Convegno
“Nomen contractus.
Tutele edittali nella Roma
Classica”
Università
di Verona, 14 maggio 2013
Martedì
14 maggio 2013, nella cornice della sala Jacopo d’Ardizzone presso
l’Università degli Studi di Verona, si è tenuto il convegno
dal titolo «Nomen contractus. Tutele edittali nella Roma classica»,
organizzato dal Dipartimento di Scienze Giuridiche dell’ateneo scaligero,
sotto la direzione scientifica di Tommaso
dalla Massara e Carlo Pelloso,
all’interno della ricerca «Patti
tra pre-giuridico e giuridico» svolta nell’ambito del progetto
P.R.I.N. 2008 dal titolo «Conventio e
vinculum iuris: meritevolezza della
tutela e segni della giuridicità».
L’incontro
si è aperto con l’intervento di saluto di Paola Lambrini
(Università degli Studi di Padova), già responsabile scientifica
del suddetto progetto di ricerca, ora curato da Tommaso dalla Massara.
La
studiosa, nelle vesti di coordinatrice dei lavori, ha presentato il tema
oggetto della giornata di discussione, sottolineando, in particolare, la
ricchezza e fecondità che inevitabilmente caratterizzano il dibattito
riguardante la tutela delle convenzioni atipiche nella Roma classica, visto il
suo intrecciarsi con tematiche di ampio respiro e indubbio interesse, quali la
rilevanza dell’accordo nel fenomeno giuridico romano, l’esistenza e
la precisa fisionomia di concetti come la causa del contratto e la causa
dell’obbligazione, la natura e la funzione della sinallagmaticità
in ambito pattizio, o ancora la portata rimediale sussidiaria dell’actio de dolo per tutte le fattispecie
prive di tutela.
La
presidente, esaurita la breve introduzione, ha ceduto la parola a Giuseppe Romano (Università degli Studi di Palermo), per approfondire
il tema del «Riconoscimento e
tutela delle fattispecie contrattuali atipiche: interferenze tra logiche
argomentative e modelli processuali».
Il
relatore è immediatamente passato a illustrare per sommi capi
l’oggetto del proprio studio, concernente la valutazione delle
interferenze derivanti dal riconoscimento delle fattispecie contrattuali
atipiche sulla base di un modello argomentativo di carattere sillogistico o
analogico e degli strumenti processuali a tutela delle prerogative dei soggetti
coinvolti.
Riportati
gli orientamenti della giurisprudenza classica in riferimento al problema della
tutelabilità delle convenzioni non sussumibili entro uno schema edittale
tipico – riassumendo, cioè, le due differenti e ben note tesi di
Labeone e di Aristone, di cui dà contezza Ulpiano rispettivamente in D.
50.16.19 (Ulp. 11 ad ed.) e D.
2.14.7.2 (Ulp. 4 ad ed.) – e
dopo aver richiamato la copiosa dottrina espressasi sul tema, lo studioso ha
sottolineato come, a suo parere, soltanto la teoria aristoniana sia stata
specificamente elaborata in una prospettiva funzionale alla protezione
dell’atipicità contrattuale, mentre lo stesso non potrebbe dirsi
per la costruzione di Labeone, la cui portata sarebbe, di contro, eminentemente
descrittiva.
Precisato
che il collegamento ravvisato da molti autori tra le due impostazioni sarebbe
frutto di un certo pregiudizio nella lettura dei frammenti appena ricordati
– legato all’uso in entrambe le fonti del termine greco synallagma – Romano è
entrato nel cuore della propria trattazione, sviluppando il rapporto tra i
modelli argomentativi sillogistico e analogico nell’ottica di
riconoscimento e tutela delle fattispecie non sussumibili entro le ipotesi
edittali tipiche.
In
particolare è stato posto in evidenza come Labeone, con riferimento alle
convenzioni sine nomine, avesse
elaborato la propria teorica utilizzando il modello argomentativo di tipo
sillogistico-sussuntivo: definendo in termini generali la categoria del contractum, ricomprendente tutte le
convenzioni implicanti un’ultro
citroque obligatio, sarebbe discesa automaticamente la protezione mediante actio praescriptis verbis per tutte le
ipotesi dotate di tale struttura, senza che fosse necessario trovare una
similitudine con altre situazioni già tutelate.
Il
ragionamento di tipo analogico non troverebbe qui, pertanto, alcuno spazio e,
anzi, richiamarlo finirebbe con lo svilire la portata innovativa e
rivoluzionaria della stessa definitio labeoniana,
la quale smetterebbe di offrire tutela proprio nei casi in cui essa sarebbe
maggiormente necessaria, ossia in tutte le fattispecie che lo studioso chiama
‘atipiche pure’, perché prive di punti di contatto, anche
lontani, con le ipotesi nominate.
Per
queste ragioni, l’actio
praescriptis verbis, secondo lo studioso, non sarebbe stata l’adattamento puntuale di azioni di buona
fede già previste dall’editto – compiuto mediante
l’eliminazione della demonstratio e
l’inserimento di apposita praescriptio
– ma un’azione ad exemplum di
tipo generico, con struttura fissa e indicazione di tutte le peculiarità
della fattispecie: un’azione, in altre parole, radicalmente diversa da
quella generale bizantina, caratterizzata
da una ‘causalizzazione in concreto’ compiuta mediante
l’esposizione delle circostanze del caso concreto o attraverso il
richiamo esplicito di ipotesi oggi definite ‘socialmente tipiche’
(il riferimento, in diritto romano, è all’aestimatum o alla permutatio).
Una
prospettiva, quella labeoniana, che non sembrerebbe però – ad
avviso del relatore – essere priva di contraddizioni e incoerenze, come
attesterebbero passi quali D. 4.3.9.3 (Ulp. 11 ad ed.), nonché il già richiamato D. 2.14.7.2 (Ulp.
4 ad ed.), ove proprio il giurista
augusteo, seguito da Giuliano, prevedeva tutele diverse dall’actio praescriptis verbis nei casi di ultro citroque obligatio.
Proprio
a partire da questi frammenti Romano ha evidenziato come, nell’ottica
prettamente rimediale della giurisprudenza romana, il criterio di
riconoscimento sillogistico avesse una valenza residuale, operando cioè
in tutti quei casi in cui il criterio interpretativo analogico-assimilativo dei
prudentes non fosse stato in grado di
fornire – mediante adattamento dei rimedi tipici – gli strumenti
per la tutela delle convenzioni sine
nomine.
Questo
meccanismo emergerebbe con forza da D. 19.4.2 (Paul. 5 ad Plaut.), brano in cui Paolo riportava il pensiero di Aristone:
quest’ultimo, sviluppando il proprio pensiero in relazione a un caso di
permuta, richiamava la compravendita non tanto ai fini del riconoscimento della
fattispecie, bensì in relazione al regime della tutela azionabile.
I
due modelli conoscitivi appena richiamati sarebbero, quindi, in grado di
coesistere senza particolari difficoltà, visto il loro operare su piani
logici e metodologici differenti: l’approccio sillogistico, pur
residuale, avrebbe permesso di ascrivere le fattispecie atipiche alla categoria
del contractum, con le già
evidenziate conseguenze in punto di protezione; la prospettiva analogica
– o, meglio, paradigmatica, secondo l’insegnamento tramandatoci da
Aristotele – sarebbe stata sfruttata in punto di predisposizione dello
strumento processuale più adatto alla difesa delle prerogative del
contraente rispetto alla specificità del caso.
Esemplificando
quanto detto, lo studioso non ha mancato di evidenziare come il procedimento
paradigmatico applicato a un caso assimilabile alla compravendita avrebbe
comportato la protezione mediante azioni ricalcate su quelle ex empto o ex vendito, delle quali avrebbero preso struttura ed elementi
essenziali, ma che sarebbero risultate altresì arricchite di
informazioni sulle circostanze di fatto costituenti il presupposto per la
protezione stessa: il tutto a formare quella che Romano ha definito actio ad exemplum specifica o actio proxima (empti, venditi, etc.).
Al termine della relazione ha ripreso la parola la
presidente Paola Lambrini, che ha
presentato la seconda relazione della giornata, riguardante il «Problema del fieri della fattispecie contrattuale sine nomine e l’evizione dell’ob rem datum», affidata a Riccardo Fercia (Università
degli Studi di Cagliari).
Lo studioso, dopo aver sottolineato come
l’impostazione da lui seguita in tema di riconoscimento e tutela delle
convenzioni atipiche nell’esperienza romana fosse strettamente legata alle
riflessioni sviluppate da Luigi Garofalo nel saggio Gratuità e responsabilità contrattuale, ha analizzato
un famosissimo e assai studiato passo di Ulpiano, tratto dal quarto libro di
commento all’editto del pretore e collocato dai compilatori giustinianei
in D. 2.14.1.
Fercia ha dapprima evidenziato come nel testo siano
frequentemente utilizzati vocaboli quali fieri
e transire, sintomatici
dell’importanza attribuita all’iter
formativo dell’atto per la produzione degli effetti giuridici.
Ciò precisato, lo studioso è passato a
illustrare la classificazione ulpianea delle conventiones, condotta chiaramente con metodo diairetico,
proponendo una prospettiva interpretativa del tutto singolare: secondo il
relatore, il discorso del giurista severiano sarebbe privo di qualsiasi pretesa
dogmatica, essendo volto a suggerire alcuni dati fondamentali per orientare
l’interprete all’interno del sistema costituito dall’editto
del pretore.
In particolare, la dicotomia tra le convenzioni legitimae e quelle iuris gentium – a sua volta partizione delle conventiones ex privata causa – avrebbe avuto un preciso valore culturale
e pratico, in coerenza con le esigenze operative del tempo: Ulpiano si sarebbe
cioè mosso con il dichiarato intento di spiegare quali fossero le
ragioni storiche alla base delle differenti forme di tutela contemplate
dall’editto giulianeo per le convenzioni appartenenti a ciascuna di tali
categorie.
Se, difatti, esistevano figure contrattuali nate in una
con la civitas e successivamente
estese ai peregrini (mutuo, fiducia e stipulatio), altre – connotate dalla tutela ex fide
bona – erano da sempre condivise con le popolazioni straniere; una
distinzione, questa, che risaltava anche in relazione al loro perfezionarsi,
giacché, mentre per le prime serviva un elemento esterno per
l’entrata nel giuridico, per le seconde era sufficiente il mero consenso.
Proprio rispetto al riconoscimento e alla protezione
delle convenzioni sine nomine sarebbe
riemersa quella ‘dimensione quiritaria’ rappresentata dalla
necessaria sussistenza di un elemento formale chiaramente percepibile e
riconoscibile ab externo.
In relazione alla problematica in parola, il relatore ha
evidenziato come, al fine di una migliore comprensione della dinamica giuridica
sottostante, sia ineludibile volgere lo sguardo alla controversia tra sabiniani
e proculiani a proposito della permutatio
e, più in particolare, alla posizione sui generis presa da Aristone in tale contesto.
Il giurista, scolarca sabiniano ai tempi di Traiano,
accettava l’idea che la permuta non fosse identica all’emptio, ma soltanto a essa vicina,
così accogliendo in parte le idee della contrapposta secta; rimanendo, tuttavia, almeno in
parte fedele alla linea sabiniana, ritenendo che, malgrado la permuta non
potesse essere considerata un’emptio
‘tout court’, dovesse comunque essere approntata un’azione a
tutela dell’interesse positivo.
Ulpiano, secondo Fercia, avrebbe aggiunto ancora
qualcosa: con riferimento al ben noto caso del ‘dedi tibi Stichum ut Pamphilum manumittas: manumisisti: evcitus est
Stichus’ di cui a D. 2.14.7.2 (Ulp. 4 ad ed.), il giurista severiano aveva notato che non era più
possibile – per esplicito divieto – recuperare il manomesso alla
schiavitù, rendendosi pertanto necessario trovare una strada alternativa
per la tutela. In questo contesto, ha rimarcato lo studioso, si inserirebbe la reprehensio di Mauriciano, il quale
riteneva sufficiente l’aver posto in essere un atto idoneo a trasferire
la proprietà, anche a non domino,
per la concessione della tutela dell’interesse positivo, chiara
valorizzazione della dimensione funzionale-sinallagmatica rispetto
all’indice di giuridicità esterno.
A questo proposito, ha ricordato il relatore, nemmeno
Giuliano – anch’egli di scuola sabiniana – sarebbe andato
contro il pensiero della sua secta.
Il giurista reputava, più semplicemente, che una datio a non domino non
potesse essere considerata seria, in quanto incapace di realizzare il programma
pattuito dalle parti: tale dimensione di scambio avrebbe potuto perciò
essere considerata soltanto in un’ottica a-contrattuale, fuori dalla
prospettiva civilistica, e protetta quindi da un’actio con formula in factum,
con condanna al quanti ea res erit.
Lo studioso ha proseguito affermando che lo stesso
Giuliano avrebbe concesso l’actio
in factum ogniqualvolta non avesse riscontrato la presenza di una datio ob rem. Ciò risulterebbe
evidente da D. 19.5.13.1 (Ulp. 30 ad Sab.), passo nel quale si versa in
un’ipotesi di cessione di un’area edificabile, da parte di un
soggetto, con l’accordo di ottenere, in cambio, un’abitazione per
sé a costruzione ultimata. Lo stesso Ulpiano avrebbe quindi escluso la
configurazione di una emptio venditio
perché non vi era un prezzo, del mandato perché mancava la
gratuità, della societas
perché essa non poteva essere re
contracta. In assenza dell’effetto traslativo, Giuliano avrebbe del
pari escluso la sussistenza di una permuta e avrebbe concesso, pertanto,
l’actio in factum.
Fercia ha, infine, concluso sottolineando che è
certamente possibile rinvenire, all’interno della formula, la clausola ex fide bona, dal momento che Aristone
cerca di predisporre un rimedio che tuteli l’interesse positivo.
Ha quindi preso la parola
Enrico Sciandrello,
(Università degli Studi di Torino), il quale si è unito ai
ringraziamenti dei precedenti oratori, aprendo il proprio intervento con
un’analisi del commento ulpianeo all’edictum de pactis – in particolare, dei primi frammenti della
ricostruzione di Otto Lenel, ove si rinviene l’inquadramento delle pactiones, intese come metodi di
pacificazione e incontro tra due soggetti – ricordando che il giurista
severiano, nel luogo, aveva il solo fine di definire il fenomeno pattizio,
dettaglio, a parere dello studioso, troppo spesso dimenticato.
Sciandrello
ha quindi proseguito analizzando un insieme di brani ulpianei, D. 2.14.1, D.
2.14.5, e D. 2.14.7 (Ulp. 4 ad ed.), ove il giureconsulto si
dedicò interamente alla conventio,
genus di cui il patto è species. È stato posto in
evidenza che, in D. 2.14.1.3-4, Ulpiano parlava delle convenzioni che
transitavano in aliud nomen –
lasciando, pertanto, immaginare che ve ne fossero alcune che non seguivano
questo meccanismo – usando il criterio distintivo del vestimento
giuridico dell’accordo; in D. 2.14.5, tuttavia – tralasciando
esplicitamente il relatore ogni questione sulla genuinità del passo
–, il criterio discretivo veniva modificato, trattandosi di indagare se
la causa fosse privata o pubblica; quest’ultima divisione rappresentava,
rispetto al genus principale, la
prima sottoclasse, cui seguiva, rispetto alle conventiones ex causa privata, l’ulteriore dicotomia tra le
convenzioni legittime e quelle iuris
gentium. All’interno di queste ultime, ancora, il relatore ha
evidenziato la successiva e ben nota distinzione tra quelle che generavano esclusivamente
eccezioni e quelle che fondavano la tutela azionale; e, tra tali rimedi
processuali, la distinzione tra azioni cum
nomine e senza nome.
Ciò premesso, entrando in medias res, lo studioso ha analizzato D. 2.14.7.1 – ove,
in particolare, egli scorge il legame tra l’ingresso e il transito della conventio in un nomen e la previsione di un’azione a tutela –
affermando che l’espressione ‘ceteri
similes contractus’, contenuta nel frammento, faceva riferimento ai
contratti dotati di tutela tipica ed edittale, e che, per Ulpiano, era
importante richiamare il dictum Pedii,
perché col termine conventio
il giurista severiano individuava non solo l’accordo, ma anche il suo
contenuto. L’esempio lampante è quello, versato in D. 17.1.8 (Ulp. 30
ad ed.), del procuratore che non avesse restituito gli instrumenta causae al titolare della posizione giuridica fatta
valere in giudizio: in caso di consegna di beni materiali si poneva il problema
della tutela attraverso actio depositi o
actio mandati. Labeone, ripreso da Ulpiano
e favorevole all’utilizzo di quest’ultima azione, affermava che si
dovesse guardare all’initium e
alla causa del contratto. Il problema
pratico riposava sul fatto che le parti portavano dinnanzi al giurista una
vicenda descritta in termini fattuali, che necessitava di essere qualificata
giuridicamente: se i soggetti fossero stati certi di aver concluso un mandato
fin dall’inizio, il problema non si sarebbe posto.
Il relatore è passato quindi a illustrare il caso,
a suo avviso esemplare, dell’aestimatum,
la cui azione era in albo proposita,
compresa nel testo dell’editto, in linea con quanto asserito da Lenel
nelle prime due edizioni de ‘Das
Edictum Perpetuum’.
Guardando ai motivi della dubitatio che ha portato a questa novità – ossia
l’inserimento dell’azione nell’editto –, i problemi
erano, ancora una volta, analoghi a quelli del procurator e della consegna degli instrumenta: Ulpiano riteneva che, in alcuni casi, a seconda dello
svolgimento del contratto, l’aestimatum
poteva ricadere o in una fattispecie di vendita – tutelata con actio ex vendito propter aestimationem –,
di locatio conductio operis o operarum, o di mandato. A seconda della
fattispecie ravvisata, si sarebbe potuto individuare l’accipiens nel soggetto che rivestiva il
ruolo di conductor, a meno di non
ritenere, attraverso un differente schema contrattuale, che l’accipiens fosse un locatore di opere, e
che, quindi, conduttore fosse il tradens,
colui che aveva dato la cosa da vendere; oppure si sarebbe potuto richiamare il
mandato. A questo punto, per scegliere di agire ex vendito, locato, conducto o mandato, non si sarebbe dovuto guardare all’initium – come avrebbe suggerito
Labeone –, bensì a come si era svolto il rapporto, cioè se
esso avesse dato luogo a una fattispecie che realizzasse una compravendita,
oppure a una locatio operis o operarum, o ancora a un mandato.
Analizzando, in proposito, D. 19.3.1 pr. (Ulp. 32
ad ed.), il relatore ha evidenziato che la seconda parte del passo –
da quotiens fino a bona fide – darebbe conto di una
situazione precedente rispetto alla propositio
in albo, fidandosi in ciò di
un’intuizione di Alberto Burdese e Manlio Sargenti. Ogni volta che vi
fosse ambiguità, pertanto, sarebbe stato necessario concedere
un’azione aestimatoria decretale
praescriptis verbis, il che darebbe
conto del regime vigente nel tempo precedente rispetto all’inserimento
nell’editto; come evidenziato da Carlo Augusto Cannata, il termine
‘aestimatoriam’,
riportato nel brano, potrebbe essere di natura glossematica.
Sciandrello è passato quindi a domandarsi quale
fosse il programma di giudizio contenuto specificamente nella formula
riguardante l’aestimatum. La
vicinanza con contratti tutelati attraverso giudizi di buona fede porterebbe a
credere che vi fosse un quidquid
protetto ex fide bona, ovviamente
munito di intentio incerta, con una parentesi sull’ob eam rem, perché sarebbe stato
necessario individuare in che punto venissero collocati i verba descrittivi della res
de qua agitur. Presupponendo che qui fosse in praescriptis verbis, è necessario capire se questi ultimi
fossero versati nella praescriptio
– e quindi anteposti –, nel qual caso ob eam rem avrebbe fatto riferimento a qualcosa di esterno alla
formula, o se la descrizione della res de
qua agitur fosse riposta all’interno della formula stessa.
Per rendere l’azione specifica rispetto all’actio mandati, locati, etc., si sarebbe
dovuto fare riferimento, evidentemente, alla consegna di una cosa stimata da
vendere, come suggeriva Ulpiano nel descrivere il contratto estimatorio ancora
in D. 19.3.1 pr.
È stato, quindi, analizzato l’ulteriore
problema se tale porzione di formula fosse inserita prima o dopo la iudicis nominatio, richiamando il
famosissimo testo, Gai 4.136, ove si tratta di una praescriptio inserita loco
demonstrationis, anteposta alla iudicis
nominatio e descrittiva della res de
qua agitur. Questa formula era, in particolare, concessa contro coloro che
avessero promesso un incertum, tanto
che, per molti, essa costituisce la formula dell’actio ex stipulatu incerti, essendo del tutto uguale all’actio ex testamento con intentio incerta, almeno nella
struttura. Sempre a questo proposito, è stato ricordato che in Gai 4.53d
si riporta il pensiero del giurista antoniniano per il caso in cui si ponesse
la scelta – caso simile a quello dell’aestimatum –, nella stipulatio,
tra il dare denaro o lo schiavo Stico, con la presenza, quindi, di
un’obbligazione alternativa: occorreva, per questa fattispecie, concepire
l’intentio della formula come
la stipulatio.
Il relatore ha aderito, in questo frangente, al pensiero
di Giuseppe Provera, il quale ha sostenuto che la questione costituisse
indubbio esempio di ius controversum;
nell’ottica di Ulpiano, quella con obbligazione alternativa non
corrispondeva, a livello processuale, a intentio
certa come la stipulatio, con la quale si rischiava la pluris petitio causa, ma la presenza della electio lasciata al promissor
era, invece, un caso di stipulatio incerti.
Se, pertanto, si ipotizza una stipulatio con obbligazione alternativa – simile all’aestimatum – ove l’electio è lasciata all’accipiens, che può restituire la
cosa stimata o l’ammontare dell’aestimatio,
secondo il regime descritto da Gaio per la stipulatio
incerti, la praescriptio sarebbe
dovuta, conseguentemente, riposare nel corpo della formula.
Un elemento del quale il relatore ha ammesso di non saper
dare spiegazione è la mancanza dell’espressione qua de re agitur. Paul Wilhelm
Krüger, in un lavoro pubblicato sulla ‘Zeitschrift der
Savigny-Stiftung für Rechtsgeschichte’, affermava, infatti, che
tutte le azioni con demonstratio
contenevano il rinvio alla qua de re
agitur, per evitare problemi di preclusione processuale, tanto che
l’espressione sarebbe diventata l’elemento caratteristico della
formula in personam edittale.
Lo studioso ha concluso la propria comunicazione
ammettendo che rimane dubbio quanto l’actio
incerti di cui si parla in Gai 4.136 possa considerarsi effettivamente
rispondente a questo tipo di struttura: se, invece di una demonstratio tipica, vi fosse stata una praescripitio più malleabile e utilizzabile dalle parti per
descrivere la res de qua agitur,
sarebbe stato possibile che si utilizzasse tale schema formulare per tutelare
questo tipo di fattispecie, e che l’aestimatum
abbia a ciò aperto la strada, con l’apposizione del qua de re agitur una volta prevista
l’azione specifica per quel contratto.
La presidente Paola
Lambrini, dopo aver ringraziato i
relatori per gli stimolanti interventi, di sicuro interesse scientifico, ha
aperto la discussione.
È quindi intervenuto Jakob Fortunat Stagl (Albert Ludwigs-Universität Freiburg),
chiedendo se la concessione dell’azione – secondo
l’‘aktionenrechtliches Denken’ romano –, non
significasse riconoscere una pretesa nuova, un contratto.
Sciandrello ha risposto che Ulpiano, in effetti, si chiedeva sempre
quale azione andasse esperita, in modo congruo rispetto all’accordo delle
parti: di qui l’inadeguatezza delle azioni tipiche e la necessità
di una nuova azione per tutelare una pretesa inedita.
Ha preso poi la parola Luigi Garofalo (Università degli Studi di Padova),
formulando, preliminarmente, una critica di metodo: non è produttivo
condurre studi filologici, laddove i medesimi non siano destinati a riflettersi
sull’effettiva conoscenza degli istituti giuridici, tanto in termini di
esatta configurazione, quanto sul versante della pratica applicatività.
Qualora non si tenesse conto di ciò, l’impegno interpretativo
sarebbe condannato alla più totale sterilità perché sviserebbe
il metodo sotteso alle elaborazioni della giurisprudenza classica, diretto a
individuare, tra quelle offerte dal ius
controversum, la soluzione più equa per il caso concreto.
Per quanto riguarda la prevalenza dell’aspetto
processuale, essa merita di essere recuperata e valorizzata, anche nella
consapevolezza della preferenza accordata ai ‘rimedi’ in sede
europea, ove la matrice romanistica emerge in settori nevralgici tra i quali
spicca – solo per citare il più rappresentativo – quello
della vendita di beni di consumo.
In ambito contrattuale emergeva la necessità di
scorgere un elemento di giuridicizzazione, che – in un sistema
caratterizzato dalla tipicità – fondasse
l’azionabilità della tutela: in Roma si individuava con sicurezza
lo scambio, ma al di fuori di esso non si sarebbero potuti rinvenire altri
indici non formali, dovendosi perciò ricorrere a segni quali res, verba,
e litterae.
Pur aggiunta, attraverso la successiva riflessione
teorica, la figura della causa – sempre ritenuta presente nello scambio
per una sorta di ‘armonia metagiuridica’ che risuona come portato
di secoli di riflessione teorica – le criticità sono rimaste
sostanzialmente impregiudicate.
Il problema del riconoscimento della giuridicità
investe, pertanto, anche l’odierna categoria dei contratti reali: se si
ammettesse la configurazione di un contratto atipico in ogni accordo precedente
alla consegna – accedendosi pertanto a una concezione analoga a quella
proposta da Labeone –, si configurerebbe sempre, a monte, un contratto
innominato, e solo in un secondo momento – attraverso la datio – un contratto tipico.
Secondo Garofalo, l’opzione che ritiene azionabili gli accordi già
prima della loro qualificazione, in virtù della datio, quali contratti reali, è teoricamente accettabile
esattamente quanto quella contraria, poiché non è dato rinvenire
un vero indice oggettivo su cui basare la scelta.
Lo studioso ha fatto inoltre notare, a margine di queste
considerazioni, che la tutela apprestata dalla giurisprudenza romana attraverso
l’actio praescriptis verbis,
richiedendo la previa attuazione della prima prestazione, è latrice di
una prescrizione di carattere assiologico: chi varca per primo la soglia del
tribunale deve aver adempiuto il suo obbligo.
Nel contesto odierno, pertanto, ogni incertezza è
stata risolta attraverso l’invenzione dell’elemento causale: mentre
i romani escogitarono la soluzione e solo in un secondo momento le diedero un
nome, oggi è stato espresso per primo il concetto di causa, senza
chiarire, tuttavia, a cosa esso corrispondesse in concreto – salvo elaborare
la fumosa definizione di ‘funzione economico-sociale’ –, il
che ha comportato, e tuttora comporta, gravissimi inconvenienti al di fuori
della fattispecie più elementare, quella dello scambio.
È quindi intervenuto Tommaso dalla Massara, che ha espresso la
necessità – preliminare rispetto a ogni discussione riguardante i
concetti generali – di reinventare la parola ‘dogmatica’
– ormai logora, abusata e svuotata – per riferirsi alle astrazioni
di carattere giuridico, sfrondandola dal suo significato teologico.
L’esecuzione della prima prestazione – ha
proseguito – era da lui stata esplicata in un’opera precedente come
serietà dell’impegno all’interno del synallagma, senza quindi sovrapporre causa e datio. Il synallagma avrebbe implicato una nozione
ampia di scambio, e Aristone avrebbe ricavato, ragionando e lavorando sulla condictio, un’actio di stretto diritto.
Ha quindi ribattuto Fercia,
esprimendo perplessità a proposito di una tutela dell’interesse
positivo che abbia preso le mosse da un’azione restitutoria.
Romano è, infine, nuovamente intervenuto, manifestando
un certo scetticismo rispetto all’idea che vi sia stata una
rielaborazione aristoniana della teoria labeoniana, dal momento che
un’azione così astratta, senza riferimento alla causa petendi, che delimitasse il potere
del giudice – come sottolineato da Gaio in tema di praescriptio – avrebbe costituito un arretramento della
tutela apprestata, nonché della configurazione strutturale. Ulpiano
avrebbe poi rovesciato il punto di vista: la conventio sarebbe divenuta un criterio alla luce del quale spiegare
l’attribuzione patrimoniale.
La presidente Paola
Lambrini ha chiuso quindi la
discussione, esprimendo soddisfazione per i risultati raggiunti e
l’elevata qualità scientifica dell’iniziativa, dicendosi
certa che essa fungerà da spunto per ulteriori e proficue riflessioni;
il che accadrà certamente, avendo i relatori puntualizzato in modo assai
opportuno alcuni aspetti a tutt’oggi dibattuti – e, talvolta,
persino oscuri – della vexata
quaestio inerente alla tutela delle convenzioni atipiche in diritto romano,
evidenziando le difficoltà incontrate dagli studiosi contemporanei
– in ciò non dissimili dai loro predecessori – nella
comprensione del significato e della portata dell’actio praescriptis verbis.
Università di Padova
MATTIA MILANI
Università di Roma Tre