Testatina-Contributi2013

 

 

image006LA SPECIALITÀ REGIONALE NELL’ORDINAMENTO ITALIANO E IN QUELLO DELL’UNIONE EUROPEA

 

LOREDANA MURA

Università di Brescia

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SOMMARIO: 1. I diversi modelli di specialità regionale. – 2. La specialità regionale nella Carta costituzionale del 1948. – 3. Il principio c.d. di “differenziazione regionale” introdotto dalle leggi di riforma dell’ordinamento italiano. – 4. La legittimità della specialità regionale nell’ordinamento italiano: il carattere derogatorio dell’istituto. – 5. Segue: Il problema della specialità regionale intesa come “attuazione” anziché come “deroga” del principio generale di eguaglianza. – 6. Segue: Il significato della riforma dell’autonomia regionale alla luce della distinzione fra norme di deroga e norme di attuazione. – 7. Le Regioni e la loro specialità nell’ordinamento dell’Unione europea. – 8. Segue: Le applicazioni normative del principio della specialità regionale nel diritto dell’Unione europea: le deroghe al diritto della concorrenza. – 9. Segue: La specialità regionale nella giurisprudenza della Corte di giustizia. – 10. Conclusioni. Abstract.

 

 

1. – I diversi modelli di specialità regionale

 

Negli ultimi anni l’istituto della specialità regionale – che ha ispirato originariamente la struttura organizzativa e territoriale del nostro ordinamento giustificando la particolare posizione di autonomia di alcune Regioni – è stato sottoposto a revisione, sollevando molte discussioni a cui, il detto istituto e i principi che lo governano, già da tempo erano soggetti in Italia. Perciò, accanto ad una specialità tradizionale – della cui legittimità si è spesso dubitato – è stato introdotto un nuovo modello di diversità regionale non meno problematico, dei cui profili di compatibilità con il nostro ordinamento giuridico nel suo complesso, ancora oggi si discute. In particolare, esso solleva il problema dell’effettiva conformità di questo istituto con il nostro ordinamento e, in particolare, con il principio di eguaglianza; ed, inoltre, pone il problema dell’univocità dell’istituto della specialità regionale e, quindi, della possibilità che questo possa essere rappresentato da modelli normativi anche molto diversi fra loro.

Di fronte ad una tale situazione, si presenta l’esigenza di mettere a fuoco l’istituto della specialità regionale alla luce degli sviluppi normativi che esso ha subìto nel nostro ordinamento, verificandone il contenuto e le ragioni alla base del suo riconoscimento.

Una volta conclusa l’indagine sul piano interno, sarà opportuno passare ad analizzare la specialità sul piano europeo-comunitario. E’ noto al riguardo che nell’organizzazione politica e istituzionale dell’Unione europea (UE) siano state rinvenute le tracce di un ordinamento statuale di tipo federale e che di questo ordinamento facciano parte ormai, non solo gli Stati membri, ma numerosi altri “soggetti” fra cui anche le Regioni. In tal senso, l’indagine punterà ad accertare quale sia, allo stato attuale, la posizione occupata dalle Regioni italiane nell’Unione europea. In particolare, si tratterà di capire se esse, alla luce del diritto vigente, possano essere assimilate agli Stati membri; inoltre se, anche nell’Unione, la specialità regionale abbia ottenuto riconoscimento e, in caso affermativo, se ciò abbia influito sullo status soggettivo delle Regioni nell’ordinamento dell’Unione.

 

 

2. – La specialità regionale nella Carta costituzionale del 1948

 

La specialità regionale è un istituto assai discusso del nostro ordinamento costituzionale. Lo stesso “regionalismo” sul quale essa si innesta e che ha inteso caratterizzare, fin dalle sue origini, la forma di governo del nostro ordinamento statale solleva ancora oggi dubbi e problemi, con la ricerca di soluzioni nuove e ad esso alternative prima ancora che ne risulti compiuta la sua stessa attuazione ai sensi del dettato costituzionale[1]. Esso è ritenuto una minaccia per lo Stato centrale, al quale appare sistematicamente contrapposto[2], da un lato, perché ne mette in pericolo l’unità sul piano interno e, dall’altro, perché è suscettibile di metterne in gioco la responsabilità nei rapporti con altri soggetti internazionali.

E’ ovvio che, in questo contesto, la scelta di attribuire un regime di specialità ad alcune Regioni non poteva che alimentare queste critiche e la specialità essere messa continuamente in discussione[3] al punto di essere considerata una “corsia preferenziale”[4] per queste Regioni a danno delle altre e, in tal senso, una violazione del principio di eguaglianza che, anche in questo settore di rapporti, appare ispirare il nostro ordinamento.

Sebbene, quindi, il dettato dell’art. 114 della nostra Costituzione del 1948 [5] fosse molto chiaro nel qualificare le Regioni ordinarie e speciali, insieme alle Province e ai Comuni, come articolazioni decentrate dell’ordinamento statale italiano che accanto a quelle centrali contribuivano a specificarne la forma e la struttura, nondimeno la loro presenza è stata da sempre considerata problematica e ingombrante. Talché, si è assistito alla sistematica contrapposizione non solo di due diversi livelli istituzionali dello Stato, quello centrale e quello decentrato (soprattutto regionale, per via degli ampi poteri di cui le Regioni erano investite, diversamente da Comuni e Province) come se entrambi non fossero derivazione del medesimo ordinamento nazionale ed espressione della sua articolazione amministrativa e territoriale; ma, altresì, all’interno del medesimo livello istituzionale decentrato, fra Regioni ordinarie e Regioni speciali, come se le seconde (indipendentemente dalle ragioni della loro specialità) ricevessero un trattamento di «privilegio»[6] basato sull’attribuzione ad esse di un’«autonomia tendenzialmente maggiore»[7] (anziché “maggiormente adeguata alla loro condizione”) rispetto alle prime, in violazione dell’uniformità dell’istituto regionale e dell’unità dello Stato italiano.

 

 

3. – Il principio c.d. di “differenziazione regionale” introdotto dalle leggi di riforma dell’ordinamento italiano

 

La situazione fin qui descritta, lungi dall’essersi risolta, si è ulteriormente aggravata e, per certi versi, complicata con la novella costituzionale del 2001 [8] e la successiva legge di attuazione[9].

Da un lato, la legge n. 3 del 2001 (art. 3 modificativo dell’art. 117 Cost.) ha riformato l’istituto dell’autonomia regionale nell’ambito del riparto di competenze fra Stato centrale e regionale, attuando il decentramento a favore delle Regioni in molti dei settori precedentemente riservati all’intervento esclusivo dello Stato.

Dall’altro, essa ha prospettato un ampliamento dell’autonomia regionale a casi diversi da quelli delle cinque Regioni a statuto speciale. L’art. 2 della legge n. 3 del 2001, nel modificare l’art. 114 della Cost. it., ha in tal senso stabilito:

«Il Friuli Venezia Giulia, la Sardegna, la Sicilia, il Trentino-Alto Adige/Südtirol e la Valle d'Aosta/Vallée d'Aoste dispongono di forme e condizioni particolari di autonomia, secondo i rispettivi statuti speciali adottati con legge costituzionale.

La Regione Trentino-Alto Adige/Südtirol è costituita dalle Province autonome di Trento e di Bolzano.

Ulteriori forme e condizioni particolari di autonomia, concernenti le materie di cui al terzo comma dell'articolo 117 e le materie indicate dal secondo comma del medesimo articolo alle lettere l), limitatamente all'organizzazione della giustizia di pace, n) e s), possono essere attribuite ad altre Regioni, con legge dello Stato, su iniziativa della Regione interessata, sentiti gli enti locali, nel rispetto dei principi di cui all'articolo 119. La legge è approvata dalle Camere a maggioranza assoluta dei componenti, sulla base di intesa fra lo Stato e la Regione interessata».

L’art. 10 della medesima legge ha inoltre disposto che «1. Sino all'adeguamento dei rispettivi statuti, le disposizioni della presente legge costituzionale si applicano anche alle Regioni a statuto speciale ed alle province autonome di Trento e di Bolzano per le parti in cui prevedono forme di autonomia più ampie rispetto a quelle già attribuite».

Secondo una parte della dottrina, questa riforma avrebbe svuotato l’istituto della specialità regionale rendendolo privo di valore ed efficacia. In questo senso, vi è chi ha sostenuto che l’antica specialità non appaia più in linea con i principi della Costituzione e vada, pertanto, rivista[10]; vi è anche chi ha sottolineato che l’autonomia speciale «è venuta assumendo caratteri di obiettiva recessività» e che, quindi, fosse «condannata ad un processo di graduale dissoluzione»[11]; inoltre, che occorresse procedere ad una «reinvenzione della specialità»[12] introducendo, ad esempio, il modello della «specialità diffusa»[13]. In altre parole, la specialità regionale sarebbe un istituto desueto così come lo stesso termine utilizzato per definirla, talché è preferibile parlare di «differenziazione»[14], anziché di specialità regionale.

Secondo un altro approccio, invece, la modifica introdotta al Titolo V della Cost. it. dalla novella costituzionale del 2001, andrebbe interpretata nel senso che il nostro ordinamento fa salva la specialità regionale[15], ma introduce, accanto ad essa, uno strumento di “differenziazione regionale” (da quantificarsi in termini di nuove attribuzioni alle Regioni interessate) basata su criteri diversi da quelli del passato. Secondo alcuni autori, questo strumento porrebbe rimedio alla situazione di vantaggio e di maggiore autonomia di alcune Regioni – quelle speciali appunto – fondata su criteri (di tipo identitario, come quello etnico, geografico, storico, linguistico) ritenuti troppo «rigidi e statici»[16], attraverso la predisposizione di nuove forme di autonomia di tipo “differenziato” basate, viceversa, su criteri più “flessibili”, (da determinarsi di volta in volta sulla base di un’intesa con lo Stato centrale) orientati a valorizzare le «potenzialità», il «merito» e l’«efficienza» delle Regioni interessate[17].

In tal senso, specialità e differenziazione non verrebbero a sovrapporsi, bensì preciserebbero e darebbero sostanza all’articolazione e alla varietà complessiva del nostro ordinamento regionale, innescando altresì una virtuosa competizione fra le nostre Regioni.

A ben guardare, la specialità (e, cioè, i suoi requisiti) e dunque il grado (più o meno elevato) di autonomia regionale che da questa discenderebbe, diventerebbero un aspetto negoziabile in quanto soggetto ad intesa fra Governo centrale e regionale sulla base di fattori “meritori” non meglio definiti. Questi ultimi in particolare, non sono più i criteri che contraddistinguono ancora oggi le cinque Regioni a statuto speciale istituite con la Costituzione del 1948 o altri criteri generali a questi assimilabili. Al contrario, si tratterebbe di criteri da definire di volta in volta in funzione delle “forme e condizioni particolari di autonomia” che con essi si intendono conseguire. Oltre ai criteri, anche le procedure cui è soggetto il riconoscimento del regime differenziale regionale sono diverse: l’adozione degli Statuti speciali si formalizza, infatti, a mezzo di una legge costituzionale, essendo tali statuti considerati atti del Parlamento adottati sulla base di un procedimento aggravato in virtù dell’art. 138 Cost.; l’adozione degli atti di riconoscimento delle nuove forme di differenziazione regionale e di attribuzione delle “ulteriori forme e condizioni particolari di autonomia”, avviene, invece, ai sensi dell’art. 116 Cost., ultimo comma, attraverso una legge dello Stato di iniziativa regionale, approvata a maggioranza assoluta, sulla base di un’intesa tra lo Stato e la Regione interessata, sentiti gli enti locali e nel rispetto dei principi di cui all’art. 119 Cost.

L’istituto della specialità introdotto dalla novella del 2001 sembrerebbe, pertanto, non escludere una discrezionalità difficile da controllare, essendo basata in definitiva (anziché su procedure e requisiti certi e prestabiliti) su forme di equilibrio contingente ovvero di fortunato allineamento politico fra Governo centrale e Governo regionale. Si tratterebbe, cioè, di un istituto à la carte[18], diversamente declinabile in termini di portata ed intensità, in quanto soggetto a fattori relativi, aleatori, di carattere soggettivo e contingente, concordati di volta in volta fra le istituzioni interessate[19].

Questa forma di regionalismo «asimmetrico»[20], peraltro, non è l’unica vigente in Italia. Essa, infatti, è stata completata dal c.d. federalismo fiscale introdotto con la legge del 5 maggio 2009, n. 42 [21]. Nel basarsi su un principio di territorialità per la determinazione degli strumenti finanziari della politica regionale (e, quindi, nella copertura della relativa spesa pubblica), la legge n. 42/2009 secondo la dottrina qui richiamata, avrebbe introdotto “nuove forme di asimmetria”, rispetto a quella originariamente accolta nel nostro ordinamento, distinguendo le Regioni, sotto questo profilo, a seconda che fossero o meno “capaci e competitive”[22].

Alla luce dei dati teorici e normativi sopra illustrati, mette conto verificare se la “specialità regionale”, come attualmente regolata, in modo apparentemente articolato, nel nostro ordinamento costituzionale – avuto riguardo sia alle attuali Regioni a statuto speciale, sia a quelle suscettibili di diventarlo nel futuro – costituisca, in primo luogo, un istituto unitario anche se normativamente frammentato; e, in secondo luogo, un istituto complessivamente legittimo, in quanto compatibile con i principi fondamentali del nostro ordinamento. In particolare, sarà opportuno accertare se la nuova “differenziazione regionale” rappresenti, in effetti, una nuova espressione della “specialità regionale” originariamente prevista dal nostro ordinamento, e se essa sia conforme ai principi fondamentali dello Stato e, quindi, non dia luogo a quelle accuse, che in passato sono state attribuite alla specialità regionale, che ravvisavano in quest’ultima un vero e proprio trattamento “privilegiato”, rigidamente determinato e contrastante con i caratteri del regionalismo comune e del principio di eguaglianza cui questo si ispira.

 

 

4. – La legittimità della specialità regionale nell’ordinamento italiano: il carattere derogatorio dell’istituto

 

Nel rispondere all’esigenza di disciplinare con una normativa ad hoc una data categoria di fatti meritevoli di tutela attraverso una modifica al diritto generale o comune (al quale risulterebbe, altrimenti, sottoposta[23]), l’istituto della “specialità” pone in relazione due diversi ordini normativi[24]: quello generale e quello speciale. Da un punto di vista giuridico, pertanto, la specialità (anche quella regionale) confluisce nel concetto di deroga[25]. Nel sistema delle fonti di un ordinamento giuridico, la deroga rappresenta il criterio chiamato a risolvere l'antinomia suscettibile di crearsi tra due disposizioni giuridiche e i diversi livelli normativi cui esse appartengono. Tale criterio, in particolare, stabilisce la preferenza della legge speciale su quella di carattere generale, anche successiva, secondo il principio di origine latina lex specialis derogat legi generali e lex posterior generalis non derogat legi priori speciali, da intendersi nel senso che "la legge speciale deroga la legge generale” e “la legge generale posteriore non deroga la precedente legge speciale”.

Secondo quanto ora osservato, quindi, il diritto speciale (in relazione ai fattori differenziali che esso mira a tutelare[26]) si configura come un diritto derogatorio, finalizzato ad adottare una disciplina giuridica differenziata (speciale), rispetto a quella vigente (comune), per la categoria di fattispecie che esso è chiamato a regolare[27]. Di tutta evidenza, nonostante la sua origine collegata ad un diritto preesistente, il diritto speciale manifesta una propria autonomia che conserva anche nel caso di un suo sviluppo normativo, con la conseguenza che le sue vicende giuridiche nel tempo saranno distinte e separate da quelle del diritto generale da cui ha preso spunto.

Come ogni tecnica di produzione normativa, anche la deroga deve soddisfare alcuni requisiti, di carattere formale e materiale, che ne rendano la sua adozione valida e legittima, conformandola ai principi dell’ordinamento nel quale si trova ad operare. Una siffatta circostanza presuppone, pertanto, la preventiva e precisa ricostruzione di tali requisiti ovvero dei parametri, limiti e valori dell’ordinamento nazionale[28] che il diritto speciale, non solo non può violare, ma non è neppure competente a derogare.

Ai fini, innanzitutto, della sua validità formale la deroga deve potersi collocare nel sistema delle fonti dell’ordinamento. Ciò significa che essa non potrà derogare norme di rango superiore; inoltre, che la sua adozione debba essere autorizzata  attraverso apposite previsioni che individuino i valori meritevoli di tutela sui quali poggia il suo fondamento. Sotto il profilo sostanziale, poi, la deroga non potrà superare i limiti dedotti dalle particolarità della categoria di fatti che è preposta a regolare e dovrà essere, in tal senso, “ragionevole” e “proporzionata”[29].

La deroga, più in generale, deve essere conforme al principio fondamentale di eguaglianza[30] al quale appare ispirarsi il nostro ordinamento nelle diverse categorie di rapporti sottoposti alla sua disciplina, come quella di cui si tratta[31].

Ad un’attenta analisi, la portata del principio di eguaglianza nel nostro ordinamento non solo consente la deroga, ma ammette espressamente l’adozione di un diritto speciale posto che «il principio di eguaglianza comporta che, se situazioni uguali esigono uguale disciplina, situazioni diverse possono richiedere differenti discipline»[32]. Si tratta di uno schema, quello ora riferito, presente fin dalle prime sentenze nella giurisprudenza della nostra Corte costituzionale che – nel descrivere il significato, la portata e la funzione del principio di eguaglianza – precisa i corretti termini del rapporto fra il diritto generale e il diritto speciale[33]. L’interpretazione del principio di eguaglianza prevede, altresì, che il riconoscimento di forme di specialità non debba essere ispirato a finalità discriminatorie. Si è accertato, infatti, che il principio di eguaglianza appare controbilanciato da un altro principio, quello di “non discriminazione”[34]. Anzi, secondo la dottrina il principio di eguaglianza nasce, nel nostro ordinamento, in funzione “antidiscriminatoria”[35], nel senso che esso incorpora nel suo precetto il significato e le finalità del principio di “non discriminazione”. Quella ora descritta rappresenta una dimensione del principio di eguaglianza che, di tutta evidenza, va razionalizzata e resa coerente con la lettura (sopra riferita)  dello stesso principio in termini di apertura ai valori della “differenza” (e, quindi, della discriminazione) con la quale risulta – apparentemente – in conflitto. La coesistenza di queste due opposte dimensioni nel principio eguaglianza si spiega nel senso che il principio di eguaglianza ammette certamente un diritto discriminatorio, tuttavia, con alcune limitazioni. Il principio di eguaglianza esclude non soltanto che il diritto discriminatorio si traduca in un trattamento preferenziale, ma altresì che esso generi un trattamento deteriore, entrambi vietati dal nostro ordinamento. Il trattamento discriminatorio, in altri termini, deve essere diretto a valorizzare la diversità, a proteggerla, cioè, come un valore fondamentale e ulteriore, che si aggiunge a quelli già protetti dall’ordinamento, ed evita che essa scada in situazioni di privilegio o di svantaggio. Ciò, del resto, è quanto affermato dalla stessa Corte costituzionale allorché questa ha osservato che «un trattamento differenziato potrebbe ritenersi “ragionevole” in quanto diretto a realizzare altri e prevalenti valori dell’ordinamento» (corsivo aggiunto)[36].

Si tratta di un approccio, quello qui ricordato, che dovrebbe poter essere applicato anche al tema della specialità regionale senza subire conseguenze per effetto delle recenti modifiche costituzionali. L’istituto dell’autonomia speciale, invero, assume il carattere di valore fondamentale nel nostro ordinamento concorrendo, insieme agli altri principi fondamentali, a determinarne la sua struttura in senso regionale e il suo carattere pluralista e democratico e, proprio per questo, è circondato da garanzie di carattere costituzionale riguardanti la sua interpretazione e attuazione[37].

Con riguardo a questi aspetti vengono in rilievo alcune recenti pronunce[38] della Corte nelle quali essa ha affermato da un lato, che «le disposizioni legislative statali» che sembrano interferire con competenze statutarie, devono essere interpretate, in modo da assicurarne la conformità con la posizione costituzionalmente garantita alle Regioni speciali e alle Province autonome e, dall’altro che, in riferimento alla legittimità della c.d. clausola di maggior favore, per esprimere un giudizio di preferenza tra diversi sistemi di autonomia ordinaria e speciale ai sensi dall’art. 10 legge cost. n. 3 del 2001 è necessario che «vengano considerati “i due termini” della comparazione», in quanto solo dopo un esame complessivo dei due sistemi «è possibile ritenere che l’uno garantisca una forma di autonomia eventualmente più ampia rispetto all’altro»[39] (corsivo aggiunto). Ciò, secondo una parte della dottrina, lascerebbe intendere che il regime ordinario “più favorevole” non osti all’adozione di un nuovo diritto speciale, ma si limiti a compensarne la “temporanea assenza”[40].

Se l’applicazione dei parametri, fin qui delineati, ha giustificato in passato il riconoscimento di uno statuto di specialità nei confronti di alcune Regioni italiane, occorre ora verificare se, sulla base degli stessi, è possibile giustificare e, in quali termini, le nuove forme di autonomia regionale regolate dal diritto vigente.

 

 

5. – Segue: Il problema della specialità regionale intesa come “attuazione” anziché come “deroga” del principio generale di eguaglianza

 

Nell’accingerci a verificare la legittimità e coerenza del regime di riforma dell’autonomia e della specialità regionale rispetto ai parametri fondamentali del nostro ordinamento, occorre previamente osservare che sebbene la ricostruzione teorica (svolta al paragrafo precedente) dei criteri e principi regolatori della specialità regionale appaia largamente condivisa, viceversa, la sua applicazione ai casi della prassi non risulta sempre chiara e convincente.

Si è detto, infatti, che il nostro ordinamento ammette, espressamente, deroghe al regionalismo comune dirette a salvaguardare differenze meritevoli di tutela e che, a tal fine, il diritto differenziale deve essere orientato a valorizzare i fattori di diversità tutelandoli alla stregua di interessi fondamentali. Secondo questo approccio, inoltre, il diritto differenziale pur fondandosi su presupposti, formali e materiali, che giustificano in termini oggettivi e inequivocabili una deroga al diritto generale deve, nondimeno, essere «conforme»[41] al principio di eguaglianza e, quindi, alle norme che di questo sono espressione[42].

Proprio sul modo di intendere una tale «conformità», tuttavia, si è creata una certa confusione e dato adito a numerosi fraintendimenti che hanno indotto a ritenere che il diritto speciale dovesse costituire «attuazione» del diritto generale e, in particolare, del principio di uguaglianza cui questo si ispira. Questo modo di accertamento della legalità del diritto speciale rispetto a quello generale, appare in stridente contrasto con i principi che regolano il nostro sistema delle fonti e che distinguono le norme di deroga dalle norme di attuazione[43]. Sembra indiscutibile, infatti, alla luce dei detti principi che una norma finalizzata ad introdurre una deroga al diritto vigente non possa, al contempo, rappresentarne la sua attuazione, salvo andare incontro a una insormontabile contraddizione tanto su un piano giuridico, quanto su quello logico[44]. D’altro canto, è pur vero che ogni principio generale, affinché non resti un mero valore astratto, privo di riscontro sul piano materiale, necessita di essere attuato nella prassi[45]. In tal senso, anche il principio di eguaglianza, necessita di una sua applicazione pratica al fine di essere un valore effettivo dell’ordinamento: anzi, l’art. 3 Cost. sembra molto esplicito al suo 2° comma nell’autorizzare il legislatore ad adottare misure dirette a «rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale» che limitano «di fatto la libertà e l’eguaglianza dei cittadini». Si tratta dell’enunciazione del principio di c.d. eguaglianza sostanziale che (contrapposto al principio c.d. di eguaglianza formale, come affermato all’art. 3, 1° comma Cost.) ha sollevato un grande dibattito in dottrina[46] ma che non può essere considerato uno snaturamento di quest’ultimo. Al contrario, dovrebbe avere la funzione di dare “effettività” al principio di eguaglianza formale consentendo a questo di non restare un principio vago e generico, scritto solo sulla carta, ma di adattarsi alle particolarità dei casi della prassi.

Anche a volere considerare, comunque, che una norma di “deroga” costituisca, a sua volta, “attuazione” del principio da cui essa trae il proprio fondamento giuridico[47], si tratta di due funzioni e finalità della medesima norma che non possono essere sovrapposte essendo regolate da criteri di risoluzione delle antinomie diversi nel sistema delle fonti, rispettivamente, quello di pari ordinazione e di gerarchia.

Sembra evidente, pertanto, alla luce di quanto osservato, che l’approccio contrario, sopra richiamato, muove dalla falsa premessa che il principio di eguaglianza – e il diritto che ad esso si ispira – abbia un carattere gerarchicamente superiore e una portata onnicomprensiva e omologante con la conseguenza che qualunque norma che non possa essere considerata una sua “attuazione” (inclusa la deroga), debba essere automaticamente considerata una sua violazione. In realtà, non tutte le norme che intervengono nel campo di applicazione di una norma preesistente sono destinate a dare a questa attuazione e a definirsi come “norme di esecuzione”; ve ne sono altre, infatti, destinate a modificarla derogandone la portata ma, non per questo, esse debbono essere qualificate come illegittime o, comunque, «cedevoli»[48], in quanto tali soggette a modifica da parte di altre norme dell’ordinamento giuridico.

Peraltro, si osservi che l’approccio dottrinale qui richiamato è lo stesso[49] che considera necessaria l’esistenza di un’apposita norma costituzionale che autorizzi l’introduzione di una deroga ai principi generali dell’ordinamento, come quello di eguaglianza. E non si capisce il motivo di esigere un autonomo fondamento costituzionale per il diritto speciale se questo poi finisce, di fatto, per essere ricondotto ad un altro principio dell’ordinamento qual è, nel caso di specie, il principio di eguaglianza. Le norme di diritto regionale speciale, infatti, non possono essere considerate norme di attuazione del diritto regionale comune.

 

 

6. – Segue: Il significato della riforma dell’autonomia regionale alla luce della distinzione fra norme di deroga e norme di attuazione

 

La questione messa in evidenza al paragrafo precedente può, a prima vista, apparire secondaria e di mero valore accademico, eppure la situazione di confusione che essa produce, può dare luogo a numerose e molteplici conseguenze che, come si è cercato esemplificativamente di illustrare al paragrafo precedente, risultano essersi già delineate nella prassi. Questo modo di ragionare, infatti, ha dato adito all’idea da un lato, che la specificità regionale costituisca un privilegio (in contrasto con il principio di uguaglianza) e che, pertanto, essa non abbia un fondamento certo e stabile nel nostro ordinamento[50]; dall’altro, che trattandosi di norme “cedevoli” ovvero precarie e transitorie dell’ordinamento, le norme speciali debbano essere intese come eccezionali e temporanee e, quindi, destinate ad estinguersi e a cedere il passo ad altre norme. Di modo che, qualsiasi regime giuridico successivo, di ispirazione egualitaria sarebbe idoneo ad incidere sulla loro esistenza, con l’effetto di modificarla se non pure di abrogarla.

A questo riguardo, viene in rilievo la riforma costituzionale che ha modificato, sotto vari profili, il nostro ordinamento regionale venendo ad incidere sull’istituto della specialità in esso regolato. Anche questa riforma, dunque, stando alla ricostruzione dei principi fatta al paragrafo precedente, proponendosi di intervenire sul sistema di decentramento, anche speciale, vigente nel nostro Paese, avrebbe dovuto rispettare i requisiti (formali e sostanziali) che, come si è visto, devono necessariamente contraddistinguere ogni misura di deroga. Tuttavia, occorre osservare che la riforma di cui si tratta non ha realizzato una forma di deroga nel senso anzidetto. Più esattamente essa, lungi dall’adottare un nuovo modello di “specialità regionale” che derogasse quello precedente, ha inciso sull’impianto regionalistico di diritto comune rappresentandone una sua forma di attuazione. Più espressamente, essa ha introdotto misure che non sono dirette a proteggere la diversità, bensì l'eguaglianza, portando “alle sue estreme conseguenze” il regionalismo di diritto comune. Il significato della c.d. clausola del maggior favore[51], pertanto, non può che essere inquadrato in questo contesto. In obiezione a coloro che interpretano questa clausola come legittimante un meccanismo di assimilazione delle Regioni a statuto speciale a quelle a statuto ordinario, pertanto, va osservato che la riforma del regionalismo ordinario non può costituire l’occasione per intaccare il regionalismo speciale che è riconosciuto, dalla riforma stessa, come un aspetto strutturale e qualificante del nostro ordinamento. Non si vede altra via, quindi, se non quella di interpretare la clausola in questione nel senso che la riforma costituzionale non autorizza forzature nell’attuazione uniforme della sua disciplina, limitandosi a legittimare l’assimilazione e la parificazione nei casi in cui queste ultime non violino ma, al contrario, siano rispettose della diversità. Una soluzione questa che, evidentemente, terrebbe conto del fatto che le Regioni speciali, nonostante la loro “separatezza”[52], sono pur sempre parti integranti dell’ordinamento statale e restano, per ciò stesso, soggette a suoi principi che non sono, evidentemente, solo quelli facenti capo alla loro specialità. Tutto ciò, pertanto, che non appare regolato dal diritto dello Stato a titolo di specialità rientra, giocoforza, nell’ambito di applicazione del diritto generale. E la riforma del 2001 prevede forme di “maggiore autonomia” non regolate, in tutto o in parte, dagli Statuti speciali.

Peraltro, la riforma nei suoi aspetti collegati al c.d. federalismo fiscale, ha introdotto elementi di politica della concorrenza[53] suscettibili di alimentare, de facto, la diversità (nel senso, stavolta, del divario e del disvalore che esso rappresenta) fra le Regioni italiane in dispregio dell’eguaglianza. Poiché, tuttavia, il regime di concorrenza presuppone una condizione di parità ai “punti di partenza”[54], la sua istituzione avrebbe reso necessaria la previsione di opportuni correttivi (misure c.d. di “eguaglianza sostanziale”) diretti a garantire l’eliminazione degli ostacoli impeditivi dell’effettiva parità fra tutte le Regioni, indipendentemente dalla loro specialità e, meglio, per gli aspetti da questa non disciplinati[55]. Si tratterebbe, esattamente, di misure che, lungi dal sostituire o compensare le misure sulla specialità regionale attualmente in vigore, mirano a completarne gli effetti allargando e articolando lo spettro degli strumenti di tutela della diversità regionale tale da prevedere tanto misure di discriminazione della diversità regionale a garanzia di questa come valore autonomo dell’ordinamento, quanto misure di non discriminazione della diversità regionale tese ad evitare che questa si traduca in uno svantaggio ovvero in un disvalore (in ossequio al principio di eguaglianza c.d. sostanziale)[56].

La riforma, al contrario, è entrata in vigore senza prevedere questi meccanismi con conseguenze che si sono manifestate, soprattutto nei confronti di alcune delle Regioni a statuto speciale[57], con un abbassamento complessivo del livello di protezione ad esse riconosciuto e in un aumento proporzionale del loro svantaggio, non a caso proprio sotto i profili della riforma ricollegati ai fattori della loro diversità. Peraltro, ciò ha inciso su uno stato di pregressa e protratta sofferenza di queste Regioni dovuto alla ritardata e incompleta attuazione dei loro statuti[58].

A ben guardare, dunque, nell’ordinamento italiano il problema della specialità regionale non appare collegato tanto alla sua legittimità (e, quindi, alla determinazione del suo fondamento nel nostro ordinamento) quanto, invece, a quello della corretta definizione e applicazione dei criteri che devono giustificarne il riconoscimento nel caso concreto e della varia tipologia di misure dirette a preservarla.

Conviene ora passare a verificate le posizioni che le Regioni rivestono sul piano dell’UE al fine di capire se esse contemplano o meno misure di specialità nei loro confronti, analoghe a quelle fin qui viste sul piano nazionale.

 

 

7. – Le Regioni e la loro specialità nell’ordinamento dell’Unione europea

 

Si è già avuto modo di accennare[59] al fatto che l’Unione europea (UE) sia tenuta distinta dalle organizzazioni internazionali esistenti in quanto rappresentativa di una realtà «originale»[60], «sui generis»[61], che presenta molte delle caratteristiche tipiche di un «ordinamento giuridico»[62] statuale di tipo federale o pre-federale[63], «alla quale gli Stati hanno trasferito una parte delle proprie prerogative sovrane, ivi compresa la potestà normativa»[64]. In tal senso, il sistema di organizzazione e ripartizione dei poteri sovrani fra gli Stati membri e le Istituzioni dell’Unione appare ispirato ad un principio di leale collaborazione (art. 4 TUE) – ai sensi del quale «[…] l’Unione e gli Stati membri si rispettano e si assistono reciprocamente nell’adempimento dei compiti derivanti dai trattati» – ad un principio di sussidiarietà (art. 5 TUE) – in base al quale «l’Unione interviene soltanto se e in quanto gli obiettivi dell’azione prevista non possono essere conseguiti in misura sufficiente dagli Stati membri, né a livello centrale né a livello regionale e locale» – e ad un principio di prossimità (art. 1, co. 2 e art. 10 par. 3 TUE) – in virtù del quale le decisioni devono essere prese «il più vicino possibile ai cittadini»[65].

Nonostante le citate caratteristiche, l’Unione non include nella propria organizzazione le articolazioni decentrate dello Stato[66]. Gli Stati, infatti, restano «al centro di questo sistema cui partecipano come enti unitari, senza che emergano con una propria autonomia […] le loro ripartizioni interne»[67].

e’ vero, infatti, che la normativa europea annovera iniziative, quali la Carta comunitaria della regionalizzazione del 1988 [68], dirette a uniformare il diritto pubblico istituzionale degli Stati membri in vista di favorire il decentramento e valorizzare l’autonomia degli enti territoriali minori[69]. Inoltre, che il diritto dell’Unione ha previsto l’istituzione di apposite rappresentanze regionali con la creazione del Comitato delle Regioni[70]. Infine, che l’Unione europea ha dato risalto ai livelli regionali e alle loro problematiche gestionali nell’ambito delle proprie politiche: in particolare, nell’ambito della “politica di coesione” (detta anche “politica regionale”) in relazione alla gestione e attuazione dei finanziamenti erogati nell’ambito dei Fondi strutturali, e nell’ambito della “politica di concorrenza” in relazione alle ipotesi di aiuti a finalità regionale concessi in deroga ai principi generali della materia.

Tutte le esperienze normative ora citate, tuttavia, non sono espressione di una riforma dell’ordinamento dell’Unione con una inclusione delle Regioni (o degli stessi Stati membri) nel suo tessuto organizzativo e, in particolare, di un decentramento dell’Unione; al contrario, esse confermano la struttura stato-centrica dell’ordinamento dell’Unione in cui gli Stati membri rimangono i “gestori” (e, quindi, i responsabili), unici ed originari, dei propri ordinamenti e dei rapporti che questi hanno con l’UE. Esse, in tal senso, non influiscono né sulla natura delle Regioni (e, quindi, sul loro status soggettivo), né sulla natura della loro autonomia normativa (e, quindi, della loro specialità) in questo ordinamento[71].

Questa situazione discende dal modo di essere dell’Unione europea e, precisamente, dalla natura e dai caratteri dell’ordinamento giuridico (quello internazionale) in cui essa ha origine e deriva il suo fondamento. E’ noto che l’Unione è costituita[72] a mezzo di uno strumento di produzione giuridica –  il trattato – tipico dell’ordinamento internazionale nel quale i rapporti fra i soggetti che di esso fanno parte – gli Stati – risultano regolati in forma di diritti ed obblighi reciproci, volontariamente definiti. Meno note sono le conseguenze, sotto il profilo soggettivo, derivanti dall’assunzione di diritti ed obblighi a mezzo della stipulazione di un accordo internazionale. Gli Stati che hanno dato vita, nei primi anni cinquanta del secolo scorso, al Trattato costitutivo della CEE (nonché a quelli della CECA e dell’Euratom) e ai successivi Trattati di modifica sono, infatti, i soggetti titolari dei diritti e degli obblighi in essi stabiliti e i responsabili della loro attuazione.

In questo senso, si spiega l’affermazione della stessa Corte di giustizia secondo cui gli Stati membri sono i «titolari» e, perciò, i «destinatari» degli obblighi comunitari e che «la nozione di Stato membro […] non può estendersi agli esecutivi di Regioni o di comunità autonome, indipendentemente dalla portata delle competenze attribuite a questi ultimi. Ammettere il contrario equivarrebbe a mettere in pericolo l’equilibrio istituzionale voluto dai Trattati»[73]. Non rientrando nel concetto di “Stato membro” dell’Unione, le Regioni non possono neppure essere considerate “destinatarie degli obblighi comunitari[74]. Anche quando il diritto comunitario prevede un loro “interesse ad agire” sul piano dell’Unione (es. ai sensi dell’art. 263 TFUE), tale previsione non è preordinata ad incidere sulla posizione di queste nell’ordinamento dell’Unione (con la conseguenza di trasformarle in Stati membri e renderle, dunque, destinatarie[75] degli obblighi da esso previsti) bensì, unicamente, sulla loro posizione nell’ordinamento dello Stato di appartenenza in relazione alla capacità di questo di adattarsi ai contenuti del diritto dell’Unione che le riguarda «direttamente ed individualmente»[76]. L’intervento del diritto comunitario, quindi, opera sempre nei confronti degli Stati membri quali «portatori» o «gestori di un ordinamento sovrano»[77] chiamato ad adeguarsi agli obblighi ad esso conseguenti, suscettibili di riguardare eventualmente, anche forme di specialità regionale. Gli Stati membri, si dice, sono i “padroni” dei trattati. Con ciò intendendo significare che la sottoposizione dei rispettivi ordinamenti ai vincoli di natura comunitaria dipende unicamente dalla loro volontà, così come manifestata nei Trattati istitutivi e in quelli modificativi. Se gli Stati, dunque, sono gli unici soggetti dell’ordinamento dell’Unione europea, le Regioni – come ogni altra istituzione e ogni altro aspetto ed elemento dello Stato membro – vengono in rilievo sul piano europeo in quanto e nella misura in cui la loro qualità, status o condizione interna siano disciplinati dal diritto dell’Unione, secondo le modalità ora viste.

Da quanto osservato discende che le uniche forme di specialità regionali suscettibili di rilevare a livello dell’Unione sono quelle riferibili allo Stato in quanto membro dell’Unione, inteso quindi, nella sua unità ed interezza. Le specificità regionali, in altre parole, verranno in rilievo nel diritto UE non in quanto “giuridicamente riconosciute alle Regioni”, bensì ai rispettivi Stati membri nei termini e nei limiti della loro disciplina. Ciò significa inoltre, che, nel diritto dell’Unione, la “specialità regionale” non coincide con la specialità di cui le Regioni godono nei loro ordinamenti statali[78], trattandosi di due istituti che, anche quando la loro disciplina materiale venga a coincidere, risultano regolati da ordini giuridici fra loro distinti e separati[79]. Tale cesura rimane anche qualora il diritto dell’Unione abbia un c.d. “effetto diretto” ovvero sia “direttamente applicabile” negli ordinamenti interni senza la necessità di norme c.d. interposte o intermedie[80]. Trattandosi, infatti, di una forma di “specialità” che ha origine in un rapporto di diritti e obblighi fra gli “Stati membri”[81], essa produrrà i suoi effetti in un ordinamento diverso da quello a cui appartengono le Regioni, limitandosi a raggiungere queste ultime solo in quanto “direttamente e individualmente” interessate ad esigere l’applicazione di tali obblighi da parte dei loro legittimi destinatari. Con riguardo a quest’ultimo aspetto merita di essere ricordato che le Regioni, insieme alle altre persone giuridiche e fisiche, possono far valere le conseguenze negative sulla loro sfera giuridica della mancata o distorta applicazione delle misure comunitarie, sebbene queste abbiano per “destinatari” altri soggetti (e, cioè, gli Stati di appartenenza, in quanto membri UE), purché da esse “direttamente e individualmente interessate”[82], secondo quanto prescritto dal diritto dell’Unione.

L’accertamento della specialità regionale in questo specifico ambito normativo, dunque, impone di tenere distinti due ordini normativi diversi e indipendenti che, pur venendo a interfacciarsi e a concorrere ai fini della sua attuazione effettiva  tuttavia, non giungono mai a sovrapporsi sul piano giuridico: quello cui appartengono gli Stati membri dell’Unione e quello cui appartengono le Regioni[83].

Questo dualismo va sempre tenuto presente nella materia in esame, sia perché assume oggettivamente una grande importanza ai fini della formazione e dell’osservanza delle norme comunitarie in materia regionale; sia perché, come si è potuto osservare già in questa sede, la giurisprudenza della Corte di giustizia mostra di averne piena contezza e di tenerlo in viva considerazione.

 

 

8. – Segue: Le applicazioni normative del principio della specialità regionale nel diritto dell’Unione europea: le deroghe al diritto della concorrenza

 

La disciplina della specialità, nei termini particolari enunciati al paragrafo precedente, è tutt’altro che una mera eventualità nel diritto dell’Unione. Si tratta, invero, di una circostanza che annovera più di un esempio nei Trattati UE in vigore. Esemplificativo, al riguardo, è l’art. 4 del TUE che al suo 2° comma recita: «L’Unione rispetta l’uguaglianza degli Stati membri davanti ai trattati e la loro identità nazionale insita nella loro struttura fondamentale, politica e costituzionale, compreso il sistema delle autonomie locali e regionali. […]». In deroga, dunque, al principio di parità degli Stati membri dell’UE e dell’irrilevanza della loro organizzazione interna ai fini dell’assolvimento degli obblighi derivanti dai trattati, questo articolo dà rilievo all’identità nazionale degli Stati membri collegata alle particolarità della loro organizzazione di governo intesa, quest’ultima, anche con riferimento alla sua articolazione decentrata. Sulla stessa linea, il preambolo della Carta dei diritti fondamentali recita che l’«Unione contribuisce alla preservazione e allo sviluppo dei valori comuni nel rispetto della diversità delle culture e delle tradizioni dei popoli d’Europa, nonché dell’identità nazionale degli Stati membri e dell’organizzazione dei loro poteri pubblici a livello nazionale, regionale e locale».

Si tratta di due norme di carattere generale che si limitano a ribadire il principio (di origine internazionale) di “non ingerenza”[84] del diritto comunitario negli affari interni dello Stato membro, fra l’altro con particolare riferimento alla sua struttura di governo. Essa, in tal senso, è indicativa della volontà degli Stati di non delegare una materia così delicata alla competenza dell’UE mantenendone salda la sovranità e rinviando le eventuali eccezioni alla sua disciplina esclusiva a decisioni successive, concordate fra gli Stati membri. In tal senso, anche nell’ordinamento dell’Unione europea, così come negli ordinamenti nazionali (incluso, come si è visto, quello italiano), il principio di parità – che regola i rapporti fra gli Stati membri – può essere derogato a mezzo di norme speciali dirette a valorizzare la diversità fra gli Stati membri e, in particolare, la specificità della loro organizzazione interna. In armonia con questa ipotesi, si è più volte pronunciata la Corte di giustizia che, riecheggiando la nota formula di matrice statale, anche sotto il profilo di cui si tratta ha affermato che «il principio di parità di trattamento e di non discriminazione impone che situazioni simili non siano trattate in maniera diversa e che situazioni diverse non siano trattate in maniera uguale, a meno che tale trattamento non sia obiettivamente giustificato»[85].

Carattere più incisivo possiede il Protocollo n. 2 sull’applicazione dei principi di sussidiarietà e di proporzionalità allegato al Trattato di Lisbona in vigore dal 2009. Entrando infatti nel dettaglio operativo dei due principi ora menzionati esso, agli artt. 2, 5 e 6 [86], stabilisce le condizioni relative alla loro applicazione sottolineando che questa deve garantire la partecipazione dei livelli regionali e locali e dei loro rispettivi interessi. In particolare, il Protocollo in esame attribuisce rilevanza giuridica comunitaria alla responsabilità della Commissione e degli Stati membri in caso di mancato o inadeguato coinvolgimento dei livelli regionali e locali nella procedura di adozione dei progetti di atti legislativi dell’Unione[87].

Il Trattato sull’Unione mostra, inoltre, una certa attenzione per aspetti particolari, quali la tutela delle minoranze, che, nel diritto di alcuni degli Stati membri (come il nostro), connotano e danno fondamento alla specialità regionale: in particolare, il suo art. 2 prevede che «l’Unione si fonda sui valori del rispetto […] dei diritti umani, compresi i diritti delle persone appartenenti a minoranze»[88]. Questo non è, a ben guardare, l’unico aspetto caratterizzante e identificativo della realtà regionale preso a riferimento dal diritto dell’Unione: ve ne sono altri, come il fattore geografico, economico, sociale, ecc. che vengono in rilievo – come vedremo, a breve – nell’ambito della politica di concorrenza e in quella di coesione. 

I settori nell’ambito dei quali la specialità regionale degli Stati membri è stata oggetto di una particolare disciplina da parte dell’Unione sono, sicuramente, quello relativo alla politica di concorrenza relativamente agli aiuti a finalità regionale e alla politica di coesione economica, sociale e territoriale (detta anche “regionale”).

Va osservato in proposito, che la politica di concorrenza è un obiettivo fondamentale per l’Unione che caratterizza quest’ultima fin dalle sue origini. Si tratta di un settore di competenza esclusiva dell’Unione la cui realizzazione prevede limitate eccezioni. Essendo orientata a garantire il corretto funzionamento del mercato interno a parità di condizioni per tutte le imprese e gli altri fattori di produzione, la politica di concorrenza vieta gli aiuti di Stato. Tuttavia, in misura ridotta e con modalità tali da evitare effetti distorsivi della concorrenza, sono ammesse alcune deroghe. Queste sono giustificate dall’esigenza di perseguire obiettivi di interesse comune (come quello della tutela ambientale, della lotta alla disoccupazione, dello sviluppo e innovazione, ecc.) ma, molto più spesso, di rimediare ad un fallimento del mercato. In particolare, gli aiuti di Stato a finalità regionale hanno lo scopo di stimolare gli investimenti, la creazione di posti di lavoro e l'insediamento di nuovi stabilimenti nelle regioni europee più svantaggiate. Con riguardo agli aspetti che qui interessano vengono in rilievo, l’art. 107 [89], parr. 2 e 3 e l’art. 108, nonché l’art. 349 del TFUE.

Va altresì osservato che la determinazione degli aiuti ammissibili è sottoposta alla valutazione della Commissione, che li autorizza solamente quando rientrano in una delle deroghe previste dagli articoli ora citati[90]. Per l'applicazione della maggior parte delle deroghe la Commissione gode di un ampio potere discrezionale anche se, tuttavia, è tenuta a motivare le sue decisioni. L'articolo 108 del Trattato CE stabilisce che anche il Consiglio possa statuire la compatibilità di un aiuto con il mercato comune e disporne l’autorizzazione, ma questo deve avvenire su richiesta di uno Stato membro, deliberando all'unanimità e solamente quando circostanze eccezionali giustifichino una tale decisione. I casi sono dunque rari e le valutazioni della Commissione in ordine all’ammissione di un aiuto sono basate su una interpretazione molto rigorosa e restrittiva delle ipotesi previste dall’art. 107 TFUE e seguenti[91]. Basti considerare che in alcune occasioni[92] la Commissione ha interpretato in termini esclusivi[93] la propria competenza, nella materia, ai danni di quella attribuita al Consiglio, arrivando a contestare la compatibilità con il mercato degli aiuti da questo concessi ai sensi della procedura disciplinata dal citato art. 108 TFUE.

La politica di coesione, invece, è una politica più recente rispetto a quella della concorrenza e ne rappresenta una deroga. Essa, infatti, nasce in vista della realizzazione di un mercato interno ispirato a un regime di concorrenza con l’obiettivo deliberato di stemperarne gli eccessi, prevenendo gli squilibri dovuti alla mancanza di un’effettiva situazione di parità fra le Regioni quale presupposto, quest’ultima, per una proficua ed equa competizione. La politica regionale – che ai sensi dell’art. 4 TFUE rientra fra le materie di competenza concorrente – è, dunque, l’espressione della cooperazione e della solidarietà dell’Unione europea e, in tal senso, lo strumento per il raggiungimento di una maggiore ed oggettiva competitività sull’intero territorio europeo. Essa si fonda attualmente sugli artt. 174-178 del TFUE ed ha come obiettivo il rafforzamento della coesione economica, sociale e territoriale al fine di ridurre le disparità di sviluppo fra le diverse regioni europee e, quindi, fra gli Stati membri. Essa investe nelle potenzialità endogene delle Regioni per promuovere la competitività delle loro economie e favorire il progressivo recupero delle aree più arretrate[94]. E’ in quest’ambito, che il diritto dell’Unione focalizza ulteriori aspetti, connotativi e identificativi della realtà regionale, che sono suscettibili di tradursi in altrettanti “svantaggi” – per quelle aree regionali, per i loro Stati e l’Unione nel suo complesso – nell’ipotesi in cui non beneficino di misure di protezione adeguate.  Si tratta, in particolare, degli aspetti che caratterizzano «le regioni più settentrionali con bassissima densità demografica e le regioni insulari, transfrontaliere e di montagna» (art. 174 TFUE)[95] e il cui riconoscimento nel diritto primario dell’Unione costituisce un importante segnale di apertura verso la particolare condizione di alcune Regioni europee e legittima le Istituzioni dell’Unione ad adottare misure di attuazione dirette a rendere effettiva – come più volte auspicato[96] – la coesione fra le diverse aree territoriali europee.

Nei settori qui presi in esame, peraltro, le “regioni” non vengono in rilievo in termini di entità politico-amministrative incaricate del governo di un territorio, bensì in quanto macroaree economico-sociali (NUTS)[97]. L’aspetto della specialità regionale che viene in rilievo (ovvero lo svantaggio che determina, a seconda dei casi, l’ammissione al finanziamento dei Fondi a finalità regionale o la legittimità dell’aiuto di Stato) ai fini dell’UE, dunque, è quello incidente sulla gestione delle due politiche della coesione e della concorrenza. Resta ininfluente, al riguardo, l’eventuale autonomia interna delle Regioni interessate e, in particolare, la qualità e la portata delle competenze (legislative, amministrative, ecc.) ad esse riconosciute dall’ordinamento dello Stato; salvo che nella normativa attuativa di uno dei due settori in esame (come, ad esempio, capita in quella relativa all’azione dei Fondi strutturali[98]) non sia previsto diversamente e le Regioni, in tal senso, vengano ad assumere una rilevanza giuridica che le abilita ad agire nei rapporti con l’Unione e le sue Istituzioni. Si tratterebbe, pur sempre di un’attività regionale concepita nel quadro dei rapporti fra Stati membri (e che, dunque, connota le Regioni come organi dello Stato anziché come enti distinti) anche se, non bisogna sottovalutarlo, essa consente alle Regioni di assicurarsi il controllo (e a volte la responsabilità) dell’attuazione del diritto dell’Unione da cui è interessata.

Certo va qui osservato, a titolo di prima e sommaria conclusione, che il diritto dell’Unione mostra non solo di non ammettere forme di tutela dirette a valorizzare la specialità regionale ma, non diversamente dal diritto nazionale, di mal tollerare anche la previsione di misure adatte ad escludere che la diversità regionale possa trasformarsi in uno svantaggio.

 

 

9. – Segue: La specialità regionale nella giurisprudenza della Corte di giustizia

 

L’analisi svolta al paragrafo precedente ha messo in evidenza che la specialità regionale rappresenti il risultato di una deroga utilizzata dagli Stati membri allorché questi intendano attribuire rilievo alla propria specificità interna ai fini dell’assolvimento dei propri obblighi comunitari. Si tratta, in verità, di misure eccezionali che manifestano apertamente questa loro caratteristica allorché da un piano generale – qual è quello che attesta il divieto di ingerenza dell’Unione nei rapporti soggetti alla sovranità degli Stati membri – ci si sposta ad un piano settoriale qual è quello di disciplina della concorrenza: nell’ambito di tale settore, infatti, la Commissione applica la deroga in modo rigido e finalizzato oppure revoca quella già autorizzata perché lesiva del regime di libera concorrenza, sollevando più di una volta dubbi sull’effettiva situazione di parità degli attori economici in competizione fra loro.

Nel caso di specie, inoltre, il territorio regionale – anche quando coincide con quello amministrato dall’ente pubblico decentrato – è preso in considerazione unicamente come area beneficiaria[99] dell’aiuto di Stato e al fine di calibrare l’entità dell’aiuto in misura compatibile con il mercato interno. In linea di principio, quindi, le attività delle Regioni – anche quando sono espressione di competenze speciali coinvolte[100] nella richiesta e nella gestione dell’aiuto – non hanno rilevanza autonoma ai fini dell’assolvimento di tali obblighi, limitandosi a costituire l’attività giuridicamente rilevante dello Stato membro di appartenenza per l’osservanza degli obblighi di diritto dell’Unione nella materia[101].

Ad un attento esame della prassi, tuttavia, le Regioni (insieme ai loro Stati) sembrano non interpretare correttamente il loro ruolo sul piano dell’Unione e il loro rapporto con le sue Istituzioni. Questo punto sembra emergere, con particolare evidenza, nella giurisprudenza della Corte di giustizia in materia di inadempimento degli obblighi UE nel settore degli aiuti di Stato – attinenti, precisamente, al recupero delle somme indebitamente concesse – ed è verificabile, peraltro, alla luce di un esame comparatistico dell’esperienza maturata, al riguardo, dagli enti europei di livello regionale.

In una sua recente sentenza[102], ad esempio, la Corte dichiara che lo Stato (nel caso concreto, quello italiano) «non ha correttamente eseguito la Decisione 2008/92 della Commissione» e che, al riguardo, essa non abbia chiesto nemmeno una modifica di tale Decisione per poter procedere alla sua attuazione in ordine al recupero delle somme illegittimamente percepite. I motivi di ordine interno che lo Stato interessato adduce, per eccepire il mancato adempimento dei propri obblighi, secondo la Corte, infatti, non assumono in sé stessi alcuna rilevanza per il diritto dell’Unione. «Lo Stato membro» continua la Corte «è tenuto […] ad adottare ogni [altra] misura idonea ad assicurare l’esecuzione di tale decisione» e che, quindi, «consenta il rimborso dell’aiuto» (corsivo aggiunto). In altre parole, secondo la Corte di giustizia, lo Stato e, quindi, i suoi organi (le Regioni, nel caso di specie), sono tenuti ad adoperarsi in ogni modo per eseguire gli obblighi dell’Unione senza che assumano importanza, al riguardo, quelle attività, e in particolare quegli ostacoli, di carattere interno che non sono contemplati dal diritto dell’Unione. L’esistenza di attività di diritto interno (nel caso della sentenza in esame, la procedura di fallimento di una delle ditte coinvolte) che ostacolano e si frappongono alla effettiva e corretta attuazione degli obblighi comunitari, tuttavia, può essere fatta valere dallo Stato e dalle Regioni interessate nell’ambito di una procedura davanti alla Commissione: questa si attua invocando «l’impossibilità assoluta»[103] ad eseguire la decisione con la quale la Commissione obbliga lo Stato al recupero delle somme indebitamente concesse; o richiedendo alla Commissione di modificare tale decisione «al fine di superare le difficoltà connesse all’attuazione effettiva e immediata della medesima»[104] e formulando proposte alternative al riguardo[105].

Alla luce di quanto ora osservato emerge che l’assolvimento degli obblighi comunitari comporta lo svolgimento di una serie di attività, sia statali che comunitarie, dirette a realizzare ovvero a facilitare l’adattamento dell’ordinamento statale ai detti obblighi. Non tutte le attività dello Stato, però, sono idonee ad adempiere gli obblighi comunitari, ma soltanto quelle attività prescritte dal diritto comunitario (nel caso di specie quello adottato dalla Commissione) per adeguare[106] l’ordinamento nazionale interessato agli obblighi in esso stabiliti. Lo Stato, pertanto, come si è visto, non può opporre vincoli derivanti dal proprio diritto interno per vanificare l’attuazione del diritto comunitario e, quindi, eludere gli impegni assunti nei confronti degli altri Stati[107]. In caso di una sua “impossibilità assoluta” ad adempiere, però, lo Stato può far valere (seguendo apposite procedure) le attività ostative del diritto interno e chiedere la modifica delle modalità di adempimento dei propri obblighi: in altre parole, esso viene messo in condizione di dare rilevanza giuridica a situazioni (normative, procedimenti, rapporti, ecc.) di diritto interno che, altrimenti, lo renderebbero inadempiente di fronte all’Unione.

Dalla giurisprudenza presa in esame si evince che gli Stati membri e, con essi, le Regioni, tuttavia, non pongono in essere le giuste attività e non utilizzano gli strumenti e le procedure messi a disposizione dall’Unione per onorare gli impegni prescritti. A volte, perciò, essi si limitano a svolgere attività informali (prive cioè di qualsiasi valore giuridico) che, non concretandosi in atti della propria sovranità, sono inadeguati al soddisfacimento dei propri obblighi sul piano dell’Unione[108]; altre volte, pongono in essere atti di sovranità non rilevanti ai fini dell’osservanza dei propri obblighi in quanto non costituiscono misure di adattamento al diritto dell’Unione[109]. Modalità, queste, che denotano una mancata presa di coscienza delle particolarità del sistema comunitario e che, in definitiva, frustrano la capacità dei soggetti interessati di inserirsi efficacemente nei meccanismi di funzionamento del detto sistema e di incidere sui suoi obblighi.

 

 

10. – Conclusioni

 

Nelle pagine che precedono, si è potuto accertare che il riconoscimento alle Regioni di posizioni di specialità, in deroga al regime ordinario, è una circostanza eccezionale che dipende, tanto sul piano nazionale quanto su quello dell’Unione, dall’interpretazione e applicazione dei criteri in base ai quali si valuta la sua opportunità.

In particolare, l’indagine ha accertato che, con riguardo ad entrambi gli ordinamenti, un’interpretazione riduttiva e distorta dei principi sui quali si basa il suo riconoscimento, porta a fraintendere i caratteri e le finalità della specialità regionale con conseguenze che si riflettono, inevitabilmente, sulla determinazione delle misure più adatte a proteggerla, a valorizzarla e ad evitare che essa si traduca in un disvalore contrario al nostro ordinamento. Allo stato attuale, perciò, l’istituto della specialità è insuscettibile di rispondere alle esigenze di tutela della diversità regionale.

Se gli esiti della cattiva gestione della specialità regionale sono analoghi nei due ordinamenti, le cause di questo fenomeno manifestano viceversa alcune differenze su cui vale la pena soffermarsi.

Con riguardo al piano nazionale, in effetti, è fin troppo noto che una politica poco lungimirante ha portato ritardi e lacune nell’attuazione degli statuti di diritto speciale che hanno ostacolato l’effettiva valorizzazione della diversità regionale; d’altro canto, la tensione, del tutto attuale, verso forme di differenziazione regionale sempre più orientate a promuovere i meriti, ma che nei fatti, invece, premiano i più forti (cioè, i privilegiati), trascura (quando pure non ignora) l’adozione di strumenti diretti ad evitare che la diversità si traduca in uno svantaggio per le Regioni interessate e per l’intero territorio nazionale.

Sul piano dell’Unione, invece, da un lato, una rigida e rigorosa interpretazione della politica della concorrenza (e anche della politica di coesione) – che, sostanzialmente, non ammette deroghe alla sua applicazione e che, per il momento, non subisce temperamenti nemmeno di fronte alla grave crisi economica in atto – e, dall’altro, l’incapacità degli enti regionali di organizzarsi con l’istituzione di appositi organismi e strumenti (normativi, procedurali, istituzionali, ecc.) in vista di rapportarsi in modo adeguato e consapevole agli standard normativi comunitari, costituiscono un ostacolo per le Regioni per affermare la loro specificità e la loro effettiva partecipazione alla logica e alle politiche dell’Unione.

Si tratta, evidentemente, di aspetti che aprono un complesso e delicato scenario sui problemi e le responsabilità che affliggono l’istituto della specialità regionale, ma che non si possono affatto continuare a trascurare e sui quali si gioca, evidentemente, il suo rilancio nel futuro.

 

 

                    Abstract

 

Due to their particular characteristics and conditions, a few Regions are granted a special status, in the national as well as in the European Union juridical order. Regional speciality is normally guaranteed by means of two kind of measures aimed, on one side, to protect and value the peculiar regional characteristics and, on the other side, to avoid that this peculiarity becomes an handicap for the concerned Regions.

The practice, however, shows that - even if with some differences - both in national and in European Union legal order, these measures are confused, overlapped and adopted in a very limited range of cases. Regional speciality is perceived as a pretext for a legal status of privilege in violation of the principle of equality, so that it is generally disregarded and also challenged.

This situation evidences the necessity of rethinking regional speciality, verifying the causes and responsibilities of its decadence, in view of relaunching it and the territorial context to which these special Regions belong.

 

 

 



 

[Per la pubblicazione degli articoli della sezione “Contributi” si è applicato, in maniera rigorosa, il procedimento di peer review. Ogni articolo è stato valutato positivamente da due referees, che hanno operato con il sistema del double-blind].

 

[1] Sui ritardi nell’attuazione del modello regionale nel nostro ordinamento v. G. Moschella, Principio di specialità, forma di stato e forma di governo. Qualche riflessione sull’autonomia regionale speciale, in Studi in memoria di Elio Fanara, Milano, 2008, 592. Con particolare riferimento alla mancata attuazione del modello regionalista nelle Regioni a statuto speciale v., inoltre, O. Chessa, Specialità e asimmetria nel sistema regionale italiano, in Diritto @ Storia, n. 10, 2011-2012; P. Giangaspero, I decreti di attuazione dello Statuto speciale tra garanzia della specialità regionale ed esigenze di tutela del ruolo costituzionale degli enti locali dopo la riforma del Titolo V, Parte II, della Costituzione, in Atti del Convegno 8 maggio 2006 - Villa Manin Passariano/ Codroipo, http://autonomielocali.regione.fvg.it/aall/export/sites/default/AALL/Servizi/pubblicazioni/allegati/conv8mag06normeAttuazStatuto-06marzo2007.pdf, 13 ss.

 

[2] Ritengono che il problema della contrapposizione fra Stato centrale e decentrato sia stato superato dalla riforma costituzionale E. Espa, M. Felici, La riforma del Titolo V della Costituzione: la ripartizione delle competenze, in Rapporto annuale 2003 sull’attuazione del federalismo, 2003, p. 3 secondo cui il nuovo testo dell’art. 114 Cost. it. seguirebbe «una logica di equiordinazione […] senza distinzione tra livelli gerarchici».

 

[3] Cfr. sul punto G. Moschella, Principio di specialità cit., 595.

 

[4] Su questa linea G. Moschella, Principio di specialità  cit., 596.

 

[5] Vale la pena ricordare il dettato dell’art. 114 della Costituzione italiana del 1948 che recitava: «la Repubblica si riparte in Regioni, Province e Comuni».

 

[6] Così L. Antonini, Le Regioni a statuto speciale e l’articolo 116 della Costituzione, in http://www.giuri.unipd.it/conferences/FOV2-00023BC3/FOV2-00023BC4/_24ottobre2012-1.pdf, 18; R. Bin, L’autonomia e i rapporti tra esecutivo, legislativo e le commissioni paritetiche, in A. Di Michele, F. Palermo, G. Pallaver (a cura di), 1992 - fine di un conflitto, Bologna, 2003, 205-218; G.C. De Martin, Le autonomie regionali tra ambivalenze e potenziali involuzioni e privilegi, in www.amministrazioneincammino.it ; G. Moschella, Principio di specialità  cit., 596.

 

[7] Così riferisce A. D’Atena, La parabola delle autonomie speciali, in ID., Costituzione e Regioni. Studi, Giuffré Milano, 1991, 382.

 

[8] Legge costituzionale 18 ottobre 2001, n. 3 Modifiche al titolo V della parte seconda della Costituzione, in Gazz. Uff.  n. 248 del 24 ottobre 2001.

 

[9] Legge 5 giugno 2003, n. 131 Disposizioni per l’adeguamento della Repubblica alla legge costituzionale del 18 ottobre 2001 n. 3, in Gazz. Uff. n. 132 del 10 giugno 2003.

 

[10] Così L. Antonini, Le Regioni a statuto speciale cit., 18; ID., Riforma del Titolo V per invertire la rotta, in Il Sole24ore, 4 ottobre 2012, 18; M. Bertolissi, Federalismo fiscale: una nozione giuridica, in Federalismo fiscale, 2007, 9 ss.

 

[11] In questo senso, A. D’Atena, La parabola delle autonomie speciali cit., 382. Il mantenimento del principio di specialità era stato già in passato messo in discussione: v. in tal senso M. Luciani, Le Regioni a statuto speciale nella trasformazione del regionalismo italiano (con alcune considerazioni sulle proposte di revisione dello Statuto della Regione Trentino Alto Adige), in Riv. dir. cost., 1999, 220.

 

[12] G. Mor, Le Regioni a Statuto speciale nel processo di riforma costituzionale, in Le Regioni, n. 2/1999, 200.

 

[13] V. in tal senso, G. DEMURO, Regioni ordinarie e regioni speciali, in T. GROPPI-M. OLIVETTI (a cura di), La Repubblica delle autonomie, Torino, 2001, 47; A. Ruggeri, Prospettive di una “specialità” diffusa delle autonomie regionali, in Nuove Autonomie, 2000, 845 ss.

 

[14] V., per tutti, M. Cecchetti, Le fonti della “differenziazione regionale” ed i loro limiti a presidio dell’unità e indivisibilità della Repubblica, in S. Pajno, G. Verde, Studi sulle fonti del diritto. Le fonti delle autonomie territoriali, II vol., Milano, 2010, 68 ss.; G. Moschella, Principio di specialità cit., 597; F. Palermo, Il regionalismo differenziato, cit., 54 ss.

 

[15] In tal senso O. Chessa, La specialità regionale tra leggi di revisione della Costituzione e altre leggi costituzionali, in Le Regioni, 2/2009, 297 ss. Più in generale, sul valore attuale del principio di specialità nel nostro ordinamento e sulla circostanza che esso “costituisca un carattere fondamentale del nostro ordinamento costituzionale e, come tale, indisponibile al potere di revisione costituzionale” anche A. D’Atena, Dove va l’autonomia regionale speciale?, in Rivista di diritto costituzionale, 1999, 208; V. Onida, Le costituzioni. Principi fondamentali della Costituzione italiana, in G. Amato, A. Barbera (a cura di), Manuale di diritto pubblico, Bologna, 1997, 112; G. Moschella, op. cit., 596 e la dottrina ivi richiamata alle note 14-16.

 

[16] Così P. Caretti, (Editoriale, in Le Regioni, 2000, 797) secondo cui la riforma avrebbe dato vita a una «nuova specialità»  che, anziché costruirsi a priori, sulla situazione «storica» - criterio, questo, ritenuto eccessivamente rigido e statico - può semmai fondarsi su elementi del tutto diversi e «legati essenzialmente alla capacità di governo delle esigenze e delle domande politiche delle comunità regionali». Sul punto v. anche R. Bin, L’autonomia e i rapporti tra esecutivo, legislativo cit., 205 il quale constata che, eccettuate la Val d’Aosta e la Provincia di Bolzano, nelle altre realtà, «le ragioni della specialità si riducono a pochi tratti, a profili esclusivamente giuridici e a privilegi finanziari che, privi di giustificazioni sociologiche, ormai sono odiosi, sono visti dal resto della comunità nazionale come retaggi ingiustificabili, privi di un valido fondamento istituzionale»; G. Moschella, Principio di specialità cit., 596.

 

[17] Si esprimono in questo senso G. Moschella, op. cit., 617 ss.; L. Salomoni, Note in tema di problematiche attuative dell’art. 116 c.III Cost. Il caso della Regione Lombardia, in Amministrazione in cammino, 2010, 3 ss. In argomento v. anche i diversi punti di vista in A. Ferrara, G.M. Salerno (a cura di), Le nuove specialità nella riforma dell’ordinamento regionale, ISSIRFA-CNR, Milano, 2003.

 

[18] Così A. Morrone, Il regionalismo differenziato Commento all’art. 116, comma 3, della Costituzione, in Federalismo fiscale, 2007, 143 ss.

 

[19] L’inopportunità di un controllo da parte della Corte Costituzionale nella verifica delle condizioni necessarie dell’autonomia di tipo “differenziato” è sottolineata da A. Ruggeri, La “specializzazione” dell’autonomia regionale: se, come e nei riguardi di chi farvi luogo, http://www.forumcostituzionale.it/site/images/stories/pdf/documenti_forum/paper/0027_ruggeri.pdf , 9.

 

[20] Per questa espressione v. O. Chessa, Specialità e asimmetria cit., par. 1 ss.; è di F. Palermo, Federalismo asimmetrico e riforma della Costituzione italiana, in Le Regioni, 1997, 291 ss.

 

[21] Si tratta della Legge 5 maggio 2009, n. 42, "Delega al Governo in materia di federalismo fiscale, in attuazione dell'articolo 119 della Costituzione", in Gazz. Uff. n. 103 del 6 maggio 2009. Merita in proposito di essere osservato che, in Italia, il federalismo fiscale, che non era espresso nella Costituzione del 1948, è stato introdotto con la riforma del Titolo V della Costituzione operata dalla legge cost. n. 3/2001 che, all’art. 119, ne ha stabilito i principi regolatori, ed è entrato in funzione a seguito dell'approvazione della legge 42/2009 in oggetto.

 

[22] In questo senso O. Chessa, Specialità e asimmetria cit., par. 8. 

 

[23] Cfr. sul punto F. Palermo, Il regionalismo differenziato, in T. Groppi, M. Olivetti, (a cura di), La Repubblica delle autonomie. Regioni ed enti locali nel nuovo Titolo V, Torino, 2003, 55 ss.

 

[24] Sul punto v. di recente S. Zorzetto, Lex specialis e ragionamento giuridico, in XVIII Seminario Italo-spagnolo-francese di Teoria del Diritto, www.unibocconi.eu/wps/wcm/connect/35529f60.../Zorzetto.pdf , 24, secondo cui «per tutti gli studiosi, nessuna norma è speciale di per sé bensì la specialità è un concetto (attributo o predicato) che sottende un rapporto o relazione di tipo logico-concettuale: il cosiddetto rapporto di specialità o relazione da genere a specie o a genere ad speciem».

 

[25] Sulla natura derogatoria del diritto speciale regionale v. G. Moschella, Principio di specialità  cit., 21. Più in generale sull’istituto della deroga v. G.U. Rescigno, Deroga (in materia legislativa), in EdD, XII, 1964, 303 ss.

 

[26] Il principio di specialità, in quanto, norma e valore autonomo di carattere fondamentale del nostro ordinamento è suscettibile di manifestarsi in un’ampia varietà di fattispecie, avuto riguardo al loro profilo oggettivo e soggettivo: in particolare, con riguardo alle normative di tutela dei c.d. gruppi vulnerabili. Per alcuni riferimenti bibliografici su questo concetto si rinvia a v. L. Mura, I diritti delle donne e la tutela della diversità nel diritto internazionale, in Riv. int. dir. uomo, 1/2000, 47 ss.; E. Palici di Suni Prat, La tutela delle minoranze tra Stato e Regioni in Italia, in S. Bartole, N. Olivetti Rason, L. Pecoraro (a cura di), La tutela giuridica delle minoranze, Padova, 1998, 149 ss. Sull’esistenza nel nostro ordinamento del principio di specialità regionale e sul suo carattere fondamentale v. A. D’Atena, Dove va l’autonomia regionale speciale?, in Rivista di diritto costituzionale, 1999, 208; V. Onida, Le costituzioni. Principi fondamentali della Costituzione italiana, in G. Amato, A. Barbera (a cura di), Manuale di diritto pubblico, Bologna, 1997, 112; P. Pinna, Il ruolo della Regione nella riforma dello Statuto, in Diritto @ Storia, n. 7, 2008.

 

[27] Sulla circostanza che, nel caso di una loro abrogazione, le fattispecie di deroga rientrerebbero nell’ambito di applicazione del diritto generale v. G. U. Rescigno, Deroga cit., 303 ss.

 

[28] Cfr. Bartole, L’elaborazione del parametro, in Corte costituzionale e principio di eguaglianza, Padova, 2002, 39.

 

[29] Sulla necessaria rispondenza della deroga ai requisiti di “ragionevolezza” e “proporzionalità” v. Corte Costituzionale (Servizio Studi), I principi di proporzionalità e ragionevolezza nella giurisprudenza costituzionale, anche in rapporto alla giurisprudenza delle Corti europee, Quaderno predisposto in occasione dell’incontro trilaterale tra Corte costituzionale italiana, Tribunale costituzionale spagnolo e Corte costituzionale portoghese. Roma, 25-26 ottobre 2013, http://www.cortecostituzionale.it/documenti/convegni_seminari/RI_QuadernoStudi_Roma2013.pdf .

 

[30] E’ noto, in tal senso che, il principio di eguaglianza oltre che norma e valore autonomo del nostro ordinamento costituisce, altresì, un parametro di valutazione di legittimità di tutte le norme del nostro ordinamento giuridico secondo la nota teoria del tertium comparationis. Su questa nota teoria, che considera il principio di eguaglianza come tertium comparationis nel giudizio di costituzionalità delle leggi, si rinvia al suo insigne autore: L. Paladin, Il principio costituzionale d’uguaglianza, Milano, 1965. Sul principio di eguaglianza come strumento di controllo e razionalità dell’ordinamento e, in particolare, come limite, formale e sostanziale, al potere legislativo dello Stato v. A. Moscarini, Principio costituzionale, in I Diritti costituzionali, Torino, 2001, 162; S. Bartole, L’elaborazione del parametro cit., 35 ss. Sul principio di uguaglianza, come parametro fondamentale per determinare la legittimità del trattamento di specialità riservato alle nostre Regioni v. da ultimo, G. Moschella,  Principio di specialità cit., 13-14.

 

[31] Secondo S. BARTOLE, op. cit., 39 l’accertamento della conformità della deroga rispetto all’ordinamento nel suo complesso avrà come termine di paragone principalmente il principio di eguaglianza. In questo senso, anche la dottrina (v. A. Ruggeri, La “specializzazione” dell’autonomia regionale cit., 16) favorevole al c.d. “regionalismo diffuso”, subordina la legittimità delle nuove forme di “differenziazione” regionale al principio di eguaglianza.

 

[32] Così da ultimo Corte costituzionale it., sentenza del 7 ottobre 2009, n. 262, punto 7.3.2.2. anche in relazione al rapporto del principio di eguaglianza con la deroga. 

 

[33] Così emblematicamente già si esprimeva la Corte costituzionale nella sentenza n. 3 del 1957 laddove affermava che il principio di eguaglianza «non va inteso nel senso che il legislatore non possa dettare norme diverse per regolare situazioni che esso ritiene diverse, adeguando così la disciplina giuridica agli svariati aspetti della vita sociale».

 

[34] Sia consentito, sul punto, rinviare al nostro Il principio di eguaglianza nel diritto dell’Unione europea alla luce della più recente giurisprudenza della Corte di giustizia in materia di assicurazioni, in Studi sull’integrazione europea, 3/2011, 555 ss., spec. 558-561.

 

[35] A. Moscarini, Principio costituzionale  cit., 162-164, 174-175.

 

[36] Così Corte costituzionale, sentenza 14 aprile 2010, n. 138.

 

[37] Secondo una parte della dottrina, un tale principio, in realtà non dovrebbe neppure essere soggetto a revisione costituzionale: cfr. P. Giocoli Nacci, Enti territoriali e mutamenti dei territori, Bari, 2005, 118 ss.; A. Morrone, Il regionalismo differenziato cit., 146; G. Moschella, Principio di specialità  cit., 16-17 e dottrina ivi citata, nota 15, 16. Si tratta di una tesi sostenuta già prima della riforma del 2001: v. BARBERA (a cura di), Manuale di diritto pubblico, Bologna, 1997, 112; A. D’Atena, Dove va l’autonomia regionale speciale?, in Rivista di diritto costituzionale, 1999, 208; G. Mor, Le modificazioni territoriali e statutarie per il Friuli-Venezia Giulia tra limiti alla revisione costituzionale, procedimenti super aggravati procedimenti semplificati, in Scritti in onore di P. Biscaretti di Ruffia, Milano, 1994, 941 ss.; V. Onida, Le costituzioni. Principi fondamentali della Costituzione italiana, in G. Amato, L. Paladin, La potestà legislativa regionale, Padova, 1958, 53.

 

[38] Si tratta delle sentenze n. 175/2006, n. 249/2005, n. 412/2004, n. 228/2003 e n. 103/2003.

 

[39] Così, rispettivamente, le citate sentenze n. 249 del 2005 punto 3.1 e n. 175 del 2006 punto 3. A suo tempo, nella sentenza n. 103 del 2003 la Corte aveva dichiarato (punto 2) che le disposizioni del Titolo V Cost. «non sono destinate a prevalere sugli Statuti speciali di autonomia» e, più precisamente, che «trattandosi di questione attinenti alla ripartizione di competenze tra Stato e Provincia autonoma (così come per le Regioni a statuto speciale) le disposizioni della legge costituzionale 18 ottobre 2001, n. 3 non sono destinate a prevalere sugli statuti speciali di autonomia e attualmente sono invocabili (art. 10 della legge costituzionale n. 3 del 2001) solo per le parti in cui prevedono forme di autonomia più ampie di quelle già attribuite e non per restringerle». Sul punto v. G. Paganetto, Dimensione della competenza legislativa regionale e revisione dello Statuto speciale: le indicazioni della giurisprudenza costituzionale, in G. Demuro (a cura di), L’Autonomia positiva. Proposte per un nuovo Statuto della Sardegna, Cagliari, 2007, 55 ss.

 

[40] In tal senso G. Di Cosimo, Nuova disciplina del controllo sulle leggi regionali. Il caso delle Regioni a statuto speciale, in Le Istituzioni del Federalismo, 2/2002, 355 ss.

 

[41] V. supra, note 43 e 44.

 

[42] Sulla circostanza che il diritto speciale, una volta formato, dia origine ad un diritto nuovo e diverso, soggetto a vicende giuridiche temporali distinte da quelle del diritto generale dal quale si è emancipato (e pertanto sopravvive in caso di abrogazione di quest’ultimo) v. R. BIN, G. PITRUZZELLA, Diritto costituzionale, Torino, 2001, 308; U. RESCIGNO, Deroga cit., 303.

 

[43] Si veda ad esempio A. Morrone, Il regionalismo cit., secondo cui con riferimento all’art. 116 Cost. «Tecnicamente, quindi, siamo fuori dell’ipotesi di una “rottura” della Costituzione (Verfassungsdurchbrechung), almeno nel senso di violazioni di disposizioni costituzionali in uno o più casi determinati, come eccezione e cioè nel senso che le disposizioni trasgredite per il resto continuino a essere valide, senza essere né soppresse né sospese (cfr. C. SCHMITT, Verfassungslehre (1928), Berlin, Duncker & Humblot, 2003, 99)».

 

[44] Un tale problema è stato da noi approfondito in Il principio di eguaglianza cit., spec. 571. Sulla configurazione del problema in dottrina v. G. Di Cosimo, Nuova disciplina del controllo sulle leggi regionali. Il caso delle Regioni a statuto speciale, in Le Istituzioni del Federalismo, 2, 2002, 355.

 

[45] Sui problemi relativi all’applicazione delle norme di principio nella prassi sia consentito rinviare al nostro Gli accordi delle Regioni con soggetti esteri e il diritto internazionale, Giappichelli, Torino, 2007, 477 ss.

 

[46] Si v. L. Sitzia L., Pari dignità e discriminazione, Napoli, 2011; F. Sorrentino, Eguaglianza, Torino, 2011.

 

[47] Con riguardo al rapporto fra Statuti speciali e norme di attuazione da un lato, e al rapporto fra queste ultime e la legge ordinaria dall’altro, v. C.G. Carboni, La Corte indica le ragioni dell’autonomia finanziaria delle Regioni speciali e anticipa le scelte della legge delega sul “federalismo fiscale”, in Le Regioni, 2009, 721; P. Giangaspero, I decreti di attuazione dello Statuto speciale cit., 18 ss.

 

[48] Così A. Morrone, Il regionalismo cit., 9, 147.

 

[49] Ibidem.

 

[50] In tal senso v. supra, par. 2.

 

[51] L’art. 10 legge costituzionale 3 del 2001 relativo alla clausola di cui si tratta, è stato oggetto di numerosi commenti: si v. per tutti  i vari contributi comparsi nel volume A. FERRARA, G.M. SALERNO (a cura di), Le nuove specialità nella riforma dell’ordinamento regionale, Milano, 2003; G. COINU, G. DEMURO, Regioni a Statuto speciale e clausola di adeguamento automatico, in Osservatorio sulle fonti 2002, Torino, 2001, 101 ss.; A. AMBROSI, La competenza legislativa delle Regioni speciali e l’art. 10 della legge cost. n. 3 del 2001, in Le Regioni, 2003, 825 ss.

 

[52] L’espressione è di G. Di Cosimo, Nuova disciplina cit., 364 nota 23.

 

[53] Cfr. sul punto O. Chessa, Specialità e asimmetria cit., spec. par. 4 ss.

 

[54] Si tratta di un’espressione di einaudiana memoria (v. L. Einaudi, L’uguaglianza nei punti di partenza, in Lezioni di politica sociale, Einaudi, Torino, 2004, 182) fatta propria dall’Unione europea in tema di diritti speciali.

 

[55] Nell’istituire un regime che alimenta una “diversità” di fatto, la disciplina sulla concorrenza non è adatta a compensare, né a completare le situazioni tutelate dalla “specialità regionale tradizionale”: lungi dal creare un circuito virtuoso atto a migliorare l’azione regionale, essa accentua gli svantaggi esistenti fra le Regioni (che, peraltro, la “specialità tradizionale”, in linea di principio, non è preordinata a regolare). Assai indicativa, in tal senso, è l’esperienza maturata nell’ambito della politica di concorrenza dell’UE. In questo contesto, infatti, non solo le forze del mercato non si sono dimostrate in grado di colmare le differenze di reddito, produttività e occupazione tra le regioni europee ma, al contrario, con un processo di integrazione economica incentrato sulla liberalizzazione degli scambi e dei mercati e sulla libera concorrenza, alcune di queste disparità risultano amplificate, soprattutto per le regioni più periferiche: questa, fra l’altro, è una delle ragioni alla base dell’istituzione e dello sviluppo della politica della coesione europea (sul punto v. infra, par. 7 ss.).

 

[56] Sulle misure di eguaglianza sostanziale e sulla loro distinzione da quelle tese a proteggere la diversità sia consentito rinviare ancora una volta al nostro Il principio di eguaglianza cit., spec. 558-561.

 

[57] V. in tal senso O. Chessa, Specialità e asimmetria cit., par. 7 ss.

 

[58] Sul punto v. per tutti T. Martines, A. Ruggeri, C. Salazar, Lineamenti di diritto regionale, Milano, 2008, 80 ss.

 

[59] Supra, par. 1.

 

[60] Così A. Zanelli, G. Romeo, Profili di diritto dell’Unione europea, Rubettino ed., Soveria Mannelli, 2002, 79.

 

[61] Così A. DRZEMCZEWSKI, The sui generis Nature of the European Convention on Human Rights, in Int’l & Comp. LQ, 1980, 54 ss.

 

[62] Secondo G.P. Orsello (Ordinamento comunitario e Unione europea, Giuffré, Milano, 2001, 93) l’Unione europea costituisce un “ordinamento giuridico” (sul quale cfr. F. MODUGNO, Ordinamento giuridico (dottrine), in Enciclopedia del Diritto (voce), vol. XXX, Giuffré, Milano, 1980, 678-736 e bibliografia ivi richiamata) vero e proprio seppure non ancora «compiuto».

 

[63] Così F. Sorrentino, Profili costituzionali dell’integrazione comunitaria, Torino, 1995, spec. 54-55.

 

[64] P. De Cesari, Diritto Internazionale privato dell’Unione europea, Giappichelli,Torino, 2011, 7.

 

[65] Su questi principi v. di recente F. Raspadori, La partecipazione delle regioni italiane all’Unione europea dopo il Trattato di Lisbona, Torino, 2012.

 

[66] Così R. Adam, A. Tizzano, Lineamenti di Diritto dell’Unione europea, Torino, 2010, 15. Nello stesso senso G. Falcon, La “cittadinanza europea” delle regioni, in Le Regioni, 2001, 329; V. Onida, M., Cartabia,Le Regioni e la Comunità europea, in M. P. Chiti, G. Greco (diretto da), Trattato di diritto amministrativo europeo, Parte generale, Milano, 1997, 605.

 

[67] Ibidem, con riferimento a Corte di giustizia, ordinanza 21 marzo 1997, causa C-95/97, Régione Wallone/Commissione, Raccolta, I-1787; e ordinanza 1° ottobre 1997, causa C-180/97, Regione Toscana/Commissione,  Raccolta, I-5249.

 

[68] Nella Carta comunitaria della regionalizzazione, adottata dal Parlamento europeo il 18 novembre 1988, (Risoluzione PE 18/11/1988 GUCE, C 326/88) all’articolo 1 viene data la seguente definizione del termine “regione”: «si intende per regione un territorio che costituisce geograficamente un’entità propria o un insieme di territori simili nei quali esiste una certa continuità o la cui popolazione possiede certi elementi comuni e desidera salvaguardare la specificità che ne risulta e svilupparla al fine di promuovere il progresso culturale, sociale ed economico».

 

[69] In tal senso la Carta ha promosso l’istituzione - o la conservazione laddove già esistessero – di enti di tipo regionale da parte degli Stati membri (art. 2), aventi personalità giuridica (art. 3), titolari di competenze legislative (art. 4) e direttamente eletti dai cittadini (artt. 6-7, 9).

 

[70] Va al riguardo osservato che questo, ai sensi dell’art. 300 TFUE è composto «da rappresentanti delle collettività Regionali e Locali che sono titolari di un mandato elettorale nell’ambito di una collettività regionale o locale, o politicamente responsabili dinanzi ad un’assemblea eletta». Il Comitato delle Regioni, secondo la lettera dell’art. 307 TFUE, deve essere consultato dal Parlamento europeo, dal Consiglio e dalla Commissione nei casi previsti dai trattati e in tutti gli altri casi in cui una di tali istituzioni lo ritenga opportuno, in particolare nei casi concernenti la cooperazione transfrontaliera»; esso può altresì «formulare un parere di propria iniziativa» specie «qualora ritenga che sono in causa  interessi regionali specifici». Sul Comitato delle Regioni v. di recente G. Fiengo, La valorizzazione della dimensione regionale nel Trattato di Lisbona: il ruolo del Comitato delle Regioni, in Diritto Pubbl. Comp. ed europeo, 2012, 25 ss.

 

[71] Cfr. sul punto M.P. Chiti, Per una dimensione europea del “nuovo regionalismo”, in Il dibattito sulla riforma regionale, in http://www.regione.emilia-romagna.it/affari_ist/supplemento_2_10/Chiti.pdf, 87 ss.

 

[72] Sull’utilizzo del termine “costituzione” per definire l’atto istitutivo dell’UE nonostante la mancata adozione del “Trattato che adotta una Costituzione per l’Europa” v. A. Cantaro, Il costituzionalismo asimmetrico dell'Unione. L'integrazione europea dopo il Trattato di Lisbona, Torino, 2010.

 

[73] Così l’ordinanza 21 marzo 1997, Région Wallone cit. supra, nota 67.

 

[74] La Corte di giustizia preferisce parlare, al riguardo, di “beneficiari finali”: così l’ordinanza 9 luglio 2013, C-586/11/P, Regione Puglia/Commissione europea, non ancora pubblicata in Raccolta, punti 4,46. Su questa linea si colloca anche il Tribunale (Terza Sezione) con l’ordinanza 8 luglio 2004, T-341/02, Regione Siciliana/Commissione, Raccolta, 2004, II-02877, laddove al punto 62 osserva «A tale riguardo, si deve sottolineare che un ente pubblico locale, quale la ricorrente, incaricato della gestione, a livello regionale, dei fondi percepiti dal FESR non può essere assimilato allo Stato membro stesso (ordinanza della Corte 21 marzo 1997, causa C-95/97, Région wallonne/Commissione, Raccolta, I-1787, punto 6)» e inoltre che «dalla pertinente normativa, segnatamente dall’art. 4, n. 1, primo comma, del regolamento n. 2052/88, emerge che viene ivi operata una chiara distinzione tra gli Stati membri, da un lato, e gli organismi o le autorità competenti dal medesimo designati a livello nazionale, regionale o locale, dall’altro». La coincidenza fra la nozione di soggetto di un ordinamento e quello di destinatario degli obblighi in esso stabiliti è stata oggetto d’esame, con posizioni diverse, da da G. Arangio Ruiz, L. Margherita, E. Tau Arangio Ruiz, Soggettività nel diritto internazionale, in Digesto delle discipline pubblicistiche, 1999, 303 ss.; C. Focarelli, Lezioni di storia del diritto internazionale, Morlacchi, Perugia, 2002, 7; U. Leanza, I. Caracciolo, Il diritto internazionale: diritto per gli Stati e diritto per gli individui, Torino, 2008, 116 ss.

 

[75] Cfr. sul punto G. Conso, Conferenza stampa. Punto Y). Diritto internazionale e Diritto comunitario, in La giustizia costituzionale nel 1990, 39) http://www.cortecostituzionale.it/documenti/download/pdf/Conso_confstampa150191.pdf , secondo cui «la sentenza 124 (292) […] ha precisato che, mentre nei giudizi per conflitto di attribuzione la regione assume il ruolo di ente investito di competenza legislativa ed amministrativa in materie determinate, per cui la sua competenza (v. la sentenza 830 del 1988 (293)) non è comprimibile dallo Stato, se non quando l’intervento statale sia indispensabile per adempiere un preciso obbligo assunto formalmente in sede internazionale, nei giudizi di legittimità costituzionale di norme regionali, la regione viene in considerazione come ente destinatario degli obblighi internazionali dello Stato, ai quali essa è tenuta a dare attuazione a livello locale nell’ambito delle proprie competenze. Pertanto, anche gli obblighi internazionali dello Stato, per la cui operatività è necessaria una normazione interna, diventano parametri di valutazione della legittimità costituzionale delle leggi emanate dalla regione nelle materie su cui tali obblighi vengono ad incidere» (corsivo aggiunto).

 

[76] Così, da ultimo, Corte di giustizia, ordinanza 9 luglio 2013, C-586/11/P, Regione Puglia/Commissione europea, cit., punti 25, 31 e ss.

 

[77] Tali espressioni sono del T. Perassi, Lezioni di diritto internazionale, Padova, 1955-1957, 8.

 

[78] Quelle fin qui illustrate ci sembrano le ragioni per cui la specialità delle cinque Regioni italiane non assume rilevanza sul piano europeo come sostenuto, invece, da L. Antonini, Le Regioni a statuto speciale cit., 18: «Molti studi hanno evidenziato che anche con la nascita dell'Unione Europea le ragioni e le giustificazioni delle specialità storiche sono assai meno rilevanti di quanto lo furono in passato […]. Questa situazione rende difficilmente giustificabile il privilegio finanziario che le autonomie speciali hanno nel tempo conquistato: le giustificazioni, vere o presunte, delle specialità storiche non possono essere utilizzate per legittimare la loro presenza in un contesto diverso».

 

[79] Circa il fatto che il processo di integrazione comunitaria, lungi dal favorire il decentramento e la partecipazione delle Regioni ai processi decisionali, abbia comportato una compressione delle competenze regionali v., da ultimo, G. Iurato, Le Regioni italiane e il processo decisionale europeo, Milano, 2005, 44 ss.

 

[80] Su questa categoria di norme v., da ultimo, Corte di giustizia, ordinanza Regione Puglia cit., punti 31 e 43. Sul significato di questa tipologia di norme e, più in generale, sul c.d. diritto strumentale sia consentito rinviare al nostro Il diritto internazionale privato italiano nei rapporti con il diritto internazionale, europeo e straniero, Giappichelli, Torino, 2012, 23-38 e 55-68. Si cfr. sul punto F. Sorrentino, Profili costituzionali cit., 8-10 che, dopo aver osservato che «i regolamenti comunitari» nel nostro ordinamento vengono «qualificati come atti dotati di forza di legge» e che «i loro rapporti con le fonti nazionali si definiscono in termini di competenza, la cui linea è tracciata dai Trattati e dall’art. 11 Cost.» (ivi, 8) attribuisce, tuttavia, un valore limitato alla  forma di “continuità normativa” che, in conseguenza di ciò, viene a crearsi fra ordinamento comunitario e nazionale. Secondo questo A. , infatti, tale “continuità” non esclude un potere di adattamento agli obblighi comunitari dato che «resta fermo il principio secondo cui solo lo Stato-persona è responsabile dell’attuazione degli impegni internazionali in genere e comunitari in specie, sicché alle Regioni può essere consentito di dare attuazione a disposizioni comunitarie incidenti su materie di loro competenza, in quanto sia fatta salva la possibilità di un intervento sostitutivo dello Stato in caso di inerzia regionale» (ivi, 10).

 

[81] In tal senso, va intesa l’affermazione della Corte di giustizia nell’ ordinanza 9 luglio 2013, C-586/11/P, Regione Puglia/Commissione europea, cit., punto 33 secondo cui «la titolarità del diritto al contributo» nella specie quello del FERS ai sensi del regolamento n. 1260/99 «deve essere riconosciuta in capo alla Repubblica italiana, in quanto destinataria della decisione [controversa]».

 

[82] Ciò conformemente a quanto, più volte, ribadito dalla stessa Corte di giustizia: sul punto v. la giurisprudenza citata supra, nota 74. Sul ricorso delle persone fisiche e giuridiche sistema processuale UE v. in dottrina X. Lewis, Standing of Private Plaintiffs to Annual Generally Applicable European Measures: If the System is Broke, Where should it be Fixed, in FordHam, International Law Journal, 2007, 1496 ss.; S. M. Carbone, Le procedure innanzi alla Corte di giustizia a tutela delle situazioni giuridiche individuali dopo il Trattato di Lisbona, in Studi sull’integrazione europea, 2008, 239 ss.

 

[83] In questo senso depone l’affermazione della Corte di giustizia nell’ordinanza 9 luglio 2013, C-586/11/P, Regione Puglia/Commissione europea cit., punto 36 laddove, con richiamo alla giurisprudenza del Tribunale (si tratta dell’ordinanza del 14 settembre 2011, T-84/10, Regione Puglia/Commissione, Raccolta, II-282, punto 33), osserva che la richiesta di «rimborso dell’importo del contributo […] discende non già dal diritto dell’Unione, bensì dal diritto nazionale» (corsivo aggiunto). V. per contro L. GAROFALO, Costituzione italiana, ruolo delle Regioni e dinamica attuale dei rapporti tra ordinamento dell’Unione europea e ordinamento nazionale. Un approccio “multilivello”, in Id. (a cura di), I poteri esteri delle Regioni, Napoli, 2013, 34 secondo cui i concetti di  “monismo” e “dualismo” «non sono in grado di consentire un’esatta comprensione dell’attuale stato dei rapporti tra diritto dell’Unione europea e diritto interno italiano perché il diritto dell’Unione europea vige ed è applicabile in Italia per effetto delle deleghe di sovranità effettuate dallo Stato italiano e delle conseguenti limitazioni introdotte ai poteri sovrani del medesimo Stato» (ibidem, 34). Sul regime giuridico che attualmente connota i rapporti fra l’ordinamento interno dell’Unione e quello interno degli Stati membri v. P. Fois, Dalla CECA all’Unione europea. Il declino della sovranazionalità, in Studi sulla integrazione europea, 3/2006, 479 ss.: Id., Rapporti tra diritto interno e diritto comunitario, in EG, Aggiornamento, XV, 2007, 2 ss.; G. Tesauro, Il dialogo tra giudice italiano e corti europee, in Atti del Convegno Nazionale “Nuovi assetti delle fonti del diritto del lavoro”, 2012, caspur-ciberpublishing.it/index.php/atti_csdn/article/download/.../269 .

 

[84] Cfr. O. Porchia, Indifferenza dell’Unione nei confronti degli Stati membri e degli enti territoriali: momenti di crisi del principio, in L. Daniele (a cura di), Regioni e autonomie territoriali nel diritto internazionale ed europeo, Napoli, 2006, 269 ss. Sul principio di “non ingerenza” nel diritto internazionale v.  B. CONFORTI, Le principe de non-intervention, in M. BEDJAOUI (a cura di), Droit international-Bilan et prespectives, volume I, Parigi, 1991, 627; N. RONZITTI, Non ingerenza negli affari interni di un altro Stato, in Digesto IV delle discipline pubblicistiche, 1996, 159 ss.

 

[85] Così recentemente, la sentenza 17 ottobre 2013 C-101/12 H. Schaible/ Land Badem-Württemberg, non ancora pubblicata in Raccolta, punto 76; e, inoltre, la sentenza 26 settembre 2013, C-195/12, Industrie du bois de Vielsalm & Cie (IBV) SA/Région wallonne, non ancora pubblicata in Raccolta che, sul punto, richiama in particolare le sentenze: del 16 dicembre 2008, C-127/07, Arcelor Atlantique e Lorraine e a., Raccolta, I-9895, punto 23; del 12 maggio 2011, C-176/09, Lussemburgo/Parlamento e Consiglio, Raccolta, I-3727, punto 31; nonché del 21 luglio 2011, C-21/10, Nagy, Raccolta, I-6769, punto 47.

 

[86] Rispettivamente, l’art. 2 del detto Protocollo prevede che «prima di proporre un atto legislativo, la Commissione effettua ampie consultazioni» che «devono tener conto, se del caso, della dimensione regionale e locale delle azioni previste. Nei casi di straordinaria urgenza, la Commissione non procede a dette consultazioni. Essa motiva la decisione nella proposta».  L’art. 5, inoltre, prevede che «I progetti di atti legislativi sono motivati con riguardo ai principi di  sussidiarietà e di proporzionalità. Ogni progetto di atto legislativo dovrebbe essere accompagnato da una scheda contenente elementi circostanziati che consentano di valutare il rispetto dei principi di sussidiarietà e di proporzionalità. Tale scheda dovrebbe fornire elementi che consentano di valutarne l'impatto finanziario e le conseguenze, quando si tratta di una direttiva, sulla regolamentazione che sarà attuata dagli Stati membri, ivi compresa, se del caso, la legislazione regionale. Le ragioni che hanno portato a concludere che un obiettivo dell'Unione può essere conseguito meglio a livello di quest'ultima sono confortate da indicatori qualitativi e, ove possibile, quantitativi. I progetti di atti legislativi tengono conto della necessità che gli oneri, siano essi finanziari o amministrativi, che ricadono sull'Unione, sui governi nazionali, sugli enti regionali o locali, sugli operatori economici e sui cittadini siano il meno gravosi possibile e commisurati all'obiettivo da conseguire». Infine, l’art. 6 prevede che «Ciascuno dei parlamenti nazionali o ciascuna camera di uno di questi parlamenti può, entro un termine di otto settimane a decorrere dalla data di trasmissione di un progetto di atto legislativo nelle lingue ufficiali dell'Unione, inviare ai presidenti del Parlamento europeo, del Consiglio e della Commissione un parere motivato che espone le ragioni per le quali ritiene che il progetto in causa non sia conforme al principio di sussidiarietà. Spetta a ciascun parlamento nazionale o a ciascuna camera dei parlamenti nazionali consultare all'occorrenza i parlamenti regionali con poteri legislativi» (corsivi aggiunti). Sul valore dei protocolli e degli allegati al Trattato di Lisbona del 2009 si v. La protezione dei diritti dell’uomo nell’Unione europea dopo il Trattato di Lisbona, in Il Diritto dell’Unione europea, 2009, 1 ss., in particolare, v. S. AMADEO, Il protocollo n. 30 sull’applicazione della Carta a Polonia e Regno Unito e la tutela “asimmetrica” dei diritti fondamentali: molti problemi, qualche soluzione, ivi, 720 ss.

 

[87] Sul principio di sussidiarietà si v. di recente, P. De Pasquale, L’esercizio delle competenze dell’Unione europea ed il principio di sussidiarietà, in Talitha Vassalli di Dachenhausen (a cura di), Atti del Convegno in memoria di Luigi Sico, Editoriale scientifica, Napoli, 2011, 211 ss.; C. Favilli, Il principio di sussidiarietà nel diritto dell’Unione europea, in Archivio giuridico, 3/2011, 257 ss. e la dottrina ivi citata.

 

[88] Sull’importanza di questo riconoscimento nel diritto primario dell’Unione v. A. Van Bossuyt, L’Union européenne et la protection des minorités: une question de volonté politique, in Cahiers de Droit Européenne, 2010, 427 ss.; D. Kochenov, EU Minority Protection: A Modest case for a Synergetic Approach, in Amsterdam Law Forum, 2011, http://ojs.ubvu.vu.nl/alf/article/viewFile/236/425 .

 

[89] Ai fini che qui interessano, recita l’art. 107 TFUE:

«Sono compatibili con il mercato interno:

a) gli aiuti a carattere sociale concessi ai singoli consumatori, a condizione che siano accordati senza discriminazioni determinate dall'origine dei prodotti;

b) gli aiuti destinati a ovviare ai danni arrecati dalle calamità naturali oppure da altri eventi eccezionali;

c) gli aiuti concessi all'economia di determinate regioni della Repubblica federale di Germania che risentono della divisione della Germania, nella misura in cui sono necessari a compensare gli svantaggi economici provocati da tale divisione. Cinque anni dopo l'entrata in vigore del trattato di Lisbona, il Consiglio, su proposta della Commissione, può adottare una decisione che abroga la presente lettera.

3. Possono considerarsi compatibili con il mercato interno:

a) gli aiuti destinati a favorire lo sviluppo economico delle regioni ove il tenore di vita sia anormalmente basso, oppure si abbia una grave forma di sottoccupazione, nonché quello delle regioni di cui all'articolo 349, tenuto conto della loro situazione strutturale, economica e sociale;

b) gli aiuti destinati a promuovere la realizzazione di un importante progetto di comune interesse europeo oppure a porre rimedio a un grave turbamento dell'economia di uno Stato membro;

c) gli aiuti destinati ad agevolare lo sviluppo di talune attività o di talune regioni economiche, sempre che non alterino le condizioni degli scambi in misura contraria al comune interesse;

d) gli aiuti destinati a promuovere la cultura e la conservazione del patrimonio, quando non alterino le condizioni degli scambi e della concorrenza nell'Unione in misura contraria all'interesse comune;

e) le altre categorie di aiuti, determinate con decisione del Consiglio, su proposta della Commissione.

 

[90] Va osservato, al riguardo, che il diritto UE, per consentire alla Commissione di svolgere il suo controllo, prevede, all’art. 108, 3° comma TUE un obbligo di notifica preliminare alla Commissione «dei progetti diretti ad istituire o modificare aiuti». Un aiuto concesso senza autorizzazione della Commissione europea (o del Consiglio nei rari casi in cui questo avviene) ai sensi della suddetta disposizione è automaticamente "illegittimo". Da alcuni anni, tuttavia, la Commissione ha adottato alcune normative che esentano gli Stati membri dall'obbligo di previa notifica: si tratta degli aiuti disciplinati dal regolamento (CE) . 800/2008 della Commissione, del 6 agosto 2008 (in GUUE L 214, 9 agosto 2008, 3 ss.) per i quali gli Stati hanno esclusivamente l’obbligo di comunicarli alla Commissione al momento della loro attuazione; e gli aiuti c.d. de minimis disciplinati dal regolamento n. 1998/2006 della Commissione, del 15 dicembre 2006 (in GUUE L 379, 28 dicembre 2006, 5 ss.) che non devono essere comunicati alla Commissione, né preventivamente, né successivamente alla loro adozione.

 

[91] In un suo recente parere (v. Parere del Comitato delle regioni «Orientamenti in materia di aiuti di stato a finalità regionale per il periodo 2014-2020, (2013/C 62/12), in GUUE, del 2 marzo 2013, C 62/57) il Comitato delle Regioni ha chiesto, fra l’altro, una revisione dei criteri per l’ammissibilità agli aiuti a finalità regionale: esso, in particolare, ha sollecitato una «rifusione e semplificazione delle norme europee relative agli aiuti di Stato» nonché un «miglior coordinamento delle norme in materia di aiuti di Stato con le altre politiche europee, in particolare la politica di coesione» ed ha invitato «la Commissione europea a tener conto degli effetti della crisi aumentando, da un lato, i massimali dei tassi per gli aiuti e, dall'altro lato, la percentuale della popolazione interessata da questo tipo di aiuti».

 

[92] Il riferimento è ad un recente caso sottoposto al Tribunale dell’Unione: si tratta della sentenza 21 marzo 2012, T50/06 RENV, T-60/06 RENV, Eurallumina S.p.A. et al./Commissione, non ancora pubblicata in Raccolta. 

 

[93] Ibidem, punto 105 in cui il Tribunale osserva, con riferimento alla decisione della Commissione, che la «decisione impugnata, rimettendo direttamente in discussione la validità delle esenzioni controverse concesse dalla Repubblica italiana, dall’Irlanda e dalla Repubblica francese fino al 31 dicembre 2003, rimette altresì in discussione, indirettamente ma inevitabilmente, la validità delle decisioni di autorizzazione del Consiglio, da ultimo la decisione 2001/224, e taluni effetti ad esse inerenti. Così facendo, essa viola il principio della certezza del diritto nonché il principio della presunzione di legittimità degli atti dell’Unione».

 

[94] Sulla politica di coesione v. M. Piantoni, Le politiche dell’Unione europea a favore delle imprese e delle imprenditorialità, Giuffré, Milano, 2008; A. Scavo, La Politica di Coesione dell’Unione Europea: tendenze ad una ri-nazionalizzazione nei negoziati per il 2007-2013, University of Catania, Catania, 2006, in http://aei.pitt.edu/11073/1/jmwp60.pdf.

 

[95] Recita precisamente l’art. 174 TFUE: «Per promuovere uno sviluppo armonioso dell'insieme dell'Unione, questa sviluppa e prosegue la propria azione intesa a realizzare il rafforzamento della sua coesione economica, sociale e territoriale.

In particolare l'Unione mira a ridurre il divario tra i livelli di sviluppo delle varie regioni ed il ritardo delle regioni meno favorite.

Tra le regioni interessate, un'attenzione particolare è rivolta alle zone rurali, alle zone interessate da transizione industriale e alle regioni che presentano gravi e permanenti svantaggi naturali o demografici, quali le regioni più settentrionali con bassissima densità demografica e le regioni insulari, transfrontaliere e di montagna». L’ultimo paragrafo dell’art. 174 TFUE, come si è detto nel testo, rappresenta una novità introdotta dal Trattato di Lisbona che attribuisce una vera e propria priorità a quelle regioni più sfavorite, nelle quali l’intervento dell’Unione dovrà puntare a ridurre lo scarto tra queste e le altre regioni europee».

 

[96] V. da ultimo la 33° Assemblea generale della Commissione delle Isole della CRPM, 20/21 giugno 2013 - Cagliari (Sardegna, Italia). Recentemente, anche il Consiglio europeo (Conclusioni (Quadro pluriennale), dell’8 febbraio 2013, EUCO 37/13, CO EUR 5, CO EUR Concl. 3) si è espresso in questo senso  (punti 44 e 51), sottolineando la necessità di maggiori forme di tutela per alcune aree europee.

 

[97] Per l'Italia la suddivisione è per aree sovra-regionali - Nord-Ovest, Nord-Est, Centro, Sud, Isole – che non corrispondono al territorio di alcuno degli enti regionali previsti dal nostro ordinamento.

 

[98] Si v. in proposito, gli artt. 1, 8 e 9 del regolamento n. 1260/99 del Consiglio del 21 giugno 1999 recante disposizioni generali sui Fondi strutturali, in GUCE L 161 del 26 giugno 1999, 1.

 

[99] Così Corte di giustizia, 9 luglio 2013, C-586/11/P, Regione Puglia/Commissione europea cit., punti 4 e 46.

 

[100] Cfr. ibidem, punto 29, nonché punti 32-34.

 

[101] Cfr. ibidem, punto 36 in cui la Corte di giustizia, con riferimento al rimborso di Fondi FERS, sostiene che la sua «richiesta discende non già da diritto dell’Unione, bensì dal diritto nazionale».

 

[102] Corte di giustizia, sentenza 21 marzo 2013, C-613/11, Commissione/Italia, non ancora pubblicata in Raccolta. I passaggi indicati nel testo sono, rispettivamente, i nn. 29, 32 e 42.

 

[103] Così da ultimo, Corte di giustizia, sentenza 21 marzo 2013 Commissione/Italia cit., punti 18, 27 e 36 e 37.  La possibilità di invocare “l’impossibilità assoluta” costituisce, evidentemente, una forma di attuazione, nel diritto dell’Unione, del principio internazionale rebus sic stantibus, in base al quale l’obbligo dello Stato si estingue, in tutto o in parte, per il mutamento delle circostanze di fatto esistenti al momento della sua formulazione. In argomento, v. Poch De Caviedes, De la clause “rebus sic stantibus” à la clause de révision dans les conventions internationales, in Recueil des Cours, 1966, II, 105; L. Sico, Gli effetti del mutamento delle circostanze sui trattati internazionali, Padova, 1983.

 

[104] Ibidem, punto 27.

 

[105] La circostanza evidenziata ora nel testo costituisce una chiara deroga del diritto UE al principio generale codificato all’art. 27 (Diritto interno e rispetto dei trattati) della Convenzione di Vienna sul diritto dei trattati (1969) che recita: «Una parte non può invocare le disposizioni del suo diritto interno per giustificare la mancata esecuzione di un trattato […]».

 

[106] Cfr. sul punto L. Garofalo, Costituzione italiana cit., 35, il quale dopo aver riferito che il «nuovo art. 117, 1° comma, Cost.» ha previsto «un obbligo di “conformazione” del diritto interno» tanto al diritto comunitario quanto al diritto internazionale (seppure questi “diritti” siano stati oggetto di formulazioni “separate”) osserva tuttavia che, con riferimento all’Unione, occorre «ripensare complessivamente il concetto stesso di adattamento» posto che «oggi, tale istituto, non sia più in grado di inquadrare correttamente lo schema logico-giuridico che caratterizza i rapporti tra diritto dell’Unione europea e diritto nazionale».

 

[107] In senso conforme la sentenza 29 marzo 2012, C-243/10, Commissione/Italia, non ancora pubblicata in Raccolta, al punto 47: «Per quanto riguarda l’argomento della Repubblica italiana riguardante la presunta buona fede e il legittimo affidamento delle imprese alle quali sono stati concessi gli aiuti per finanziare progetti d’investimento intrapresi anteriormente alla data di presentazione dell’opportuna domanda, va sottolineato che un simile argomento non può essere validamente addotto, dallo Stato membro interessato, nell’ambito di un ricorso per inadempimento avente ad oggetto l’attuazione di una decisione della Commissione che ordina il recupero degli aiuti illegittimi. Infatti, ammettere siffatta possibilità significherebbe privare di qualsiasi efficacia pratica le disposizioni di cui agli articoli 107 TFUE e 108 TFUE, in quanto le autorità nazionali potrebbero far valere in tal modo il proprio comportamento illegale al fine di vanificare l’efficacia delle decisioni emanate dalla Commissione in virtù di tali disposizioni del Trattato (v. sentenza del 19 giugno 2008, Commissione/Germania, C-39/06, punto 24 e giurisprudenza ivi citata)» e al punto 54: «la Repubblica italiana non può avvalersi delle ordinanze dei giudici nazionali, che dispongono provvedimenti provvisori, per giustificare la mancata esecuzione della decisione 2008/854 entro i termini stabiliti».

Sull’ipotesi normativa, diversa da quella ora indicata, introdotta dal diritto UE in deroga al principio generale dell’irrilevanza del diritto nazionale ai fini dell’adempimento di uno dei suoi obblighi v. le osservazioni svolte supra, nota 105.   

 

[108] Si v. in tal senso Corte di giustizia, sentenza 21 marzo 2013, C-613/11, Commissione/Italia cit., punto 37: «la condizione relativa alla sussistenza di un’impossibilità assoluta di esecuzione non è soddisfatta quando lo Stato membro convenuto si limita a comunicare alla Commissione le difficoltà giuridiche, politiche o pratiche che presentava l’esecuzione della decisione interessata, senza intraprendere alcuna vera iniziativa presso le imprese interessate» (v. anche punto 39); e, inoltre, punto 38: «uno Stato membro il quale […] incontri difficoltà impreviste o imprevedibili o si renda conto di conseguenze non considerate dalla Commissione […] deve sottoporre tali problemi alla valutazione di quest’ultima, proponendo appropriate modifiche della decisione di cui trattasi». Nello stesso senso la sentenza 29 marzo 2012, Commissione/Italia cit., punto 41 «un’impossibilità assoluta di esecuzione non è soddisfatta quando lo Stato membro convenuto si limita a comunicare alla Commissione le difficoltà giuridiche, politiche o pratiche che presentava l’esecuzione della decisione, senza intraprendere alcuna vera iniziativa presso le imprese interessate al fine di recuperare l’aiuto e senza proporre alla Commissione altre modalità di esecuzione delle predetta decisione che avrebbero consentito di superare tali difficoltà» (corsivo aggiunto). 

 

[109] Sul punto v. Corte di giustizia, sentenza 21 marzo 2013, C-613/11, Commissione/Italia cit., punti 37, 42-44; sentenza 29 marzo 2012, C-243/10, Commissione/Italia cit., punto 48 ss. Cfr. inoltre ordinanza 9 luglio 2013, C-586/11/P, Regione Puglia/Commissione europea cit., punti 37, 42.