Testatina-Rassegne2013

 

 

foto LECCISILe basi romanistiche dell’appropriazione indebita: nota di commento a Cass. 4 settembre 2012 n. 33623 (*)

 

Elisabetta Leccisi

Università Cattolica di Milano

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Lo spunto del presente lavoro nasce da una sentenza della Corte di Cassazione, della sesta sezione penale (4 settembre 2012 n. 33623) in cui gli ermellini si pronunciano sul ricorso proposto avverso la sentenza emessa in data 25 febbraio 2010 dalla Corte d’Appello di Venezia, citando espressamente nella motivazione l’istituto del deposito necessario o miserabile, che secondo quanto esposto nella massima ufficiale della Suprema Corte, è un istituto risalente al diritto romano, «considerato quando una persona in stato di pericolo grave era costretta ad affidare i suoi beni al primo venuto».

Il mio scopo è dunque approfondire le basi romanistiche dell’appropriazione indebita ed in particolare dell’istituto del deposito necessario e se quest’ultimo sia presente nei codici vigenti, ovviamente passando anche attraverso l’utilizzo che di tale istituto di radici romanistiche fa il giudice di Cassazione ed ancor prima il tentativo da parte dell’avvocato dell’imputato di farne applicazione nel caso di specie.

Si precisa che l’imputato aveva optato per il rito abbreviato, rito previsto, come noto, dagli artt. 438 e ss. c.p.p. Il giudice decide dunque allo stato degli atti al termine dell’udienza preliminare: si salta infatti il dibattimento e si decide sulla base di quanto confluito fino a quel momento nel fascicolo del pubblico ministero e sulla base delle prove assunte nell’udienza ex art. 442 c.p.p.[1]. Come previsto dal II comma dell’art. 442 c.p.p. la pena in caso di condanna è diminuita nella misura fissa di un terzo, diversamente da un altro rito abbreviato – il patteggiamento – dove la pena è diminuita fino ad un terzo[2].

Riassumendo brevemente il fatto, deciso definitivamente nel settembre 2012 con la sentenza succitata, si era verificato un incidente stradale ed il telefono cellulare, appartenente alla vittima del sinistro automobilistico, era rimasto nell’abitacolo dell’automobile. Il maresciallo dei carabinieri, intervenuto con la pattuglia di cui era a capo, se ne impossessa, utilizzandolo e facendolo utilizzare con schede sim diverse ad alcuni colleghi.

Il processo si è instaurato a seguito della denuncia della sorella del proprietario del cellulare che era stato portato in ospedale, denuncia scaturita dal mancato ritrovamento del cellulare stesso nell’abitacolo dell’automobile.

In primo grado, con sentenza emessa il 27 settembre 2005 il G.U.P. del Tribunale di Padova ha dichiarato il maresciallo dei carabinieri colpevole del delitto di peculato, disciplinato dall’art. 314 c.p., per essersi impossessato di un telefono cellulare, all’epoca dei fatti di ultima generazione (del valore di un milione e duecento cinquanta mila)[3], in occasione dell’intervento effettuato in qualità di maresciallo dei carabinieri capo equipaggio. L’avvocato dell’imputato aveva provato a sostenere, per quanto attiene alle questioni pregiudiziali, la carenza di giurisdizione e la competenza del Tribunale militare. Tale tesi viene però respinta sia in primo grado che in appello, che infine in Cassazione.

Per quanto riguarda il merito, l’avvocato dell’imputato sosteneva che si trattasse di oggetto detenuto[4] a titolo di deposito necessario, laddove l’evento eccezionale che aveva appunto reso “necessario” il deposito al maresciallo, era costituito dall’incidente stradale. Sosteneva l’avvocato che il proprietario del cellulare fosse impossibilitato a custodirlo in quanto portato in ospedale a seguito dell’incidente stradale.

Il giudice di primo grado ha ritenuto integrato nel caso in esame il delitto di peculato, sussistendo i presupposti di cui all’art. 314 c.p.: in particolare la qualifica di pubblico ufficiale ed il possesso per ragioni del proprio ufficio.

Infatti il maresciallo ha la disponibilità materiale dell’oggetto in quanto intervenuto come capo equipaggio della pattuglia sul luogo del sinistro per gli opportuni accertamenti sulla dinamica e gli esiti dell’incidente stradale. Utilizzando il cellulare, secondo quello che scriverà il giudice di primo grado, il maresciallo ha messo in atto una interversio possessionis[5].

Il giudice di primo grado osserva che l’oggetto materiale del reato di cui il carabiniere si è appropriato non è cosa appartenente all’amministrazione militare, ma ad un privato cittadino, di conseguenza il fatto doveva sussumersi o nel reato di peculato comune  (art. 314 c.p.) o nel reato di furto aggravato. Il p.m. ha optato per la prima alternativa e così anche il Tribunale di primo grado di Padova.

In secondo grado preliminarmente viene stabilito che non si poteva applicare al caso in esame l’art. 235 c.p.m.p. comma 2, che punisce in forma aggravata il fatto appropriativo commesso «su cose possedute a titolo di deposito necessario o appartenenti all’amministrazione militare» (pagina 2 della sentenza).

La Corte d’Appello ha ritenuto non qualificabile come deposito necessario la materiale disponibilità del cellulare sottratto dal maresciallo dei carabinieri, dato che la disponibilità non si è verificata per un evento straordinario ed imprevedibile, quale la difesa supponeva dover qualificarsi il sinistro stradale, ma unicamente con riguardo allo svolgimento dei compiti istituzionali del sottoufficiale imputato, intervenuto con una pattuglia automontata dell’arma per svolgere gli accertamenti di rito sulla dinamica e gli esiti dell’incidente stradale. In conclusione la disponibilità deriva da un’attività funzionale del carabiniere. Non può applicarsi l’art. 235 c.p.m.p. che prevede l’appropriazione indebita militare: quest’ultimo è applicabile nel caso in cui un militare si appropria di beni di un altro militare.

La Corte di Cassazione conferma la sentenza di appello, ponendo in più l’accento sull’art. 113 Cost., di cui la difesa dell’imputato deduceva la violazione. Il suddetto articolo stabilisce che in tempo di pace la regola è la competenza, in materia di giurisdizione, del Tribunale ordinario e l’eccezione è la competenza del Tribunale militare. Pertanto nel caso di specie la competenza è del primo, non essendosi verificato il fatto in tempo di guerra.

Tornando all’istituto del deposito necessario, del quale la sentenza offre lo spunto di trattare, esso non è disciplinato nel codice civile vigente.

Al deposito necessario è invece dedicata la sezione V (rubricata appunto “Del deposito necessario”) del libro III dedicato ai “Modi di acquisto della proprietà”, del codice civile del 1865. L’art. 1864 c.c. definisce il deposito necessario come “quello a cui uno è costretto da qualche accidente, come un incendio, una rovina, un saccheggio, un naufragio o altro avvenimento non preveduto”. Il successivo articolo precisa che il deposito necessario è sottoposto alle stesse regole del deposito volontario, eccezion fatta per quanto previsto dall'art. 1348 c.c. Il suddetto articolo (=1348) prevede un’eccezione rispetto a quanto disposto dall’art. 1346 c.c. per le domande giudiziali: queste da qualsiasi causa procedano, se non interamente giustificate per iscritto, devono essere proposte nello stesso giudizio (I comma art. 1346 c.c.). “Le domande proposte in giudizi successivi non possono provarsi per testimoni” (II comma).

Un’eccezione a tali regole[6] è prevista appunto per il caso in cui al creditore non sia stato possibile procurarsi una prova scritta dell’obbligazione contratta a suo favore ovvero nel caso in cui il creditore abbia perso il documento costituente prova scritta, in conseguenza “di un caso fortuito impreveduto e derivante da forza maggiore”. Tali ipotesi possono verificarsi ad esempio, come specificato nel II comma dell’art. 1348 c.c., in caso di deposito necessario (l’articolo usa il plurale “i depositi necessari”), cioè quello fatto in caso d’incendio, rovina, tumulto o naufragio, nonché nei depositi «fatti dai viaggiatori negli alberghi dove alloggiano, od ai vetturini che li conducono, e tutto ciò secondo la qualità delle persone e le circostanze del fatto». Altre ipotesi sono previste dai punti 1° e 3° del citato articolo 1348 c.c.

Tali ipotesi, che fanno eccezione insieme a quelle previste dall’art. 1347 c.c. alle regole previste dall’art. 1346 c.c., enunciate nel II comma del suddetto articolo (=1348 c.c.), come precisato dalla dottrina e dalla giurisprudenza dell’epoca, non sono tassative. Ciò si dedurrebbe dall’espressione «ogniqualvolta»: quindi basta dimostrare l’impossibilità di procurarsi una prova scritta per essere ammessi alla prova per testimoni. La giurisprudenza enuncia alcuni casi in cui ciò può avvenire. Ad esempio quando chi vuole produrre la prova non fece parte del contratto o dell’atto sul quale esiste controversia (Cass. Torino, 26 maggio 1888, in La Legge ’89, I, 155; nonché Cass. Torino, 21 novembre 1887, in La Legge 1888, I, 78 ed altre); quando si tratta di onorari dovuti a medici per l’opera da essi prestata (Cass. Napoli, 17 maggio 1888, in La Legge ’89, I, 193 e G.I. ’88, I, 1, 530); quando si tratta di emolumenti dovuti a precettori (Cass. Napoli, 6 marzo 1886, in La Legge ’86, II, 235 e G.I., ’86, I, 1, 225); quando si vuole dimostrare che l’obbligazione deriva da causa illecita (Cass. Palermo, 13 maggio 1885, in La Legge ’86, I, 90 e Cass. Napoli, 19 maggio 1886, in Gazz. Proc., XXI. 149); quando si voglia soltanto stabilire la causa, non l’ammontare dell’obbligazione (Cass. Firenze, 31 marzo 1885, in La Legge ’85, I, 762); quando si vuol dimostrare che il debitore, ricevuta la quietanza, non volle né restituirla e né pagare, incorrendo così in responsabilità civile (Cass. Torino, 26 novembre 1888, in La Legge ’89, I, 227); quando, in generale, per effetto di un delitto, manchi una prova scritta (Cass. Napoli, 17 agosto 1886, in Gazz. Proc., XXI, 268, idem 10 aprile 1883, in La Legge’83, II, 554 ed altre); quando si vuole provare la forza maggiore di cui all’art. 1845 c.c. (Cass. Napoli, 16 giugno 1886, in Gazz. Proc., XXI, 194) o qualunque altra tipologia di forza maggiore, come ad esempio il furto, quale causa della perdita del documento (Cass. Roma, 21 luglio 1886, in C.S.R. ’86, 1021), anche quando la forma scritta sia richiesta ad substantiam (Cass. Torino, 5 dicembre 1884, in G.I., ’85, I, 1,108); quando trattasi di obbligazioni nascenti da delitto (Cass. Torino, 13 marzo 1889, in La Legge ’89, I, 734); quando un contraente vuole provare l’errore di cui all’art. 1110 c.c. (Cass. Torino, 29 dicembre 1885, in G.I. ’86, I, 1, 100); quando si vuol provare l’elemento della frode (consilium fraudis) di cui all’art. 1235 c.c. (Cass. Firenze, 6 giugno 1887, in La Legge ’87, II, 727); quando si tratta di contratti di bestiami seguiti nelle fiere e nei mercati, senza che possa opporsi la possibilità di procurarsi in seguito una prova scritta, giacchè l’impossibilità di cui parla qui la legge, è quella che si verifica nell’atto in cui sorge l’obbligazione (Cass. Roma, 29 gennaio 1883, in La Legge ’83, I, 436, e G.I., 1883, I, 1, 300); quando il contratto, risultante da atto pubblico, è simulato allo scopo di frodare la legge, come ad esempio allo scopo di autorizzare il creditore ad appropriarsi del pegno (Cass. Napoli, 22 maggio 1886, in G.I., ‘86, I, 1, 630); infine quando si tratti di disposizioni di ultima volontà, irreperibili a causa della frode o del dolo di qualcuno (Cass. Roma, 28 maggio 1889, in La Legge ‘90, I, 435).

Per quanto riguarda il caso fortuito, a cui fa riferimento il II comma dell’art. 1348 c.c. la giurisprudenza dell’epoca ha specificato che esso non va confuso con la forza maggiore. Infatti nel primo sono ricompresi gli eventi derivanti da forze naturali, mentre la seconda è un effetto di un atto dell’autorità o di un terzo, legittimo o illegittimo. Di conseguenza, il solo smarrimento del titolo, dovuto a negligenza del suo possessore, non rientra nella disposizione eccezionale in commento[7].

Sono contenuti nella sezione V del codice abrogato anche gli artt. da 1866 a 1868 c.c. che disciplinano il deposito presso gli osti e gli albergatori. Tali articoli sono stati esplicitamente abrogati con regio decreto-legge 12 ottobre 1919 n. 2099. La materia è stata infatti disciplinata dagli artt. 11-15 di tale decreto.

La definizione di deposito necessario che si trova nell’art. 1864 del c.c. del 1865 rispecchia quella contenuta in D.16.3.1 §§1-4, dove Ulpiano riporta il testo dell’editto introduttivo dell’actio depositi in factum. Il giurista cita tra virgolette le parole del pretore: l’oggetto del deposito necessario è ciò che sia stato depositato a causa di tumulto, di incendio, di rovina o di naufragio. In tali casi il pretore accorda al depositante un’azione in duplum, cioè per il doppio del valore della cosa, contro il depositario che non abbia restituito la cosa depositata o l’abbia restituita danneggiata, che equivale a non averla restituita con dolo[8]. Mentre in caso di deposito volontario è accordata un’azione in simplum, per il semplice valore della cosa.

Il §1 (D.16.3.1) distingue a seconda che la mancata restituzione sia avvenuta per dolo di chi sia morto, nel qual caso contro il suo erede sarà esperibile un’actio in simplum; o per dolo dell’erede stesso: in questo caso il pretore accorda un’azione per il doppio[9].

Ulpiano commenta nel §2 (D.16.3.1) che il pretore giustamente ha tenuto distinte le cause di deposito necessario da quelle di deposito volontario: le prime sono quelle «che contengono un motivo fortuito che ha spinto a deporre», non dipendente dalla volontà, ma derivante dalla necessità. Nel §3 si specifica che colui che deposita a titolo di deposito necessario non ha altro motivo per deporre che un pericolo imminente dovuto alle ipotesi sopra descritte. Nel §4 si trova esplicitata la ratio della distinzione di cause[10] e della differenza di condanna, come detto, in simplum ed in duplum. Infatti in caso di deposito volontario il deponente ha la possibilità di scegliere la persona alla quale affidarsi e di conseguenza, in caso di mancata riconsegna e di conseguente condanna del depositario, «dovrà accontentarsi del simplum»[11]. Qualora invece il deposito sia avvenuto in conseguenza di una pressante necessità (deposito necessario), il fatto che il depositario non restituisca è ritenuto più grave: egli compie un crimen perfidiae più grave. Di conseguenza la “publica utilitas” esige un intervento repressivo. Nei casi di deposito necessario la violazione della fides è contraria all’utilitas[12]. La maggior gravità sopra descritta comporta che il depositario sarà condannato al doppio del valore della cosa depositata.

In D.16.3.18 Nerazio[13], sempre con riferimento al deposito effettuato in caso di incendio, rovina o naufragio, specifica che l’azione contro l’erede, nel caso in cui la mancata restituzione sia imputabile a dolo del defunto, sarà in simplum, nei limiti della quota ereditaria ed esperibile entro un anno. Nel caso invece di dolo dell’erede l’azione in duplum è data per l’intero ed “in perpetuum”.

Un riferimento all’actio in duplum in caso di deposito necessario si trova anche nel titolo X della Mosaicarum et Romanarum legum collatio[14], dove si distingue, per quanto riguarda le tipologie di azioni, tra comodato e deposito: l’azione di comodato spetta sempre in simplum, mentre l’azione di deposito vero nonnumquam in duplum, specificamente in caso di deposito necessario, del quale sono elencati i casi (rovina, naufragio, incendio o tumulto).

Probabilmente tale condanna più severa costituisce un retaggio del fatto che il deposito nel diritto romano non nacque come contratto. Infatti la legge delle XII tavole (Pauli Sent., II.12.11; Coll. X.7.11) sanzionava come delitto l’infrazione della fides da parte di colui che si era assunto l’impegno di custodire e restituire la cosa ricevuta. «Come la fiducia, come il comodato, come il pegno, il deposito percorse una fase iniziale in cui fu privo di riconoscimento e difesa contrattuale. Rei vindicatio, actio poenalis ex lege XII tabularum, actio legis Aquiliae per i deterioramenti imputabili al depositario, sono i mezzi processuali concessi originariamente al deponente»[15].

In Coll. X, 7, 11 infatti si trova scritto che in base alla legge delle XII tavole è data un’azione in duplum, dall’Editto del pretore in simplum.

Nel secondo libro delle Pauli Sententiae[16] (Coll. X.7.3) si afferma che è da ritenersi che sia concluso un deposito (deponere videtur)  nel caso in cui taluno depositi presso un altro, con scopo di custodia, avendo paura di una rovina, di un incendio o di un naufragio. In Coll. X.7.6 si precisa che la responsabilità per le cose depositate è limitata al dolo (dolus tantum praestari solet).

Il Massetto osserva che «con il deposito necessario si è in effetti nel campo penale, per quanto riguarda la tutela giudiziaria», in quanto penale è il carattere dell’actio in duplum concessa al deponente per far valere le proprie pretese in giudizio. L’Autore osserva poi che i giuristi intermedi, pressochè concordemente, definiscono tale azione poenalis, ovvero mixta, in quanto contiene la persecutio sia della cosa oggetto del deposito che della pena[17].

Lo stesso Autore ricorda l’influenza del diritto romano in tema di deposito necessario sull’art. 1949 del Code Napoleon. Infatti tale articolo «dopo aver detto dell’incendio, del crollo, del saccheggio, lascia all’interpretazione la cura di apprezzare gli altri avvenimenti di forza maggiore che sottomettono l’autore ad una imperiosa necessità»[18].

Il riferimento all’actio mixta di deposito si trova in Inst. 4.6.17. Qui Giustiniano dopo aver fatto presente le azioni che hanno lo scopo di rivendicare una cosa sono tutte in rem e che anche le azioni in personam ex contractu hanno quasi tutte lo scopo di perseguire la restituzione[19] si sofferma sull’actio depositi. Nel caso si agisca con tale azione e il deposito sia avvenuto per causa di tumulto, di incendio, di rovina o di naufragio il pretore dà l’actio in duplum per dolo del depositario o per dolo del suo erede: in tal caso l’azione è mista. Altro riferimento esplicito al deposito necessario nelle Istituzioni di Giustiniano si trova in Inst. 4.6.23, laddove depositi ex quibusdam casibus si riferisce ai casi di deposito necessario. Un riferimento all’actio in duplum di deposito si trova anche in Inst. 4.6.26, affiancato all’actio in duplum ex lege Aquilia[20]. Entrambe sono al contempo penali e reipersecutorie. La ratio dell’actio in duplum in caso di deposito necessario è ovviamente diversa: si persegue sia l’interesse alla restituzione che quello alla “punizione”, essendo come visto sopra più biasimevole il comportamento di chi non restutisce una cosa depositata in caso di deposito necessario.

Nel codice penale vigente il riferimento al deposito necessario è nel II comma dell’art. 646 c.p. che però non lo definisce, pur considerandolo un’aggravante dalla cui applicazione deriva la procedibilità d’ufficio del reato, al contrario di quanto previsto nell’ipotesi base del reato di appropriazione indebita di cui al I comma dell’art. 646 c.p., dove è prevista la procedibilità a querela[21]. Una recente dottrina[22] definisce il deposito necessario previsto dal II comma dell’art. 646 c.p. come quel deposito che «si costituisce sotto l’impero della necessità, senza avere alcuna libertà di scelta (come nel caso di incendio, naufragio o altro avvenimento non preveduto)»; dunque la ratio dell’aggravante – di cui al II comma – risiederebbe nella particolare situazione in cui viene a trovarsi il depositante: egli non ha la possibilità di scegliere con cautela la persona del depositario. L’aggravante di cui al II comma dell’art. 646 c.p. è speciale rispetto a quella del n. 5 dell’art. 61 c.p. Come è noto infatti sono speciali le aggravanti previste per uno o più reati determinati. Si tratta di un’aggravante ad efficacia comune, in quanto nel caso in cui non sia indicata la misura dell’aumento di pena, questo deve essere inteso in misura frazionaria fino ad un terzo, secondo quanto indicato nell’art. 64 c.p. A mio avviso, in base alle ulteriori differenziazioni operate dalla dottrina, l’aggravante di essersi appropriato di cose possedute a titolo di deposito necessario, può essere considerata intrinseca, in quanto attiene alla condotta illecita, non essendo infatti estranea all’esecuzione del reato; concomitante, in quanto accompagna la condotta del reo.

Dall’applicazione dell’aggravante costituita dall’essersi appropriato di cose possedute a titolo di deposito necessario deriva dunque un aumento di pena (art. 646 capoverso).

Per l’ipotesi di cui al comma 3 dell’art. 646 c.p. la procedibilità è d’ufficio, anche se ricorre taluna delle circostanze ex art. 61 n. 11 c.p., ossia nei casi di abuso di autorità, di relazioni domestiche o d’ufficio, di prestazione d’opera, di coabitazione, di ospitalità. «L’aggravante si fonda sul concetto di abuso, da intendere come violazione di un particolare dovere dell’agente o almeno come deviazione dal medesimo. La ratio sta questa volta, nella maggior antisocialità e pericolosità che il colpevole dimostra approfittando di contingenze eccezionali, della diminuita difesa o della particolare fiducia che il soggetto passivo in lui ripone»[23].

Altre ipotesi di appropriazione indebita si trovano nell’art. 647 c.p., nell’art. 235 e 236 del c.p.mil.p. e negli artt. 1144-1147 c.nav.[24]

In dottrina c’è chi come l’Antolisei sostiene che l’aggravante, consistente nell’aver commesso il fatto su cosa posseduta a titolo di deposito necessario, deve ritenersi ancora in vigore nonostante l’abrogazione della norma di cui all’art. 1864 c.c. del 1865 e che il deposito necessario a cui fa riferimento il capoverso dell’attuale art. 646 c.p. sia quello al quale il depositante è costretto a seguito di un qualunque accidente, come un incendio, una rovina, un saccheggio, un naufragio o un altro avvenimento imprevisto, «vale a dire il deposito che si costituisce sotto l’impero della necessità, senza avere alcuna libertà di scelta». L’Autore ritiene irrilevante ai fini penali che il nuovo codice civile non abbia conservato la figura del deposito necessario, perché «il nostro codice con l’espressione usata ha fatto richiamo alle situazioni di fatto che, secondo la legislazione civile del tempo in cui andò in vigore, costituivano il detto deposito, nella cui fattispecie…erano senza dubbio compresi anche gli avvenimenti imprevedibili di carattere individuale»[25].

Il Fiandaca e il Musco dopo aver affermato che per deposito necessario deve intendersi quello definito dall’art. 1864 del codice abrogato, trattandosi di definizione tutt’ora valida, precisano che «la “necessità” va concepita in senso non già assoluto ma relativo». Ritengono poi, che «si tratta di una circostanza che trova spiegazione nella impossibilità di presciegliere con ponderazione il depositario»[26].

Dello stesso avviso il Mantovani, il quale ritiene che «la ratio dell’aggravante, speciale rispetto a quella dell’art. 61 n. 5, va individuata nella impossibilità di scegliere con cautela il depositario. Il deposito necessario è – secondo la definizione dell’art. 1864 del codice civile abrogato, tutt’ora valida, anche se tale figura non fu conservata nel vigente codice civile, riferendosi l’art. 646 alla situazione di fatto espressa dalla legge civile dell’epoca – il deposito costituito non liberamente, ma sotto l’impero della necessità (per qualche incidente, come un incendio, una rovina, un saccheggio, un naufragio o altro avvenimento non preveduto). Anche se la necessità va intesa in senso non assoluto, ma relativo: come costrizione all’affidamento, senza che sia esclusa ogni possibilità di scelta»[27].

Anche altri Autori ritengono che la necessità vada intesa in senso relativo, limitativo della libertà di scelta e che, in particolare, concernendo le modalità dell’affidamento, abbia natura soggettiva[28]. Un’altra parte della dottrina, commentando l’aggravante riguardante il deposito necessario, fa esclusivo riferimento al deposito in albergo, di cui agli artt. 1783 ss. c.c. vigente[29].

Recentemente la Suprema Corte, con sentenza del settembre 2013, ha affermato che il contratto di albergo costituisce un contratto atipico o misto, con il quale l’albergatore si impegna a fornire al cliente, dietro corrispettivo, una serie di prestazioni eterogenee, quali la locazione di alloggio, la fornitura di servizi o il deposito.

Una breve digressione per ricordare come la storia del reato di appropriazione indebita è legata a quella di un’altra fattispecie, che nel codice penale è disciplinata poco prima (artt. 624 e ss. c.p.). In origine, le condotte dell’uno e dell’altro reato, confluivano in un’unica fattispecie criminosa e l’appropriazione veniva indicata con il nome di furtum improprium: un’offesa alla proprietà disgiunta dal possesso.

Una parte di dottrina risalente individuava l’oggettività giuridica del reato di appriopriazione indebita nella tutela del rapporto fiduciario tra il proprietario e la persona che doveva restituire la cosa posseduta. Ciò sulla base della struttura della fattispecie contenuta nel codice penale abrogato. Ad esempio il Petrocelli sostiene che la caratteristica del reato consiste nella violazione della fiducia che è insita nel rapporto da cui trae origine il possesso, giacchè l’art. 417 del codice Zanardelli richiedeva un atto di affidamento o consegna[30].

Come si può notare osservando l’attuale formulazione del reato di appropriazione indebita, non è più necessario il requisito del previo affidamento dell’oggetto al depositario o della consegna a quest’ultimo. Infatti la previsione della circostanza aggravante consistente nell’appropriazione di cose detenute a titolo di deposito necessario può essere intesa come indice del fatto che il rapporto di fiducia, anche se ricorre nella maggior parte delle ipotesi, non è più elemento indefettibile del reato. Nel caso risolto definitivamente dalla Corte di Cassazione nel 2012, probabilmente non c’erano stati l’affidamento e la consegna da parte della vittima dell’incidente automobilistico al carabiniere[31].

Nel codice penale vigente infatti non figura più il requisito dell’affidamento o della consegna. Esso è stato soppresso, come si rileva dalla Relazione ministeriale sul Progetto del codice penale per ampliare la portata del delitto[32]. Dunque attualmente si ritiene che oggetto giuridico dell’appropriazione indebita siano le relazioni di proprietà e di godimento della cosa, visto che soggetto passivo e quindi titolare del diritto di querela (nell’ipotesi di cui al I comma dell’art. 646 c.p.) non è il solo proprietario[33].

La giurisprudenza maggioritaria ritiene che la consumazione del reato si verifichi nel momento e nel luogo di interversione del titolo del possesso[34] e cioè quando l’agente tiene consapevolmente un comportamento oggettivamente eccedente la sfera delle facoltà ricomprese nel titolo del suo possesso ed incompatibile con il diritto del proprietario, in quanto significativo dell’immutazione del mero possesso in dominio.

Altra giurisprudenza ritiene invece che l’evento del reato si realizzi nel luogo e nel tempo in cui la manifestazione della volontà dell’agente di fare proprio il bene posseduto giunge a conoscenza della persona offesa, e non nel luogo e nel tempo in cui si compie l’azione[35].

Anche nel peculato l’elemento oggettivo consiste nell’appropriazione. Quest’ultima si realizza in sostanza con l’interversione del titolo del possesso, quando il soggetto attivo inizia a comportarsi uti dominus nei confronti del bene o dei beni altrui di cui ha il possesso per ragioni d’ufficio o di servizio[36].

È necessario rifarsi anche nel caso dell’appropriazione indebita alla nozione di possesso accolta dal diritto penale[37], più ampia di quella civilistica, in base alla quale è possessore chiunque esercita un autonomo potere di fatto sulla cosa, incluso chi ne abbia la sola detenzione, a qualsiasi titolo, purchè esplicantesi al di fuori della diretta vigilanza del possessore o di altri che abbia sulla cosa un potere giuridico maggiore. Ai fini della distinzione con il furto è allora decisiva l’indagine circa il potere di disponibilità sul bene da parte dell’agente: se questo sussiste, il mancato rispetto dei limiti in ordine alla utilizzabilità integra appropriazione indebita; in caso contrario – e cioè in caso di sottrazione finalizzata a conseguire quel possesso – è configurabile il furto.

Il Mantovani osserva che il «il presupposto positivo del “possesso” nell’agente non è requisito essenziale e qualificante della categoria unitaria dei reati di appropriazione, che presentano come denominatore comune il presupposto negativo della mancanza della disponibilità materiale della cosa altrui». L’Autore ritiene che il presupposto positivo del possesso da parte dell’agente serva soltanto a differenziare, all’interno della categoria dei reati appropriativi, i reati di appropriazione di cui agli artt. 646 c.p., 235 c.p.mil.p. e 1144 cod. nav., «per i quali la legge richiede il presupposto possessorio, da intendersi nel generico senso di disponibilità materiale della cosa, come autonomo potere materiale sulla stessa»; dai reati minori di appropriazione, di cui agli artt. 647, nn. 1 e 2 c.p., 1146 e 1147 cod. nav., per i quali la legge richiede soltanto particolari condizioni della cosa (cosa smarrita, tesoro, relitti marittimi o aerei, nave naufragata o aeromobile perduto) ed implicanti tutti la mancanza di disponibilità materiale della cosa, vale a dire dell’autonomo potere materiale sulla stessa[38].

La condotta punita consiste nell’appropriazione, tradizionalmente intesa, anche dalla stessa Relazione ministeriale al progetto di codice penale, quale interversione del possesso. Una parte della dottrina riconduce la condotta nello schema tracciato dagli artt. 1141 e 1164 c.c. per descrivere il comportamento di chi, possedendo inizialmente per conto di altri, comincia a possedere per conto proprio animo domini[39].

Sono necessari per l’integrazione del reato in questione due profili dell’elemento oggettivo: uno negativo, da Alcuni definito “espropriativo”, consistente nella definitiva esclusione del proprietario, ed uno positivo, “impropriativo”, consistente nella creazione di un nuovo rapporto di fatto con l’oggetto materiale dell’azione.

La giurisprudenza e la dottrina maggioritaria individuano un elemento psicologico nell’intenzione di convertire il possesso in proprietà, che si affianca all’elemento oggettivo di comportarsi nei confronti dell’oggetto di cui ci si è appropriati, uti dominus. Tale elemento psicologico va tenuto distinto dal dolo specifico che è elemento soggettivo necessario per l’integrazione del reato. Infatti come di recente precisato in giurisprudenza[40] il dolo richiesto è specifico, consistendo nella coscienza e volontà del fatto appropriativo, accompagnata dall’ulteriore fine di procurare a sé o ad altri un ingiusto profitto: un qualsiasi vantaggio o utilità, avente carattere non necessariamente materiale o economico, purchè ingiusto.

Una parte della dottrina risalente riteneva invece che il dolo fosse generico[41].

Anche nel reato di peculato sono necessarie l’interversio possessionis ed il comportamento uti dominus dell’agente[42]. Infatti il delitto si consuma quando il soggetto inizia a comportarsi nei confronti della res come se fosse proprietario.

Quanto alla differenza con il reato di peculato, che viene in considerazione nel caso in esame, vi è in primo luogo la qualifica richiesta per la configurazione del reato di cui all’art. 314 c.p., che lo rende un reato proprio, al contrario dell’appropriazione indebita, reato comune, come si nota dall’incipit della norma che lo disciplina: “chiunque…”[43].

In secondo luogo, mentre nell’appropriazione indebita è sufficiente la mera disponibilità della cosa, una semplice relazione materiale tra il soggetto autore della condotta e l’oggetto di cui l’agente intende appropriarsi, nel peculato è necessario un titolo giuridico per effetto del quale il soggetto attivo abbia conseguito la disponibilità del denaro o della cosa. Nel caso di cui alla sentenza in commento, come sopra esposto, il carabiniere aveva titolo giuridico per essere in possesso del cellulare.

Oggetto giuridico della tutela penale nel peculato, è non solo la tutela del regolare funzionamento e del prestigio degli enti pubblici ma anche quello di impedire danni patrimoniali alla pubblica amministrazione; si tratta infatti, secondo la dottrina e la giurisprudenza prevalenti, di un reato plurioffensivo[44], i cui beni giuridici tutelati sono il buon andamento della pubblica amministrazione, il suo patrimonio e dopo la riforma operata nel 1990 con la l. 26 aprile 1990 n. 86 anche gli interessi patrimoniali dei privati[45].

Infatti soggetto passivo può essere tanto la pubblica amministrazione, quanto il privato cittadino, a seconda dell’appartenenza della cosa oggetto dell’appropriazione.

Nell’appropriazione indebita invece l’oggetto materiale è solo il denaro o la cosa mobile altrui.

Con riferimento all’elemento soggettivo va precisato che mentre nell’ipotesi di cui al comma I dell’art. 314 c.p. il dolo è generico, consistendo nella coscienza e volontà dell’appropriazione; differentemente, al II comma l’art. 314 c.p. richiede, al fine del configurarsi del c.d. peculato d’uso, il dolo specifico, sostanziandosi questo reato nell’appropriazione della res, allo scopo di farne un uso solo momentaneo, nell’ottica di una immediata restituzione. La giurisprudenza esige che l’utilizzo momentaneo della res pregiudichi in modo apprezzabile i beni giuridici protetti, altrimenti non può considerarsi integrato il reato di peculato d’uso, per difetto di concreta offensività.

Di recente la Corte di Cassazione a Sezioni Unite[46] ha ritenuto integrato il reato di peculato d’uso, di cui al II comma dell’art. 314 c.p., nella condotta del pubblico agente che, utilizzando illegittimamente per fini personali il telefono assegnatogli per ragioni di ufficio, produca un apprezzabile danno al patrimonio della pubblica amministrazione o di terzi, o una concreta lesione alla funzionalità dell’ufficio.

 

 



 

(*) Il presente lavoro costituisce una riproduzione, con opportuni ampliamenti ed aggiornamenti, di una lezione da me tenuta il 10 maggio 2013 presso l’Università Cattolica del Sacro Cuore di Milano.

 

[1] Nel corso della sentenza si trova infatti scritto «il g.u.p. del Tribunale ha deciso…».

 

[2] Nella pratica ho potuto sperimentare che il rito abbreviato viene spesso scelto da imputati (palesemente) colpevoli, dove la condanna può oscillare tra una pena maggiore o minore, magari in alcuni casi a seconda della qualificazione del fatto, ma comunque si è sicuri o quasi sicuri che si verrà condannati. Ad esempio in caso di spacciatori sorpresi in flagrante o di persone arrestate per furto aggravato, al cui arresto in flagranza segue giudizio direttissimo.

 

[3] Interessante a mio avviso una recente pronuncia della Suprema Corte (Cass. pen., 3 dicembre 2012, n. 46629) in tema di appropriazione indebita di cui all’art. 646 c.p., in base alla quale anche se il valore economico dei beni è minimo, la stessa strumentalità della condotta del reato di appropriazione indebita costituisce indubbio sintomo di offensività del reato.

In base alla c.d. concezione realistica del reato, accolta anche dalla Corte Costituzionale (si veda ad es. sul punto Corte Cost. n. 360 del 1995, in Foro it., 1995, I, 3083), il giudice di merito deve accertare in concreto l’offensività del reato in questione e solo in caso positivo condannare: ai fini della consumazione del reato insomma è necessaria l’offesa al bene protetto. Al contrario, chi aderisce ad una nozione di antigiuridicità in senso formale, esclude che l’offesa sia elemento della fattispecie, rilevante ai fini della consumazione. È sufficiente infatti che il fatto concreto corrisponda al fatto legale.

Anche in tema di peculato non mancano pronunce nel senso che la mancanza di danno patrimoniale non esclude la configurabilità del reato stesso: cfr. Ex plurimis Cass. pen., n. 2963 del 2005; Cass. pen., n. 8009 del 1993. Nel caso del peculato, a mio avviso, è già più comprensibile tale orientamento, trattandosi di reato plurioffensivo. Quindi anche se non ci sia un danno patrimoniale può essere comunque configurabile una lesione dell’imparzialità e del buon andamento della pubblica amministrazione, tutelato dall’art. 97 Cost.

 

[4] Il telefono cellulare.

 

[5] Sia per l’appropriazione indebita, di cui all’art. 646 c.p., che per il peculato, di cui all’art. 314 c.p., è necessaria una interversio possessionis. Si veda con riferimento alla prima: Cass. pen., sez. II, n. 38604 del 2007 in base alla quale pronuncia il reato di appropriazione indebita è integrato dalla mera interversione del possesso che sussiste anche in caso di mera detenzione qualificata, consistente nell’esercizio sulla cosa di un potere di fatto esercitato al di fuori della sfera di sorveglianza del titolare; conf. Cass. pen., sez. II, n. 5523 del 1991. Con riferimento al peculato cfr. Ex plurimis Cass. pen., sez. VI n.1256 del 2004; conf. Cass. pen., sez. VI, n. 8277 del 1980.

 

[6] Un’altra eccezione è prevista dall’art. 1347 c.c.

 

[7] Cfr. Ex plurimis Cass. Torino, 9 maggio 1893, in G. ’93, 370; App. Bologna, 27 ottobre 1893, in Mon. Giur. ’94, 183. Vi rientra invece il caso della sottrazione, che per chi ne è rimasto vittima, costituisce caso fortuito e forza maggiore (Cass. Roma, 22 giugno 1894, in C.S.R. ’94, II, 187).

 

[8] Cfr. sul punto D.16.3.1.16 (si res deposita deterior…): «se si restituisca deteriorata la cosa depositata si può agire con l’azione di deposito, come se non fosse stata restituita: quando infatti si restituisce una cosa deteriorata, si può dire che, per dolo, non fu restituita». Traduzione tratta da SCHIPANI (a cura di), Iustiniani Augusti Digesta seu Pandectae. Testo e traduzione, III (12-19), Milano 2007, 243-244.

 

[9] D’altronde i fatti delittuosi e lesivi seguono l’autore, come si trova scritto in D.16.3.1.18, con riferimento al caso di deposito presso un servo, poi manomesso.

 

[10] Di deposito volontario e di deposito necessario.

 

[11] Un concetto analogo lo si trova anche in D.44.7.1.5 Gaio, secondo libro aureorum: chi affida una cosa da custodire ad un amico negligente deve dolersi di se stesso (“… qui neglegenti amico rem custodiendam committit de se queri debet…”). Il depositario infatti risponderà soltanto per dolo. Tuttavia in fine del frammento è specificato che magnam tamen neglegentiam placuit in doli crimine cadere.

Tale parte di frammento è quasi identica alla parte finale di  Inst. 3.14.3: “…qui neglegenti amico rem custodiendam tradidit”. “Così in alcuni Cod.: i più antichi hanno tradit”: ARANGIO RUIZ – GUARINO, Breviarum Iuris Romani, Milano 1983, sesta edizione, 344 nt. 1. Nell’indice del Breviarium si trova una distinzione tra depositum necessarium, la quale voce rimanda alla definizione di D.16.3.1.1 e depositum miserabile che rimanda alle Istituzioni di Giustiniano (probabilmente a Inst. 3.14.3 con un refuso nell’indicazione della pagina): ARANGIO RUIZ – GUARINO, Breviarum cit., 909. La massima della sentenza oggetto del presente lavoro, come anche alcune opere romanistiche che ho consultato, equiparano invece il deposito necessario a quello miserabile, menzionando i due aggettivi in via alternativa.

 

[12] Cfr. per la traduzione ed un succinto commento del frammento in questione G. NEGRI (a cura di), Antologia del digesto giustinianeo. Testo, traduzione e note ad uso degli studenti, Como 1993, 37-39 e 41 ntt. 1-2-3. Dello stesso Autore si veda anche Deposito nel diritto romano, medievale e moderno, in Digesto delle Discipline privatistiche, sezione civile, Torino 1989, 223. Sulla ratio della tutela più rigorosa in caso di deposito necessario: ROTONDI, La misura della responsabilità nell’‘actio’ depositi, in AG, 83 (1909), 269 ss., ora in Scritti, 2, Milano 1922, 130; LONGO, Corso di diritto romano. Il deposito, Milano 1933, 106 ss.

 

[13] Frammento tratto dal secondo libro delle membranae  di Nerazio.

 

[14] Coll. X.2.7.

 

[15] ALBERTARIO, voce Deposito – Diritto romano, in Enc. It., XII, I appendice, Roma 1938, 633. Si è occupato in particolare dell’istituto del deposito necessario GRAGLIA, Il deposito necessario, Asti 1905.

 

[16] Sub titulo De deposito.

 

[17] MASSETTO, Ricerche sul deposito necessario nella dottrina del diritto comune, Roma Pontificia Università Lateranense, 1978, 229 nt. 14. Estratto da Studia et documenta historiae et iuris, XLIV (1978), 219-320.

 

[18] MASSETTO, Ricerche cit., 241 e nt. 41 della medesima pagina.

 

[19] Come nel caso del mutuo, del comodato, del deposito, ecc.

 

[20] L’azione di legge Aquilia è in simplum in caso di confessio, in duplum in caso di infitiatio. Il riferimento all’azione di legge Aquilia si trova anche in Inst. 4.6.19 e Inst. 4.6.23.

 

[21] La perseguibilità d’ufficio può rivelarsi utile ad esempio quando sono scaduti i termini ex art. 124 c.p. per la proposizione della querela.

 

[22] Cfr. GAROFOLI, Manuale di diritto penale, Parte speciale, tomo III (art. 624-733 bis), Roma 2013, 264.

 

[23] GAROFOLI, Manuale cit., 264.

 

[24] Si veda sul punto CIPOLLA, I delitti di appropriazione indebita, Padova 2005; D. ANGELOTTI, Le appropriazioni indebite, Roma 1930.

 

[25] ANTOLISEI, Manuale di diritto penale. Parte speciale, vol. I, XV edizione integrata ed aggiornata da F. GROSSO, Milano 2008, 357. Nello stesso senso anche una parte della dottrina successiva tra cui FIORE (Trattato diretto da), I reati contro il patrimonio, Torino 2010, 323 ss. La Testa, che si occupa della parte sull’appropriazione indebita, ritiene che si possa utilizzare la definizione del codice del 1865 e che  per deposito necessario possa intendersi anche altro avvenimento non preveduto.

 

[26] FIANDACA-MUSCO, Diritto penale. Parte speciale, vol. II, tomo secondo. I Delitti contro il patrimonio, quinta ed., Bologna 2007 rist. 2013, 114. Cfr. anche Cass. 22 novembre 1972, in Cass. Pen. Mass. Ann., 1973, 711.

 

[27] MANTOVANI, Diritto penale. Parte speciale, II. Delitti contro il patrimonio, quarta edizione, Padova 2012, 121. Per la tendenza ad un’applicazione notevolmente ampia dell’aggravante cfr. anche nt. 123 della medesima pagina. Dello stesso Autore si veda anche Patrimonio (delitti contro il), in Enc. Giur. Treccani, vol. XXII, 1990.

 

[28] In tal senso PEDRAZZI, voce Appropriazione indebita, in Enc. Dir., Milano 1958, 85; contra MANZINI, Trattato di diritto penale italiano, IX, V ed., Torino 1987, 961; Cass. 19 luglio 1950 in Giust. Pen., 1952, 811 e Cass. 22 novembre 1973, 711. Entrambe le sentenze sono citate e commentate in LATTANZI-LUPO, Codice penale. Rassegna di giurisprudenza e di dottrina. I delitti contro il patrimonio, libro II (artt. 624-649) Milano 2010, 697 ss.

 

[29] La Menichino ad esempio, facendo una breve ricostruzione storica dell’istituto del deposito in albergo, qualifica quest’ultimo come deposito necessario. In realtà però tale non è qualificato dal codice civile attuale ed anche nel codice civile abrogato c’era soltanto una equiparazione di disciplina, con l’eccezione, come sopra visto di quanto statuito dall’art. 1348 c.c. MENICHINO, Clausole di irresponsabilità contrattuale, Milano 2008, 201 ss. A mio avviso la volontà del legislatore del codice abrogato di voler equiparare il trattamento del deposito presso osti ed albergatori a quello previsto per i casi di deposito necessario (art. 1864 e 1865) si può dedurre dalla lettera della norma di cui all’art. 1866, dove si legge «… il deposito di tali effetti deve riguardarsi come un deposito necessario». E tale equiparazione di disciplina giustifica l’inserimento degli artt. 1865, 1866, 1867 e 1868 (come sopra visto esplicitamente abrogati dopo l’emanazione del codice del 1865), all’interno della sezione V, del libro III, “Del deposito necessario”.

Sostanzialmente nello stesso senso della Menichino, dato che si riferisce soltanto agli artt. 1783 ss. c.c. vigente, anche RONCO, Codice penale ipertestuale commentato con banca dati di giurisprudenza e di dottrina, Torino 2007.

 

[30] PETROCELLI, L’appropriazione indebita, Napoli  1933, 114 ss.

 

[31] Il reato di peculato di cui all’art. 314 c.p., sussiste anche se il pubblico ufficiale non abbia la materiale consegna del bene e la sua diretta disponibilità; essendo in ogni caso sufficiente la disponibilità giuridica: Cass. pen, sez. I, 4 luglio 1996, Fanni, in Ced cass., rv. 205756 (m).

 

[32] Cfr. Relazione ministeriale sul Progetto del cod. pen., vol. II, 470 e in dottrina tra i tanti ANTOLISEI, Diritto penale cit., 344.

 

[33] Cfr. MANTOVANI, Diritto penale cit., 119 e nt. 116 della medesima pagina. Altri Autori individuano il bene protetto genericamente nel diritto di proprietà.

 

[34] Cfr. ex plurimis Cass. pen., sez. II, n. 35267 del 2007; Cass. pen., 20-03-2003, n. 12965; Cass. pen., sez. I, 11-07-2002 n. 26440; Cass. pen., sez. V, 21-1-99.

 

[35] Cass. pen., sez. II, 16-12-2004 n. 48438; conf. Cass. pen., sez. V, 4-04-2013 n. 88036 in Ced Cass., rv. 255572; Cass. pen., sez. II, 3-3-99 n.  2863 in Ced Cass., rv. 212867.

 

[36] Cfr. ex plurimis Cass. pen., n. 43279 del 2009; Cass. pen., n. 11451 del 1987.

 

[37] Cfr. sul punto NUVOLONE, Il possesso nel diritto penale, Milano 1942, 42 ss.; l’Antolisei, con riferimento ai delitti contro il patrimonio, dedica un intero capitolo all’argomento: ANTOLISEI, Diritto penale cit., 293 ss.; cfr. anche MANTOVANI, Diritto penale cit., 45 ss. Anche la giurisprudenza è nel senso di ritenere che il possesso è da intendersi in un’accezione molto più ampia di quella civilistica, sia per quanto riguarda il peculato (Cass. pen., sez. VI, n. 11633 del 2007; Cass. pen., sez. VI, n. 950 del 1986, Cass. n. 4651 del 1983; intendono il possesso come detenzione materiale e disponibilità giuridica Cass. pen., sez. I, n. 8647 del 1996; Cass. pen., sez. VI, n. 1443 del 1983), che per l'appropriazione indebita (Cass. pen., sez. II, n. 8196 del 1980); a proposito del diritto di querela, che spetta al soggetto, anche se diverso dal proprietario, che, «detenendo legittimamente ed autonomamente la cosa, ne abbia fatto consegna a colui che se ne sia appropriato illegittimamente»: Cass. pen., sez. II, n. 26805 del 2009.

 

[38] MANTOVANI, Diritto penale cit., 49-50.

 

[39] Cfr. GUIZZI, Guida alla giurisprudenza penale. Parte speciale. I singoli reati, Roma 2011, 27 ss.

 

[40] Cass. pen., n.  46629 del 2012.

 

[41] Si veda ad es. PAGLIARO, voce Appropriazione indebita, in Digesto delle discipline penalistiche, Torino 1987, 238. L’Autore ritiene che «in tutte le forme di appropriazione indebita, il dolo generico consiste nella volontà di appropriarsi la cosa…Il dolo generico può anche assumere la forma di dolo eventuale». Nello stesso senso anche Cass. pen., sez. II, n. 128040 del 1974.

 

[42] Cfr. ex plurimis:  Cass. pen., n. 43279 del 2009; Cass. pen., sez. VI, n. 1256 del 2004; Cass. pen., sez. VI, n. 11451 del 1987; Cass. pen., sez. VI, n. 8277 del 1980.

 

[43] Contra MANTOVANI, Diritto penale cit., 113. L’Autore ritiene infatti che soggetto attivo, nonostante l’art. 646 c.p. parli di «chiunque», sia solo il «possessore», «onde trattasi di reato proprio».

 

[44] Cfr. ex plurimis Cass. pen., sez. VI, 2-03-1999, n. 4328 in Cass. pen. 2000, n. 43 e Cass. pen., sez. VI, 10-06-1993, in Riv .pen. economia 1994, 226.

 

[45] Cfr. Cass. pen., sez. VI, 10-10-2012 n. 41676, Ced Cass., rv. 253986 (m), in cui la Suprema Corte ha ritenuto integrato il delitto di peculato, anche se il bene non apparteneva alla pubblica amministrazione.

 

[46] Cass. pen., S.U. 20-12-2012, n. 19054.