamo ora all’ipotesi prospettata alla cancelleria imperiale, che risponde per rescriptum. In questo caso, la querela viene esperita avverso due eredi testamentari: nei confronti dell’uno, istituito per 7/12, il testamento è rescisso; nei confronti dell’altro, istituito per 5/12, è confermato. Anche in questo caso, è verosimile che il soccombente sia un heres extraneus, istituito per una quota, i 7/12, di poco superiore alla metà dell’asse, laddove l’erede istituito per i 5/12 sarà stato forse nel novero dei liberi del testatore. In questo quadro, il querelante vittorioso succede ab intestato per 7/12, escludendo dalla successione l’erede testamentario soccombente: si avrà dunque un erede ab intestato ‘necessario’ per 7/12, ed un erede testamentario per 5/12. A ritenere, dunque, fondata la nostra congettura, ed a considerare quest’ultimo un figlio del testatore, gli risulterebbe attribuita una quota ‘fisiologica’ dell’hereditas, che supera di 1/6 la quarta[60].

Secondo la cancelleria imperiale, a questo punto, è solo nei confronti dell’erede testamentario che le azioni dei legatari e dei fedecommissari saranno esperibili.

L’interpretatio detta, quindi, una ben precisa regola di conformazione al giudicato: con riferimento ai legati per damnationem, l’obbligazione, originariamente parziaria[61], in capo all’erede testamentario soccombente viene meno, mentre rimane coercibile, nei limiti della quota, nei soli confronti dell’heres scriptus la cui vocazione sia confermata. Il passo non pare riferirsi a legati ad effetto traslativo: dando, tuttavia, per plausibile – lo si diceva poc’anzi – che la sentenza favorevole ottenuta dal querelante travolga l’istituzione di un heres extraneus, è possibile immaginare la configurazione di una comunione incidentale – da sciogliersi con l’actio communi dividundo – tra l’erede ‘necessario’ vincitore ed il legatario, salva la peculiarità dei diritti reali indivisibili e del favor libertatis che fa ancora una volta salvae le pretese anche nei confronti dell’erede ab intestato, che quindi può essere costretto alla manumissio al di là della riconfigurazione della vocazione.

 

 

5. – La progressiva elaborazione di un iudicium rescindens ‘costitutivo’ nell’esperienza classica della cognitio extra ordinem

 

Siamo così giunti a vedere gli albori dell’idea dell’efficacia erga omnes del giudicato demolitorio di atti[62]. Con essa, almeno una volta superato il giudizio centumvirale a favore delle più duttili forme della cognitio extra ordinem, emerge altresì, come ora immediatamente vedremo, la necessità della scadenza del termine per proporre appello perché la sentenza possa appunto ius facere: quanto, di recente, hanno stabilito – accogliendo in sostanza una tesi dottrinale minoritaria – le sezioni unite della Cassazione[63]. Esaminiamo, dunque, un altro passo di Ulpiano, tratto sempre dal l. XIV dell’ad edictum:

 

Ulp. 14 ad ed. D. 5.2.8.16: Si ex causa de inofficiosi cognoverit iudex et pronuntiaverit contra testamentum nec fuerit provocatum, ipso iure rescissum est: et suus heres erit secundum quem iudicatum est et bonorum possessor, si hoc se contendit: et libertates ipso iure non valent: nec legata debentur, sed soluta repetuntur aut ab eo qui solvit, aut ab eo qui optinuit et haec utili actione repetuntur. [fere autem si ante controversiam motam soluta sunt, qui optinuit repetit]: et ita divus Hadrianus et divus Pius rescripserunt.

 

Ulpiano, con ogni probabilità, discorreva genericamente di controversie avverso testamento inofficioso mobilitate mediante la procedura extra ordinem[64], che doveva aveva iniziato a soppiantare il processo centumvirale già di buon’ora[65], nei primi decenni del II secolo.

In questo quadro, è in linea di principio plausibile ritenere che, così come le constitutiones principum fanno parte dei iura populi Romani con forza di lex, cum ipse imperator per legem imperium accipiat (Gai 1.5), anche le cognitiones extra ordinem, che del potere normativo imperiale sono il riflesso processuale, esprimano in questo momento storico il ‘nuovo atteggiarsi’ dell’ordinamento di una civitas che si identifica nell’Impero: è nel ius novum[66] imperiale, e nelle correlate forme processuali, che comincia ora «ad esplicarsi l’attività interpretativa dei giuristi e della stessa cancelleria imperiale»[67]; ed allora è in questo senso che il testamento è rescisso ipso iure – ovvero, ancorché magari «ausnahmweise»[68], secondo l’ordinamento della civitas – una volta decorso il termine per l’impugnazione della sentenza. È appunto l’interpretatio che indica nel vincitore il suus heres od il bonorum possessor, quasi a configurare un risultato conformativo alla regola dettata dal provvedimento; è l’interpretatio che configura il rescissorio, precisando che le libertates non valgono ipso iure, e che i legati pervenuti all’onorato testamentario devono essere restituiti.

Il testo, al riguardo, parrebbe presentare una qualche criticità espositiva[69], che peraltro non preclude l’intelligenza del discorso del giurista: egli, invero, prospetta un punto di specifico interesse per la nostra indagine, rappresentato dalla tutela restitutoria utilis, sulla quale dovremo ora soffermarci.

Come accennavo, la configurazione del rescissorio non rappresenta un automatismo del sistema, ma richiede una specifica elaborazione dei prudentes, che devono risolvere alcuni problemi alquanto significativi. Al riguardo, però, occorre una precisazione, che ci consentirà di riallacciare il discorso alla prospettiva che avevamo evidenziato all’avvio del nostro percorso d’indagine.

Il giurista afferma, infatti, che i legati repetuntur, precisando che soggetto legittimato ad esperire il rimedio restitutorio può essere, a seconda dei casi, l’erede testamentario che abbia adempiuto l’obbligazione di dare, od il vincitore della causa, cioè l’erede ‘necessario’; e che a tal fine è riconosciuta un’azione utilis. Io credo che questa indicazione sia classica: ciò significa, a mio parere, che is qui solvit – ovvero chi era erede testamentario, e ‘non è più’ heres potrà ripetere i legati per damnationem attribuiti con risorse proprie, ove si consideri che questa figura di legato era normalmente adoperata «per attribuire al legatario cose che non si trovavano nell’eredità, sia appartenessero ad un terzo sia che fossero dell’erede stesso»[70]; e che, per converso, is qui optinuit – l’heres ‘necessario’, cioè chi è divenuto heres per aver vinto la causa – può ripetere non solo l’eventuale attribuzione di legati per damnationem a suo tempo adempiuti dall’heres scriptus con beni ereditari, sicché alius solvit alius repetit, ma altresì, e comunque, i legati sinendi modo. 

In sostanza, il criterio discretivo per individuare il legittimato attivo alla condictio utilis è dato dalla funzione pratica che quest’ultima assume in concreto: ove risulti strumentale alla ricostituzione dell’asse, può esperirla in qui optinuit; ove risulti semplicemente strumentale al recupero del dominium ingiustamente perduto, può esperirla il solvens in quanto tale. Ed allora l’ulteriore precisazione, indicata tra quadre[71], per cui ‘di solito’ questa tutela è data all’erede ‘necessario’ per l’ipotesi di adempimento dei legati ante controversiam motam a me pare frutto di un glossema rientrato nel testo[72] in un contesto culturale che, per un verso, già tendeva a sovrapporre la querela alla hereditatis petitio[73], e per altro verso sentiva come indispensabile una sinapsi testuale con un tratto dell’ad Sabinum confluito in D. 12.6.2.1, in cui il giurista ricordava solamente il rescriptum di Adriano, che doveva aver dato il via agli interventi imperiali sul punto.

In quella sede, infatti, Ulpiano, muovendo dall’individuazione di tratti comuni ad una pluralità di patologie testamentarie, poneva sullo stesso piano, sub specie dell’esperibilità di un rimedio restitutorio onorario, l’adempimento del legato in forza di testamentum riconosciuto successivamente falsum, inofficiosum, irritum o ruptum, e ricordava come al vincitore la cancelleria di Adriano avesse accordato – per il caso del testamento falsum o inofficiosum – un rimedio restitutorio utilis:

 

Ulp. 16 ad Sab. D. 12.6.2.1: Si quid ex testamento solutum sit, quod postea falsum vel inofficiosum vel irritum vel ruptum apparuerit, repetetur, vel si post multum temporis emerserit aes alienum, vel codicilli diu celati prolati, qui ademptionem continent legatorum solutorum vel deminutionem per hoc, quia aliis quoque legata relicta sunt. nam divus Hadrianus circa inofficiosum et falsum testamentum rescripsit actionem dandam ei, secundum quem de hereditate iudicatum est.

 

Prima di esaminare il passo con specifico riferimento al punto per noi centrale, costituito dalla ragione per la quale le figure d’invalidità ricordate dal giurista siano sottese da un comune denominatore, si rendono necessarie alcune considerazioni preliminari.

Innanzitutto, nel caso del testamento falsum o inofficiosum la patologia dell’atto emerge in un secondo momento quasi ‘per definizione’: probabilmente, sarà stata poi la giurisprudenza ad estendere la ratio del rescriptum anche alle figure del testamentum irritum o ruptum, di cui si abbia successiva cognizione[74].

In secondo luogo, non mi pare forse necessario dilungarsi eccessivamente sull’apparente distanza in ordine alla configurazione della legittimazione attiva al repetere emergente dai due passi ulpianei: in chiave conservativa, si può osservare che in D. 12.6.2.1 – tanto più che ignoriamo quanto, per avventura, sia stato compresso il frammento in sede compilatoria – Ulpiano parrebbe ricordare solo il rescriptum di Adriano che accorda il rimedio restitutorio utile al vincitore della causa per l’ipotesi del testamento falsum o inofficiosum; e che in D. 5.2.8.16 egli ricorda, invece, rescripta sia di Adriano, sia di Antonino Pio. Mi pare plausibile ritenere, allora, che in un primo momento la cancelleria imperiale abbia riconosciuto l’azione utile in capo al vincitore della causa, e che Ulpiano, nell’ad Sabinum, ricordasse solo il rescriptum adrianeo in quanto intervento ‘leading’ della cancelleria imperiale in materia. Non sopravvaluterei, in questo quadro, il riferimento al momento della controversia mota che figura nel denunziato glossema[75]: la cancelleria di Antonino Pio, a mio parere, deve aver arricchito l’originaria soluzione normativa così da riconoscere la tutela utilis anche in capo all’originario heres scriptus, evidentemente per l’ipotesi in cui avesse adempiuto legati con risorse estranee all’asse, come poc’anzi ho ipotizzato, nell’irrilevanza, ai fini del condicere, del momento della mobilitazione della querela.

Nell’ad edictum, quindi, il giurista avrebbe semplicemente prospettato il risultato attuale della normativa imperiale. D’altronde, egli era ben consapevole di come la cancelleria, da Adriano ai divi fratres, fosse intervenuta a più riprese per disciplinare aspetti particolari della querela inofficiosi testamenti: accanto ai rescripta ricordati in Ulp. D. 12.6.2.1 e Ulp. D. 5.2.8.16, basti qui tener presenti gli interventi dello stesso Antonino Pio prima, e dei divi fratres poi, circa i limiti soggettivi del giudicato nel caso del contraddittorio irregolare (Ulp. D. 49.1.14 pr.-1), su cui ci siamo ampiamente soffermati.

Interessa in modo particolare, a questo punto, ragionare sul comune denominatore della casistica esaminata da Ulpiano in D. 12.6.2.1, rappresentato dalla successiva scoperta (postea) della patologia e dalla natura pretoria della tutela restitutoria, desumibile dal riferimento all’actio utilis (Ulp. D. 5.2.8.16) ed al dare actionem (Ulp. D. 12.6.2.1) in due passi che parrebbero presupporre, come si diceva, la sentenza imperiale resa in sede di cognitio extra ordinem[76] quale presupposto della caducazione del testamento.

In questa prospettiva non saprei – e penso che la questione debba di necessità rimanere aperta – se la peculiarità della tutela rappresenti semplicemente un superamento dell’ordinaria irripetibilità del legato per damnationem adempiuto perperam[77]. Anche ad orientarci nell’estrema genericità delle poche fonti a nostra disposizione in merito[78], questa regola, a mio parere, parrebbe presupporre che il solvens pur sempre adempia in qualità di erede testamentario, in quanto – qualunque idea si abbia in ordine al fondamento dell’esclusione della condictio[79] – è alla sola persona dell’heres scriptus[80] che vanno riferiti tanto il risultato liberatorio dell’eventuale solutio per aes et libram, quanto l’antica soggezione alla manus iniectio, cui si correla per età classica la litiscrescenza che connota l’actio ex testamento: di conseguenza, l’esclusione della possibilità di condicere parrebbe forse da collegare all’adempimento in difetto dell’obbligazione di certum dare ex testamento per invalidità non già del testamento stesso, che determinerebbe ipso iure l’apertura della successione ab intestato[81], quanto semmai della singola disposizione di legato. Ed allora, sarei più proclive a ritenere che la particolarità della tutela in esame dipenda dalla sua riferibilità ad un contesto suscettibile, seppur per diverse ragioni, di determinare una vocazione testamentaria solamente interinale[82], destinata, cioè, a venir meno ora in conseguenza del vittorioso esperimento della querela tramite cognitio, ora nei casi della scoperta del falsum, o del testamento irritum o ruptum.

La tutela è utilis, insomma, per via dell’apparere di una patologia in un primo momento ‘latente’, che consegue al post multum tempus emergere del relativo presupposto: e la giustapposizione del testamentum inofficiosum a quello falsum, irritum o ruptum, vale a dire appunto a figure caducatorie necessariamente percepibili postea, rappresenta il viatico per il superamento di quanto avviene con la sentenza centumvirale, che formalmente ‘dichiara una nullità’, e sostanzialmente ‘rescinde’. Giunti all’esperienza più matura della cognitio classica, cioè, si fa ormai strada un’idea di ‘annullamento’, che travolge appunto ex post un atto ex ante produttivo di effetti: è un’idea sostanzialmente analoga al meccanismo elaborato dalla dogmatica contemporanea dell’impugnabilità, con conseguente emersione del problema della irretroattività della sentenza imperiale, che fa da sfondo[83] alla riflessione ulpianea di cui or ora ci siamo occupati.

Siamo ora in grado di tirare le fila di questo discorso.

La via verso la nostra configurazione della giurisdizione costitutiva, per quanto è dato qui intuire, non può confinarsi solamente – come normalmente si ritiene – nell’assorbimento della restitutio in integrum in un unico contesto processuale una volta venuta meno la procedura formulare. È vero, cioè, che il giudice dei tribunali dell’Impero finiva per divenire l’unico dominus tanto dell’originaria restitutio pretoria, quanto della tutela che, su quel presupposto, veniva esperita nell’esperienza processuale formulare; ed è pure vero che, per questa via, si è poi elaborata l’idea medievale della distinzione – innanzitutto processuale – tra iudicium rescindens, demolitorio, e iudicium rescissorium, restitutorio.

Ma è altresì vero che quella stessa via finiva per essere già percorsa – specie a considerare la querela inofficiosi testamenti come una figura di cognitio classica già nel II secolo – nella complessa materia dell’invalidità testamentaria, e con spunti di notevole rilievo, tanto più ove si consideri che, sempre in materia testamentaria, ad essa si affianca la tutela costitutiva del fideicommissum libertatis[84]: quegli spunti che, non a caso, porteranno Giustiniano a ravvisare nel rapporto tra querela e petitio hereditatis, viste come due vie della giustizia confluenti in un’unica strada maestra, un inscindibile nesso tra rescindente e rescissorio, già chiaramente percepibile nel nesso che, per Papiniano, legava la querela all’esperimento dell’actio familiae erciscundae.

 

 

Abstract

 

Avec son étude l’Auteur clarifie que le droit romain a progressivement reconnu, à l’époque classique, la possibilité de demander une réelle annulation du testamentum inofficiosum.

 

 

 



 

[Per la pubblicazione degli articoli della sezione “Tradizione Romana” si è applicato, in maniera rigorosa, il procedimento di peer review. Ogni articolo è stato valutato positivamente da due referees, che hanno operato con il sistema del double-blind].

 

* Il saggio sarà pubblicato prossimamente anche a stampa, in un’opera collettanea dedicata al tema del giudicato, curata da Luigi Garofalo.

 

[1] Cfr., per le linee generali, l’esposizione di A. Guarino, Diritto privato romano, 12a ed., Napoli, 2001, 451 s., di M. Talamanca, Istituzioni di diritto romano, Milano, 1990, 768 s., e di M. Kaser, Das römische Privatrecht, I, 2a ed., München, 1971, 709 ss. Per un completo ragguaglio bibliografico, cfr. D. Di Ottavio, Una bibliografia ragionata in tema di ‘querela inofficiosi testamenti’: schede di lettura, in Scritti di storia del diritto e bibliografia giuridica offerti a G. Bonfanti, a cura di U. Petronio ed O. Diliberto, Macerata, 2012, 81 ss.; per l’inquadramento dei principali filoni dottrinali, cfr. ancora Ead., Ricerche in tema di ‘querela inofficiosi testamenti’, I, Le origini, Napoli, 2012, 1 ss.

 

[2] Cfr. esattamente M. Marrone, L’efficacia pregiudiziale della sentenza nel processo civile romano, in AUPA, XXIV, 1955, 103 ss.

 

[3] M. Marrone, L’efficacia, cit., 7, 89 ss., 463 ss.

 

[4] P. Voci, Diritto ereditario romano, II, 2a ed., Milano, 1963, 683.

 

[5] Mi riferisco all’interessante indagine di H. Wieling, Subjektive Reichweite der materiellen Rechtskraft im römischen Recht, in ZSS, CII, 1985, 291 ss.

 

[6] M. Marrone, L’efficacia, cit., 57 ss., sospetta, invece, della chiusa: mi pare plausibile che la precisazione sulla sorte dei legati consegua all’interpretatio che muoveva dalla svolta normativa dettata dalla costituzione dei divi fratres, ricordata da Ulp. D. 49.1.14.1. Avremo modo, comunque, di ritornare sul problema.

 

[7] M. Marrone, L’efficacia, cit., 121.

 

[8] Lo ricorda lo stesso Paolo in l. s. de inoff. test. D. 5.2.18; la traccia testuale della costituzione imperiale è in Ulp. 14 ad ed. D. 49.1.14.1, su cui ritorneremo in seguito: cfr. sul punto L. Di Lella, ‘Querela inofficiosi testamenti’. Contributo allo studio della successione necessario, Napoli, 1972, 247 ss., in particolare 252, e P. Voci, Diritto ereditario romano, II, cit., 696 e nt. 87, 716 e nt. 44.

 

[9] Marco Aurelio assume il principato insieme con il fratello Lucio Vero, morto nel 169, dall’anno 161: cfr. M.A. Levi - P. Meloni, Storia romana dalle origini al 476 d.C., Milano, 1986, 357 ss.

 

[10] M. Talamanca, Istituzioni, cit., 769; P. Voci, Diritto ereditario romano, II, cit., 708 s.

 

[11] M. Talamanca, Istituzioni, cit., 297.

 

[12] Per P. Voci, Diritto ereditario romano, II, cit., 696, in questo caso «la sentenza non è frutto di una indagine sul merito della causa e non fa stato se non tra le parti». Cfr. ancora M. Talamanca, Istituzioni, cit., 298.

 

[13] Cfr. di recente L. Gagliardi, ‘Decemviri’ e ‘centumviri’. Origini e competenze, Milano, 2002, 233.

 

[14] D. Di Ottavio, Ricerche, I, cit., 127 ss.

 

[15] M. Marrone, L’efficacia, cit., 92.

 

[16] P. Voci, Diritto ereditario romano, II, cit., 991 e 994.

 

[17] Mi riferisco a Claud. not. ad Scaev. XVIII dig. D. 32.36: Nec fideicommissa ab intestato data debentur ab eo, cuius de inofficioso testamento constitisset, quia crederetur quasi furiosus testamentum facere non potuisse, ideoque nec aliud quid pertinens ad suprema eius iudicia valet, ed a Scaev. 3 resp. D. 5.2.13: Titia filiam heredem instituit, filio legatum dedit: eodem testamento ita cavit: ea omnia quae supra dari fieri iussi, ea dari fieri volo ab omni herede bonorumve possessore qui mihi erit etiam iure intestato: item quae dari iussero, ea uti dentur fiantque, fidei eius committo. quaesitum est, si soror centumvirali iudicio optinuerit, an fideicommissa ex capite supra scripto debeantur. respondi: si hoc quaeratur, an iure eorum, quos quis sibi ab intestato heredes bonorumve possessores successuros credat, fidei committere possit, respondi posse. Paulus notat: probat autem nec fideicommissa ab intestato data deberi, quasi a demente. È in questo quadro che si comprende, a mio parere, il significato del credere: le due note a Scevola, l’una di Trifonino l’altra di Paolo, mostrano una ben precisa assonanza, nella quale il testatore non risulta né demensfuriosus; semmai, è come se lo fosse. Sul punto cfr. essenzialmente M. Marrone, L’efficacia, cit., 48 ss. e 52 ss. (anche per quanto concerne il rapporto tra Paolo e Scevola, difficilmente ricostruibile pensando ad una citazione generica della competenza centumvirale in Scaev. D. 5.2.13, come suggerisce J.M. Ríbas-Alba, La desheredación injustificada en derecho romano. ‘Querela inofficiosi testamenti’: fundamentos y regimen clásico, Granada, 1998, 170 s.), e P. Voci, Diritto ereditario romano, II, cit., 684 ss.

 

[18] P. Voci, Diritto ereditario romano, II, cit., 693 s.

 

[19] La posizione di Papiniano era ricordata e condivisa da Ulp. 14 ad ed. D. 5.2.8.8: Quoniam autem quarta debitae portionis sufficit ad excludendam querellam, videndum erit an exheredatus partem faciat qui non queritur: ut puta sumus duo filii exheredati. et utique faciet, ut Papinianus respondit, et si dicam inofficiosum, non totam hereditatem debeo, sed dimidiam petere. proinde si sint ex duobus filiis nepotes, ex uno plures, tres puta, ex uno unus: unicum sescuncia, unum ex illis semuncia querella excludit.

 

[20] P. Voci, Diritto ereditario romano, II, cit., 693.

 

[21] P. Voci, Diritto ereditario romano, II, cit., 695.

 

[22] Cfr. H. Wieling, Subjektive Reichweite, cit., 302 s. e, soprattutto, M. Marrone, L’efficacia, cit., 69.

 

[23] Cfr. E. Betti, D. 42, 1, 63. Trattato dei limiti soggettivi della cosa giudicata in diritto romano, Macerata, 1922, 461 ss., in particolare 465 s.

 

[24] Come suggerisce P. Voci, Diritto ereditario romano, II, cit., 695 s.

 

[25] Così, in particolare, M. Marrone, ‘Querela inofficiosi testamenti’ (Lezioni di Diritto Romano), s.l., 1962, 114 s.

 

[26] M. Marrone, L’efficacia, cit., 57 ss. e 64 ss.

 

[27] Che, a mio parere, va inteso nella prospettiva (cfr. M.V. Sanna, La rilevanza del concepimento nel diritto romano classico, in SDHI, LXXV, 2009, 163 ss. e ntt. 65, 66 e 67) secondo cui le espressioni ‘in rerum natura’ e ‘in rebus humanis’ non sono equivalenti: «se tutto ciò che è in rebus humanis» - scrive M.V. Sanna, op. cit., 164 s. – «è sicuramente in rerum natura, non tutto ciò che è in rerum natura è necessariamente in rebus humanis. Il concetto di rerum natura pare, dunque, indicare la realtà oggettivamente, anche da un profilo naturalistico». Ne consegue che, sul piano oggettivo e naturalistico, il testatore ha due liberi; sul piano delle res humanae, la sentenza centumvirale ne riconosce uno soltanto.

 

[28] Cfr. M. Marrone, L’efficacia, cit., 451 ss.

 

[29] P. Voci, Diritto ereditario romano, II, cit., 696.

 

[30] Così, a mio parere esattamente, M. Marrone, L’efficacia, cit., 60 ss.; e comunque E. Renier, Étude sur l’histoire de la ‘querela inofficiosi testamenti’ en droit romain, Liège, 1942, 282 ss.; L. Di Lella, ‘Querela inofficiosi testamenti’, cit., 148, nt. 46; N. Palazzolo, Potere imperiale ed organi giurisdizionali nel II secolo d.C. L’efficacia processuale dei rescritti imperiali da Adriano ai Severi, Milano, 1974, 234, nt. 62; F. Arcaria, ‘Oratio Marci’. Giurisdizione e processo nella normazione di Marco Aurelio, Torino, 2003, 38 e nt. 31. Pensa alla cognitio extra ordinem, invece, L. Gagliardi, ‘Decemviri’, cit., 350 e nt. 617 (per questa ipotesi, cfr. fondamentalmente E. Eisele, Zur ‘Querela inofficiosi’, in ZSS, XV, 1894, 274 e 277 ss.).

 

[31] M. Marrone, L’efficacia, cit., 63.

 

[32] Contra M. Marrone, L’efficacia, cit., 57.

 

[33] Escludendo, quindi, che gli onorati a titolo particolare «avrebbero dovuto agire piuttosto contro l’erede testamentario soccombente» (M. Marrone, L’efficacia, cit., 61, nt. 113): egli, a ben vedere, non disporrebbe del patrimonio ereditario.

 

[34] Più che ad ipotizzare l’interpolazione, come suggerisce M. Marrone, L’efficacia, cit., 61 e nt. 113.

 

[35] P. Voci, Diritto ereditario romano, II, cit., 716 s., nt. 46.

 

[36] O. Lenel, Das Edictum perpetuum. Ein Versuch zu seiner Wiederherstellung3, Leipzig, 1927, 363 ss.

 

[37] Cfr. W. Litewski, Die römische Appellation in Zivilsachen, in RIDA III S., XIV, 1967, 337 ss.

 

[38] Si tratta di Ulp.14 ad ed. D. 49.1.14 pr., Ulp. 6 opin. D. 5.2.29 pr., Marcian. 1 de appell. D. 49.1.5.1, su cui cfr. M. Marrone, L’efficacia, cit., 469 ss., e quindi D. Liebs, ‘Ulpiani Opinionum libri VI’, in TR, XLI, 1973, 298, e R. Yaron, Semitism in Ulpian?, in TR, LV, 1987, 7.

 

[39] L. Gagliardi, ‘Decemviri’, cit., 231 s.; M. Marrone, L’efficacia, cit., 469 ss.

 

[40] Siamo dunque alla metà del II secolo: il principato di Antonino Pio è negli anni 138-161. Cfr. P. Voci, Diritto ereditario romano, II, cit., 716 e nt. 45; M. Marrone, L’efficacia, cit., 84 e nt. 166.

 

[41] Si correlano a questo testo Marcian. 1 de appell. D. 49.1.5.1-2; Ulp. 5 opin. D. 5.2.29 pr.; Impp. Diocl. et Max. AA. Rhizo, a. 293: cfr. sul punto K.P. Müller-Eiselt, ‘Divus Pius constituit’. Kaiserliches Erbrecht, Berlin, 1982, 120 ss.

 

[42] Il che pone il problema del processo con pluralità di parti, che si tende a ritenere proprio già dell’esperienza classica, anche con riferimento al processo formulare: cfr. per tutti M. Kaser - K. Hackl, Das römische Zivilprozeßrecht, 2a ed., München, 1996, 208 s. e 484, con letteratura.

 

[43] K.P. Müller-Eiselt, ‘Divus Pius constituit’, cit., 122 s.

 

[44] Cfr. G. Coppola, Nascita e declino dell’adagio ‘nemo pro parte testatus pro parte intestatus decedere potest’, in TSDP, V, 2012, §§ 5 e 6; non dimenticherei, inoltre, l’impatto dell’ellenismo giuridico, come suggerisco in Un singolare testamento privo della ‘heredis institutio’: il cosiddetto ‘Testamentum porcelli’ tra ‘fabulae Milesiae’ ed ellenismo giuridico, in BIDR, CI-CII, 1998-1999 (ma pubbl. 2005), 812 ss.

 

[45] Ulp. 48 ad Sab. D. 5.2.24, su cui M. Marrone, L’efficacia, cit., 85.

 

[46] Su cui cfr. P. Voci, Diritto ereditario romano, II, cit., 691 e nt. 75.

 

[47] Seguo L. Gagliardi, ‘Decemviri’, cit., 218, nt. 266 e 228, nt. 290.

 

[48] Cfr. P. Voci, Diritto ereditario romano, II, cit., 691 s.

 

[49] Lo ipotizza in particolare L. di Lella, ‘Querela inofficiosi testamenti’, cit., 201 ss., ricordando, oltre Paul. D. 5.2.17 pr.-1, anche Paul. D. 5.2.19, Paul.-Scaev. D. 5.2.13 e Paul. D. 5.2.32.2 Sul punto cfr., criticamente, J. Ribas-Alba, Una pretendida controversia entre Papiniano – Ulpiano y Paulo: en torno a D. 5.2.19 (Paulo, 2 quaest.) y una hipótesis sobre la legítima, in Iura, XXXIX, 1988, 75 ss.

 

[50] Cfr. P. Voci, Diritto ereditario romano, II, cit., 693 ss., in particolare 695 ss.

 

[51] Cfr. P. Voci, Diritto ereditario romano, II, cit., 691 s.

 

[52] Cfr. sopra, § 2.

 

[53] P. Voci, Diritto ereditario romano, II, cit., 693 ss.

 

[54] Così, esattamente, P. Voci, Diritto ereditario romano, II, cit., 692.

 

[55] Cfr. esattamente B. Schmidlin, ‘Regula iuris’: Standard, Norm oder Spruchregel? Zum hermeneutischen Problem des Regelverständnisse, in Festschrift für M. Kaser zum 70. Geburtstag, herausgegeben von D. Medicus und H.H. Seiler, München, 1976, 109, ed amplius Id., Sinn, Funktion und Herkunft der Testamentsregeln: ‘nemo pro parte testatus pro parte intestatus decedere potest’ - ‘hereditas adimi non potest’, in BIDR, LXXVIII, 1975, 73 ss.; analogamente, P. Capone, Valore ed uso giurisprudenziale di ‘absurdus/e’, in SDHI, LXIII, 1997, 254 ss.; diversamente, A. Wacke, Die Rechtswirkungen der ‘lex Falcidia’, in Studien im römischen Recht M. Kaser zum 65. Geburtstag gewidmet von seine Hamburgern Schülern, herausgegeben von D. Medicus und H.H. Seiler, Berlin, 1973, 237, ritiene che la regola nemo pro parte testatus, pro parte intestatus decedere potest «wird in diesem Sonderfall durchgebrochen».

 

[56] Cfr. J.M. Ríbas-Alba, La desheredación, cit., 165.

 

[57] Cfr. M. Marrone, L’efficacia, cit., 54 ss.; E. Renier, Étude, cit., 121.

 

[58] Cfr. M. Marrone, L’efficacia, cit., 466 e nt. 171.

 

[59] Che parrebbe sicuro, secondo M. Marrone, L’efficacia, cit., 54, per il tratto in Papin. D. 31.76 pr.; incerto per quello in Papin. D. 5.2.15.2 (per questo dubbio M. Marrone, op. cit., 86, nt. 174 e 474 s.; ma cfr. ora con plausibile esegesi, per la riferibilità anche di quest’ultimo passo al processo centumvirale, L. Gagliardi, ‘Decemviri’, cit., 218, nt. 266 e 228, nt. 290).

 

[60] Cfr. sul punto A. Sanguinetti, Dalla ‘querela’ alla ‘portio legitima’. Aspetti della successione necessaria nell’epoca tardo imperiale e giustinianea, Milano, 1996, 47 ss.

 

[61] P. Voci, Diritto ereditario romano, II, cit., 240 s.

 

[62] Con riferimento a Papin. D. 5.2.15.2 ed a Ulp. D. 5.2.8.16, di cui ci occuperemo in questo paragrafo, cfr. specificamente H. Wieling, Subjektive Reichweite, cit., 297 s. e 305 s.

 

[63] Cass., sez. un., 22 febbraio 2010, n. 4059, in Foro it., 2010, I, 2082, ed in Giur. it., 2010, 753; sul dibattito in dottrina in ordine alla sufficienza o meno, a fronte di pronunce costitutive, della possibilità di anticipazione degli effetti rispetto al giudicato ex art. 282 cod. proc. civ., cfr. C. Mandrioli, Diritto processuale civile, I, Nozioni introduttive e disposizioni generali, 20a ed., Torino, 2009, 84 e nt. 66a, e 184 e nt. 56; Id., Diritto processuale civile, II, Il processo di cognizione, 20a ed., Torino, 2009, 314 ss., e specificamente 316, nt. 37, con letteratura (l’Autore segue l’orientamento dottrinale maggioritario di segno opposto alla soluzione adottata dalle Sezioni Unite, che criticano la propria precedente pronuncia – la quale aveva trovato consensi in dottrina – Cass. 3 settembre 2007, n. 18512, in Riv. es. forz., 2007, 581). Le Sezioni Unite, in ultima analisi, sostengono esattamente – ed in piena consonanza con quanto scrive, pure esattamente, C. Consolo, Una buona ‘novella’, cit., 740-742 – che la giurisdizione costitutiva, quale che sia l’azione esperita, in tanto può produrre il risultato modificativo di cui all’art. 2908 cod. civ., in quanto la sentenza sia passata in giudicato (cfr. C. Consolo, op. cit., 741); e che – per conseguenza logica – i capi condannatori connessi possono avere efficacia esecutiva provvisoria ex art. 282 cod. proc. civ. solo nel caso in cui la stessa non determini una perturbazione dell’assetto d’interessi sostanziale che la sentenza stessa mira a realizzare, avendo come punto di riferimento l’esito fisiologico della vicenda privatistica (cfr. ancora C. Consolo, op. cit., 741; sicché, appunto, è insuscettibile di efficacia esecutiva il capo condannatorio per il prezzo sino a quanto non divenga definitiva l’attribuzione traslativa ex art. 2932 cod. civ., mentre è suscettibile di provvisoria esecuzione il capo condannatorio in expensis). In sostanza, l’aspetto processualistico della questione non può, ove il provvedimento sia costitutivo, stravolgere il dato sostantivo che presuppone il giudicato sostanziale, rilevante ex artt. 2908 e 2909 cod. civ. e 324 cod. proc. civ. (cfr. ancora C. Consolo, op. cit., 741): una siffatta lettura finirebbe per privilegiare in termini apoditticamente omologanti la disciplina, puramente processuale, dell’esecuzione provvisoria. Ne consegue che, in quest’ordine di idee, va rigorosamente tenuto distinto l’effetto costitutivo della sentenza, che in ogni caso si produce solo con il giudicato sostanziale; e l’idoneità all’esecuzione ex art. 282 cod. proc. civ. dei (singoli ed eventuali) capi condannatori ulteriori, da individuarsi caso per caso (sarebbe possibile questa soluzione, ad esempio, per quanto concerne i capi condannatori che accedono ad una sentenza di revocazione ex art. 2901 cod. civ., non essendo configurabile, in conseguenza, una perturbazione dell’assetto d’interessi sostanziale nell’ottica del rapporto tra il revocante e le parti dell’atto impugnato, in quanto la revocatoria determina unicamente, come noto, l’inopponibilità del medesimo al creditore che invochi vittoriosamente questo rimedio. Su questi aspetti, mi sia consentito di rinviare a quanto dico in La figura legislativa della caducazione del contratto ed il modello della ‘restitutio in integrum’, in Contratto pubblico e princìpi di diritto privato, a cura di C. Cicero, Padova, 2011, 58 ss. (confermo qui, in particolare, quanto ipotizzo ivi, alla nt. 66).

 

[64] L. Gagliardi, ‘Decemviri’, cit., 230 s.; M. Marrone, L’efficacia, cit., 453 ss.; K.P. Müller-Eiselt, ‘Divus Pius constituit’, cit., 105; diversamente, ipotizza l’interpolazione J.M. Ríbas-Alba, La desheredación, cit., 164.

 

[65] Cfr. M. Kaser - K. Hackl, Das römische Zivilprozeßrecht, cit., 458.

 

[66] Per questa impostazione, anche terminologica, seguo A. Guarino, L’ordinamento giuridico romano, 5a ed., Napoli, 1990, 388 ss., in particolare 391 s.

 

[67] N. Palazzolo, Processo civile e politica giudiziaria nel Principato. Lezioni di diritto romano2, Torino, 1991, 87.

 

[68] Cfr. A. Wacke, Die Rechtswirkungen, cit., 218, nt. 46; cfr. quindi, più di recente, A.F. de Buján, La legitimación de los parientes colaterales privilegiados en la impugnación del testamento inofficioso, in SDHI, LV, 1989, 102.

 

[69] Pur senza doversi così pervenire alla critica radicale di P. Voci, Diritto ereditario romano, II, cit., 688 ss.

 

[70] M. Talamanca, Istituzioni, cit., 738.

 

[71] Per l’espunzione cfr. E. Betti, D. 42,1,63, cit., 469, nt. 1; S. Solazzi, Glosse a Gaio, in Studi in onore di S. Riccobono, I, Palermo, 1936, 187, nt. 362.

 

[72] Pur non negando più ampi rimaneggiamenti, tendo ad escludere sospetti tanto forti quanto quelli di P. Voci, Diritto ereditario romano, II, cit., 688 ss.

 

[73] L’espressione ‘controversiam movere’, infatti, rappresenta per diritto classico il «fondamento della legittimazione passiva alla petitio hereditatis del debitore ereditario (e del possessore a titolo singolare)»: cfr. M. Talamanca, Studi sulla legittimazione passiva alla ‘hereditatis petitio’, Milano, 1956, 141 ss. La ‘fusione’ tra la querela e la hereditatis petitio – nel senso che la prima rappresenta, in unico contesto processuale, il giudizio rescindente collegato alla seconda, in funzione di rescissorio – è il punto d’arrivo di un percorso che si configura appieno nel VI secolo: cfr. G. Pugliese, Istituzioni di diritto romano, 3a ed., con la collaborazione di F. Sitzia e L. Vacca, Torino, 1991, 950 s.

 

[74] Analogamente I. Fargnoli, ‘Rescripsit actionem dandam’. Sulla ripetibilità del legato ‘per damnationem’, in Labeo, XLVII, 2001, 264 s.; espunge da vel si post a relicta sunt K.P. Müller-Eiselt, ‘Divus Pius constituit’, cit.,110 ss.

 

[75] V’insistono, invece, M. Marrone, L’efficacia, cit., 459 s., e I. Fargnoli, ‘Rescripsit actionem dandam’, cit., 262 s., che ne condivide gli assunti (nella medesima prospettiva, cfr. anche K.P. Müller-Eiselt, ‘Divus Pius constituit’, cit., 117 s.): secondo queste letture, la cancelleria imperiale, tenendo conto della disciplina del sc.um Iuventianum del 129, avrebbe alla fine legittimato il vincitore a ripetere i legati adempiuti ante controversiam motam, e l’heres scriptus soccombente a ripetere quelli da lui adempiuti post controversiam motam. Questa esegesi non mi persuade: non si valuta, infatti, se possa considerarsi rilevante il fatto che l’adempimento dei legati avvenga con risorse dell’asse o meno (d’altro canto, nel glossema non leggiamo che ‘il vincitore ripete’ i legati pagati ante controversiam motam, ma semmai che ‘di solito’ li ripete ‘qualora’ adempiuti prima della controversia). Per altro verso, poi, il sc.um Iuventianum disciplina la legittimazione passiva alla petitio hereditatis per l’ipotesi del possesso di mala fede della hereditas (per tutti A. Burdese, Manuale di diritto privato romano, 4a ed., Torino, 1993, 693; M. Talamanca, Istituzioni, cit., 704; Id., Studi, cit., 111 ss.): escludendo, in linea di principio, che potesse considerarsi possessore di mala fede il bonorum possessor sine re (M. Talamanca, Istituzioni, cit., 704), non vedrei una via convincente – sarebbe di per sé insufficiente la semplice proposizione della querela – per considerare possessore di mala fede l’heres scriptus, che proprio ad opera della cancelleria di Antonino Pio (M. Talamanca, Istituzioni, cit., 674), per l’ipotesi appunto della bonorum possessio, avrebbe avuto la difesa per exceptio doli avverso l’heres ab intestato. D’altronde, è pur sempre evidente come nei testi ulpianei in esame si discuta dell’esperibilità non già della hereditatis petitio avverso il dolo desinens possidere, ma semmai della condictio avverso il legatario accipiens. In questa chiave, a mio parere, la legittimazione alternativa alla condictio parrebbe sottendere un quadro normativo secondo il quale il vincitore nella querela, che esperisse la hereditatis petitio avverso l’heres scriptus, non avrebbe potuto ottenere da quest’ultimo, in quanto possessore di buona fede che nei rapporti con i legatari rischia la condanna in duplum, i legati medio tempore adempiuti: a ricostituzione dell’asse, la normativa imperiale avrebbe offerto in via utilis al vincitore, invece, la condictio indebiti.

 

[76] Cfr. M. Marrone, L’efficacia, cit., 452 ss.

 

[77] V’insiste P. Voci, Diritto ereditario romano, II, cit., 689, riconoscendo al discorso sulla restituzione dei legati in Ulp. D. 5.2.8.16 un «contenuto di origine classica» correlabile alla regola dell’irripetibilità del legato obbligatorio adempiuto perperam; seppur per diversa via, cfr. K.P. Müller-Eiselt, ‘Divus Pius constituit’, cit., 107 s.; più di recente I. Fargnoli, ‘Rescripsit actionem dandam’, cit., 258 ss., in particolare 261 s.

 

[78] Gai 2.282 e 4.9; Tit. Ulp. 24.33; Diocl. et Max. C. 4.5.4 e C. 4.5.7, interpolato con riferimento al legato, entrambe del 293: cfr. P. Voci, Diritto ereditario romano, II, cit., 785 e, soprattutto, l’ampia indagine di I. Fargnoli, ‘Rescripsit actionem dandam’, cit., 252 ss., con altra letteratura; nonché, per un’ipotesi alternativa, A. Saccoccio, ‘Si certum petetur’. Dalla ‘condictio’ dei ‘veteres’ alle ‘condictiones’ giustinianee, Milano, 2002, 82 ss.

 

[79] Su cui rinvio a I. Fargnoli, ‘Rescripsit actionem dandam’, cit., 253 ss.

 

[80] Cfr. G. Pugliese, Istituzioni di diritto romano, cit., 695.

 

[81] Sicché, in tal caso, non vi sarebbe ragione per negare la condictio: chi adempie un legato ritenendosi erroneamente heres dà vita, a mio parere, ad una ordinaria figura d’indebito; chi l’adempie essendo heres, ma nell’errore sulla validità del legato, non può ripetere.

 

[82] Cfr. analogamente M. Marrone, L’efficacia, cit., 460.

 

[83] Cfr. M. Marrone, L’efficacia, cit., 451 ss.

 

[84] Cfr. M. Talamanca, Istituzioni, cit., 755.