Notazioni (e/o rimeditazioni) su diritto
romano e Carta de Logu de Arborea
Università di Sassari
SOMMARIO: Premessa. – 1. Delimitazione
dell’oggetto. – 2. Studi e ricerche dell’Ottocento e del Novecento. – 3. Riferimenti
espliciti al diritto romano: il capitolo III (Qui ochirit homini). – 3.1. Legittima difesa nella Carta de Logu e diritto romano. –
3.2. Omicidio
preterintenzionale. – 3.3. Agentes
et consentientes: tra diritto romano e diritto canonico. – 3.4. Conscii
et ministri. A proposito di D. 48.9.6 e C.I. 1.3.53(54).5. – 4. I capitoli LXXVII (De chertos dubitosos) e LXXVIII (De appellationibus). – 5. I capitoli XCVII (De deseredari) e XCVIII (De coyamentos). – 6. Suggestioni
romanistiche in alcuni motivi ispiratori della legislazione dei Giudici
d’Arborea. – 7. Carta de Logu
de Arborea e Popolo Sardo nella
storia e nelle tradizioni giuridiche. – 8. Continuità e
persistenza di forme comunitarie di appropriazione della terra.
Molto
resta ancora da scrivere riguardo al problema della continuità del diritto
romano nell’esperienza giuridica della Sardegna medievale, ed in particolare dell’influenza
di quell’antico diritto sulla compilazione della Carta de Logu de Arborea[1]:
la più significativa opera legislativa in lingua sarda, promulgata dalla
giudicessa Eleonora Bas-Serra[2]
nell’ultimo decennio del XIV secolo[3].
Presento
in questo contributo alcune notazioni (e/o rimeditazioni) sulle mie precedenti
ricerche; che in parte risultano anche riproposte, nella convinzione di
renderle più fruibili esplicitandone meglio – nella necessaria sintesi
espositiva – i risultati finora conseguiti. Fra
i risultati, mi pare valga la pena di soffermarsi sul dato di maggiore impatto:
il forte (ed innegabile) ancoramento della Carta de Logu al diritto romano; pur avvertibile
nella gran parte dei 198 capitoli
della Carta, appare del tutto
evidente nei capitoli III, LXXVII, LXXVIII, XCVII
e XCVIII; poiché in quei capitoli
i compilatori arborensi plasmarono le soluzioni giuridiche proposte sul diritto
romano, mediante espliciti riferimenti e rinvii ad un altro sistema normativo,
identificato con sa lege o sa ragione[4]. Così nel capitolo III, la pena
capitale comminata all'omicida volontario si fonda sull’effettiva imperatività
del diritto romano: «secundu quessu
ordini dessa rag(i)oni comandat»[5].
Nei capitoli LXXVII e LXXVIII, sono riferiti in maniera
esplicita al diritto romano i termini legali d’impugnazione, fissati entro il
limite massimo di dieci giorni: «si
appellado non est infra tempus legittimu de dies deghi comenti comandat sa lege».
Inoltre, rimanda al diritto romano il capitolo XCVIII, laddove designa la porzione legittima dell'eredità
con l’espressione «sa parti sua secundu
ragione».
Dai
capitoli della Carta de Logu appena citati si ricavano elementi ulteriori, ed
assai significativi, per dimostrare la vigenza del diritto romano nella
Sardegna medioevale; infatti, sia l’utilizzazione di verbi dall’indiscutibile
valenza precettiva (comandare / ordinare), sia l’impiego di questi verbi
al presente indicativo (comandat),
attestano in maniera incontrovertibile il fatto che i compilatori della Carta de Logu ritenessero
ancora vigente quel sistema normativo (sa
lege, sa ragione) fatto oggetto
di rinvio nel «codice» del Giudicato di Arborea.
Prima
di affrontare la questione relativa agli influssi del diritto romano
giustinianeo sulla Carta de Logu,
sarà bene precisare chiaramente l'oggetto e i limiti dell'esposizione. Non
rientra, ad esempio, fra le finalità di questo saggio ripercorrere sul filo della
storia e della storiografia giuridica un tema come quello delle origini delle
istituzioni giuridiche e politiche della Sardegna medioevale.
Questo
tema, peraltro, è stato indagato e discusso, fin dal XV secolo, da generazioni
di giuristi e di storici del diritto: a partire dall’anonimo giurista sardo,
che proprio sul finire del XV secolo compose le cosiddette Questioni giuridiche esplicative della Carta de Logu (Leges pro sas cales si regint in Sardigna)[6];
o da Girolamo Olives, giureconsulto sassarese del XVI
secolo[7],
al quale si devono quei Commentaria et
Glosa in Cartam de Logu, pubblicati a Madrid nell’anno 1567, che
rappresentano la prima riflessione scientifica e sistematica sulla legislazione
di Eleonora d’Arborea[8].
Non
mi sono neppure avventurato – anche per mia evidente incompetenza in materia –
neppure fra i meandri di quella storiografia che, fondando nella continuità del
diritto romano pubblico e privato gli “elementi costitutivi”[9]
delle istituzioni giuridiche sardo-giudicali, presumeva poi da tale continuità
il carattere romano del diritto sardo del medioevo. Infine, non ho proceduto ad
una esposizione completa dei disparati elementi romanistici, rilevabili nella Carta de Logu de Arborea. Mi sono limitato, invece, ad esaminare i capitoli della
Carta in cui la legislatrice
arborense si è richiamata in maniera esplicita al diritto romano, con termini
propri quali sa lege o sa ragione, mettendoli poi a confronto
con alcuni testi giuridici romani. Nella prospettiva strettamente romanistica
di queste ricerche, infatti, per dimostrare l’esistenza di influssi del diritto
romano giustinianeo sulla Carta de Logu
d’Arborea è stato sufficiente accertare in maniera incontrovertibile, mediante
lettura sinottica e analisi esegetica dei relativi frammenti del Corpus Iuris Civilis, quale grado di
aderenza i citati capitoli della Carta de
Logu abbiano conservato nei confronti di quei testi giuridici romani, che
quasi per certo costituirono i modelli di riferimento per la legislatrice
arborense e per i suoi non incolti compilatori[10].
Riguardo
al problema della continuità e dell’influenza del diritto romano, hanno finito
per coesistere nella dottrina opinioni assai differenti, ma che presentano
spesso forti elementi di verosimiglianza: mentre Francesco Brandileone, nelle
sue Lezioni di storia del diritto,
insegnava che i Giudicati sardi «fino al secolo XIV, erano stati regolati assai
più dalla consuetudine che dalle leggi scritte»[11];
Arrigo Solmi, per contro, nella “prefazione” a Testi e documenti per la storia del Diritto agrario in Sardegna, esprimeva la più ferma
convinzione che nella Sardegna giudicale si fossero conservate sostanzialmente
intatte le forme del diritto romano:
«Quando
i primi documenti campidanesi o logudoresi consentono, sul principio del secolo
XII, di spingere uno sguardo sicuro sulla vita giuridica sarda del medio evo,
noi troviamo ancora intatte le forme del diritto romano, rese soltanto più
semplici e più rozze da una costituzione sociale meno complessa, rimasta per
alcuni secoli quasi isolata, ma fedele alle sue tradizioni e alla sua origine.
Il fenomeno offerto dal linguaggio, per cui il campidanese o il logudorese dei
secoli XII e XIII si rivela come diretta derivazione dal latino, in forme
semplificate e volgarizzate, si riproduce esattamente nel campo del diritto,
che si presenta come una filiazione diretta del vecchio e glorioso diritto
romano, fatto più semplice e rozzo dalle contingenze di una società che conduce
una vita meno complessa e di minori esigenze, pur rimando sempre
fondamentalmente ordinata e civile»[12].
Certamente,
oggi, non appare più possibile aderire nelle sue linee generali alla vecchia
impostazione, formulata per quel che mi è dato sapere da Giovanni Dexart,
giurista sardo del XVII secolo (1590-1646)[13],
secondo cui in Sardegna lo ius commune o Romanorum sarebbe stato vigente da tempo immemorabile «mediante
veteri consuetudine et continua observantia»[14].
Questa impostazione risulta ancora presente nel celebre manuale di Antonio
Pertile, soprattutto laddove lo studioso definisce la Carta de Logu «diritto locale modificante il diritto generale o
comune; onde quel nome corrisponde a quello di statuti dato alle proprie norme
dai principi di Savoia e dalle nostre città»[15];
si possono condividere, invece, sia la conclusione a cui il Pertile era
pervenuto in merito al rapporto tra diritto romano e Carta de Logu d’Arborea («E in fatto la carta de logu presuppone l'autorità del diritto romano, e qualche
volta anche lo cita»), sia la motivazione complessiva che stava alla base di
siffatta conclusione[16].
Tra
l’ultimo decennio dell’Ottocento e il primo decennio del Novecento, anche altre
opere generali di storia del diritto trattano, più o meno brevemente, della Carta de Logu. In alcune pagine del suo
manuale dedicate alle «leggi di Eleonora», Federico Ciccaglione[17],
mostrando peraltro di conoscere assai bene anche i più recenti studi sulla
materia, scrive che il «sostrato delle leggi di Eleonora è tutto romano, come
era stato il sostrato delle consuetudini, anche nel campo del diritto penale e
della procedura, dove però esercitò il diritto canonico la sua influenza, che
si scorge anche in altri punti»[18].
Nel suo Manuale di storia del diritto
italiano, Francesco Schupfer ha esposto quasi con ammirazione il contenuto
della Carta arborense: «una legge,
che ebbe il vanto di essere tenuta per segno di un grande perfezionamento
sociale, da cui altre e più vaste contrade del continente italiano erano ancora
lontane»; sostenendo, fra l’altro, che solo a seguito della codificazione di
Eleonora d’Arborea in Sardegna «ebbero stabili norme i riti giudiziari, la
ragione civile e criminale e la pubblica economia»[19].
Da Carlo Calisse viene evidenziata soprattutto la buona qualità della
legislazione penalistica della Carta de
Logu di Arborea; esprimendo, nello stesso tempo, la convinzione della
sostanziale vigenza nella vita giuridica sarda di forme del diritto romano,
seppure adattate ai semplici schemi privatistici dell’Isola[20].
Sempre
nel 1901, su sollecitazione di Enrico Besta, Vittorio Finzi (allora direttore
della Biblioteca Universitaria di Sassari) pubblicò le Questioni giuridiche esplicative della Carta de Logu[21],
edizione critica delle Exposiciones de sa
‘llege: operetta che segue il testo della Carta de Logu, sia nel codice miscellaneo della Biblioteca
Universitaria di Cagliari (pubblicato per la parte riguardante la Carta dal Besta e dal Guarnerio e da cui
è tratta l’edizione del Finzi), dove appunto è intitolata Exposiciones de sa ‘llege; sia nelle prime edizioni a stampa, dove
però si presenta con altro titolo (Sequuntur
infra Sas leges pro cales si regint in Sardigna)[22].
Lo studioso, convinto che le Exposiciones
fossero da considerare alla stregua di questioni
giuridiche esplicative della Carta de
Logu, le assunse quale prova incontrovertibile dell'influenza del diritto
romano nella legislazione arborense[23].
La
tesi che la Carta de Logu, con i
termini lege o ragioni, richiami in vari capitoli espressamente l’autorità del
diritto romano, ha avuto fra i suoi più convinti assertori Enrico Besta.
Dell’insigne storico del diritto mette conto ricordare, anzitutto, il
magistrale saggio intitolato La Carta de
Logu quale monumento storico-giuridico, che fu pubblicato come prefazione
illustrativa alla prima edizione a stampa del manoscritto cagliaritano della Carta de Logu (Carta de Logu de Arborea, Sassari 1905), curata dallo stesso
studioso in collaborazione col linguista Pier Enea Guarnerio[24].
Fra le argomentazioni addotte in quello studio quali elementi probanti
«l’autorità generale del diritto romano» nel Giudicato arborense dell’età di
Eleonora, il Besta attribuisce importanza fondamentale al fatto che proprio la Carta de Logu vi accenni testualmente in
diversi capitoli. Lo studioso ha ritenuto, non senza ragione, che tali
citazioni non potevano essere puramente formali, ma rispondessero alle reali
condizioni della pratica giuridica del tempo; come del resto dimostrerebbe –
ulteriore elemento di prova – il carattere romanistico delle Exposiciones de sa ‘llege[25].
In questa prospettiva il Besta sostenne anche il carattere romano di numerosi
istituti della Sardegna giudicale, a cominciare dalla «costituzione della
famiglia» che a suo avviso «restò pur essa fondamentalmente romana»[26].
Il pensiero del Besta circa l’entità, le modalità e i tempi della diffusione
del diritto romano giustinianeo in Sardegna, come ius commune, risulta meglio precisato nel secondo volume della sua
fondamentale opera sulla Sardegna medioevale:
si sarebbe trattato, sostanzialmente, di un fenomeno determinato dall’influenza
della cultura giurisprudenziale italiana, la cui forza assimilatrice si impose
assai per tempo nella prassi giuridica dell’Isola[27].
Alle
«Carte de Logu come espressione di diritto consuetudinario», pensava invece
Raffaele Di Tucci[28],
il quale affrontando l’esame di alcuni dei più importanti istituti
pubblicistici (consuetudine sarda, consorzi territoriali, classi sociali e
origine dei giudicati, assemblee, delitti e pene, procedimento), maturò la tesi
dell’esistenza di una uniformità regionale della consuetudine sarda[29];
da cui conseguiva, per lo studioso, la negazione di qualsiasi influenza del diritto
romano nella formazione degli istituti e nella pratica giuridica dell’Isola[30].
In tale contesto, si precisa meglio la singolarità della tesi del Di Tucci sui
caratteri della Carta de Logu: non
una legge, «ma la conferma, mediante un documento pubblico dell’autorità più
elevata del giudicato, di un complesso di norme desunte dagli usi e dalle
consuetudini regionali»; né dovrebbe, quindi, «essere ritenuta come una
codificazione, ma come una sanzione»[31].
In
altro senso si orientava, qualche decennio più tardi, Vittorio Devilla[32],
autore di uno studio dedicato alla rilevanza romanistica dei casi di diritto
agrario contenuti nelle Expositiones de
sa ‘llege, le c.d. Questioni
giuridiche esplicative della Carta de logu[33].
Il romanista sassarese ha dimostrato in maniera convincente che in quell’opera
(coeva o di poco posteriore alla Carta de
Logu): «L'espressione “sa lege” che ricorre frequentemente sia nella
rubrica che nel testo, come ad esempio nella frase continuamente ripetuta: “sa
lege narat”, deve intendersi nel senso di norma attinta dal diritto romano.
Tale è il significato di “lege” nelle fonti giuridiche della Sardegna e tale
risulta dalla lettura del testo il quale dopo avere invocato la legge, cita
subito fr. del Digesto e del Codice»[34].
Verso
la fine degli anni trenta del Novecento, Antonio Marongiu ha dedicato alcuni
studi, veramente illuminanti, all’esame di particolari «aspetti della vita
giuridica» della Sardegna giudicale, attestati nei condaghi e nella Carta de Logu[35].
Emerge da tali studi, anzi tutto, il carattere quasi democratico
dell’organizzazione politica dei Giudicati sardi: una «specie di democrazia
diretta», che si sostanziava principalmente nella partecipazione popolare alla
nomina del sovrano[36];
un altro dato rilevato è la presenza del diritto romano nella legislazione
penalistica giudicale. Lo studioso ha analizzato questa problematica nel saggio
su «delitto e pena nella Carta de Logu»,
dove si presta particolare attenzione sia all'elemento soggettivo del reato[37],
sia alla definizione dei concetti di dolo, colpa e caso fortuito[38].
Per quanto attiene all’influenza del diritto romano sulla legislazione
penalistica della Carta de Logu, il
Marongiu ne ravvisa l’incidenza soprattutto in relazione al tenore del capitolo
i, che equipara al colpevole del
delitto di lesa maestà «anche colui che avesse soltanto “trattato” o
“consentito” la esecuzione di esso»; rilevando che in questo caso la sovrana
arborense aveva adottato «il criterio, delle leggi Iulia majestatis, Cornelia de
sicariis et veneficiis e della Pompeia
de parricidiis, dell'equiparazione quoad
poenam del delitto compiuto con quello soltanto tentato o preparato»[39].
Del
tutto diverse si presentano le posizioni assunte sull’argomento da Antonio Era[40]
in un lungo saggio del 1939 dedicato allo studio delle c.d. Questioni giuridiche esplicative della Carta
de Logu[41]. Nettamente contrario
all’interpretazione del documento proposta dal Finzi, l’Era non riteneva
possibile accedere alla tesi che in un'epoca anteriore, o appena successiva,
alla redazione della Carta de Logu di
Arborea vi fossero nella prassi giuridica della Sardegna situazioni regolate
sulla base della legislazione giustinianea[42].
Seguendo questa impostazione, l’Era sottopose ad una critica serrata i richiami
al diritto romano nella Carta de Logu:
negava, in particolare, che per la Sardegna fosse utilizzabile prima del XVI
secolo l'equivalenza “legge”/diritto romano, poiché «con la “legge” non si
indicò soltanto il diritto romano, né questo fu indicato con la sola parola
“legge”»[43].
Nel
saggio appena citato, lo studioso non si discosta da quanto aveva scritto nel
suo manuale di Storia delle istituzioni giuridiche ed economiche sarde[44],
pubblicato per il corso di nuova istituzione presso la Facoltà di
Giurisprudenza dell’Università di Sassari[45].
Pur considerando «tesi sorpassata» la convinzione «che nel M. E. la Sardegna,
immune da qualsiasi contaminazione di altri diritti, avesse serbato vivo il
culto e l’uso del diritto romano», scrive che molto del vecchio fondo giuridico
romano si era conservato nella Sardegna medioevale, per quanto «disgiunto da
ogni conoscenza ed uso delle fonti, vi rimase solo allo stato di consuetudine»[46].
Tutto questo non vale a proposito della Carta
de Logu di Eleonora d’Arborea, la cui compilazione si collocherebbe nella
nuova temperie di rinascita del diritto romano, grazie anche «alla dottrina e
alla pratica del diritto catalano-aragonese che, attraverso la diretta
conoscenza del pensiero giuridico romano, si era in parte liberato dalle
vecchie forme medioevali»; tale Carta,
quindi, non può essere presentata in maniera riduttiva come una semplice
raccolta, e relativa sanzione, delle consuetudini vigenti nel Giudicato[47].
Le
penetranti osservazioni dell’Era possono dirsi oggi superate, anche grazie alla
riflessione critica di Ennio Cortese. Al tema dei rapporti tra diritto romano e
Carta de Logu questo studioso aveva
dedicato una relazione presentata al convegno su Eleonora d’Arborea svoltosi ad
Oristano nell’aprile 1962; il testo di quella relazione, trasfuso dal suo
autore nel saggio Diritto romano e
diritto comune in Sardegna, fu pubblicato nel volume Appunti di storia giuridica sarda[48].
E. Cortese esprime la convinzione dell’inutilità di «ricercare una
“sopravvivenza” di principî latini e bizantini», poiché siffatta ricerca
costituisce una maniera unilaterale «di chiarire l’ispirazione romana di certi
istituti in uso nella Sardegna medievale»; mentre la questione potrebbe
definirsi assai più correttamente sulla base della seguente domanda: «Perché
non chiedersi quale importanza ha avuto nella prassi quel diritto comune che – in temporalibus – i contemporanei
identificavano proprio nelle “leggi” romane raccolte nella compilazione
giustinianea? Era un sistema vigente, quindi attivo: e non soltanto un fossile
sepolto nel terreno della vita, e dalla vita ormai del tutto assimilato»[49].
Per
il Cortese, anche riguardo alla Carta de
Logu, sarebbe valido quanto riscontrato a proposito della coeva
legislazione sul continente italiano, nella quale: «il legislatore tendeva
soprattutto a emanare norme che noi diremmo di diritto singolare o speciale – e
qui la materia penalistica urgeva per la pretesa più vivace di adeguarsi ai
tempi e ai siti –, mentre per tutto il resto era implicito il rinvio, nonché a
talune consuetudini locali, principalmente al sistema ampio e minuzioso del
diritto comune»[50]. Si spiegherebbe in tal
modo la scarsità delle norme di diritto privato nella legislazione arborense,
che risalta maggiormente se confrontata con la disciplina penalistica,
caratterizzata da un'articolazione molto varia e da un sistema di sanzioni
relativamente moderate[51].
Non sarebbero altresì valide, al riguardo, le opinioni contrarie di Antonio
Era, quand’anche si volesse convenire con il suo rilievo che il termine “leges” comporterebbe nella Carta de Logu riferimenti non
univoci; poiché – argomenta il Cortese – una simile constatazione obbliga
solamente a maggior severità nel valutare le testimonianze relative all’impiego
del diritto romano in Sardegna prima della conquista aragonese, ovvero a restringere
in maniera drastica il numero di esse[52].
Lo studioso ritiene, inoltre, assai probabile la connessione del termine ragione, usato nella Carta de Logu per indicare il diritto
romano, con la definizione di ratio
scripta, utilizzata di frequente per lo ius
commune; senza escludere che ormai «al tempo di Eleonora lo stesso pensiero
dei giuristi – i grandi artefici dell'edificazione di quel ius commune – influenzasse i legislatori locali», sicché nel tanto
celebrato prologo della Carta de Logu
potrebbe ritrovarsi un’ispirazione assai maggiore «proprio dalla scienza
giuridica bolognese» rispetto al peso «della pur trasparente tradizione
normativa romano-canonica»[53].
Per
concludere questa rassegna del pensiero di Ennio Cortese, bisogna fare
riferimento alla posizione di sintesi espressa nel secondo volume del suo
manuale di storia del diritto[54],
in quella parte dedicata alla Carta de Logu
e alle «ispirazioni esterne» della legislazione di Eleonora: «Almeno in alto
loco, e almeno di nome, le leges di
Giustiniano erano conosciute da lunga data, da quando taluni giudici sardi
avevan preso ripetuti impegni, sin dal tardo XII secolo, di giudicare i
mercanti soprattutto genovesi oltre che secondo gli usi anche secondo le leggi
romane. Due secoli più tardi la Carta
de Logu si riferisce certo al diritto giustinianeo quando richiama la lege o la ragione: pur senza sopravvalutare la cosa, si tratta dell’indizio
di un’importante apertura al mondo della romanità continentale. E di un primo
passo verso l’ingresso della Sardegna nel sistema del Diritto comune»[55].
Sarà
bene, a questo punto, passare all’analisi di quei capitoli della Carta de Logu in cui i compilatori
arborensi si sono richiamati testualmente al diritto romano, con termini quali sa lege o sa ragione. Si tratta, peraltro, di testi assai noti e già molto
discussi dalla storiografia giuridica contemporanea; tuttavia, una rinnovata
esegesi e la comparazione di tali testi con i frammenti del Corpus Iuris Civilis giustinianeo
potrebbero determinare ulteriori prospettive di ricerca, sulla cui base
formulare nell’immediato alcune nuove, seppur modestissime, riflessioni sulla
materia.
Iniziamo
l’esame del capitolo III, rubricato col titolo Qui ochirit homini, dove la legislatrice arborense accorpa in un
unico capitolo varie disposizioni riguardanti diverse fattispecie di omicidio[56].
Come si vedrà dal testo, il dispositivo della Carta de Logu lascia intravedere una chiara derivazione romanistica
nella sua articolazione; ma qui interessa, in primo luogo, perché fonda
espressamente la ratio della pena
capitale comminata all'omicida volontario sull’effettiva imperatività del
diritto romano: «secundu quessu ordini
dessa rag(i)oni cumandat».
Carta de Logu,
cap. III (Qui ochirit homini):
Volemus et ordinamus que si alcuna persona ochirit homini: et est indi confesso
in su iudiciu: o ver convinto, secundu quessu ordini dessa rag(i)oni comendat, siat illi segada sa
testa in su loghu dessa iusticia per modu quindi morgiat et pro dinari alcuno
non campit. Salvu si su dictu homini hochirit deffendendo asi, sa quali
deffenssa deppiat provari et mostrare legittimamente per bonos hominis infra
dies XV da essa die qui lat esser comandado per issu armentargiu nostru de
loghu; o ver per atero officiali nostru at qui sa dicta causa esseret
comissida. Et in casu qui provarit aver mortu su dictu homini deffendendo assi
comente est naradu desupra, non siat mortu et pena alcuna non patischat et non
paghit. Et si perventura avenerit qui plus hominis esserent in compagnia de
pari et unu de cussos hochirit alcuno atero homini. Et issos ateros qui non
esserent in culpa assa dicta morte non benerent assa corte et non si
ischulparint legittimamente que issus non furunt culpabilis nen consentivilis[57]
assa morte de cussu tali homini, infra tres dies, qui issos siant ponidos et
condenpnados a morte comente et issu qui avirit mortu su dictu homini pro qui
nara(n)t sas leges: agentes et consentientes pari pena puniuntur[58].
Et in casu qui alcuno homini hochirit alcuno attero homini improvisa(da)mente[59]
et non cum animu deliberadu et non pensadamente ma pro causa fortunabili[60]
secundu qui solint a venne(r) multos
desastros. Volemus qui in tali casu istet et istari depiat at arbitriu et
correctione nostra[61].
Nel
dispositivo di questo lungo capitolo della Carta
de Logu, si individuano con facilità i diversi blocchi normativi, che
corrispondono alle varie fattispecie di omicidio considerate giuridicamente
rilevanti anche dal diritto criminale romano[62].
Anzitutto,
abbiamo l'enunciazione della pena per l'omicidio volontario, comminata – come
ho già detto – sulla base di un preciso richiamo all’osservanza del diritto
romano («si alcuna persona ochirit homini
et est indi confesso in su iudiciu, o ver convinto, secundu quessu ordini dessa
rag(i)oni comendat »), che
consisteva nella decapitazione in luogo pubblico («Siat illi segada sa testa in su loghu dessa iusticia per modu quindi
morgiat»), essendo peraltro vietata al condannato qualsiasi composizione
pecuniaria («et pro dinari alcuno non
campit»).
La
legislatrice arborense detta, quindi, la norma assolutoria per l'omicidio
derivante da legittima difesa («Salvu si
su dictu homini hochirit deffendendo asi»); segue la formulazione della fattispecie
di concorso in omicidio, che si estende anche al caso di semplice
partecipazione passiva (quando cioè coloro i quali «non esserent in culpa assa dicta morte non benerent assa corte et non
si ischulparint legittimamente que issos non furunt culpabilis nen
consentivilis assa morte de cussu tali homini infra tres dies»), con
relativa pena di morte comminata sulla base del principio che «nara(n)t sas leges: agentes et consentientes
pari pena puniuntur». Infine, stabilisce la sottrazione alla pena ordinaria
dell'omicida involontario: di colui che – si legge nella Carta – avesse ucciso «alcuno
attero homini improvisa(da)mente et non cum animu deliberadu et non
pensadamente, ma pro causa fortunabili (anti
pro casu fortuitu, Ms.)»[63].
Non è
questo il luogo, né attiene alla mia competenza di romanista farlo, per
discutere i problemi più generali posti dal capitolo III, soprattutto in ordine
alle specifiche caratteristiche delle leggi penali arborensi[64];
ma merita di essere ricordata, al riguardo, l’opinione di un autorevolissimo
storico del diritto, Francesco Brandileone, per il quale, «avuto riguardo alle
condizioni dei tempi», tali leggi erano da considerare «assai notevoli»[65].
La Carta de Logu, infatti, non solo
codificava il principio che di fronte alla pena capitale non fosse possibile al
colpevole (senza alcun riguardo alla sua condizione sociale) riscattare la
condanna per mezzo di una compensazione pecuniaria: «et pro dinari alcuno non campit»; ma guardava «altresì attentamente
all'elemento soggettivo del reato, sul quale fondava la affermazione o la
esclusione della responsabilità e (naturalmente in relazione anche alle
circostanze dei singoli delitti) la commisurazione della pena»[66].
Nella
Carta de Logu d’Arborea
trovava, quindi, ampia tutela la legittima difesa, considerata causa esimente
da qualsiasi pena perfino in caso di omicidio: «Et in casu qui provarit aver mortu su dictu homini deffendendo assi
comente est naradu desupra, non siat mortu et pena alcuna non patischat et non
paghit». Naturalmente, la sussistenza delle condizioni di legittima difesa
doveva essere provata dal responsabile dell’omicidio, mediante esibizione di
testimoni di indiscussa affidabilità in ragione del loro ruolo sociale (bonos homines)[67],
entro i quindici giorni successivi alla data fissata dall’armentargiu de loghu[68],
o da qualsiasi altro funzionario giudicale incaricato dell’istruttoria e del
giudizio: «sa quali deffenssa deppiat
provari et mostrare legittimamente per bonos hominis infra dies XV da essa die
qui lat esser comandado per issu armentargiu nostru de loghu; o ver per atero
officiali nostru at qui sa dicta causa esseret comissida».
Veniamo
ora al diritto romano. A proposito di questa fattispecie di omicidio[69],
giova ricordare che i giuristi romani dell’epoca imperiale ne teorizzarono la
non punibilità, argomentando la liceità dell'esercizio della legittima difesa
sulla base dello ius naturale[70].
La giurisprudenza romana considerava, cioè, la legittima difesa una
esplicazione giuridica delle facoltà naturali dell’uomo; un’azione estrema, ma
necessaria, per salvaguardare la propria integrità fisica, a fronte di altrui
violazioni di quei principi generali dello ius
naturale, universalmente riconosciuti come tali, che vietano l’omicidio e
gli altri atti lesivi della persona umana.
Sono
davvero esemplari, in questo senso, i tre frammenti dei Digesta dell’imperatore Giustiniano citati qui di seguito. Il primo
è un notissimo frammento delle Institutiones
del giurista Fiorentino[71].
D. 1.1.3 (Florentinus libro
primo institutionum): ut vim atque iniuriam propulsemus: nam iure hoc
evenit, ut quod quisque ob tutelam corporis sui fecerit, iure fecisse
existimetur, et cum inter nos cognationem quandam natura constituit, consequens
est hominem homini insidiari nefas esse[72].
L’insegnamento
del giurista[73] era, dunque, che niente
di ciò che fosse stato compiuto ob
tutelam corporis sui poteva in alcun modo essere considerato illegale (iure fecisse existimetur); poiché sulla
base della cognatio che la natura ha
costituito fra tutti gli esseri umani[74],
consequens est hominem homini insidiari
nefas esse. Su questo frammento esiste una vasta letteratura ed una
elaborazione dottrinaria assai articolata; il dato esime da una discussione
approfondita in questa sede, non senza aver rimarcato, tuttavia, che mentre la
maggior parte degli autori sofferma l’attenzione sulla rilevanza giuridica
della cognatio naturalis[75],
alcuni altri evidenziano, invece, anche il valore costitutivo del nefas[76].
Riguardo
poi alle componenti culturali del frammento, Max Pohlenz pensava ad una forte
connotazione filosofica di scuola stoica: «In modo ancor più preciso
Florentino, riallacciandosi direttamente alla teoria stoica del primo istinto
naturale, fa derivare il diritto naturale dal diritto all’autoconservazione e
dalla parentela che lega tra loro tutti gli uomini»[77];
al contrario, Biondo Biondi,
evidenziando soprattutto quella parte del testo che radica «la fratellanza
umana» nello ius naturale, indicava
il frammento fra gli esempi dell’influenza della «concezione cristiana» sul
diritto giustinianeo[78].
In
una recente monografia sull’insegnamento del diritto penale nei libri institutionum, Stefania Pietrini riguardo alla collocazione del
frammento prospetta, pur con la dovuta cautela, la plausibile ipotesi che il
frammento di Fiorentino potesse trovarsi originariamente all’interno di una
parte del primo libro delle Institutiones,
dedicata all’esposizione della generalità della materia penalistica[79].
Il
secondo frammento è costituito da un testo del giurista Gaio, anch’esso invero
assai discusso dalla dottrina romanistica recente. I compilatori giustinianei
lo hanno collocato nel titolo II (Ad
legem Aquiliam) del libro IX dei Digesta:
D. 9.2.4.pr. (Gaius libro
septimo ad edictum provinciale): Itaque si servum tuum latronem insidiantem
mihi occidero, securus ero: nam adversus periculum naturalis ratio permittit se
defendere.
Anche
nel frammento di Gaio, viene ribadito con grande chiarezza quel principio
basilare del diritto romano, che lega alla natura (naturalis ratio) la liceità dell’esercizio della legittima difesa: nam adversus periculum naturalis ratio
permittit se defendere[80].
La genuinità del riferimento gaiano alla naturalis
ratio non è più in discussione nella recente dottrina romanistica[81];
sul punto appaiono, dunque, pienamente condivisibili i buoni argomenti addotti
da G. Longo: «“Nam adversus periculum naturalis ratio
permittit se defendere”, a mio modo di vedere, è una frase infondatamente
sospettata. Nulla – se non un preconcetto illogico – può farne attribuire la
paternità ai compilatori. Il giurista romano affermò essere una esigenza insita
nell’ordine naturale dei rapporti umani la legittimità della difesa a quelle
condizioni; ed è, invero, questa l’accezione filosofico-giuridica classica
della naturalis ratio»[82].
Ma, a
proposito del frammento gaiano, mette conto ricordare anche l’interpretazione
proposta da M. Bartošek, il quale vi legge una prova del fatto
che nelle teorizzazioni dei giuristi romani «la conoscenza dei rapporti
fondamentali della vita materiale e delle circostanze sociali della convivenza
umana in generale conduceva anche alla formulazione di massime giuridiche
generali»[83].
Veniamo,
infine, al terzo frammento, un testo del giurista Ulpiano, in cui però è
riferita una massima desunta da un’opera di Gaio Cassio Longino[84]:
D. 43.16.1.27 (Ulpianus libro
sexagensimo nono ad edictum): Vim vi repellere licere Cassius scribit idque
ius natura comparatur: apparet autem, inquit, ex eo arma armis repellere
licere.
Dunque,
secondo Ulpiano, Cassio aveva teorizzato che la legittimità del vim vi repellere[85]
si fondava sullo ius natura. Fra le posizioni
espresse dalla dottrina più recente in merito al frammento ulpianeo[86],
mi sembrano da condividere, in maniera particolare, sia le considerazioni di
Antonio Mantello, sul fatto che il contenuto del brano costituisca una prova
dell’attenzione rivolta da parte della scuola sabiniana, ma soprattutto da
Cassio, al «concetto che la realtà delle cose potesse giustificare certe regole
giuridiche»[87]; mentre riguardo al dato
testuale, per lo studioso «è fuor di dubbio che idque – comparatur potrebbe essere o una glossa o un’interpolazione
o una specificazione ulpianea. Ma non mi pare neppure da escludere che Ulpiano
riassumesse ad sensum il discorso
cassiano»[88]; sia le riflessioni di José
Luis Murga in ordine alla risalenza del principio vim vi repellere licere: «La doctrina clásica debió tomar de la más
antigua jurisprudencia veterana la idea de que siempre era lícita la fuerza
para oponerse a una injusta violencia: vim
vi repellere licere. Este principio del que Ulpiano se hace eco en sus
commentarios al interdicto de vi, D.
43.16.1.27, atribuyéndolo a Casio es sin embargo más antiguo»[89].
Infine, può essere di un certo interesse, in ragione dei legami culturali ed
economici esistenti tra la Catalogna-Aragona e l’Arborea giudicale dei
Bas-Serra[90], rilevare che il principio
vim vi repellere licere si trova
menzionato in un documento catalano del 1128 e rappresenta il primo esempio di
recezione del diritto romano in Catalogna[91].
Nonostante
la vecchia dottrina romanistica considerasse non esenti da interpolazioni i frammenti
appena citati[92], ed ancora nell’immediato
dopoguerra abbiano manifestato seri dubbi sulla loro genuinità autorevoli
studiosi quali Gabrio Lombardi[93]
e Alberto Burdese[94];
accedere alla tesi interpolazionista mi parrebbe, comunque, molto difficoltoso,
soprattutto in considerazione del fatto che nel testo di questi frammenti
compaiono termini e concetti (natura,
cognatio, nefas) già presenti in reciproca connessione, sia nell’elaborazione
giuridica, sia nella speculazione filosofica della tarda età repubblicana e dei
primi decenni del principato.
è noto, infatti, che la prima menzione
affidabile a noi pervenuta di «natura ius»
risale alla Rhetorica ad Herennium,
databile nei primi decenni del I secolo a.C.:
Rhet.
ad Herenn. 2.19: Natura ius est, quod cognationis aut
pietatis causa observatur, quo iure parentes a liberis, et a parentibus liberi
coluntur[95].
Ma
anche nelle orazioni di Cicerone possiamo leggere dei riferimenti alla
legittima difesa e al suo fondamento giuridico «ex natura»:
Pro Milone 10:
Est igitur haec, iudices, non scripta sed nata lex, quam non didicimus,
accepimus, legimus, verum ex natura ipsa adripuimus, hausimus, expressimus, ad
quam non docti sed facti, non instituti sed imbuti sumus, ut si vita nostra in
aliquas insidias, si in vim et in tela aut latronum aut inimicorum incidisset,
omnis honesta ratio esset expediendae salutis[96].
Mentre
a proposito della prima età del principato, basterà appena accennare alla
dottrina filosofica di Seneca, il quale insegnava che l’uomo deve essere considerato res sacra homini, proprio sulla base
della convinzione che natura nos cognatos
edidit cum ex isdem et eadem gigneret[97].
Tuttavia,
per quanto riguarda le fonti romane del capitolo III della Carta de Logu, mi sembrerebbe più affidabile ricercare nel Codex Iustinianus i testi, da cui i
compilatori arborensi hanno desunto il principio della non punibilità
dell’omicidio commesso a scopo di legittima difesa. Potrebbe trattarsi, in
particolare, del libro IX, titolo XVI (Ad
legem Corneliam de sicariis), dove le due costituzioni imperiali citate qui
di seguito esentano da ogni pena colui che abbia commesso un omicidio per
legittima difesa[98].
C.I. 9.16.2 (Imp.
Gordianus A. Quintiano): Is, qui adgressorem vel quemcunque alium in dubio
vitae discrimine constitutus occiderit, nullam ob id factum calumniam metuere
debet[99].
C.I. 9.16.3 (Imp.
Gallienus A. Munatio): Si, ut adlegas, latrocinantem peremisti, dubium non
est eum, qui inferendae caedis voluntate praecesserat, iure caesum videri[100].
La
convinzione, che la Carta de Logu de
Arborea abbia attinto i modelli normativi dell’omicidio per legittima
difesa dal titolo XVI (Ad legem Corneliam
de sicariis) del libro IX del Codex
Iustinianus, risulta ulteriormente rafforzata da un’altra evidenza: sempre
in quello stesso titolo del Codex,
sono state collocate altre due costituzione imperiali, sui frammenti delle
quali i compilatori arborensi ricalcarono quasi sicuramente la fattispecie
dell’omicidio preterintenzionale, contemplata nell’ultimo capoverso del
capitolo III della Carta de Logu.
C.I. 9.16.1 (Imp.
Antoninus A. Aurelio Herculiano et aliis militibus): Frater vester rectius
fecerit, si se praesidi provinciae obtulerit: qui si probaverit non occidendi
animo Iustum a se percussum esse, remissa homicidii poena secundum disciplinam
militarem sententiam proferet. Crimen enim contrahitur, si et voluntas nocendi
intercedat. Ceterum ea, quae ex improviso casu potius quam fraude accidunt,
fato plerumque, non noxae imputantur[101].
C.I. 9.16.4 (Exemplum
sacrarum litterarum Diocletiani et Maximiani AA. Agathoni): Eum, qui
adseverat homicidium se non voluntate, sed casu fortuito fecisse, cum calcis
ictu mortis occasio praebita videatur, si hoc ita est neque super hoc ambigi
poterit, omni metu ac suspicione, quam ex admissae rei discrimine sustinet,
secundum id quod adnotatione nostra comprehensum est volumus liberari[102].
Peraltro,
in linea con le citate costituzioni imperiali, si presentava già un precedente
rescritto[103] dell’imperatore Adriano,
di cui possiamo ancora leggere il tenore con il commento del giurista Marciano[104],
in un frammento tratto dal libro XIV delle sue Institutiones[105]
e collocato nel libro XLVIII dei Digesta
di Giustiniano, sotto il titolo VIII Ad
legem Corneliam de sicariis et veneficis[106].
D. 48.8.1.3 (Marcianus libro
quarto decimo institutionum): Divus Hadrianus rescripsit eum, qui hominem
occidit, si non occidendi animo hoc admisit, absolvi posse, et qui hominem non
occidit, sed vulneravit, ut occidat, pro homicida damnandum: et ex re
constituendum hoc: nam si gladium strinxerit et in eo percusserit, indubitate
occidendi animo id eum admisisse: sed si clavi percussit aut cuccuma in rixa,
quamvis ferro percusserit, tamen non occidendi animo. Leniendam poenam eius, qui
in rixa casu magis quam voluntate homicidium admisit[107].
Come
risulta evidente dal frammento, l’imperatore prescriveva che dovesse assolversi
dall’accusa di omicidio volontario chiunque, pur avendo ucciso un uomo,
dimostrasse la mancanza dell’animus
occidendi nella sua azione; poiché proprio l’assenza dell’animus occidendi non consentiva di
configurare in tal caso la fattispecie dell’omicidio volontario. Sul passo di
Marciano[108], mette conto fare subito
una prima considerazione di tipo formale, che riguarda la comprovata fedeltà
del giurista al testo imperiale discusso: «si delinea, molto chiaramente –
scrive al riguardo G. Gualandi –, che i riassunti delle ordinanze imperiali
contenute nelle opere giuridiche, sono, assai spesso redatti con parole tratte
dalle stesse»[109]. Per quanto riguarda
invece l’aspetto sostanziale, vi è invece chi, come Valerio Marotta, ha
ipotizzato nel rescritto dell’imperatore Adriano una chiara influenza greca:
«Che la decisione adrianea sia stata ispirata dalla legge draconiana sull’omicidio,
è ipotesi priva di qualsiasi riscontro. La constitutio
altro non è, in effetti, che il punto di arrivo di una linea interpretativa
pienamente affermatasi in età ciceroniana. Eppure sul modello argomentativo
adoperato dalla cancelleria imperiale ha esercitato la sua influenza un topos
che risale a Lisia, il principale esponente della logografia attica»[110].
Alla
luce dei testi giustinianei fin qui discussi, mi pare del tutto evidente la
simiglianza, anche terminologica, col dettato della legislatrice arborense. Sia
per il Codex Iustinianus, sia per la Carta de Logu, non può considerarsi in
nessun caso omicidio volontario, quello in cui l’omicida abbia agito «non occidendi animo», poiché non devono
essere imputabili a dolo dell’agente: «ea,
quae improviso casu potius quam fraude accidunt» (cfr. col «improvisadamente
et non cum animu deliberadu» della
Carta). Inoltre, come le norme del Codex
statuiscono che la accertata mancanza dell’elemento intenzionale sortisca
l’effetto di derubricare l’accusa di omicidio per colui «qui adseverat homicidium se non voluntate, sed casu fortuitu fecisse»;
così la Carta de Logu prescrive che
non sia giudicato per omicidio, ma affidato al giudizio discrezionale del
sovrano, quell’uomo che «non pensadamente
ma pro causa fortunabili» abbia causato la morte di un altro uomo: «Et in casu qui alcuno homini – si legge
nella Carta – hochirit alcuno attero homini improvisa(da)mente et non cum animu
deliberadu et non pensadamente ma pro causa fortunabili secundu qui solint a
venne(r) multos desastros. Volemus qui in tali casu istet et istari depiat at
arbitriu et correctione nostra»[111].
Dicevo
prima che l'intero impianto del capitolo III appare sicuramente modellato sulle
norme del diritto romano giustinianeo. Non sarebbe, infatti, una difficoltà
insormontabile in questa direzione neppure considerare (come ormai si è soliti
fare dopo gli studi del Marongiu sul probabile redattore della Carta de Logu[112])
derivata dal diritto canonico, piuttosto che dal diritto romano, quella massima
che vuole «agentes et consentientes pari
poena puniuntur»[113].
Ad essere più precisi, la massima inserita come citazione letterale nel testo
del capitolo III della Carta de Logu
si direbbe provenire dalle Decretales
Gregorii IX, dove si legge:
Lib. I, Tit. XXIX (De officio, et potestate iudicis delegati), c. I: Alexander III Londonensi Episcopo (an. 1165). Quia quaesitum est, quid
faciendum sit de potestatibus, quae, cum praecipimus alicui iustitiam exhiberi,
minis, ac terroribus conquerentes filere compellunt, et sic mandatum nostrum
eluditur: sic tibi respondemus, quod sicut agentes, et consentientes pari poena
(Scripturae testimonio) puniuntur: sic tam eos, qui trahuntur in causam, quam
principales eorum fautores (si eos manifeste cognoveris iustitiam impedire)
districtione Ecclesiatica poteris coercere.
Lib. V, Tit. XXXIX (De sententia excommunicationis), c. XLVII: Innoc. III (an. 1214). Quantae praesumtionis, et temeritatis
exsistat in Rectores Ecclesiae manus iniicere violentas. Ne autem solos
violentiae huiusmodi auctores aliquorum praesumtio existimet puniendos,
facientes, et consentientes pari poena plectendos catholica condemnat
auctoritas. Eos delinquentibus favere interpretamur, qui cum possint,
manifesto facinori desinunt obviare[114].
Mi
pare difficile, sulla base del riscontro testuale, negare che in questo caso il
rinvio a sas leges sottenda un richiamo del diritto canonico; per quanto
bisognerebbe riflettere più attentamente sui dubbi manifestati dallo stesso
Marongiu nel formulare la sua tesi circa la provenienza canonistica della
citazione: «si tenga presente – aveva scritto lo studioso – che, per quel che
ne sappiamo, non vi è alcun precedente di norme statutarie le quali diano al
diritto canonico l’autorità di fonte superiore di diritto: ossia di fonte per
eccellenza, a preferenza del diritto romano»[115].
Si tratta, a mio avviso, di intendere l'espressione «nara(n)t sas leges» del capitolo III
della Carta de Logu riferita (oltre
che al diritto romano) anche al diritto canonico: l’uso del plurale sembra
suggerire, infatti, una simile interpretazione, già fatta propria peraltro dai
giuristi del XVI secolo[116].
Può costituire un ulteriore e decisivo argomento, a favore della tesi qui
sostenuta, la constatazione che nelle c.d. Questioni
giuridiche esplicative alla Carta de Logu, l'espressione «narat sa lege» appare sempre riferita,
senza alcuna possibilità di dubbio, al diritto romano; del resto, anche il
Marongiu rilevava come «circostanza singolarissima» il fatto che nel caso del
citato capitolo III della Carta de Logu
la parola sa lege non si riferisse
«alla legge per eccellenza, che doveva essere il diritto romano»[117].
Basterà citare soltanto alcuni casi attinenti alla
regolamentazione romana del concorso di più persone al reato, per rendersi
conto del fatto che la stessa regola[118]
risulta attestata inequivocabilmente sia nelle opere dei giuristi romani, sia
nelle costituzioni imperiali ordinate nel Codex
Iustinianus.
Il
primo esempio è costituito da un breve frammento tratto dal libro VIII de officio proconsulis di Ulpiano[119],
che ora leggiamo nel titolo de lege
Pompeia de parricidis del XLVIII libro dei Digesta Iustiniani.
D. 48.9.6 (Ulpianus libro
octavo de officio proconsulis): Utrum qui occiderunt parentes an etiam
conscii poena parricidii adficiantur, quaeri potest. Et ait Maecianus etiam
conscios eadem poena adficiendos, non solum parricidas. Proinde conscii etiam
extranei eadem poena adficiendi sunt[120].
Il
giurista affrontava, in questo frammento, una problematica assai controversa,
relativa all’estensione della pena prevista per il parricidio anche alla
semplice compartecipazione dei conscii,
cioè di coloro i quali fossero risultati a conoscenza del crimine, pur non
avendo partecipato materialmente all’esecuzione di esso. Ulpiano, come risulta
dal testo, si orientava in senso positivo[121],
fondando la sua opinione sull’autorità del giurista L. Volusio Meciano[122];
il quale aveva sostenuto che dovevano essere sottoposti alla medesima pena
inflitta ai parricidi etiam conscii[123].
Il
secondo esempio consiste in una costituzione dell’imperatore Giustiniano, data
nell’anno 533 d.C.:
C.I. 1.3.53(54).5 (Imp.
Iustinianus A. Hermogeni magistro officiorum): Poenas autem, quas
praediximus, id est mortis et bonorum amissionis, constituimus non tantum
adversus raptores, sed etiam contra eos, qui hos comitati in ipsa invasione et
rapina fuerint. Ceteros autem omnes, qui conscii et ministri huiusmodi criminis
reperti et convicti fuerint vel eos susceperint vel quamcumque opem eis
intulerint, sive masculi sive feminae sunt, cuiuscumque condicionis vel gradus
vel dignitatis, poenae tantummodo capitali subicimus, ut huic poenae omnes
subiaceant, sive volentibus sive nolentibus sanctimonialibus virginibus seu
aliis supra dictis mulieribus tale facinus fuerit perpetratum[124].
Come
risulta dal testo appena citato, in questa sua costituzione, riprodotta
pressoché nella stessa forma in C.I. 9.13.1.3 [125],
l’imperatore Giustiniano comminava la stessa pena, prevista adversus raptores, anche a coloro i
quali di quel medesimo crimine fossero stati semplicemente conscii et ministri[126].
Passiamo,
a questo punto, all’esame di altri due riferimenti testuali al diritto romano nella Carta
de Logu. Tali riferimenti, espressi con i termini sa lege o sa ragione, si
leggono nei capitoli LXXVII e LXXVIII, rubricati con i titoli De chertos dubitosos e De appellationibus in quella parte della
Carta che disciplina gli Ordinamentos de chertos e de nunzas
(capp. L-LXXX)[127].
Carta de Logu,
cap. LXXVII (De chertos dubitosos):
Volemus et ordinamus, cum ciò siat causa qui in sas coronas nostras de loghu et
ateras qui se tenent per nos per issu armentargiu nostru, multas boltas advenit
que inter issos lieros que sunt in sas ditas coronas est adivisioni, discordia
o ver differentia in su iuygare que faghint supra alcuno chertu et desiderando
nos qui ciascuna dessas terras nostras siant mantesidas et observadas in
iusticia et in raxone et pro defectu dessa dita divisione, o ver discordia non
perdat nen manquit alcuna rax(i)one sua, ordinamus et bolemus quisi in alcuna
dessas ditas coronas pervengiat alcunu chertu quesseret grosso et dubitosu, de
su quali sos lieros dessa dita corona esserent perdidos et divisidos insu
iuigare issoro, qui incussu casu su armentargiu nostru de loghu, over atero
officiali nostru quest assu presenti, o chat esser per inantes, sia tenudo
dessu chertu e dessu iuighamentu cant faghire sos ditos lieros supra su ditu
chertu, de avirinde consigiu cum sos savios dessa corte nostra et cum alcunos
dessos lieros de sa corona qui pargiant sufficientes ad elect(i)one dessu ditu
armentargiu, o ver officiali cat reer sa corona, et icussu qui pro issos o per
ipsa maiore parte de(i)ssos s'at deliberari de raxione siat de faghire dessu
dito chertu, su armentargiu o ver officiali nostru fazat leer et publicare in
sa predicta corona[128]
in presencia de ambas partis pro sentencia diffinitiva et mandit ad executione,
si appellando non est infra tempus legitimu de dies deghi comenti cumandat sa
lege, non infirmando[129]
però sa carta de logu[130].
Carta de Logu,
cap. LXXVIII (De appellationibus): Constituimus et ordinamus qui ciascuna persona
qui si sentirit agravada de alcuna sententia quilli esseret dada incontra supra
alcunu chertu de alcuna questione qui avirit daenante de qualuncha officiali si
pozat, si bolet, appellaresi infra su tempus ordinadu daessa ragione duas
boltas secundu quest naradu de supra, cio est de una de questione non usit et
non si pozat appellari plus et in casu qui plus boltas si appellarit ultra sas
secundas duas non silli deppiant amittere nen acceptare[131].
Fra
il vario contenuto dei capitoli appena citati, rileva evidenziare, soprattutto,
il rinvio esplicito a sa lege operato
dalla legislatrice arborense nel definire i termini legali per l’impugnazione
delle sentenze; fissati nella Carta de
Logu entro il limite massimo di dieci giorni: «si appellando non est infra tempus legitimu de dies deghi comenti
cumandat sa lege» (cap. LXXVII). Peraltro, va anche sottolineato, che il
dettato di questi due capitoli deve essere letto in stretta coordinazione con
il contenuto dei due successivi capitoli, anch’essi regolanti la materia de appellationibus. Uno fissa, infatti,
la decorrenza dei termini d’impugnazione, disponendo che i dieci giorni utili
per appellare siano computati a partire dal momento in cui viene pronunciata la
sentenza:
Carta
de Logu, cap. LXXIX (De appellationibus):
Item ordinamus. Ciascuna persona qui sat sentiri agravadu de alcuna sentencia
quilli esseret dada in contra si pozat appellari si bolet incontinente viva voce
o per iscriptu infra dies X. de qui ad esser dada sa sententia, et qui cussa
appellatione et icussu processu dessa questione deppiant levare et presentare
assa corte infra ad ateras dies XV. Et si ya non romaneret pro culpa et
negligencia dessu nodaiu o ver scrivanu qui non lu daret su processu infra su
dictu tempus[132];
mentre il capitolo seguente
statuisce che, ai fini della validità dell’appello, il valore della causa
trattata non possa essere inferiore alla somma di cento soldi, ovvero di cinque
lire:
Carta de Logu,
cap. LXXX (De appellaresi): Volemus et
ordinamus pro cessare ispesas a sos subditos nostros et litingantes nostros qui
de alcuna sententia et iuighamentu cat esser factu per armentargiu nostru de
loghu, o per chaluncha atero oficiali nostru subra alcuna questione nostra o
chertu qui esseret dae C. soddos ingiosso non usit nen deppiat appellari an nos
nen ad atter officiali nen etiam [des] assos auditores nostros. In casu qui si
appellarit, bolemus quessa dicta appellatione non bagiat nen contenyat pro qui
bolemus qui sentencia qui sos officialis nostros et quantu casu ant dari et
liberari bagiat et tenghat et mandit a executione secundu qui per issos
iuighantes issoro at esser determinadu[133].
Sulla
base del contenuto dei quattro capitoli, mi sembra piuttosto evidente che nella
Carta de Logu tutta la parte della
materia processuale, relativa ai tempi e alle modalità dell’appello, sia stata
regolamentata in sostanziale aderenza con la legislazione tardo-romana de appellationibus, così come risultava
codificata e innovata, anche per quanto riguarda i tempora appellandi[134],
dall’imperatore Giustiniano[135].
Ma, per fugare ogni dubbio al riguardo, basterà leggere qualche passo della
Novella 23 (De appellationibus et intra
quae tempora debeat appellari), indirizzata a Triboniano magistro officiorum et quaestori sacri palatii e
pervenutaci integralmente soltanto nella versione latina dell’Authenticum[136].
Nov. 23.1: Et sancimus omnes appellationes, sive per se sive per
procuratores seu per defensores vel curatores et tutores ventilentur, posse
intra decem dierum spatium a recitatione sententiae numerandum iudicibus ab his
quorum interest offerri, sive magni sive minores sunt (excepta vidilicet
sublimissima praetoriana praefectura): ut liceat homini intra id spatium
plenissime deliberare, sive appellandum ei sit sive quiescendum. Ne timore
instante opus appellatorium frequentetur, sed ait omnibus inspectionis copia,
quae et indiscussos hominum calores potest refrenare[137].
Anche
dei restanti capita della Novella 23
mi sembra opportuno esporre, seppure in maniera concisa, quelle parti del
contenuto che hanno rilevanza comparativa a fronte delle norme similari della Carta de Logu. Nel caput 3, ad esempio, si prescrive il divieto di rinviare in appello
a Costantinopoli (al fine di non impegnare super
minimis causis maximi nostri iudices) le controversie fino al valore di
dieci libbre d’oro, giudicate in provincia da un vir clarissimus; disponendo il loro riesame con giudizio inappellabile
da parte di altro funzionario imperiale superiore di rango spectabilis[138].
Nel caput 4, invece, si riconferma la
norma che regolava gli appelli contro le sentenze emesse dagli spectabiles: sempre devolute,
indipendentemente dal valore della causa, alla giurisdizione congiunta del praefectus praetorio e del quaestor sacri palatii[139].
Ma,
un dato ancora più rilevante scaturisce dalla lettura dei capitoli appena
citati: le norme arborensi, infatti, sia per l’utilizzazione di verbi dalla
indiscutibile valenza precettiva (cumandare
/ ordinare), sia – soprattutto – per l’impiego di tali verbi al tempo
presente (cumandat), lasciano
intravedere in maniera esplicita la vigenza e l'imperio del sistema normativo
al quale si rinvia. Né può dubitarsi, come si è detto, che tale sistema fosse
il diritto romano, dal cui corpus i
compilatori della Carta de Logu
richiamavano il dettato attribuito a sa
lege: nel caso specifico la Novella 23.
Restano
infine da esaminare i capitoli XCVII
e XCVIII, rubricati
rispettivamente col titolo De deseredari
e De coyamentos; ma attinenti tutti e
due, nonostante il titolo del capitolo XCVIII,
alla materia successoria[140].
Carta de Logu,
cap. XCVII (De deseredari): Volemus
et ordinamus qui nexuna persona de su rennu nostru de Arbaree usit nen deppiat
deseredare sos figios, o ver nebodes suos nados dessos figios, dessas rexonis
qui sillis at apertenne pro sa heredidadi de su padre, o ver de sa mama issoro;
salvu si su padre over sa mama a sa morte issoro bolerent narri et apponerent
contra issos figios, o ver nebodes, iusta ochaxione pro sa quale illos deberent
diseredare et assa dita ocaxione si deppiat provare legittimamente per icusos a quj ant[141]
aviri lexadu sos benes issoro infra unu mese da essa die de sa morte de su
testadore[142].
Carta de Logu,
cap. XCVIII (De coyamentos):
Constituimus et ordinamus qui, si alcuna persona coiarit figia sua a dodas, qui
non siat tenudu de lassareli nen darelli in vida nen in morte sua si non cussu
quillat aviri dadu in dodas si non a voluntadi sua. Salvu si issu non avirit
ateru figiu quilli deppiat laxari sa parte sua secundu raxione, contadu illoy
in cussa parte cat deber avire sas dodas cat aviri appidu daenante. Et
simigiamente si intendat pro tottu sos dixendentes suos et totu satero quillat
remanne inde possat faguere cussu quillat plaghere et in casu qui morret ab
intestadu sussedat sa figia femina coiada cus sus ateros fradis et sorris suas
iscontandu daessa parti sua cunssa doda qui at aviri appidu[143].
Anche
se il richiamo espresso al diritto romano ricorre soltanto nel capitolo XCVII,
dove con «sa parte sua secundu raxione»
si designa la porzione legittima dell'eredità[144]
spettante, nella fattispecie, alla figlia già precedentemente dotata; l'analisi
del dato normativo dei due capitoli lascia chiaramente intravedere una
indiscutibile derivazione romanistica[145].
Con ragionevole approssimazione, si può indicare la fonte nella Novella 115 [146],
sul cui caput 3 appare improntata la
disciplina delle diseredazioni nella Carta
de Logu.
Nov. 115.3.pr.: Aliud
quoque capitulum praesenti legi addendum esse perspeximus. Sancimus igitur non
licere penitus patri vel matri, avo vel aviae, proavo vel proaviae suum filium
vel filiam vel ceteros liberos praeterire aut exheredes in suo facere
testamento, nec si per quamlibet donationem vel legatum vel fideicommissum vel
alium quemcumque modum eis dederint legibus debitam portionem, nisi forsitan
probabuntur ingrati et ipsas nominatim ingratitudinis causas parentes suo
inseruerint testamento. Sed quia causas, ex quibus ingrati liberi debeant
iudicari, in diversis legibus dispersas et non aperte declaratas invenimus,
quarum aliquae nec dignae nobis ad ingratitudinem visae sunt, aliquae vero cum
essent dignae praetermissae sunt, ideo necessarium esse perspeximus eas
nominatim in praesenti lege comprehendere, ut praeter ipsas nulli liceat ex
alia lege ingratitudinis causas opponere nisi quae huius constitutionis serie
continentur[147].
Emanata
dall’imperatore Giustiniano il 1° febbraio dell’anno 542 d.C., la Novella 115,
nei suoi capita 3, 4 e 5 pr.,
«prescrisse che gli ascendenti e i discendenti dovessero necessariamente venire
istituiti eredi. La diseredazione non
è ammessa se non per motivi gravi e determinati dalla Novella stessa»[148].
Inoltre, nella nuova regolamentazione giustinianea della materia, che «fonde in
un sol sistema quello formalistico della diseredazione e quello della querela»[149],
per l’esclusione dall’eredità non è più richiesta alcuna espressa diseredazione;
basterà far menzione della causa di esclusione in riferimento alla persona che
si vuole escludere. Resta, naturalmente, il diritto d’impugnazione all’erede
necessario ingiustamente trascurato, da cui consegue la rescissione del
testamento; la quale però, come scrive il Voci, «colpisce propriamente solo le heredis institutiones, giacché le altre
disposizioni rimangono valide»[150].
Ma
torniamo al citato testo della Novella 115. Esso chiarisce anche le ragioni che
spinsero l’imperatore a legiferare il riordino dell’intera la materia (Sed quia causas, ex quibus ingrati liberi
debeant iudicari, in diversis legibus dispersas et non aperte declaratas
invenimus, quarum aliquae nec dignae nobis ad ingratitudinem visae sunt,
aliquae vero cum essent dignae praetermissae sunt); fissando in via
definitiva le iustae causae
ingratitudinis riconosciute legalmente e sanzionando l’assoluto divieto di ex alia lege ingratitudinis causas opponere[151].
Di
notevole interesse si presenta il raffronto tra le due norme della Carta de Logu e la citata legislazione
imperiale. Sia Nov. 115.3.pr., sia il
capitolo XCVIII sanciscono in
caso di diseredazione l'obbligo per il testatore di dichiarare la iusta causa ingratitudinis o la justa occagione e in qualche modo anche
di provarla (nisi forsitan probabuntur
ingrati et ipsas nominatim ingratitudinis causas parentes suo inseruerint
testamento). Resta inteso che, in caso di controversia, l'onere della prova
è posto chiaramente in capo agli eredi, tanto nel diritto giustinianeo (Sive igitur omnes memoratas ingratitudinis
causas sive certas ex his sive quamlibet unam parentes testamento suo
inseruerint, et scripti heredes nominatam vel nominatas causas vel unam ex his
veram esse monstraverint, testamentum suam firmitatem habere decernimus)[152],
quanto nel “codice” arborense: «et assa
dita ocaxione si deppiat provare legittimamente per icusos a quj ant aviri
lexadu sos benes issoro infra unu mesi da essa die de sa morte de su testadore».
Un
altro punto di contatto, tra la normazione imperiale romana e le norme della Carta de Logu in materia di deseredari, è costituito dalla legittima
porzione di eredità riservata necessariamente ai figli; essa viene indicata in
Novella 115.3.pr. con l'espressione legibus
debitam portionem, dalla quale sembra derivare concettualmente quella parte sua secundu ragione, di cui la
figlia, nella fattispecie prescritta nel capitolo XCVIII della Carta, non può essere privata dal
testatore.
Anche
riguardo al regime della successione necessaria, al di là del pur utilissimo
raffronto testuale, occorre riflettere maggiormente su quello che manca nel
dato normativo della Carta de Logu:
così nel capitolo XCVII non
abbiamo, ad esempio, alcun cenno a quali fossero le cause legittime su cui si
poteva fondare legalmente sa justa
occagione del deseredari. Ancora
una volta siamo, dunque, in presenza di un rinvio tacito ad altre norme,
anch'esse ritenute vigenti dal legislatore e abbastanza conosciute da poter essere
sottintese. Che si trattasse di un rinvio al diritto romano, in particolare
alla Novella 115, caput 3, lo si può
arguire indirettamente sulla base di alcune altre evidenze.
La
prima ci è fornita dall’ignoto giurista sardo, autore dell’operetta di casistica
giuridica, conosciuta come Questioni
giuridiche esplicative della Carta de Logu (ma nel codice miscellaneo della
Biblioteca Universitaria di Cagliari risulta titolata Exposiciones de sa ‘llege; mentre le prime edizioni a stampa
registrano un altro titolo: Sequuntur
infra Sas leges prosas cales si regint in Sardigna). Nella rubrica Qui potest deseredare, al fine di
rispondere alla questione: «Ponamus qui
su padri bolit isderedari asu figiu: podet illu faghiri o non?», il
giurista ricorre quasi naturalmente al dettato della Novella 115, caput 3: «Narat su testu quillu podet
faghiri in XIIII maneres»; enumerando quindi di seguito le quattordici iustae ingratitudinis causae della
citata Novella, che leggeva «in autentico»[153].
Più in generale, l’operetta attesta una utilizzazione abbastanza frequente ed
originale del diritto romano giustinianeo nella Sardegna del XIV secolo[154];
anche se l’analisi più attenta del testo disvela nell’autore una conoscenza ed
un uso delle fonti assai rudimentale, come già aveva ben visto Vittorio Finzi:
«il modo con cui le allegazioni stesse furono barbaramente storpiate – scriveva
lo studioso – potrebbe provare che ad esse si ricorreva di rado»[155].
Vi è
infine un’ulteriore evidenza che, per quanto non riferibile all'Arborea,
illumina però assai bene le temperie culturali dell’epoca che vide la
compilazione della Carta de Logu. Si
tratta del testo di un’integrazione agli Statuti Sassaresi, ordinata da
Brancaleone Doria nella sua qualità di conte di Monteleone, in cui sono
presenti espliciti richiami a sa iusta et
comuni rasone ed a sa lege comuni.
Per quello che ci è dato capire dal documento piuttosto lacunoso, che possiamo
leggere grazie alla trascrizione pubblicata dal Besta[156],
la norma aggiuntiva sembrerebbe riguardare proprio il divieto di diseredazione
del figlio (a cui si riferiva forse, per quanto assolutamente indecifrabile nel
suo senso compiuto, anche la tripartizione ut
lege naturali, canonica et civili), che il legislatore volle dichiarare di
norma inammissibile (ordinamus et bolemus
qui su patri ad su figiu et non isu figiu ad su patrj non poçat diseredare
dessa legittima sua); «exceptu cum
iusta casione de sa lege comuni ordinadu». Sulla base di quest’integrazione
agli Statuti comunali di Sassari, per la cui elaborazione il marito di Eleonora
di certo avrà fatto ricorso agli stessi consulenti giuridici della giudicessa
di Arborea, riterrei più che logico supporre che a quella stessa lege comuni dovette ispirarsi anche la
coeva legislazione arborense in materia di diseredazione[157].
Come, del resto, mi pare di aver sufficentemente mostrato con la precedente
analisi dei testi giuridici romani.
Le
finalità dichiarate nel prologo della Carta
de Logu furono, principalmente, quelle di affrenare e constringhere
«sa superbia dessos reos et malvagios
hominis», al fine di consentire «quisos
bonos et puros et innocentes pozant viver et istare inter issos reos ad
seguritades pro paura dessas penas»[158].
In
tal modo Eleonora d’Arborea, «per issos
bonos capidulos» della Carta de Logu,
si proponeva di porre fermo ed efficacissimo rimedio alla deteriore condizione
della sua epoca, in cui – come ancora oggi, del resto – «ciaschuno est plus inquenivili assu malu fageri qui non assu bene dessa
re plubigha sardischa»[159].
Mette
conto rilevare, a questo proposito, come il citato richiamo «assu bene dessa re plubigha sardischa»
lasci intravedere, una volta di più, il solido riferimento alla cultura
giuridica coeva da parte degli ignoti compilatori della Carta de Logu de
Arborea; mi pare, infatti, possibile percepire distintamente, per quanto
riguarda l’utilizzazione del concetto di respublica,
sia la consapevolezza della relazione sintagmatica fra populus e respublica, già
postulata dai glossatori più antichi[160];
sia la conoscenza dei vari significati della parola respublica, così come risultavano schematizzati nella Glossa
accursiana[161].
La
legislatrice arborense volle altresì ricollegare le norme della Carta de Logu ai motivi ispiratori
dell'opera riformatrice del padre, Mariano IV di Arborea[162];
fra i quali primeggiava la difesa intransigente delle attività agricole contro
le frequenti invasioni dei pastori[163],
perseguita da questo giudice con l'emanazione del cosiddetto "Codice
rurale"[164], che non a caso fu poi
introdotto, a partire dalla prima edizione a stampa, nella Carta de Logu di Eleonora[165]:
«L’economia terriera sarda, nella “Carta” di Eleonora – scriveva al riguardo
Carlo Guido Mor – ci appare imperniata, quasi, sul duello fra cultura e
pastorizia, ma la legislatrice ci si palesa nettamente favorevole alla prima,
difesa energicamente di fronte all’invadenza degli armenti»[166].
Fra i
motivi ispiratori del grande giudice arborense non trascurerei il riferimento
più generale alla suprema finalità del potere sovrano di legiferare, espresso
dalla frase «provvideri a su utili
cummoni et bonu istadu de sa gente nostra»[167],
che possiamo leggere nel prologo del “Codice rurale”[168].
Infatti, in questo puntuale riferimento a
su utili cummoni, quale finalità primaria della legislazione dei Giudici
d’Arborea, mi pare possibile intravedere sottesi quei quaedam publice utilia[169],
che la giurisprudenza romana aveva concepito come elementi caratterizzanti
dello ius publicum[170].
Elementi
che furono poi recepiti anche dai compilatori costantinopolitani dei Digesta dell’imperatore Giustiniano, per
concettualizzare le due positiones
dello ius (pubblico e privato)[171].
La Carta de Logu de Arborea, splendido
monumento legislativo scritto in «sardo antico»[172],
offre allo storico del diritto lo strumento più prezioso e più stimolante per riscoprire,
anche nel vasto ambito della storia del diritto italiano[173],
caratteri originali e peculiarità delle strutture giuridiche della Sardegna
medioevale, moderna, contemporanea; non bisogna dimenticare, infatti, che la Carta de Logu[174]
ha plasmato per secoli molti aspetti delle istituzioni giuridiche del Popolo
sardo, quasi fino ai nostri giorni. La Carta
de Logu de Arborea, estesa a tutto il Regnum
Sardiniae dopo la definitiva
affermazione della sovranità aragonese nel 1421, cessò di avere forza di legge
formalmente solo nel 1828, anno in cui entrarono in vigore le Leggi civili e criminali, promulgate nel
1827 dal re di Sardegna Carlo Felice di Savoia[175].
Le
ragioni di una così lunga durata[176]
sono da ricercare soprattutto nelle intrinseche qualità e nell’elevato spessore
giuridico della compilazione[177],
i cui capitoli incarnavano, per quanto tradotti con la scrittura «in termini
colti»[178], le istanze fondamentali
di esperienze popolari e consuetudinarie maturate nelle comunità sarde di
pastori e contadini; dove peraltro si è conservata di fatto operante, anche ben
al di là della sua stessa vigenza. Questa peculiarità della Carta de Logu non era sfuggita ad A.
Pertile, il quale ne sosteneva la vigenza ben oltre l’abolizione formale: «essa
non perdette ogni valore nell’isola che allorquando vi fu introdotto il codice
civile italiano, e con esso si ruppe ogni filo della storia»[179].
Sicché,
ancora oggi, istituti ed usi tipici della Sardegna contadina e pastorale hanno
le loro radici, per lo più senza coscienza storica del fatto, in capitoli
dell'antica Carta voluta da Eleonora
d’Arborea.
In
questo senso, meritano di essere rimeditate ancora una volta, con rinnovata
attenzione, le stimolanti riflessioni di Antonio Pigliaru[180]
sulla Carta de Logu; riflessioni che
possiamo leggere nella più nota monografia dell’insigne filosofo del diritto,
dedicata alla più caratteristica delle «consuetudini giuridiche sarde»: la
vendetta barbaricina[181].
In alcune pagine di quell’opera, dopo aver ben evidenziato sia il riflesso
della «esperienza romanistica»[182]
sul codice arborense, sia il fortissimo legame di esso con le «consuetudini
giuridiche sarde»[183],
ha formulato, con l’originalità e l’acutezza a lui consuete, l’ipotesi davvero
suggestiva che possa ascriversi all’influenza della legislazione penalistica
della Carta de Logu, pur in una
dialettica sovente conflittuale tra «consuetudine e legge», il fatto che la
comunità barbaricina in un momento imprecisato della sua storia «sia pervenuta
al concetto che la vendetta è un dovere»[184].
Per concludere, mi pare di un qualche interesse rilevare
la tenace sopravvivenza di modelli proprietari comunitari nelle tradizioni
giuridiche della Sardegna. Un’isola in cui la forte identità
linguistica, autonomistica, religiosa e culturale del suo popolo si è plasmata
nella dinamica storica dei grandi sistemi giuridici mediterranei[185],
e in cui si è conservata fortissima (dall’età antica, all’età medioevale,
all’età moderna) l’influenza (e la vigenza) del diritto romano giustinianeo[186].
Nella
legislazione sarda medioevale e moderna risulta possibile esercitare sulla
terra due tipi di diritti: uno da parte di privati (ma non necessariamente di
singoli), con occupazioni, chiusure e dissodamenti; l’altro più propriamente
comune, consistente nel godimento collettivo di un certo territorio. Nel corso
di molti secoli, nelle campagne sarde hanno coesistito – spesso scontrandosi
anche duramente – una pluralità di modelli di appropriazione e varie forme di
godimento della terra. Modelli e forme tutti riconducibili all’agricoltura e
pastorizia, alcuni dei quali si sarebbero modellati sulla memoria medievale
della scriptura che regolava la contribuzione della provincia in età
romana[187]. Il risultato di tutto
questo è che ancora oggi in Sardegna permangono rilevanti estensioni di terre
comuni, su cui si applica una concezione di utilizzo molto simile alle res
communes omnium del diritto romano[188].
Le terre comunali (terre delle vecchie comunità di villaggio che sono rimaste
proprietà dei Comuni) hanno attualmente un’estensione di 353 mila ettari;
rappresentano il 15% dell’intero territorio regionale e interessano 263 dei 359
Comuni dell’Isola. Se sommiamo ad esse le altre terre pubbliche, abbiamo in
Sardegna il 25% del territorio non privatizzato.
Istituti
e tradizioni tipici della Sardegna contadina e pastorale hanno le loro radici,
per lo più senza coscienza storica del fatto, in capitoli dell'antica Carta de Logu de Arborea. Si spiega in tal
modo la tenace persistenza secolare in Sardegna della figura del juargiu
Carta de Logu,
cap. xciv (De sotzus): Volemus et ordinamus qui alcunu terarmangiesu cat dare
iuo suo assardu pro iuargiu o pro soci, non appat ad cherre at perunu homini
salvu aquillu ad aviri dadu. Ed issu iuargiu istit assa usansa dessa terra[189]
e del relativo contratto di
società parziaria, in rapporto alla coltivazione della terra[190].
O degli usuali contratti di soccida tra pastori e proprietari (delle greggi o
del pascolo), stipulati nelle campagne sarde in forme e contenuti assai simili,
nei fatti, agli antichi Ordinamentos de
cumonis[191],
che regolavano tali fattispecie nella Carta
de Logu arborense.
La varietà di modelli di appropriazione e di forme di godimento della
terra esistente nell'economia sarda tardo-medievale, seppure imperniata su una
legislazione con marcata preferenza per la rigorosa protezione giuridica delle
attività agricole, che evidentemente avevano ormai acquistato una notevole
importanza economica; non porta con sé, tuttavia, alcuna preferenza per un
modello proprietario o per una forma produttiva. Si direbbe anzi, che la tutela
della Carta de Logu de Arborea sia quasi indifferente alla
forma giuridica della terra. Questa apparente contraddizione nelle
caratteristiche intrinseche della protezione giuridica riservata ai terreni
coltivati, viene risolta in maniera convincente da Italo Birocchi, in un saggio
sulla «consuetudine nel diritto agrario sardo»:
«A questo punto si può forse comprendere come sia falsata
l'ottica di chi ricerchi nei documenti antichi le prove “dell'esercizio del
diritto di proprietà”, sebbene sia agevole trovare testimonianze di forme di
proprietà, individuale e collettiva, espresse in epoca risalente, come già nei
condaghi; ma quell'ottica è fuorviante perché proietta nel passato la moderna
prospettiva che vede il diritto come un'emanazione del soggetto e non come un
prodotto che scaturisce dall'oggetto. In realtà l'ordinamento tutelava non
tanto il diritto di proprietà, bensì la destinazione agraria della terra, ossia
la sua utilitas nell'ambito del
sistema dato: prima che il diritto astratto sul fondo proteggeva il fondo
stesso. Ed ecco, allora, la spiegazione della maggior severità stabilita a
protezione delle terre coltivate rispetto alle altre terre che si riscontra
nelle fonti legislative a noi note ma che costituisce già un corollario
implicito dell'ordinamento agrario: e infatti già i condaghi esprimevano una
tale maggiore protezione»[192].
Così nel cap. XLVII della Carta
de Logu si sanzionava, con la previsione di forti penalità che potevano
arrivare fino al taglio della mano destra, qualsiasi deperimento doloso ad
opera di un incendiario di prodotti agricoli pregiati, quali frumento già
preparato per la trebbiatura, frumento ancora da mietere, vigneto, orto.
Carta de Logu, cap. XLVII (de fogu in lauore): Item
ordinamus qui si alcuna persona ponneret foghu istudiosamenti ad lauore messadu
over ad messare o a vigna o at ortu et est indi binchidu paghit pro maquicia
lliras L et issu dannu a quillat aviri factu, et si non pagat isso over attero
pro se seghitsilli sa manu dextra[193].
E certo le forme di appropriazione della terra comunitarie non
risultano sfavorite in quella legislazione. Anzi, alcuni istituti si
giustificano solo alla luce del carattere collettivistico (nel diritto e nella
produzione) delle comunità di villaggio (villas). Era il caso degli
antichi Jurados de padru, preposti
nella Carta de Logu de Arborea[194]
alla vigilanza e alla protezione delle coltivazioni e del bestiame, nonché alla
tutela della pubblica sicurezza nel territorio della villa[195]:
Carta de Logu, cap. XXXVIII (De proare sos cavallos): Volemus et ordinamus: qui sos juradus siant tenudos ciaschuno
in sa curadoria sua de prouare sos cavallos domados et issas ebbas domadas et
issos boes domados et molentes qui sant hochier affura o qui sant furare in sa
villa o in habitatione dessa villa et si non lu prouarint paghint sa fura a sos
pubillos comunalimente sos juradus cun sos hominis tottu de sa villa, et i
cussu bestiamen cant achaptare sos juradus de pardu ispeciadu ade nocte cio è
couallu domado ebba domada boe domadu et molente; siant tenudus dellu tenne et
baturellu assa corte, et issos juradus indi appant de cussu qui ant batire a sa
corte sa terza parte dessas tenturas, et cio si intendat pro boes domadus qui
in cussu tempus si paschit a muda si tenerent pro qui debent giaghere in sa
corte: et si alcunu maiore pardu over atera persona miteret alcunu bestiamen
dissu quest naradu de subra dae foras at intro; paghit sodhus binti pro
ciaschuna bolta et pro ciaschuna bestia sindi est convinto[196].
Compiti
assolti, in età moderna e contemporanea dalle compagnie barracellari,
costituite ancora oggi ed operanti in numerosi villaggi e città della Sardegna[197].
Anche alcune prescrizioni, contenute nelle ordinanze della
Regione Autonoma della Sardegna in materia di prevenzione degli incendi estivi[198],
presentano notevoli elementi di somiglianza con la “materia antincendio” della Carta de Logu; o per meglio dire, con i
suoi Ordinamentos de foghu, statuiti
nei capitoli xlv-xlix[199].
Infatti, per combattere la micidiale piaga degli incendi – fenomeno purtroppo
ricorrente nella storia secolare della nostra Isola[200]
– è fatto obbligo alle comunità (Comuni, Province, ecc.) di predisporre idonee
fasce tagliafuoco nei terreni di pertinenza pubblica, prima dell’inizio
dell'estate[201]; con
modalità e procedure assai simili a quelle prescrizioni della Carta de Logu che ordinavano alle comunità
di villaggio (villas) de fagher sa doha […] per Sanctu Pedru de
lampadas.
Carta de Logu, cap. XLIX (De fogu): Constituimus et ordinamus: qui sas
villas qui sunt usadas de fagher sa doha proguardia dessu fogu deppiant illa
fagher sa doha secundu qui fudi usadu pro temporale. Ciascaduna villa in sa
habitationi sua. Et qui nolat auiri fata pro sanctu pedru de lampadas: paghit
ssz. x. per homini et issa villa qui lat faghire: fazat illa qui fogu nò la
parighit sa doha et si fogu illa barigat et faghit perdimentu: paghit sa villa
ssz. x. per homini secundu quest vsadu est issu curadore llrs X a sa corte. Et
si su curadore comandarit assus juradus over a sus ateros hominis dessa villa
defaghere sa dicta doha: et nò la fagherent paghit comonalimenti sa pena qui
deuat pagare su officiali et icussu officiali siat liberu[202].
Era
fatto obbligo di predisporre idonee fasce tagliafuoco nei terreni di pertinenza
pubblica entro la festività di San Pietro, cioè entro il giorno 29 giugno,
prima dell’inizio dell'estate.
Con
le stesse finalità si giustifica la norma che impone (ora come allora) ai
privati cittadini[203],
siano essi proprietari dei fondi o altri aventi titolo, di osservare
scrupolosamente i tempi prescritti per l’abbruciamento delle stoppie di colture
cerealicole o foraggiere (Volemus et
ordinamus qui nexuna persona deppiat ne pozat ponne foghu infini ad passadu sa
festa de sancta Maria qui est a dies VIII de capudanni)[204].
[1] Con
questo titolo è stato pubblicato nei primi anni del Novecento l’unico manoscritto
esistente della Carta de Logu,
posseduto dalla Biblioteca Universitaria di Cagliari: E. Besta-P.E. Guarnerio, Carta de Logu de Arborea. Testo con
prefazioni illustrative, Estratto dagli “Studi sassaresi” III (1905). A
distanza di oltre un secolo, con iniziativa assai opportuna, ne è stata
predisposta una nuova edizione dal filologo dell’Università di Sassari Giovanni
Lupinu: Carta de Logu dell’Arborea. Nuova
edizione critica secondo il manoscritto di Cagliari (BUC 211) con traduzione
italiana, a cura di G. Lupinu,
con la collaborazione di G. Strinna,
Istituto Storico Arborense / Centro di Studi Filologici Sardi - S’Alvure
Editrice, Oristano 2010; per l’esplicazione dei criteri metodici utilizzati e
delle nuove acquisizioni conseguite nella ricerca filologico-testuale, rinvio
alla Introduzione del Curatore, 3-25;
dove, peraltro, si leggono pagine fondamentali anche riguardo alla storia delle
diverse edizioni a stampa della Carta de
Logu, 4 ss. Su questo ultimo aspetto, da segnalare alcuni lavori precedenti,
in particolare il saggio ben documentato di Tiziana
Olivari, Le edizioni a stampa
della “Carta de Logu” (XV-XIX sec.), in “Medioevo. Saggi e rassegne” XIX
(1994), 159 ss.; ma sono da vedere anche Barbara
Fois, Sulla datazione della ‘carta de Logu’, ibidem, 133 ss.; e Giuseppina
Cossu Pinna, La Carta de Logu
dalla copia manoscritta del XV secolo custodita presso la Biblioteca
Universitaria di Cagliari alla ristampa anastatica dell’incunabolo:
bibliografia aggiornata e ragionata, in Società
e cultura nel Giudicato d’Arborea e nella Carta de Logu. Atti del Convegno internazionale di studi,
Oristano 5-8 dicembre 1992, a cura di G.
Mele, Comune di Oristano, Oristano 1995, 113 ss.
[2] Sulla
giudicessa-reggente e sulla sua attività legislativa (ancora significativi i
vecchi lavori di G.C. Del Vecchio,
Eleonora d'Arborea e la sua legislazione, coi tipi di Giuseppe
Bernardoni, Milano 1872, con particolare riguardo al contenuto e al valore
giuridico della Carta de Logu; M. Fuortes,
Eleonora d'Arborea e la Sardegna medioevale del suo tempo, tip.
Carpigiani e Zipoli, Firenze 1921), vedi ora l’ampia sintesi di F.C. Casula, La Sardegna aragonese, 2. La Nazione sarda,
Chiarella, Sassari 1990, 413 ss. Buoni spunti per un ripensamento critico dei problemi
storiografici ancora aperti in A.
Mattone, v. Eleonora d’Arborea, in Dizionario Biografico degli
Italiani, vol. XLII, Istituto dell’Enciclopedia Italiana, Roma 1993, 410
ss. (con la bibliografia più aggiornata sul personaggio); dello studioso sassarese
vedi anche il saggio Un mito nazionale per la Sardegna. Eleonora d’Arborea
nella tradizione storiografica (XVI-XIX secolo), in Società e cultura
nel Giudicato di Arborea e nella Carta de Logu, cit., 17 ss.
Alla
vera effigie di Eleonora d’Arborea (assai diversa, invero dalla visione
agiografica tradizionale dell’eroina sarda) è dedicato il saggio di F.C. Casula, La scoperta dei busti in
pietra dei re o giudici d’Arborea: Mariano IV, Ugone III, Eleonora con
Brancaleone Doria, in “Medioevo. Saggi e Rassegne” IX (1984), 9 ss.; in cui
si sostiene che Eleonora sarebbe da identificare con la figura femminile
«scolpita insieme a quella del padre, del fratello e del marito, in uno dei
peducci pensili – e precisamente quello di destra – dell’arco trionfale dell’abside
della chiesetta conventuale di San Gavino martire, nell’antico villaggio di San
Gavino Monreale, oggi in provincia di Cagliari, ma che nel Medioevo era
capoluogo della curatoria arborense di Bonorzuli, vicino al castello di
Monreale (Sardara)».
[3] Mentre
Girolamo Olives, giurista sardo del XVI secolo, prudentemente, non precisava
l’anno di promulgazione della Carta de
Logu arborense (Hieronymi Olives, Commentaria et Glosa in Cartam de Logu. Legum, et ordinationum Sardarum
noviter recognitam, et veridice impressam, ex typographia nobilis D. D.
Petri Borro administr. per Gaspar. Nicolaus Garimberti, Sassari MDCXVII, 5:
«quod ista Capitula, et compilatio debuerunt publicari, et promulgari in aliqua
die solemni, et sancta festivitate, nisi intellexerit de aliqua die sancta,
hebdomadae sanctae. Nam in cap. 125 in eodem, ubi loquitur de Ferijs, nullum
diem appellat sanctum, nisi hebdomadam sanctam»); la storiografia ottocentesca
finiva per accettare la data del 1395, come proposto ad inizio di secolo dall’autore
della prima traduzione italiana, il cavaliere Giovanni Maria Mameli (G.M. Mameli De' Mannelli, Le Costituzioni di Eleonora giudicessa
d'Arborea intitolate Carta de Logu. Colla Traduzione Letterale dalla Sarda
nell'Italiana Favella e con copiose Note, presso Antonio Fulgoni, Roma 1805
[rist. an., Cagliari 1974], 14 nt. 4: «Esser dovrebbe il giorno di Pasqua del
1395 anno, in cui fu pubblicata la Carta
de Logu, e pare, che ciò si debba dedurre dai capitoli 19 e 20 ne’ quali si
nomina sempre in primo luogo la Corona di San Marco, e dal cap. 105 in cui si
prefigge il termine in quel primo anno, per prendere i Tavernaj le misure del
vino, sino alla Corona di San Marco prossima ventura; e per contro in detti
capitoli la Corona delle Palme, ch’è l’immediatamente precedente al giorno di
Pasqua, vien nominata in ultimo luogo»); cfr., per tutti, la classica opera del
cavaliere Giuseppe Manno, Storia di Sardegna, vol. III, Alliana e
Paravia, Torino 1826 [rist. an. Forni, Bologna 1973], 126; ma anche F. Sclopis, Storia della legislazione italiana, vol. II, Progressi, Unione tipografica editrice, Torino 1863, 189-190. Nello
stesso senso vedi G. Zirolia, Ricerche storiche sul governo dei Giudici in Sardegna e relativa legislazione, Gallizzi, Sassari 1897, 175 nt. 1; ma la
datazione è accettata anche in qualche importante manuale del Novecento: F. Calasso, Lezioni di storia del diritto italiano. Le fonti del diritto (sec.
V-XV), rist. riveduta, Giuffrè, Milano 1948, 241: «la figlia, la giudicessa
Eleonora, fu però quella che riuscì a dare all’opera paterna quella
sistemazione, che doveva essere definitiva, ed imporsi col tempo come il codice
generale di tutta l’isola: fu la così detta Carta
de logu de Arborea, promulgata nella Pasqua del 1395».
Questa
data fu oggetto di serrate e persuasive critiche da parte di E. Besta, La Carta de Logu quale monumento storico-giuridico, in E. Besta-P.E. Guarnerio, Carta de Logu de Arborèa. Testo con
prefazioni illustrative, cit., 18, il quale, seppure con qualche dubbio,
propose il 1392; cfr. Id., La Sardegna medioevale, 2. Le istituzioni politiche, economiche,
giuridiche, sociali, Alberto Reber, Palermo 1909 [rist. an. Forni, Bologna
1979], 154. Alla proposta del Besta ha aderito, fra gli altri, A. Marongiu, Sul probabile redattore della Carta de Logu, in “Studi
Economico-Giuridici della Facoltà di Giurisprudenza dell'Università di
Cagliari” XXVII (1939), ora in Id.,
Saggi di storia giuridica e politica
sarda, CEDAM, Padova 1975, 70; Id.,
Delitti e pene nella Carta de logu di
Arborea, in Studi in onore di Carlo
Calisse, vol. I, A. Giuffrè, Milano 1940 = Saggi, cit., 75 e nt. 10.
Propendeva,
invece, per il 1386 A. Era, Le così dette questioni giuridiche
esplicative della Carta de Logu, in Studi
di storia e diritto in onore di E. Besta per il XL anno del suo insegnamento,
vol. II, A. Giuffrè, Milano 1939, 395; anche se poi, nel suo ultimo studio, Le ‘Carte de logu’, in “Studi
sassaresi”, II serie, XXIX (1962), 12, ha assunto una posizione più sfumata, ma
sempre contraria al 1392. Nello stesso senso, da ultima, Barbara Fois, Sulla datazione
della ‘Carta de Logu’, cit., 141 ss. Sulla scia dell’Era si colloca la
nuova «ipotesi» di datazione proposta da E.
Cortese, in un discorso commemorativo dedicato allo studioso algherese (L’opera di Antonio Era nella storiografia
giuridica. - Nel ricordo di Antonio Era: una proposta per la datazione della
“Carta de Logu” d'Arborea, Università degli Studi di Sassari - Facoltà di
Giurisprudenza, Sassari, 9 dicembre 1982, 29): «resta, a mio parere, che i mesi
di gran lunga più propizi son quelli che si succedono dalla primavera alla fine
del ‘90, o tutt’al più all’inizio ‘91».
La
data del 1392, diventata ormai quasi canonica, viene riproposta anche nella
edizione della Carta arborense di F.C. Casula, La “Carta de Logu” del regno di Arborea. Traduzione libera e commento
storico, Carlo Delfino Editore, Sassari 1995, 240; cfr. Id., Cultura e scrittura nell'Arborea al tempo della Carta de Logu, in Il mondo della Carta de Logu, a cura di G. Todde et al., Edizioni 3T, Cagliari
1979, 107 ss.; Id., La Sardegna aragonese, 2. La Nazione sarda, cit., 458.
[4] F. Sini, Comente comandat sa lege. Diritto romano nelle Carta de Logu d’Arborea, [Università degli Studi di
Sassari - Pubblicazioni del Seminario di diritto romano del Dipartimento di
Scienze Giuridiche, 11] Giappichelli, Torino 1997. Cfr. inoltre: Id., Diritto romano nella Carta de Logu d'Arborea: i capitoli De
appellationibus e De deseredari, in Giudicato d’Arborea e Marchesato di Oristano:
proiezioni mediterranee e aspetti di storia locale.
Atti del 1° Convegno Internazionale di Studi, Oristano 5-8 dicembre
Autorevoli
storici, con varietà di modi e sfumature, hanno espresso un sostanziale
consenso alle tesi esposte nella monografia o nei saggi appena citati: cfr.,
fra gli altri, A. Mastino, Persistenze
preistoriche e sopravvivenze romane nel Condaghe di San Pietro di Silki, in “Diritto @ Storia” 1 (on line maggio 2002) = http://www.dirittoestoria.it/tradizione/SILKI.htm [consultabile anche in UnissResearch < http://eprints.uniss.it/74/1/Mastino_A_Articolo_2002_Persistenze.pdf >] § 10 Il
diritto romano nell'età giudicale («Francesco Sini ha indicato alcuni precisi
riferimenti testuali della Carta
de Logu che lasciano intravedere
l’evidente derivazione romanistica e ancor più richiamano forme e contenuti del
diritto romano, come a proposito della non punibilità dell’omicidio commesso a
scopo di legittima difesa. In particolare l’espressione narat sa lege sembra sempre riferita proprio al diritto romano,
così come (con riferimento a precise scadenze giudiziarie) la frase infra su tempus ordinadu daessa ragione. Anche in materia processuale, in relazione ai
tempi ed alle modalità dell’appello, la Carta de Logu aderisce strettamente alla legislazione tardo-antica de appellationibus di una novella giustinianea del 536. Altri rinvii
impliciti al diritto romano, considerato come vigente a tutti gli effetti,
potrebbero essere individuati nelle norme a proposito della successione
ereditaria e più precisamente nei 14 modi attraverso i quali può essere ammessa
la pratica di diseredare un erede legittimo: elementi che, pur non presenti
nella Carta de Logu, sono comunque elencati esattamente negli Statuti
sassaresi»); J. Lalinde Abadía, La «Carta de Logu» nella civiltà giuridica
della Sardegna medievale, in La Carta de Logu d’Arborea nella storia
del diritto medievale e moderno, cit., 21 («La presenza del diritto romano
nella Carta de Logu è stata analizzata da
Cortese e di recente da Francesco Sini»), 45 nt. 76; G.G. Ortu, «Carta de
Logu» e «cartae libertatis»: in tema di giurisdizioni nella Sardegna del
Trecento, ibidem, 97-106,
specialmente 102: «Sembra dunque persistere, per quanto insidiata
dall’emergenza dei poteri signorili, l’antica vocazione centralistica dei
Giudicati sardi, riecheggiante, come ha osservato Francesco Sini, anche
nell’“indiscutibile valenza precettiva” e imperativa dei verbi “comandare” e
“ordinare” utilizzati nella formulazione dei capitoli della Carta de Logu»; A. Castellaccio, Alle radici della statualità del Regno di Arborea: la Carta de
Logu ed altre manifestazioni di valenza sovrana., in “Annali della Facoltà di Lettere e Filosofia
dell'Università di Sassari” 1 (2009), 247-268, in particolare 266 e nt. 59: «Forte vi è anche, e non a caso, il retaggio del
diritto romano, che fa da sostanziale sfondo conduttore al Codice arborense».
[5] Nelle
citazioni della Carta arborense, ho seguito di norma il testo dell’edizione
incunabola: Carta de Logu. Riproduzione
dell’edizione quattrocentesca conservata nella Biblioteca Universitaria di
Cagliari, a cura di Antonina Scanu, T.A.S., Sassari 1991;
confrontandolo con Le Costituzioni di
Eleonora giudicessa d'Arborea intitolate Carta de Logu. Colla Traduzione
Letterale dalla Sarda nell'Italiana Favella e con copiose Note, del
Consigliere di Stato e Referendario Cavaliere Don
Giovanni Maria Mameli De' Mannelli, cit. supra in nt. 3; col manoscritto pubblicato nel 1905 da E. Besta-P.E. Guarnerio, Carta de Logu de Arborea. Testo con
prefazioni illustrative, cit. supra
in nt. 3; nonché con l’edizione del 1995 curata da F.C. Casula, La “Carta de
Logu” del regno di Arborèa. Traduzione libera e commento storico, cit. supra in nt. 3. Quando ho utilizzato il
testo del manoscritto, ho quasi sempre accettato la nuova edizione curata da G. Lupinu, Carta de Logu dell’Arborea, cit. in nt. 1.
[6] Cfr.
V. Finzi, Questioni giuridiche esplicative della Carta de Logu, in “Studi
sassaresi” I (1901), 125 ss.; A. Era,
Le così dette questioni giuridiche
esplicative della Carta de Logu, in Studi
di storia e diritto in onore di Enrico Besta per il XL anno del suo
insegnamento, vol. II, cit., 377 ss.
[7] Su
Girolamo Olives (1505?-1569), giurista di elevata cultura e avvocato fiscale
presso il Consiglio Superiore d’Aragona, sono davvero scarne le notizie
biografiche che ci sono pervenute: cfr.
P. Martini, Biografia Sarda,
vol. II, Reale Stamperia, Cagliari 1837-38, 339 ss.; e P. Tola, Dizionario
biografico degli uomini illustri di Sardegna, ossia storia della vita pubblica
e privata di tutti i sardi che si distinsero per opere, azioni, talenti, virtù
e delitti, vol. III, Tipogr. di Chirio e Mina, Torino 1838, 29 ss.; da
ultimo, A. Mattone, Olives,
Girolamo, in I. Birocchi, E.
Cortese, A. Mattone, M.N. Miletti (diretto da), Dizionario biografico dei giuristi italiani (XII-XX secolo), vol.
II. Lev-Z, Il Mulino, Bologna 2013, 1455.
[8] Per
le citazioni ho seguito l'edizione del 1617, posseduta dalla Biblioteca
Universitaria di Sassari: Hieronymi Olives,
Commentaria et Glosa in Cartam
de Logu. Legum, et ordinationum Sardarum noviter recognitam, et veridice
impressam, cit. in nt. 3. Quanto alla qualità del testo della Carta de Logu stabilito dall’Olives,
vedi brevemente E. Besta, La Carta de Logu quale monumento
storico-giuridico, in E. Besta-P.E.
Guarnerio, Carta de Logu de
Arborea. Testo con prefazioni illustrative, cit., 7: «l’editore si valse
oltre che della vetus impressio di un manoscritto,
disgraziatamente infetto da una assai mendosa
litera e spesso capricciosamente corretto e supplito». Più in generale,
sulle peculiarità della cultura romanistica dell'Olives, cfr. C.G. Mor, Sul commento di Girolamo Olives Giureconsulto sardo del sec. XVI alla
Carta de logu di Eleonora d'Arborea, in Testi
e documenti per la storia del Diritto agrario in Sardegna, pubblicati e
coordinati con note illustrative da Gino
Barbieri, Vittorio Devilla, Antonio Era, Damiano Filia, Carlo Guido Mor, Aldo
Perisi, Francesco Pilo Spada, Ginevra Zanetti, sotto la direzione di Antonio Era, Gallizzi, Sassari 1938, 57 s.: «Singolare è la sua
cultura giuridica, solidamente fondata sui testi romanistici del Corpus Iuris, sulla glossa, sui dottori del secolo xiv e del principio del XV:
ma, fatto degno di nota, nelle sue citazioni non compaiono, invece, giuristi
quasi contemporanei, del XVI, che
come Alciato, Cuiacio ecc., dovevano essere noti anche nelle scuole spagnole, e
salvo il Simancas, nessun giurista iberico: ciò può esser segno di una cultura
arretrata non tanto del nostro scrittore, quanto dell'ambiente in generale, e
fors'anche della scuola».
[9] I. Birocchi, La consuetudine nel diritto agrario sardo, riflessioni sugli spunti
offerti dagli Statuti sassaresi, in Gli
Statuti sassaresi. Economia, Società, Istituzioni a Sassari nel Medioevo e
nell'Età Moderna. Atti del convegno
di studi. Sassari, 12-14 maggio 1983, a cura di A. Mattone e M. Tangheroni,
Edes, Cagliari 1986, 336.
[10] Sui
compilatori della Carta de Logu, vedi
A. Marongiu, Sul probabile redattore della Carta de Logu, ora in Id., Saggi di storia giuridica e politica sarda, cit., 60 ss.
Per
gli aspetti generali della cultura (principalmente di stampo italiano) del Giudicato
di Arborea nell’età della compilazione di Eleonora, da vedere invece F.C. Casula, La cancelleria sovrana dell’Arborea dalla creazione del “Regnum
Sardiniae” alla fine del giudicato (1297-1410), in “Medioevo. Saggi e
rassegne” III (1977), 75 ss.; Id.,
Cultura e scrittura nell'Arborea al tempo
della Carta de Logu, in Il mondo
della Carta de Logu, cit., 71 ss.; ed alcuni saggi pubblicati nel 1995 in Società e cultura nel Giudicato d’Arborea e
nella Carta de Logu, cit., con particolare riferimento ai contributi di L. Cicu, Il latino nel Giudicato d’Arborea (121 ss.) e di G. Mele, Culto e cultura nel Giudicato d’Arborea. Aspetti storici e tradizione
manoscritta (253 ss.).
[11] F. Brandileone, Lezioni di storia del diritto italiano, Athenaeum, Roma 1922, 136-137:
«I giudicati, fino al secolo XIV, erano stati regolati assai più dalla
consuetudine che dalle leggi scritte. Le compilazioni giustinianee e qualcuna
almeno delle seguenti compilazioni bizantine, fino al secolo VIII, non sembra
dubbio che vi siano state promulgate; ma l'uso e il vigore di esse si può solo
dedurre da indizi molto posteriori. Dopo non molto tempo però dalla loro
introduzione, la diretta conoscenza di esse s'era dovuta venir facendo sempre
più scarsa, a causa della completa mancanza di un qualche centro di coltura
locale che ne mantenesse viva la comprensione e l'applicazione, ed aveva dovuto
cedere il posto a pratiche ed usanze derivate non solo da quelle legislazioni,
ma anche, e forse in parte non piccola, da quelle influenze nuove alle quali si
è già accennato»; cfr. anche Id.,
Note sull'origine di alcune istituzioni
giuridiche in Sardegna durante il medioevo, in “Archivio Storico Italiano”,
V serie, xxx (1902), 275 ss. = Id., Scritti
di storia giuridica dell'Italia meridionale, a cura di C.G. Mor, Società di storia patria per
la Puglia, Bari 1970, 163 ss.
[12] A. Solmi, Prefazione, in Testi e
documenti per la storia del Diritto agrario
in Sardegna, cit., VII-VIII. Cfr. Id.,
La Sardegna e gli studi storici, in
“Archivio Storico Sardo” I (1905), 13; Id.,
Studi storici sulle istituzioni della
Sardegna nel medio evo, presso la Società Storica Sarda, Cagliari 1917,
261-262.
[13] Per
approfondimenti biografici esaustivi su questo giurista, vedi ora A. Mattone, v. Dexart, Giovanni, in Dizionario
Biografico degli Italiani, vol. XXXIX, Istituto dell’Enciclopedia Italiana,
Roma 1991, 617 ss.
[14] Ioannis Dexart, Capitula sive
Acta Curiarum regni Sardiniae, ex Typographia doctoris don Antonij Galcerin
apud Bartholomaeum Gobettum, Carali 1645, I, 4, 3, num. 6-7: «summa profecto
ratione mentio in eo tantum, sit de iure communi; id est Romanorum. […] In
nostra Sardinia contrarium servatur, idque non ex particulari aliqua ipsius
constitutione, vel saltim et iure scripto: sed ex non scripto, mediante veteri
consuetudine, et continua observantia, iuxta quam ab immemorabili tempore, ita
quotidie practicari, expertus sum». Cfr. anche G. Manno, Storia di
Sardegna, vol. II, Placido Maria Visaj, Torino 1824 [rist. an. Forni,
Bologna 1973], 398, il quale si era invece limitato ad asserire che «le
reminiscenze dell’antica giurisprudenza romana si veggono nell’isola anche nei
tempi più tardivi».
[15] A. Pertile, Storia del diritto italiano dalla caduta dell'impero romano alla
codificazione, vol. II.2, Storia del
diritto pubblico e delle fonti, 2a ed., a cura di P. Del Giudice,
Unione tipografico-editrice, Torino 1898, [rist. an. Forni, Bologna 1966] 89.
Su questo studioso, brevemente, A. Mattone,
La storiografia giuridica
dell’Ottocento e il diritto statutario della Sardegna medievale, in
“Materiali per una storia della cultura giuridica” XXVI (1996), 67 ss., sul punto 99 s.
[16] A. Pertile, Storia del diritto italiano dalla caduta dell’impero romano alla
codificazione, vol. II.2, cit., 89-90: «Il codice d'Eleonora che, ove si
prescinda dall'ordine di cui ha gran difetto, vuol qualificarsi siccome ottimo
e assai progredito, fatta ragione del tempo, consta di 198 articoli, nei quali
si statuisce pene per delitti, si regola il modo d'amministrare la giustizia nei
tribunali, si danno norme intorno al diritto di famiglia, alle tutele, alle
successioni ed ai più frequenti contratti, principalmente a quei di bestiame;
essa da inoltre disposizioni di diritto amministrativo e di polizia,
segnatamente circa i campi e gli orti, anzi si può dire si chiuda (133-198) con
una specie di codice rurale. Questa parte è dovuta certamente al giudice
Mariano, di cui porta in fronte il nome e un proemio; ma quanto ci sia di lui
nella restante legge e quale sia veramente l'opera di sua figlia, non può
determinarsi».
[17] F. Ciccaglione, Manuale di storia del diritto italiano, vol. II, F. Vallardi,
Milano 1901, 56 ss.
[19] F. Schupfer, Manuale di storia del diritto italiano, 4ª ed. riveduta e
riordinata, Lapi, Città di Castello-Firenze 1908, 380 s.
[20] C. Calisse, Storia del diritto italiano, vol. I. Le fonti (1891), nuova edizione, G. Barbera, Firenze 1930, 333 s.
Fra i manuali, per il particolare rilievo dato alle basi romanistiche e
all’originalità delle elaborazioni giuridiche sarde, merita un cenno anche G. Salvioli, Storia del diritto italiano (1890), 8ª ed., UTET, Torino 1921, 77.
[21] V. Finzi, Questioni giuridiche esplicative della Carta de Logu, in “Studi
sassaresi” I, cit., 125 ss.
[22] Cfr. Carta de
Logu. Riproduzione
dell’edizione quattrocentesca conservata nella Biblioteca Universitaria di
Cagliari, a cura di Antonina
Scanu, cit., 43 ss.; Carta de Logu, fata et instituida dae sa
donna Helionora iuyghissa de Arboree, novamente revista et corretta de multos
errores, cun unu breve ispedidu ordine in dogna cabidulu conforme a su chi
tratat. Stampado novamente en Napolis, pro Tarquinio Longu, ad istancia de
Martine Saba stampador en Calleris, MDCVII, 153 ss.
[23] V. Finzi, Questioni giuridiche esplicative della Carta de Logu, cit., 126:
«Un accenno sicuro alla conoscenza delle leggi giustinianee si trova poi nella Carta de logu, e dello studio di esse si
ha una riconferma nel documento che segue a queste note preliminari, il quale
rende legittima la congettura che la Giudicessa Eleonora siasi valsa dell'opera
di romanisti; né sarebbe anzi inverosimile, che il redattore del documento
stesso, di poco posteriore alla carta de
logu, fosse stato uno dei compilatori di questa. [...] Da queste citazioni
non si può peraltro dedurre che la conoscenza e l'uso delle fonti giustinianee
fossero assai diffusi in Sardegna, poiché anzi il modo con cui le allegazioni
stesse furono barbaramente storpiate potrebbe provare che ad esse si ricorreva
di rado».
[24] E. Besta, La Carta de Logu quale monumento storico-giuridico, in E. Besta-P.E. Guarnerio, Carta de Logu de Arborea. Testo con
prefazioni illustrative, cit., 3 ss.
[25] E. Besta, La Carta de Logu quale monumento storico-giuridico, cit., 19: «è la Carta de logu stessa che in varî capitoli accenna alla autorità
generale del diritto romano che s’intende sotto l'espressione di leges o di rexione nei capitoli 3, 67, 68 [ma 77, 78], 98, 99: che non fossero
citazioni ad pompam, ma rispondessero a condizioni reali risulta dalle Expositiones de llege che furono con
la legge pubblicate nella prima, nella seconda e nella quarta edizione ed
ebbero esse stesse valore di legge, non sappiamo se per sanzione sovrana o per
forza di consuetudinaria osservanza. E non in Arborea soltanto le romane erano
le leges per eccellenza».
[26] E. Besta, Il diritto sardo nel medioevo, Stab. Tip. Fratelli Pansini fu S., Bari
1898, 24: «La costituzione della famiglia restò pur essa fondamentalmente
romana: forse più rigido che altrove si mantenne il concetto della patria potestas. Il padre poteva infatti
ferire il figlio e la moglie per redarguirli e punirli; a lui era lecito
diseredare la prole ingrata e irriverente. E la condizione della donna rimase
pur sempre inferiore a quella dell'uomo: poteva però essere tutrice dei propri
figli o nipoti e non le era negato di avere un'azienda propria». Sul potere
punitivo del padre, cfr. Carta de Logu,
cap. IX, in cui si dichiarano non punibili il marito, il padre o il fratello
che abbiano procurato ferite a mugeri o
figiu o fradi carrali o sorre o nebodi de fradi o ver de sorri o ver famigiali
suo chi istarit ad imparare, poiché rientrava nel potere di quegli uomini batteri e castigare acconzadamenti. Per
quanto riguarda la diseredazione della prole, cfr. Carta de Logu, cap. XCVII, che però conosceva una serie di
limitazioni al potere di diseredare i propri discendenti.
[27] E. Besta, La Sardegna medioevale, vol. 2.
Le istituzioni politiche, economiche, giuridiche, sociali, cit., 161:
«L'influenza continentale e soprattutto quella della giurisprudenza – scriveva
in proposito l’insigne studioso – importò poi che anche in Sardegna il diritto
giustinianeo avesse valore di ius comune. Non vorrei dire che ciò fosse
avvenuto fin dal secolo duodecimo quando, a poco più di cinquant'anni da un
trattato che anche nelle cause tra Genovesi e Sardi volea osservati gli usus Sardinee
terre, altri trattati vollero che
queste fossero giudicate secondo le leges
romanae in primo luogo e poi secondo le bonae
consuetudines: ma nel secolo decimoterzo quella interessante recezione
dovea essersi già avverata. Alle leggi romane si richiamano gli statuti
sassaresi e gli iglesiensi e la stessa Carta
de logu».
[28] R. Di Tucci, Il diritto pubblico della Sardegna nel Medio Evo, in “Archivio
storico sardo” XV (1924), 3 ss.
[29] R. Di Tucci, Il diritto pubblico della Sardegna nel Medio Evo, cit., 3: «Gli
istituti sardi sono retti da una consuetudine diffusa, ugualmente, dal Logudoro
al giudicato di Cagliari ed a quelli di Gallura e di Arborea, e che presenta
gli stessi rilievi, sia nell’intonazione generale che nei suoi più piccoli
particolari, in modo che essa non si può chiamare costumanza di un giudicato o
di un villaggio, bensì il risultato evidente di una unica formazione sociale, i
cui limiti sono gli stessi limiti geografici della regione».
[30] R. Di Tucci, Il diritto pubblico della Sardegna nel Medio Evo, cit., 6: «Il riferimento
che fa il Dexart circa l'osservanza del diritto romano nell'isola, non è che il
ricordo di uno stato di fatto sancito in Catalogna. Si può dire, anzi, che
mentre sulle altre zone della Sardegna, la conquista aragonese abbia spezzato
l'influsso della civiltà continentale italiana ed abbia fermato il progressivo
affermarsi dei tentativi per l'adozione del diritto romano almeno come legge
comune sussidiaria, in Arborea, la tradizione inaugurata dalla stirpe dei de
Bas è stata mantenuta con una certa continuità ed è stata accolta nella
compilazione della Carta de Logu di Eleonora. Fin nella prima metà del secolo
decimoterzo la Sardegna non ebbe leggi scritte, e ciò perché, lungi dal
costituire un ossequio per le leggi imperiali, la mancanza di un diritto
positivo fu conseguenza della considerazione che alle necessità locali
bastassero le consuetudini». Cfr. anche 91 s.: «La separazione del patrimonio
pubblico da quello privato [del giudice] è innegabile ma non è in relazione con
i principi del diritto pubblico romano».
[31] R. Di Tucci, Il diritto pubblico della Sardegna nel Medio Evo, cit., 10 s.: «I
caratteri della Carta de Logu sono semplici. La carta si chiama tale perché
contiene una sanzione sovrana: non è una legge, ma la conferma, mediante un documento
pubblico dell'autorità più elevata del giudicato, di un complesso di norme
desunte dagli usi e dalle consuetudini regionali. Non dovrebbe essere ritenuta
come una codificazione, ma come una sanzione. Se carta fosse il diritto
scritto, dovremmo supporla in antagonismo con le costumanze, o per lo meno
estranea ad esse; ciò che veramente non è. è
la redazione di consuetudini viventi nel logu
e cioè non sul territorio, strettamente parlando, ma nella popolazione: logu è preso per populus. E Carta de logu
è sinonimo di carta populi».
[32] Vittorio Devilla (1889-1960) tenne per
incarico il corso di Diritto romano nell’Ateneo Turritano, quasi
ininterrottamente, dal 1937 al 1959; anno in cui fu collocato a riposo ed
insignito di medaglia d’oro dell’Università di Sassari per meriti
d’insegnamento. Dal 1946 fu consigliere comunale di Sassari, e di questa città
ricoprì anche la carica di sindaco dal 1954 al 1956; in seguito fu eletto nel
Consiglio provinciale fino al 1959. Formatosi alla scuola di Carlo Fadda e di Flaminio
Mancaleoni, lo studioso sassarese fu autore di apprezzate monografie: ‘Actio incerti’, Sassari, Gallizzi, 1932; Contributo alla storia ed
alla teoria della ‘condictio possessionis’, Gallizzi, Sassari 1932; L'optio
servi e il diritto di scelta nei legati, Gallizzi, Sassari 1933; Le ‘usurae ex pacto’ nel diritto romano,
Il Foro it., Roma 1937; La ‘liberatio
legata’ nel diritto classico e giustinianeo, A. Giuffrè, Milano 1939;
nonché di numerosi saggi, fra i quali mette conto ricordare: Contributo alla storia e alla teoria della
‘condictio possessionis’, in “Studi sassaresi”,
II serie, X (1932), 137 ss.; ‘Aequitas
naturalis’, in Scritti in onore di
Flaminio Mancaleoni [= “Studi sassaresi”, II serie, vol. XVI], Sassari
1938, 123 ss.; Studi sull’«obligatio
naturalis», in “Studi sassaresi”, II serie, XVII (1939), 30 ss., 85 ss.,
185 ss.; Appunti sul Senatoconsulto
Macedoniano, in “Studi sassaresi”, II serie, XVIII (1941), 255 ss.; ‘Aqua et igni interdictio’, in “Studi
sassaresi”, II serie, XXIII (1950), 1 ss.;
‘Exilium perpetuum’, in Studi in
memoria di E. Albertario, I, A. Giuffrè, Milano 1953, 293 ss.; La ‘manumissio vindicta’ nel diritto
giustinianeo, in Studi in onore
di Pietro De Francisci, II, A.
Giuffrè, Milano 1956, 273 ss.; L’obbligazione
naturale nel diritto classico, pubblicato postumo in Studi in onore di E. Betti, II, A. Giuffrè, Milano 1962, 362 ss.
Per maggiori informazioni sulla biografia dello studioso, con elenco completo
delle sue opere, vedi il necrologio (redazionale) Vittorio Devilla, in “Studi sassaresi”, II serie, XXIX (1962), 138
ss.; e più di recente Pia Fiori
Maciocco, Per un elenco dei
docenti di materie storico-giuridiche dal 1880 in poi. VII. Facoltà di
Giurisprudenza dell’Università di Sassari (dal 1850), in “Index. Quaderni
camerti di diritto romano” IX (1980), 312 ss.
[33] V. Devilla, Casi di diritto agrario nelle c. d. “Questioni esplicative della Carta
de logu”, in Testi e documenti per la
storia del Diritto agrario in Sardegna, cit., 95 ss.
[34] V. Devilla, Casi di diritto agrario nelle c. d. “Questioni esplicative della Carta
de logu”, cit., 97.
[35] A. Marongiu, Aspetti della vita
giuridica sarda nei Condaghi di Trullas e di Bonarcado (secoli XI-XIII), in
“Studi Economico-Giuridici dell'Università di Cagliari” XXVI (1938), 101 ss. [=
Id., Saggi di storia giuridica e politica sarda, cit., 13 ss.]; Sul probabile redattore della Carta de Logu,
ora in Id., Saggi, cit., 61 ss.; Delitto
e pena nella Carta de logu di Arborea, cit., 107 ss. [= Id., Saggi, cit., 75 ss.]. Su tutti questi lavori, vedi ora le
riflessioni dello stesso autore: A.
Marongiu, I miei studi di storia
sarda, in “Archivio storico sardo di Sassari” I (1975), 153 ss.
[36] A. Marongiu, Aspetti della vita
giuridica sarda nei Condaghi di Trullas e di Bonarcado (secoli XI-XIII),
ora in Id., Saggi di storia giuridica e politica sarda, cit., 21: «Questa
partecipazione del popolo alle funzioni di governo, questa specie di democrazia
diretta, aveva la sua manifestazione più notevole nell'acclamazione del nuovo giudice
in caso di vacanza del trono ed era altresì tratto ordinario e caratteristico
della composizione degli organi o collegi giurisdizionali sardi, cioè delle
corone. Il carattere democratico della politica giudicale si scorge anche in
ciò che, pur quando parte in un giudizio fosse stato (non è sempre facile
precisare se in difesa di un interesse pubblico o personale) lo stesso Giudice,
il corso della lite procedeva normalissimamente, come se le parti fossero
entrambe state privati singoli».
[37] Sul
quale, a parere di A. Marongiu, Delitto e pena nella Carta de logu di
Arborea, ora in Id., Saggi di storia politica e giuridica sarda,
cit., 81 s., la legislatrice arborense avrebbe fondato «la affermazione o la
esclusione della responsabilità e (naturalmente in relazione anche alle
circostanze dei singoli delitti) la commisurazione della pena: ciò in
particolare nella ricerca degli estremi del dolo o della colpa e, per i delitti
intenzionali e volontari – cioè dolosi –, del movente dell'azione»; di notevole
interesse anche quanto si legge di seguito: «La ricerca del contenuto di
intenzionalità e volontà, ossia della causalità intellettuale e morale del
reato, è evidente dove la pena ordinaria del reato è comminata soltanto per
ipotesi in cui il colpevole abbia voluto e l'azione e l'evento, con diretto
riferimento alla rappresentazione o previsione e alla volontà di tali elementi
del reato. Si manifesta poi anche nei capitoli dove si parla di delitti
commessi apensadamenti (cap. 8),
ovvero istudiosamenti (capp. 46, 47),
scientimenti (capp. 4, 71) o con animo
deliberado (cap. 4)».
[38] A. Marongiu, Delitto e pena nella Carta de logu di Arborea, ora in Id., Saggi di storia politica e giuridica sarda, cit., 82 s.: «La stessa
ricerca dell'estremo del dolo si aveva anche nel subordinare la punibilità
dell'uso di falsa scrittura (cap. 25) alla condizione che questo venisse
compiuto maliciosamenti cioè cognoscendo qui esseret falsa. Inoltre nello stabilire la
sottrazione alla pena ordinaria (pena capitale) di colui che avesse commesso un
omicidio improvisamenti et non cum animo
deliberado et non pensadamenti, anti pro casu fortuitu secondu qui solent
advene multos disastros (cap. 3) oppure non ... ad boluntadi sua et siat istadu disastru (cap. 4), e nello
stabilire norma analoga per il reato di lesioni personali quando alcunu delictu advenit per disastru per non
esser fattu apensadamenti (cap. 9). Precetti simili a questi ultimi si
avevano in vari Statuti comunali ma, a quanto mi sembra, senza la sistematicità
constatata nella legge arborense. In questa tuttavia manca – come, del resto,
in qualche teoria moderna – l'individuazione del concetto di colpa rispetto a
quello di caso fortuito o disastro: individuazione pure non del tutto ignota al
nostro diritto penale statutario. Resta il dubbio se tale mancanza di
specificazione costituisca un vero e proprio difetto di tecnica giuridica o
piuttosto un espediente di politica criminale, atto ad assicurare la maggiore
latitudine possibile nel potere dei magistrati di valutare caso per caso,
discrezionalmente, la responsabilità dell'agente, ai fini della determinazione
della pena».
[39] A. Marongiu, Delitto e pena nella Carta de logu di Arborea, ora in Id., Saggi di storia politica e giuridica sarda, cit., 85: «S’intende
che i legislatori non potessero limitarsi alla considerazione astratta della
intenzionalità del reato e avessero dovuto inoltre preoccuparsi non solo delle
diverse specie delittuose, ma anche degli altri aspetti e dei modi di essere
dell'azione penalmente illecita. In primo luogo, infatti, la carta de logu guardava all'elemento oggettivo, dell'azione ed evento: in
specie nei capitoli 5 e 11 in cui accanto ai delitti completi si configuravano
dei delitti mancati. Potrebbe, a prima vista, sorprendere che, mentre tali
disposizioni puniscono alquanto più mitemente gli autori del tentativo rispetto
a quelli del delitto perfetto, il cap. 1 della carta punisse come se avesse perpetrato il crimine anche colui che
avesse soltanto “trattato” o “consentito” la esecuzione di esso. Ma si trattava
del delitto di lesa maestà, gravissimo fra tutti i delitti, per il quale ben si
spiega che la legislatrice arborense avesse adottato il criterio, delle leggi Iulia majestatis, Cornelia de sicariis et veneficiis e della Pompeia de parricidiis, dell’equiparazione quoad poenam del delitto compiuto con quello soltanto tentato o
preparato».
[40] Per
una rapida visione della biografia, della bibliografia e dei precipui interessi
scientifici dell’insigne studioso, vedi il necrologio (redazionale) Antonio Era, in “Studi Sassaresi”, II
serie, XXIX (1962), 127 ss., ivi anche l’elenco completo delle sue opere (131
ss.); C. Sole, Antonio Era: profilo bio-bibliografico,
in Studi storici e giuridici in onore di Antonio
Era, CEDAM, Padova 1963, VII ss.; Pia
Fiori Maciocco, Per un elenco dei
docenti di materie storico-giuridiche dal 1880 in poi. VII. Facoltà di
Giurisprudenza dell’Università di Sassari (dal 1850), cit., 314; E. Cortese, L’opera di Antonio Era nella storiografia giuridica. - Nel ricordo di
Antonio Era: una proposta per la datazione della “Carta de Logu” d'Arborea,
cit. = Id., Nel ricordo di Antonio Era. Una proposta per la datazione della “Carta
de Logu” d'Arborea, in “Quaderni Sardi di Storia” 3 (1983), 25 ss.
[42] A. Era, Le così dette questioni giuridiche esplicative della Carta de Logu,
cit., 379-380: «Le Questioni,
comunque si vogliano considerare, si presentano come una scelta di “casi”,
risolti con regole tratte dal diritto giustinianeo. Ammettere una loro
effettiva applicazione in Sardegna, o per sanzione di Autorità o per adozione
della pratica, varrebbe constatare, prima
facie, che in Sardegna, in un’epoca, che in ogni modo si deve accertare
anteriore o molto prossimamente successiva alla redazione della Carta di
Eleonora, talune situazioni giuridiche erano regolate alla stregua dei testi
giustinianei. Regredire dunque in confronto delle più recenti affermazioni
della scienza giuridica, la quale, superando antiche tesi, sostiene l'esclusivo
imperio, sino ad epoca relativamente recente (sec. XVI), di una consuetudine
territoriale, travasata, con maggiore o minore interezza, nella C. d. L.,
ritornare a quelle antiche tesi e riconoscere che questa Carta presuppone
l'imperio del diritto romano. Sicché, ed in altri termini, le Questioni sono per ora l’unico elemento
da cui si possa trarre argomento per risolvere appunto il problema della
posizione del diritto romano giustinianeo in Sardegna, immediatamente prima e
immediatamente dopo l'emanazione della C. d. L.».
[43] A. Era, Le così dette questioni esplicative della Carta de Logu, cit., 398;
dove di seguito si legge: «Intanto nella antica formula con la quale i Regoli
sardi promettevano a stranieri amici di giudicarli secondo il diritto romano,
questo è indicato non con la sola parola legge per antonomasia, ma con la
qualifica legge romana. Barisone di Torres nel 1186 e Ugo d'Arborea nel 1192,
s'impegnarono con i genovesi di rendere loro giustizia nel rispettivo Giudicato
“secundum leges romanas”. La necessità della specificazione si spiega solo col
timore di ingenerare equivoci, sicché in quel tempo in Sardegna con la parola
legge non si designava soltanto la legge romana». Lo studioso puntualizzava,
tuttavia, che le sue osservazioni non inficiavano in alcun modo la validità di
alcuni risultati conseguiti dalla dottrina precedente, in particolare di due
proposizioni accettate ed indiscutibili: «e cioè che i compilatori della Carta
de logu conoscevano il diritto romano e che nella consuetudine sarda e nel
diritto romano vi sono elementi comuni ed analoghi, per quanto questa seconda
proposizione possa avere bisogno di ulteriore illustrazione»; anche se il
riconoscimento di queste «verità» non avrebbe dovuto, in nessun caso, condurre
«ad assumere che i compilatori della Carta de logu ammettessero in Sardegna una
conoscenza universa e volgare del diritto romano, simile od equivalente a
quella che ne avevano essi stessi e perciò che presupponessero in Sardegna, al
loro tempo, in vigore il diritto romano delle collezioni giustiniane, come
legge generale ed abbiano inteso di codificare soltanto le divergenze che, in
confronto a quello, presentava la consuetudine sarda» (400).
[44] A. Era, Lezioni di storia delle istituzioni giuridiche ed economiche sarde.
Parte I e II § 1, Copisteria Velox, Roma 1934.
[45] Con
r.d. 20 ottobre 1932, n. 1916, furono sanzionate alcune modifiche allo Statuto
dell’Università di Sassari (approvato con r.d. 13 ottobre 1927, n. 2832), volte
fra l’altro ad integrare con nuove discipline le materie di insegnamento della
Facoltà di Giurisprudenza (cfr. Statuto,
art. 20). Della vivissima soddisfazione dell’Università si fece interprete lo
stesso Rettore nel corso della solenne cerimonia di apertura dell’anno
accademico 1932-1933: «Sono state approvate le modificazioni allo Statuto
proposte dalle Autorità accademiche; per esse la Facoltà di Giurisprudenza avrà
i nuovi insegnamenti di Storia giuridica
ed economica della Sardegna, e di Istituzioni
processuali, e la Facoltà di Medicina
avrà il nuovo insegnamento di Radiologia»
(Relazione del Rettore Prof. Pietro
Marogna per l’anno 1931-1932, in Università
degli Studi di Sassari. Annuario per l’anno scolastico 1932-33, Sassari
1933, 11).
[46] A. Era, Lezioni di storia delle istituzioni giuridiche ed economiche sarde,
cit., 173. A suo avviso, infatti, non si ebbe conoscenza ed uso delle fonti di
diritto romano prima del XII secolo: «La conoscenza e l’uso delle fonti di
diritto romano penetrarono in Sardegna soltanto verso il sec. XII con tutti gli
altri elementi della civiltà comunale italiana. Nuclei di popolazione
continentale vennero nell’isola e
si organizzarono in gruppi autonomi nei nuovi centri di vita comunale che
fecero fiorire. Era naturale che questi immigrati diffondessero la conoscenza
del diritto romano secondo le fonti giustinianee, già da essi adottate e
seguite. Vennero introdotti in Sardegna i libri di diritto romano e canonico
che contengono le regole del diritto comune meglio capace di contenere e di
seguire le esigenze della vita sociale nei nuovi atteggiamenti assunti. Insieme
penetrò in Sardegna lo spirito della cultura italiana e si sparsero per ogni
terra i notai continentali, nutriti a quelle fonti a insinuarne le forme» (174
s.).
[47] A. Era, Lezioni di storia della istituzioni giuridiche ed economiche sarde,
cit., 337 s. Lo studioso algherese sarebbe tornato al tema della Carta de Logu, molti anni più
tardi, al momento di lasciare la cattedra, tenuta per oltre trent’anni
nell’Università di Sassari. In quella circostanza, il Senato Accademico
dell’Ateneo sassarese volle onorare il Maestro affidandogli la prolusione
inaugurale dell’anno accademico 1959-1960: Le
‘Carte de logu’, in Università degli
Studi di Sassari. Annuario per l’anno accademico 1959-60, Sassari 1960, 17
ss.; il testo, con apparato di note, fu pubblicato conservando il medesimo
titolo dopo la morte dell’autore: Le ‘Carte
de Logu’, in “Studi sassaresi”, II Serie, XXIX (1962), 1 ss.
[48] E. Cortese, Appunti di storia giuridica sarda, A. Giuffrè, Milano 1964, 119
ss.; per le argomentate critiche alle posizioni di Antonio Era, vedi 128 s.
[49] E. Cortese, Diritto romano e diritto comune in Sardegna, pubblicato in Id., Appunti di storia giuridica sarda, cit., 125.
[50] E. Cortese, Diritto romano e diritto comune in Sardegna, pubblicato in Id., Appunti di storia giuridica sarda, cit., 127.
[51] E. Cortese, Diritto romano e diritto comune in Sardegna, pubblicato in Id., Appunti di storia giuridica sarda, cit., 126-127.
[52] E. Cortese, Diritto romano e diritto comune in Sardegna, pubblicato in Id., Appunti di storia giuridica sarda, cit., 129.
[53] E. Cortese, Diritto romano e diritto comune in Sardegna, pubblicato in Id., Appunti di storia giuridica sarda, cit., 134-135.
[54] Cfr. E. Cortese, Il diritto nella storia medievale, vol. II. Il basso medioevo, Il Cigno, Roma 1995, 348 ss.
[56] Sulla
materia vedi, da ultima, Elisabetta
Artizzu, L’omicidio nella Carta de
Logu, in “Quaderni Bolotanesi” XXII (1996), 157 ss.; per una rapida sintesi
del diritto medioevale, cfr. G. Diurni,
v. Omicidio (dir. interm.), in Enciclopedia del diritto, vol. XXIX, A.
Giuffrè, Milano 1979, 910 ss.
[57] La
parola «consentivilis» dell’edizione
incunabola si presenta con una leggera variante («consentibilis») nel Manoscritto conservato nella Biblioteca Universitaria
di Cagliari (cfr. E. Besta-P.E.
Guarnerio, Carta de Logu de
Arborea. Testo con prefazioni illustrative, cit., 6; G. Lupinu (a cura), Carta de Logu dell’Arborea, cit., 58);
mentre diventa «consentientes» nel
testo tradito nel commento di G. Olives alla Carta arborense: cfr. Hieronymi
Olives, Commentaria et Glosa in
Cartam de Logu, cit., 9.
[58]
Diversa la lezione del Manoscritto: «pro
qui narat sa lege: Facientes e consencientes pari pena pariuntur». Dunque,
il testo manoscritto della Carta de Logu ha
sa lege al singolare, sostituisce ad agentes dell’edizione incunabola il
termine facientes, infine il verbo puniuntur diventa nel manoscritto pariuntur; ma gli editori correggono, a
ragione, pariuntur con puniantur: cfr. E. Besta-P.E. Guarnerio, Carta de Logu de Arborea. Testo con
prefazioni illustrative, cit., 6; mentre in G. Lupinu (a cura), Carta
de Logu dell’Arborea, cit., 58, si legge paciuntur.
[59] La
forma improvisadamenti del Ms. mi
parrebbe più affidabile e quindi da preferire rispetto all’inprovisamente dell’edizione incunabola, sebbene entrambi i termini
possano avere il senso dell’italiano «improvvisamente, imprevedutamente,
inaspettatamente»: cfr. le vv. improvvisàda
e improvvìsu, in G. Spano, Vocabolariu sardu-italianu et italianu-sardu, compiladu dai su
canonigu Johanne Ispanu, I,
Imprenta Nationale, Kalaris MDCCCLI, 246.
[60] Ho
preferito mantenere la lezione «ma pro
causa fortunabili» dell’edizione incunabola (seguita anche in Hieronymi Olives, Commentaria et
Glosa in Cartam de Logu, cit., 9; G.M.
Mameli De' Mannelli, Le
Costituzioni di Eleonora giudicessa d'Arborea intitolate Carta de Logu,
cit., 16; F.C. Casula, La “Carta de Logu” del regno di Arborèa,
cit., 36), rispetto alla forma «anti pro
casu fortuitu» del Ms. Per quanto la forma testé citata appaia più precisa
dal punto di vista tecnico-giuridico (sembrerebbe, infatti, ricalcata sul sed casu fortuito di C.I. 1.9.16.4), la
lezione «ma pro causa fortunabili» mi
pare, tuttavia, assai più significativa; in quanto costituisce un caso esemplare
di adattamento linguistico – frutto quindi di interpretatio giurisprudenziale – di un testo latino al linguaggio
“popolare” scelto dalla legislatrice arborense per la sua compilazione. Più in
generale, su questo ultimo aspetto, cfr. A. Sanna,
Il carattere popolare della lingua della
Carta de Logu, in Il mondo della
Carta de Logu, cit., 49 ss.
[61] Carta de Logu, cap. III (Qui ochirit homini) [trad. italiana]:
«Vogliamo ed ordiniamo che se alcuna persona uccide un uomo, e lo confessa in
giudizio, oppure venga accertato (il suo crimine), secondo quello che l’ordine
della ragione comanda, sia decapitato nello stesso luogo dov'è stato
condannato, in modo che ne muoia. E che nessuno si salvi col denaro, a meno che
il suddetto (omicida) non abbia ucciso per difendere se stesso. La qual difesa
debba provare e dimostrare con la testimonianza di uomini onorati entro
quindici giorni a partire dal giorno stabilito dal nostro armentariu de logu,
oppure da qualche altro nostro ufficiale, a cui la detta causa è stata
commessa. E nel caso sia provato che la persona abbia ucciso per difendersi,
come detto sopra, non sia uccisa, né patisca alcuna pena, né paghi qualcosa. E
se per avventura accadesse che più persone fossero in compagnia, ed una di loro
uccidesse qualche altro uomo, e gli altri non colpevoli della detta morte non
venissero entro tre giorni alla Corte (di giustizia) per discolparsi
legittimamente dichiarandosi non consenzienti nella morte di quel tale uomo,
siano puniti e condannati a morte come colui che ha perpetrato il crimine,
perché dicono le leggi: “agentes et consentientes pari pena puniuntur”
(“sia punito con la stessa pena chi agisce e chi acconsente”). Mentre nel
caso che qualcuno ammazzi un altro uomo improvvisamente, senza deliberazione e
premeditazione ma per causa fortuita, come sogliono accadere molte disgrazie,
vogliamo che allora stia, e debba stare, ad arbitrio e correzione nostra».
Ampio commento al capitolo in Hieronymi
Olives, Commentaria et Glosa in Cartam de Logu, cit., 9 ss.
[62] Per
una visione generale della disciplina romanistica riguardo alle diverse
fattispecie criminose sanzionate nel capitolo III della Carta de Logu, si vedano U.
Brasiello, Sulla ricostruzione dei
crimini in diritto romano. Cenni sull’evoluzione dell’omicidio, in “Studia
et documenta historiae et iuris” XLII (1976), 246 ss.; B. Santalucia, v. Omicidio
(diritto romano), in Enciclopedia del
diritto, vol. XXIX, A. Giuffrè, Milano 1979, 886 ss. [= Id., Studi di diritto romano, G. Bretschneider, Roma 1994, 107 ss.; Diritto e processo penale in Roma antica,
2a ed., A. Giuffrè, Milano 1998, 262 ss.];
A. Biscardi, L’imputabilità
dell’atto delittuoso in diritto romano, in “Apollinaris” LII (1979), 150
ss.; L. Rodríguez Alvarez, La tentativa de homicidio en la jurisprudencia
romana, in “Anuario de historia del derecho español” XLIX (1979), 5 ss.; A. Wacke, Fahrlässige Vergehen in römischen Strafrecht, in “Revue
internationale des droits de l’antiquité” XXVI (1979), 505 ss.; Evelyn Höbenreich, überlegungen zur
Verfolgung unbeabsichtigter Tötungen von Sulla bis Hadrian, in “Zeitschrift
der Savigny-Stiftung für Rechtsgeschichte. Rom. Abt.” CXX (1990), 249 ss. Cfr.
anche, in una prospettiva più ampia, G.
Pugliese, Linee generali
dell’evoluzione del diritto penale pubblico durante il principato, in Aufstieg und Niedergang der römischen Welt,
II.14, W. de Gruyter, Berlin-New York 1982, 722 ss.; V. Giuffrè, La
‘repressione criminale’ nell’esperienza romana. Profili, 3ª ed., Jovene,
Napoli 1993; A.D. Manfredini, Crimini e pene da Augusto ad Adriano, in
‘Res publica’ e ‘princeps’. Vicende
politiche, mutamenti istituzionali e ordinamento giuridico da Cesare ad Adriano. Atti del Convegno internazionale di diritto
romano. Copanello 25-27 maggio 1994, a cura di F. Milazzo, Edizioni Scientifiche Italiane, Napoli 1996, 219 ss.
[63] Su
dolo, colpa e caso fortuito, vedi A. Marongiu,
Delitto e pena nella “Carta de logu”
d’Arborea, ora in Id., Saggi di storia giuridica e politica sarda,
cit., 75 ss., in particolare 82 s. Più specificamente sul dolo, risulta di
grande utilità vedere il bel libro che il penalista Gian Paolo Demuro ha
dedicato, di recente, allo studio del concetto; vi si leggono pagine di
notevole interesse anche per gli storici del diritto, in riferimento al «dolo nel
diritto penale romano» e al «dolo nel diritto comune»: G. Demuro, Il dolo. I.
Svolgimento storico del concetto,
[Università di Sassari. Pubblicazioni del Dipartimento di Scienze Giuridiche,
14] A. Giuffrè, Milano 2007, rispettivamente 23 ss. e 79 ss.
[64] Per
quanto attiene alla legislazione penale e al sistema punitivo della Carta de Logu, a parte il saggio del
Marongiu citato nella nota precedente, vedi G.
Zirolia, Ricerche storiche sul
governo dei Giudici in Sardegna e relativa legislazione, cit., 181 ss.; E. Besta, La Carta de Logu quale monumento storico-giuridico, in E. Besta-P.E. Guarnerio, Carta de Logu de Arborea, cit., 38 ss.; Id., La Sardegna medioevale, 2. Le
istituzioni politiche, economiche, giuridiche, sociali, cit., 210 ss.; R. Di Tucci, Il diritto pubblico della Sardegna nel Medio Evo, cit., 99 ss.
[65] F. Brandileone, Lezioni di storia del diritto italiano, cit., 139-140: «Le leggi
penali, avuto riguardo alla condizione dei tempi, sono assai notevoli; e nella
comminazione delle pene più gravi vi si legge questa solenne espressione: “e
per somma qualunque di danaro il reo non iscampi”. È la condanna del sistema
delle composizioni; e in questa materia la legislazione di Eleonora si innalza
su non poche altre del suo secolo, che riducevano tuttavia il supplizio ad una
maniera di traffico per chi poteva redimersene».
[66] A. Marongiu, Delitto e pena nella “Carta de logu” d’Arborea, ora in Id., Saggi
di storia giuridica e politica sarda, cit., 81 s.
[67] Cfr. Gabriella Olla Repetto, I «boni homines» sassaresi ed il loro
influsso sul diritto e la società della Sardegna medievale e moderna, in Gli Statuti sassaresi. Economia, Società,
Istituzioni a Sassari nel Medioevo e nell'Età Moderna. Atti del convegno di studi. Sassari, 12-14 maggio 1983, cit., 355
ss., in particolare 358: «La Carta de Logu
su questa struttura comunitaria incentra l’organizzazione periferica del
Giudicato d’Arborea e porta a sublimazione l’istituto dei boni homines, concedendo loro l’attribuzione della funzione giudiziaria,
appena enunciata negli Statuti sassaresi».
[68] Su
questo alto funzionario del Giudicato d’Arborea, con particolare riferimento
alle sue competenze amministrative e giudiziarie, vedi E. Besta, La Sardegna
medioevale, 2. Le istituzioni
politiche, economiche, giuridiche, sociali, cit., 61 («Il posto del sacellarius fu forse tenuto in Arborea
dall’armentariu de logu che non va
confuso cogli armentarios preposti
alle singole ville del giudice: agendo in qualche modo da advocatus fisci, era il
supremo tutore delle ragioni del rennu,
dirigeva e controllava l’esazione dei tributi e delle multe facendosene render
ragione dai curatores e dai maiores de villa») e 96 («La
competenza giudiziaria dell’armentariu de
logu, che non è ricordata né in Cagliari né in Torres, dovette avere un
ambito: ma neppur dalla Carta de logu,
che ripetutamente accenna alle sue funzioni come tutore dell’erario, risulta
chiara. Avea egli una giurisdizione propria? o era un giudice delegato che
agiva solo in quanto il giudice gli accommendava le proprie veci? è difficile escludere senz’altro la
prima ipotesi quantunque non sembri che rappresentasse un grado normale
intermedio tra il curatore e il giudice»). Cfr. anche G.M. Mameli De' Mannelli, Le
Costituzioni di Eleonora giudicessa d'Arborea intitolate Carta de Logu,
cit., 16 nt. 7; A. Solmi, Studi storici sulle istituzioni della
Sardegna nel medio evo, cit., 72; e più di recente Gabriella Olla Repetto,
L'ordinamento
costituzionale-amministrativo della Sardegna alla fine del '300, in Il mondo della Carta de Logu, cit., 111
ss.; ma soprattutto 140 ss.; F.C. Casula,
La “Carta de Logu” del regno di Arborèa,
cit., 247 s.
[69] C. Ferrini, Diritto penale romano, Ulrico Hoepli Edit., Milano 1889, 31 ss.; Id., Diritto
penale romano. Esposizione storica e dottrinale, estratto da Enciclopedia del Diritto penale italiano,
Società editrice libraria, Roma 1905 [rist. an., Roma 1976], 84 ss.; Th. Mommsen, Römisches Strafrecht, Duncker & Humblot, Leipzig 1899, 620 s.
[= Id., Le droit pénal romain, trad. di J.
Duquesne, II, A. Fontemoing, Paris 1907, 334 ss.]; J. Caroï, La violence en droit criminel romain, Plon, Paris 1914, 27 ss.; E. Costa, Crimini e pene da Romolo a Giustiniano, Zanichelli, Bologna 1921,
69, 152; G.I. Luzzatto, Procedura civile romana. Parte I. Esercizio
dei diritti e difesa privata, dalle lezioni tenute nell’Università di
Modena (Anno Accademico 1945-46), ristampa, UPEB, Bologna s. d. (ma 1946), 184
ss.;
C. Gioffredi, I principi del diritto penale romano, G.
Giappichelli, Torino 1970, 90 ss.; G.
Longo, Sulla legittima difesa e
sullo stato di necessità in diritto romano, in Sein und Werden im Recht. Festgabe für Ulrich von Lübtow, Dunker
& Humblot, Berlin 1970, 321 ss.
Per
quanto riguarda, invece, la legittima difesa nella scienza giuridica medioevale
cfr. C. Pecorella, Cause di giustificazione, circostanze
attenuanti e aggravanti del reato dalla Glossa alla c.d. riforma del diritto
penale, in “Studi Parmensi” VII (1957), 303 ss.; J.M. García Marín, La
legítima defensa hasta fines de la Edad Media. Notas para su estudio, in
“Anuario de historia del derecho español” L (1980), 413 ss.
[70]
Riguardo ai contenuti e alle caratteristiche dello ius naturale cfr., fra gli altri, C.A.
Maschi, La concezione
naturalistica del diritto e degli istituti giuridici romani, Vita e
pensiero, Milano 1937, in part. 284
ss.; E. Levy, Natural Law in Roman Thought, in “Studia
et documenta historiae et iuris” XV (1949), 1 ss. [= Id., Gesammelte
Schriften, I, Böhlau, Köln-Graz 1963, 1 ss.]; J. Gaudemet, Quelques
remarques sur le droit naturel à Rome, in “Revue internationale des droits
de l’antiquité” I (1952), 453 ss.; M.
Villey, Deux conceptions du droit
naturel dans l’Antiquité, in “Revue historique de droit français et
étranger” XXXI (1953), 475 ss.; A.
Burdese, Il concetto di ‘ius
naturale’ nel pensiero della giurisprudenza classica, in “Rivista italiana
per le scienze giuridiche”, Serie III, VII (1954), 407 ss.; G. Nocera, ‘Ius naturale’ nella esperienza giuridica romana, A. Giuffrè,
Milano 1962; G. Grosso, Problemi generali del diritto attraverso il
diritto romano, 2a ed., Giappichelli, Torino 1967, 99 ss.; D. Nörr, Rechtskritik in der römischen Antike, Verl. der Bayer. Akad. der Wiss., München 1974, 21 ss., 89 ss.; Ph. Didier, Les diverses conceptions du droit naturel à l’œuvre dans la
jurisprudence romaine des IIe et IIIe
siècles, in “Studia et documenta historiae et iuris” XLVII (1981),
195 ss.; F. Sini, Bellum nefandum. Virgilio e il problema del “diritto internazionale antico”,
Dessì, Sassari 1991, 216 ss.; L.C.
Winckel, Einige Bemerkungen über
ius naturale und ius gentium, in Ars boni et aequi. Festschrift
für Wolfgang Waldstein zum 65. Geburtstag, Steiner, Stuttgart 1993, 443 ss.; W. Waldstein, Ius naturale im nachklassischen römischen Recht und bei Juristen,
in “Zeitschrift der Savigny-Stiftung für Rechtsgeschichte. Rom.
Abt.” CXI (1994), 1 ss.; Id., Saggi sul diritto non scritto, Introduzione e cura di U. Vincenti, CEDAM, Padova 2002, 57 ss.: «Sulla nozione di diritto naturale
attraverso il diritto romano»; L.L.
Kofanov, Fas e ius naturae in Cicerone e nel pensiero dei giuristi
romani, in “Diritto @ Storia. Rivista internazionale di Scienze Giuridiche
e Tradizione Romana” 8 ( on line dicembre 2009) = http://www.dirittoestoria.it/8/Tradizione-Romana/Kofanov-Fas-ius-naturae-Cicerone-giuristi-romani.htm; S. Tafaro, Ius hominum causa constitutum. Un
diritto a misura d’uomo, Edizioni Scientifiche Italiane, Napoli 2009, 54
ss.; P.P. Onida, Prospettive romanistiche del diritto
naturale, [Università di Sassari. Pubblicazioni del Dipartimento di
Giurisprudenza, 5] Jovene, Napoli 2012, 83 ss.
[71] Sulle
peculiarità dell’opera cfr., fra gli altri, S.
Brassloff, v. Florentinus, in Real-Encyclopädie der classischen
Altertumswissenschaft, VI, Stuttgart 1909, coll. 2755 s.; P. Krüger, Geschichte der Quellen und Litteratur des römischen Rechts, 2a
ed., Duncker & Humblot, München und Leipzig 1912, 215; M. Villey, Recherches sur la littérature didactique du droit romain, Les
éditions Domat-Montchrestien, Paris 1945, 42; F.
Wieacker, Doppelexemplare der
Institutionen Florentins, Marcians und Ulpians, in “Revue internationale
des droits de l’antiquité” III (1949), 275 ss.; F. Casavola, Actio
petitio persecutio, Jovene, Napoli 1965, 32 ss.; F. Schulz, Storia della
giurisprudenza romana, trad. italiana a cura di G. Nocera, con presentazione di P. de Francisci, Sansoni, Firenze 1968 [rist. 1975], 281 ss.;
D. Liebs, Römische Provinzialjurisprudenz, in Aufstieg und Niedergang der römischen Welt, II.15, W. de Gruyter,
Berlin-New York 1976, 348 s.; H.L.W.
Nelson, Überlieferung, Aufbau und
Stil von Gai Institutiones, E.J. Brill, Leiden 1981, 372 ss.; J. Gaudemet, Tentatives de systématisation du droit à Rome, in “Index. Quaderni
camerti di diritto romano” XV (1987), 89;
Lauretta Maganzani, Gli incrementi fluviali in Fiorentino VI
inst. (D. 41.1.16), in “Studia et documenta historiae et iuris XLIX”
(1993), 207 ss.; M. Bretone, Storia del diritto romano, 5a
ed., Laterza, Roma-Bari 1995, 401 ss.; infine Serena
Querzoli, Il sapere di Fiorentino.
Etica, natura e logica nelle ‘Institutiones’, Loffredo, Napoli 1996, in
particolare 11 ss.
[72] Per
una condivisibile analisi del frammento, con pregevoli riflessioni sulle
propensioni universalistiche della cultura del giurista, rinvio all’opera di Serena Querzoli, Il sapere di Fiorentino. Etica, natura e logica nelle ‘Institutiones’,
cit., 132 ss.
[73]
Forse, appare eccessivamente severo il giudizio di P. Bonfante, Storia del
diritto romano, II, rist. 4a ed. riveduta dall’Autore, a cura di G. Bonfante e di G. Crifò, A. Giuffrè, Milano 1959, 132:
«Le Istituzioni di Fiorentino si caratterizzano inoltre per la ricchezza di
definizioni, di etimologìe e di regole; conforme allo scopo didattico sembra
che nulla contenessero di originale, il che spiega perché non si trovino mai
ricordate da altri giuristi».
[74] Al
principio cardine del testo del giurista Fiorentino, cioè la cognatio come fondamento di quel vincolo
naturale che apparenta tutto il genere umano, sono dedicate alcune penetranti
riflessioni di R. QUADRATO, ‘Hominis appellatio’ e gerarchia dei sessi D. 50, 16, 162 (Gai.
10 ‘ad l. Iul. et Pap.’), in “Bullettino dell’Istituto di Diritto Romano”
XCIV-XCV (1991-1992), 335 s. e nt. 138; con adesione, mi pare, di STEFANIA PIETRINI, L’insegnamento del diritto penale nei Libri Institutionum, Edizioni
Scientifiche Italiane, Napoli 2012, 35. Per altro, il riferimento alla cognatio di tutto il genere umano
rimanda alle definizioni di libertas
e servitus, che il giurista enuncia
in D. 1.5.4.pr.-1 (Florentinus libro nono institutionum): Libertas est naturalis facultas eius quod
cuique facere libet, nisi si quid vi aut iure prohibetur. Servitus est constitutio iuris gentium, qua
quis dominio alieno contra naturam subicitur.
Sulla
definizione di libertas, vedi il
recente saggio di ADRIANA MURONI,
Sull’origine della libertas
in Roma antica: storiografia annalistica ed elaborazioni giurisprudenziali,
in “Diritto @ Storia. Rivista internazionale di Scienze Giuridiche e Tradizione
Romana” 11 (2013) (on line 15 gennaio 2014) = < http://www.dirittoestoria.it/11/tradizione/Muroni-Origine-libertas-Roma-antica.htm >;
in particolare nel paragrafo 2 intitolato proprio «Libertas est naturalis facultas».
Per quanto attiene invece alla servitus ed al suo essere (nonostante la legittimità data dallo ius gentium)
sostanzialmente contra naturam, rinvio all’articolo di CRISTIANA M.A. RINOLFI, Servi e religio,
in “Diritto @ Storia. Rivista internazionale di Scienze Giuridiche e Tradizione
Romana” 9 (2010) (on line 11 febbraio 2011) = < http://www.dirittoestoria.it/9/Tradizione-Romana/Rinolfi-Servi-religio.htm >: «L’idea dell’“innaturalezza“
della servitù, mediata dalla riflessione stoica come sostiene la maggioranza
della dottrina, emerge in alcune espressioni della giurisprudenza classica.
Fiorentino afferma che la libertà era una facoltà naturale».
[75] In
questo senso cfr., fra gli altri, L.
Aru, Appunti sulla difesa privata
in diritto romano, in “Annali del Seminario Giuridico dell’Università di
Palermo” XV (1936), 122 s.; C.A. Maschi, La concezione naturalistica del diritto e degli istituti giuridici
romani, cit., 44; G. Nocera, ‘Ius naturale’ nella esperienza giuridica
romana, cit., 23; G. Longo, Sulla legittima difesa e sullo stato di
necessità in diritto romano, cit., 330; W.
Waldstein, Entscheidungsgrundlagen
der klassischen römischen Juristen, in
Aufstieg und Niedergang der römischen Welt, II.15, W. de Gruyter,
Berlin-New York 1976, 85 s.; Ph. Didier, Les diverses
conceptions du droit naturel à l’œuvre dans la jurisprudence romaine des IIe et
IIIe siècles, cit., 256 s.; M. Kaser, ‘Ius publicum’ und ‘ius privatum’, in “Zeitschrift der
Savigny-Stiftung für Rechtsgeschichte. Rom. Abt.” CXVI (1986), 95
s.; Yang Zhenshan, La tradizione filosofica del diritto romano
e del diritto cinese antico e l’influenza del diritto romano sul diritto cinese
contemporaneo, in “Index. Quaderni camerti di diritto romano” XXI (1993),
527.
[76] Così,
ad esempio, F. Beduschi, Osservazioni sulle nozioni originali di
‘fas’ e ‘ius’, in “Rivista italiana per le scienze giuridiche”, Nuova
serie, X (1935), 247; e F. Sini, Bellum nefandum, cit., 226 s.
[77] M. Pohlenz, Die Stoa. Geschichte einer
geistiger Bewegung, Vandenhoeck & Ruprecht, Göttingen 1959, qui citato
nella trad. italiana: La stoa. Storia di un movimento spirituale, I,
La Nuova Italia, Firenze 1967, 547. All’influenza della dottrina stoica sulla cultura
giuridica romana, è dedicato anche il saggio di P.A. Vander Waerdt, Philosophical
Influence on Roman Jurisprudence? The Case of Stoicism and Natural Law, in Aufstieg und Niedergang der römischen Welt,
II.36.7, W. de Gruyter, Berlin-New York 1994, 4789 ss. Più in generale, vedi L. Garofalo, L’humanitas nel pensiero della giurisprudenza classica, in “Diritto @ Storia, Rivista
internazionale di Scienze Giuridiche e Tradizione Romana” 4 (2005) < http://www.dirittoestoria.it/4/Tradizione-Romana/Garofalo-Humanitas.htm >.
[78] B. Biondi, La concezione cristiana del diritto naturale nella codificazione
giustinianea, in “Jus” I (1950), ora in Id.,
Scritti giuridici, I. Diritto romano. Problemi generali, A.
Giuffrè, Milano 1965, 583 s.
[79] Stefania Pietrini, L’insegnamento del diritto penale nei Libri Institutionum, cit., 34
ss., in part. 45: «Tirando le fila del
discorso, potremmo, insomma, almeno provare a supporre, pur con tutta la dovuta
prudenza, che il citato frammento di Fiorentino, essendo volto essenzialmente a
lumeggiare il principio della legittima difesa – non certo quale esimente del
solo reato di omicidio (su cui aveva specificamente disposto il rescriptum adrianeo),
bensì quale principio di applicazione assai più ampia – potesse trovarsi, nella
sua collocazione originaria, all'interno di una sezione del libro primo delle
sue Istituzioni che avrebbe compreso regole, di carattere generale, in materia
di diritto penale».
[80] Sul
concetto di naturalis ratio e sulle peculiarità del suo
impiego da parte dei giuristi romani, fra l’ampia bibliografia cfr. J.J. de Koschembahr-Lyskowsji, Naturalis ratio en droit classique romain,
in Studi in onore di Pietro Bonfante,
vol. III, F.lli Treves, Milano 1930, 467 ss.; C.A. Maschi, La concezione
naturalistica del diritto e degli istituti giuridici romani, cit., 235; G. Lombardi, Sul concetto di ‘ius gentium’, A. Giuffrè, Milano 1947, 148 ss.; R. Voggensperger, Der Begriff des «Ius naturale» im römischen Recht, Helbing &
Lichtenhahn, Basel 1952, 100 ss.; D.
Nörr, Rechtskritik in der römische
Antike, cit., 98 ss.; P. Stein,
The Development of the Notion of
Naturalis Ratio, in Daube Noster. Essays
in Legal History for David Daube, Scottish Ac. pr., Edinburgh and London
1974, 305 ss.; G.G. Archi, «Lex» e «natura» nelle istituzioni di Gaio,
in Festschrift für Werner Flume zum 70. Geburtstag,
vol. I, O. Schmidt, Köln 1978, 3 ss. [= Id.,
Scritti di diritto romano, I. Metodologia e giurisprudenza. Studi di
diritto privato, tomo 1, A. Giuffrè, Milano 1981, 139 ss.]; F. Casavola, Giuristi adrianei, Jovene, Napoli 1980, 213 ss.; M. Kaser, Ius gentium [Forschungen zum römischen Recht, 40], Bohlau Verlag,
Köln-Weimar-Wien 1993, 98 ss.; W.
Waldstein, Natura debere, ius gentium und natura aequum im
klassischen römischen Recht, in “Annali del Seminario giurridico
dell’Università di Palermo” LII (2007-2008), 429 ss.
[81] Fra
la dottrina romanistica sul frammento gaiano, vedi H. Wagner, Studien zur
allgemeinen Rechtslehre des Gaius (Ius gentium und ius naturale in ihrem
Verhältnis zum ius civile), Terra publishing, Zutphen 1978, 110; O. Diliberto, Considerazioni intorno al commento di Gaio alle XII Tavole, in “Index.
Quaderni camerti di diritto romano” XVIII
(1990), 416; O. Behrends, Anthropologie juridique de la jurisprudence
classique romaine, in “Revue historique de droit français et étranger”
LXVIII (1990), 345 nt. 27; Serena
Querzoli, Il sapere di Fiorentino.
Etica, natura e logica nelle
‘Institutiones’, cit., 153 ss.
[83] M. Bartošek, Sulla concezione “naturalistica” e materialistica dei giuristi classici,
in Studi in memoria di Emilio Albertario,
vol. II, A. Giuffrè, Milano 1953, 480.
[84] Per
la biografia di Gaio Cassio Longino vedi, fra gli altri, P. Jörs, v. Cassius, in Real-Encyclopädie
der classischen Altertumswissenschaft, III.2, J.B. Metzlerscher Verlag,
Stuttgart 1899, coll. 1736 ss.; P.
Krüger, Geschichte der Quellen und
Litteratur des römischen Rechts, 2a ed., cit., 168 ss.; L. Wenger, Die Quellen des römischen Rechts, Holzhausen, Wien 1953, 502; R. Orestano, v. Cassius Longinus, in Novissimo Digesto Italiano, II, UTET, Torino
1958, 1161; W. Kunkel, Herkunft und soziale Stellung der römischen
Juristen, 2a ed., Böhlau,Graz-Wien-Köln 1967, 130 s.; F. D’Ippolito, Ideologia e diritto in Gaio Cassio Longino, Jovene, Napoli 1969; D. Nörr, Zur Biographie des Juristen C. Cassius Longinus, in Sodalitas. Scritti in onore di Antonio
Guarino, VI, Jovene, Napoli 1984, 2957 ss.; F. Bona, I libri “juris
civilis” di Cassio e i libri “ex Cassio” di Giavoleno, in “Studia et documenta historiae et iuris”
L (1984), 401 ss.; J.W. Tellegen, Gaius Cassius and the Schola Cassiana in Pliny’s Letter VII 24, 8, in “Zeitschrift
der Savigny-Stiftung für Rechtsgeschichte. Rom. Abt.” CV (1988), 263 ss.; R.A. Bauman,
Lawyers and Politics in the Roman Empire.
A study of relations between the Roman jurists and the emperors from Augustus
to Hadrian, C.H. Beck'sche Verlagsbuchhandlung, München 1989, 76 ss. (con
altra bibliografia).
[85] Cfr. nello stesso senso D. 9.2.45.4
(Paulus libro decimo ad Sabinum): Qui, cum aliter tueri se non possent, damni
culpam dederint, innoxii sunt: vim enim vi defendere omnes leges omniaque iura
permittunt; D. 4.2.12.1 (Ulpianus libro
undecimo ad edictum): Quaeri poterit,
an etiam ei qui vim fecerat passo vim restitui praetor velit per hoc edictum ea
quae alienavit. Et
Pomponius scribit libro vicensimo octavo non oportere ei praetorem opem ferre:
nam cum liceat, inquit, vim vi repellere, quod fecit passus est. Quare si metu
te coegerit sibi promittere, mox ego eum coegero metu te accepto liberare,
nihil esse quod ei restituatur.
[86]
Brevemente, sono da vedere anche M.
Balzarini, Ricerche in tema di
danno violento e rapina nel diritto romano, CEDAM, Padova 1969, 105 nt. 42;
G. Longo, Sulla legittima difesa e sullo stato di necessità in diritto romano,
cit., 331; C. Gioffredi, L’elemento intenzionale nel diritto romano,
in Studi in onore di Giuseppe Grosso,
vol. III, G. Giappichelli, Torino 1970, 52 s. = Id., I principi del
diritto penale romano, cit., 92 s.; U.
Manthe, Die libri ex Cassio des
Iavolenus Priscus, Duncker & Humblot, Berlin 1982, 96 s.; Ph. Didier, Les diverses
conceptions du droit naturel à l’œuvre dans la jurisprudence romaine des IIe et
IIIe siècles, cit., 254; Serena Querzoli, Il sapere di Fiorentino. Etica,
natura e logica nelle ‘Institutiones’, cit., 151 s.
[87] A. Mantello, ‘Beneficium’ servile – ‘debitum’ naturale. Sen.,
‘de ben.’ 3.18.1 ss. - D. 35.1.40.3 (Iav., 2 ‘ex post. Lab.’), I, A. Giuffrè, Milano
1979, 382.
[89] J.L. Murga, La ‘preclusio locatoris’ como ‘vis privata legittima’, in “Revue
internationale des droits de l’antiquité” XXXIV (1987), 256 nt. 45.
[90]
Legami che non vennero mai del tutto meno, neppure nei momenti di più violento
contrasto, come ha dimostrato Luisa
D’Arienzo, I possessi catalani dei
giudici d'Arborea, in “Studi sardi” 21 (1968-70) [ma 1971], 134 ss.
[91] Cfr. A. Iglesia Ferreirós, La creación del derecho en Cataluña, in “Anuario
de historia del derecho español” XLVII (1977), 142 s.
[92] Cfr.,
in generale, E. Albertario, Concetto classico e definizioni
postclassiche del ‘ius naturale’ (1924), ora in Id., Studi di diritto
romano, vol. V, Storia metodologia
esegesi, A. Giuffrè, Milano 1937, 277 ss., per il quale i riferimenti alla
natura sono un fenomeno episodico nella lingua dei giuristi, e soprattutto
tardivo. Sul testo di Fiorentino, vedi G. Beseler, Beiträge zur Kritik der römischen Rechtsquellen, vol. III,
J.C.B., Mohr, Tübingen 1913, 62; V.
Devilla, Studi sull’«obligatio
naturalis», cit., 69 s. Pensava, invece, a possibili interpolazioni del
testo gaiano S. Perozzi, Istituzioni di diritto romano, vol. II,
G. Barbera, Firenze 1908, 260 nt. 4 («Il diritto di uccidere il ladro nei casi
veduti non fu perciò abolito; ma acquistò il carattere di una discriminante di
un fatto che altrimenti sarebbe caduto sotto le sanzioni penali delle leggi
Cornelia de sicariis ed Aquilia. I
giuristi classici furono in generale a partire dall’età adrianea avversi a
codesto diritto. Vedi Coll. 7, 3, §§ 2, 3. Ma è giustinianea la riduzione del
diritto stesso entro i limiti della necessaria difesa; in l. 4 pr., D. 9, 2, è
interpolato insidiantem mihi e nam … se defendere»). Quanto alle supposte interpolazioni di D.
43.16.1.27, vedi Index interpolationum
quae Iustiniani digestis inisse dicuntur, curaverunt E. Levy-E. Rabel, Tomus III ad libros digestorum XXXVI-L pertinens,
Böhlaus H. Nachfolgher, Weimar 1935, col. 290.
[93] G. Lombardi, Sul concetto di ‘ius gentium’, cit., 132 nt. 1 (riguardo al
frammento di Gaio D. 9.2.4.pr. lo studioso non ritiene genuina proprio la parte
relativa alla giustificazione fondata sulla naturalis
ratio); 154 ss. (del frammento di Fiorentino D. 1.1.3 il Lombardi contesta
la genuinità della parte da et cum nos
fino a nefas esse: «Sono stati
viceversa i giustinianei che hanno voluto riportare il principio al ius gentium; e nel farlo hanno
presumibilmente aggiunto al tempo stesso la seconda parte del frammento»); 200
nt. (per quanto attiene a D. 43.16.1.27, lo studioso scrive che «il riferimento
a natura – e tutto l’inciso a
costruzione singolarissima idque ius
natura comparatur – risulta con ogni verosimiglianza non classico»).
[94] A. Burdese, Il concetto di ‘ius naturale’ nel pensiero della giurisprudenza
classica, cit., 415.
[95] Sulla
datazione dell’opera, rinvio ai lavori di G.
Calboli (a cura di), Cornifici
Rhetorica ad Herennium. Introduzione, testo critico e commento, R. Patron,
Bologna 1969, 12 ss.; e di C. Achard,
L’auteur de la “Rhétorique à Herennius”?,
in “Revue des études latines” LXIII (1985) [ma 1987], 56 ss., il quale però
ritiene poco probabile l’attribuzione a Cornificio.
[96]
Sempre di Cicerone, vedi ancora De leg. 1.18:
Lex est ratio summa, insita in natura,
quae iubet ea quae facienda sunt, prohibetque contraria. Eadem ratio cum est in
hominis mente confirmata et perfecta, lex est. 2.10: Erat enim ratio, profecta a rerum natura, et ad recte faciendum
inpellens et a delicto avocans, quae non tum denique incipit lex esse quom
scripta est, sed tum cum orta est. Orta autem est simul cum mente divina.
Sui questi due ultimi passi: interpretazione, commento e bibliografia
precedente in K.M. Girardet, Die Ordnung der Welt: ein Beitrag zur
philosophischen und politischen Interpretation von Ciceros Schrift ‘De legibus’,
Steiner, Wiesbaden 1983, 65 ss.; ma anche in Michèle
Ducos, Les Romains et la loi. Recherches sur les rapports de la philosophie grecque et la
tradition romaine à la fin de la République, Les Belles Lettres, Paris 1984, 231 ss. Cfr. inoltre T. Mayer-Maly, Gemeinwohl und Naturrecht bei Cicero, in Festschrift für A. Verdross, Fink, Wien 1960, 195 ss.; M. Kaser, Ius gentium, cit., 54 ss.; Serena
Querzoli, Il sapere di Fiorentino.
Etica, natura e logica nelle
‘Institutiones’, cit., 138 ss.
[98] Molto
significativa appare l’adesione a questo principio da parte della legislatrice
arborense, soprattutto perché esso, di norma, risulta ignorato dalla tradizione
giuridica germanica: cfr. A. Cavanna,
Nuovi problemi intorno alle fonti
dell’Editto di Rotari, in “Studia et documenta historiae et iuris” XXXIV
(1968), 323 s.: «è noto come, nel
campo delle cause di giustificazione, la conoscenza di questa particolare
scriminante, quanto all’omicidio, vada esclusa per moltissime leggi barbariche:
le più pure e antiche consuetudini germaniche, ove opera indiscriminatamente la
faida, ignorano normalmente la legittima difesa, così come non la riconoscono
poi in genere le legislazioni rimaste più sostanzialmente fedeli al diritto
primitivo, nelle quali sono riconosciute ben poche cause di giustificazione
tali da eliminare il carattere antigiuridico di un’azione e da escludere il
pagamento della multa o del guidrigildo. Quanto alla legge longobarda essa
mostra di conformarsi, in via generale, alla regola che l’omicidio compiuto da
chi, costretto dalla necessità di difendere se medesimo, abbia reagito contro
l’aggressore, non va esente da compositio».
[99] In
merito a questo frammento, avanza forti dubbi sul fatto che possa attribuirsi
al rescritto originale anche l’espressione «vel
quemcumque alium» S. Solazzi,
Costituzioni glossate o interpolate nel
‘Codex Iustinianus’, in “Studia et documenta historiae et iuris” XXIV
(1958), 76: «‘Vel quemcumque alium’
generalizza la decisione del rescritto. Ma, benché limitata dal requisito che
l’omicidio sia commesso ‘in dubio vitae
discrimine’, la generalizzazione con quemcumque
è pericolosa e non mi arrischio di attribuirla a Gordiano».
[100]
Riguardo al dato semantico e alla nozione giuridica di latro e latrocinium, vedi
A. Milan, Ricerche sul ‘latrocinium’ in Livio. I. ‘Latro’ nelle fonti preaugustee, in “Atti dell’Istituto Veneto di
Scienze, Lettere e Arti” CXXXVIII (1979-1980), 171 ss.; Id., Ricerche sul
‘latrocinium’ in Livio. Il ‘latrocinium’ di Perseo, in Sodalitas. Scritti in onore di Antonio Guarino, vol. III, Jovene, Napoli
1984, 1037 ss.; V. Giuffrè, «Latrones desertoresque», in “Labeo”
XXVII (1981), 214 ss.; Silvana Morgese,
Taglio di alberi e ‘latrocinium’: D. 47,
7, 2, in “Studia et documenta historiae et iuris” XLIX (1983), in
particolare 160 ss.; J. Burian, Latrones. Ein Begriff in römischen literarischen und
juristischen Quellen, in “Eirene” XXI
(1984), 17 ss. Quanto al diritto intermedio, vedi L. Lacchè, Latrocinium.
Giustizia, scienza penale e repressione del banditismo in antico regime, A.
Giuffrè, Milano 1988, con riferimento a 83 ss.; 171 ss.
[101] La
costituzione era stata raccolta in precedenza anche nel Codex Gregorianus, sotto
il titolo ad legem Corneliam de sicariis
et veneficis, come attesta Collat.
1.8.pr.-1: Item Gregorianus libro IIII
sub titulo ad legem Corneliam de sicariis et veneficis talem constitutionem
ponit: Imperator Antoninus A. Aurelio Herculano et aliis militibus. Frater
vester rectius fecerit, si se praesidi provinciae optulerit: cui si probaverit
non occidendi animo Iustam a se percussam esse, remissa homicidii poena
secundum disciplinam militarem sententiam proferet. Proposita
prid. kal. Febr. Laeto bis cons. Analisi del testo in A. Wacke, Fahrlässige Vergehen in römischen Strafrecht, cit., 536 s.
[102] Per
la discussione sul testo di questa importante costituzione (rescritto o epistula?), che contrappone la voluntas al casus fortuitus nella determinazione dell’evento criminoso, rinvio
ai lavori di A. Dell’Oro, ‘Mandata’ e ‘litterae’. Contributo allo
studio storico degli atti giuridici del ‘princeps’, Zanichelli, Bologna
1960, in part. 88 ss.; N. Palazzolo,
Le modalità di trasmissione dei
provvedimenti imperiali nelle province (II-III sec. d.C.), in “Iura” XXVIII
(1977) [ma 1980], 79 s.; A. Wacke,
Fahrlässige Vergehen in römischen
Strafrecht, cit., 539 s.; W. Turpin,
‘Adnotatio’ and Imperial Rescript in
Roman Legal Procedure, in “Revue internationale des droits de l’antiquité”
XXXV (1988), 298 s. Anche questa costituzione dioclezianea risultava già
raccolta nel Codex Gregorianus, da
esso, infatti, l’aveva trascritta l’anonimo compilatore della «Lex Dei quam praecepit Dominus ad Moysem»
(cfr. Collat. 1.10.1); per una
valutazione complessiva dello stato della dottrina in relazione a quest’opera,
con accurato ed esaustivo studio dell’età della composizione, delle fonti,
dell’ambito redazionale e delle diverse recensioni, vedi la monografia di G. Barone Adesi, L’età della ‘lex Dei’, Jovene, Napoli 1992, 175 ss.
[103] Sul
tipo di documento e sul genere di attività normativa imperiale legata ai rescripta, vedi N. Palazzolo, Potere
imperiale ed organi giurisdizionali nel II secolo d.C. L’efficacia processuale
dei rescritti imperiali da Adriano ai Severi, A. Giuffrè, Milano 1974; ma
anche il saggio di D. Nörr, Zur Reskriptenpraxis in der hohen
Prinzipatszeit, in “Zeitschrift der Savigny-Stiftung für Rechtsgeschichte.
Rom. Abt.” CXI (1981), 1 ss.; e il libro di T.
Honoré, Emperors and lawyers,
Clarendon press, Oxford 1981, con particolare riferimento a 24 ss., pagine
dedicate proprio ad analizzare «The Rescript System».
[104] A
tale commento e, più in generale, al pensiero del giurista Marciano
sull’incidenza della voluntas e del casus nella qualificazione del reato, è
dedicato il lavoro di G. Polara, Marciano e l’elemento soggettivo del reato (Delinquitur
aut proposito aut impetu aut casu), in “Bullettino dell’Istituto di Diritto
Romano” LXXVII (1974), 110 ss., dove lo studioso analizza, con grande finezza e
in maniera esaustiva, tutte le problematiche esegetiche e dottrinali derivanti
dall’interpretazione del frammento.
[105]
Sull’impianto complessivo dell’opera istituzionale del giurista severiano,
rinvio invece alla ricerca di L. De
Giovanni, Per uno studio delle
‘Institutiones’ di Marciano, in “Studia et documenta historiae et iuris”
XXXIX (1983), 91 ss.; ripubblicato con lievi modifiche in Id., Giuristi severiani. Elio Marciano, D’Auria, Napoli 1989, 13 ss. Non
sfugge, naturalmente, allo studioso napoletano l’importanza dei frammenti
relativi alla lex Cornelia de sicariis
conservati nei Digesta di Giustiniano
(137 = 66): «ma soprattutto significativa, per comprendere lo schema col quale
il giurista commenta le leggi, appare la lettura dei frammenti intorno alla lex Cornelia de sicariis et veneficiis e
alla lex Pompeia de parricidiis:
dapprima Marciano espone, in termini brevi ma precisi, il contenuto originario
della legge, quindi si sofferma particolarmente sulle modifiche e i
completamenti prodotti da rescritti e senatusconsulta
fino all’epoca severiana ("hodie",
come si esprime D. 48, 8, 3, 5)».
[106] Sulla
legge cfr. C.G. Bruns, Fontes Iuris Romani Antiqui. Leges et
negotia, editio sexta cura Theodori
Mommseni et Ottonis Gradenwitz,
Mohr, Friburgi in Brisgavia et Lipsiae 1893, 92; G. Rotondi, Leges
publicae populi Romani, rist. an., G. Olms, Hildesheim 1962, 357 s. Un recente tentativo di ricostruzione
palingenetica della legge in questione, risalente com’è noto all’età sillana, è
quello proposto da J.-L. Ferrary,
Lex Cornelia de sicariis et veneficiis,
in “Athenaeum” LXXIX (1991), 417 ss.; ivi accurata analisi delle testimonianze
ciceroniane e dei testi dei giuristi classici. Cfr. inoltre K. AmielaŃczyk, ʽDolus malusʼ - ʽanimus
occidendiʼ. The problem of guilt in the ʽlex Cornelia de sicariis et veneficisʼ, in Au-delà des frontières. Mélanges de droit
romain offerts à W. Wołodkiewicz, I, Liber, Warsawa 2000, 1 ss.; D.
Cloud, Leges de
sicariis: the first chapter of Sulla’s
lex de sicariis, in “Zeitschrift der Savigny-Stiftung fur Rechtsgeschichte.
Rom. Abt.”, CXXVI (2009), 114 ss.
[107] Il
rescritto dell’imperatore Adriano figura, inoltre, con lievi modifiche rispetto
al testo di Marciano, sia in Collat.
1.6.1-4: Distinctionem casus et
voluntatis in homicidio servari rescripto Hadriani confirmatur. Verba
rescripti: ‘Et qui hominem occidit absolvi solet, sed si non occidendi animo id
admisit: et qui non occidit, sed voluit occidere, pro homicida damnatur. E re
itaque constituendum est: ecquo ferro percussit Epafroditus? Nam si gladium
instrinxit aut telo percussit, quid dubium est, quin occidendi animo
percusserit? Si clave percussit aut cucuma aut, cum forte rixaretur, ferro
percussit, sed non occidendi mente. Ergo hoc exquirite et si voluntas occidendi
fuit, ut homicidam servum supplicio summo iure iubete affici (la citazione
è tratta dal libro VII de officio
proconsulis di Ulpiano); sia in Pauli
Sent. 5.23.3: Qui hominem occiderit,
aliquando absolvitur, et qui non occidit, ut homicida damnatur: consilium enim
uniuscuisque, non factum puniendum est. Ideoque qui, cum vellet occidere, id
casu aliquo perpetrare non potuit, ut homicida punitur: et is, qui casu iactu
teli hominem imprudenter occidit, absolvitur.
[108] Per
altre valutazioni specifiche sul rescritto, vedi J.-Cl. Genin, La répression des actes de tentative en droit criminel romain
(Contribution à l’étude de la subjectivité répressive à Rome), Thèse pour le Doctorat, Diss., Lyon 1968, 100 s.; J.D. Cloud, The Primary Purpose of the «lex Cornelia de sicariis», in
“Zeitschrift der Savigny-Stiftung für Rechtsgeschichte. Rom.
Abt.” LXXXVI (1969), 265 ss.; C.
Gioffredi, L’elemento intenzionale
nel diritto romano, cit., 49; F.
Casavola, Cultura e scienza
giuridica nel II secolo d.C.: il senso del passato, in Aufstieg und Niedergang der römischen Welt, II.15, W. de Gruyter,
Berlin-New York 1976, 146 nt. 25; A.D.
Manfredini, Contributi allo studio
dell’«iniuria» in età repubblicana, A. Giuffrè, Milano 1977, 245; L. Rodríguez Alvarez, La tentativa de homicidio en la
jurisprudencia romana, cit., 9; G.
Pugliese, Linee generali
dell’evoluzione del diritto penale pubblico durante il principato, cit.,
761 s.; M. Balzarini, Appunti sulla «rixa» nel diritto criminale
romano, in “Labeo” XXVIII (1982), 20 ss.; Id.,
«De iniuria extra ordinem statui».
Contributo allo studio del diritto penale romano dell’età classica, CEDAM,
Padova 1983, 41 ss.; Evelyn Höbenreich,
überlegungen
zur Verfolgung unbeabsichtigter Tötungen von Sulla bis Hadrian, cit., 296
ss.; O. Milella, Il consensus del ‘dominus’ e l’elemento
intenzionale nel furto, in “Bullettino dell’Istituto di Diritto Romano” XCI
(1988) [ma 1992]), 415 ss.
[110] V. Marotta, ‘Multa de iure sanxit’. Aspetti della politica del diritto di Antonino
Pio, A. Giuffrè, Milano 1988, 298 ss., 300 per testo della citazione.
[111] Nel
commentare la parte finale del capitolo III, Girolamo Olives (Hieronymi Olives, Commentaria et Glosa in Cartam de Logu, cit., 14) ha sottolineato
due aspetti, relativamente importanti, per la corretta applicazione della
norma. Il primo riguarda la titolarità del giudizio, che nell’interpretazione
del giurista si configura come un atto esclusivo delle prerogative sovrane: «Ex
quo apparet, quod ista poena debet arbitrari per Dominum, et non per eius
Officialem». Il secondo aspetto concerne, invece, l’entità della pena demandata
all’arbitrium del sovrano: in ogni
caso essa «debet esse semper minor, quam ipsa ordinaria, quae veniret imponenda
pro delicto».
[112] A. Marongiu, Sul probabile redattore della Carta de Logu, ora in Id., Saggi di storia giuridica e politica sarda, cit., 61 ss.
[113] A. Marongiu, Sul probabile redattore della Carta de Logu, ora in Id., Saggi di storia giuridica e politica sarda, cit., 62 s.: «Se però
si guarda al diritto penale romano la massima su riportata resta introvabile. È
vero che varie costituzioni imperiali punissero di pari pena il responsabile
principale e colui che auxilium praebuerit e qualche altra disposizione
anche i consocios, consocios criminis o facti ed è pur
noto che nell’editto di Teodorico si legge che ministri et conscii sono pariter
puniendi; ma nessuno di questi testi
reca la massima letteralmente riprodotta dal legislatore arborense. Bisogna
quindi cercarla altrove, fuori dai testi romani, in un’altra fonte generale,
cioè nel diritto canonico, sebbene questo orientamento non possa, a prima
vista, non apparire arbitrario quando si tenga presente che, per quel che ne
sappiamo, non vi è alcun precedente di norme statutarie le quali diano al
diritto canonico l’autorità di fonte superiore di diritto: ossia di fonte per
eccellenza, a preferenza del diritto romano. è
però proprio nel diritto canonico che si riscontra la massima in questione:
precisamente nel “Decreto” di Graziano (c. 5, C. XVII, qu. 4) in cui si legge par … pena et agentes et consentientes
comprehendit e nelle Decretali (c. 1, Alex. III, I, XXIX) in cui si trova
detto, proprio come ripeterà la carta arborense, che agentes et consentientes pari poena scripturae testimonio puniuntur». Naturalmente lo studioso non
nega la fortissima influenza di norme di diritto romano sulla legislazione
penale della Carta de Logu: cfr. A. Marongiu, Delitto e pena nella “Carta de logu” d’Arborea, ora in Id., Saggi
di storia giuridica e politica sarda, cit., 85.
[114] Cfr.
anche Decretum Gratiani, I, Dist.
LXXXVI, c. III: Facientis culpam
proculdubio habet, qui, quod potest corrigere, negligit emendare. Scriptum
quippe est: Non solum, qui faciunt, sed etiam qui consentiunt facientibus:
participes iudicantur. Et libat Domino prospera, qui ab afflictis pellit
adversa. Et negligere, cum possis deturbare perversos; nihil aliud est, quam
fovere. II, C. II, q. I, c. X: Notum sit tuae fraternae charitati, iste presbyter
pauper, nomine Christophorus de sua angustia ad nostram clementiam
lacrymabiliter sit conquestus: dicens se falsis criminibus impetitum, et ab
ecclesia sua non convinctum, neq; confessum, irrationabiliter fuisse eiectum.
Nam, ut ipse refert, tua diligentia per tres vices inquisitione facta, nulla se
neque de fornicationis crimine, neq; de homicidij consensione (de quibus
impetebatur) reperiri potuit culpa: nisi quia suae pauperitatis causa, quae
petebantur, aut consentire noluit, aut implere non potuit. Quae suus tamen
aemulus ultroneus egit, qui iniuste illius ecclesiam praeripuit. Idcirco
magnopere monemus reverentiam tuam, ut etiam quae, te forte ignorante, gieziaca
cupiditate peracta esse videntur, tuae fraternitatis censura celeri emendatione
corrigantur; scilicet restituendo ecclesiae proprie iam dictum sacerdotem,
atque ei reddendo tua pietate pristinum, quem perdidit, honorem; et nullatenus
canonica instituta alicuius temeritate contemni permittas: quia facientem et
consentientem par poena constringit.
[115] A. Marongiu, Sul probabile redattore della Carta de Logu, ora in Id., Saggi di storia giuridica e politica sarda, cit., 62 s.
[116] Cfr. Hieronymi Olives, Commentaria et
Glosa in Cartam de Logu, cit., 13-14: «Nota secundum istum text. duo. Primum
est, quod agentes , et consentientes pari poena debent puniri, secundo ex isto
tex. notatur, dum dicit secundum leges, quod de iure communi est idem. Quaero
ergo an hoc sit verum, quod de iure communi agentes, et consentientes pari
poena puniuntur, et circa hoc reperiuntur varia iura».
[117] A. Marongiu, Delitto e pena nella “Carta de logu” d’Arborea, ora in Id., Saggi
di storia giuridica e politica sarda, cit., 78 e nt. 16.
[118] Sulla
regolamentazione romana del concorso di più persone al reato, vedi C. Ferrini, Diritto penale romano. Esposizione storica e dottrinale, cit., 107
ss.; L. Chevailler, Contribution à l’étude de la complicité en
droit pénal romain, in “Revue historique de droit français et étranger”
XXXI (1953), 200 ss.; C. Gioffredi, I principi del diritto penale romano,
cit., 111 ss.; da ultimo, V.M. Amaya
García, Coautoría y complicidad:
estudio histórico y jurisprudencial, Dykinson, Madrid 1993, ivi in
particolare vedi 15 ss.
[119] Per
quanto riguarda le caratteristiche e la ricostruzione del quadro complessivo
dei libri de officio proconsulis di
Ulpiano, vedi F. Schulz, Storia della giurisprudenza romana,
cit., 439 ss.; per una puntuale analisi dei frammenti superstiti di ciascun
libro, vedi invece A. Dell’Oro, I ‘libri de officio’ nella giurisprudenza
romana, A. Giuffrè, Milano 1960, 117 ss.; resta naturalmente indispensabile
O. Lenel, Palingenesia iuris civilis, vol. II, Ex officina Bernhardi,
Tauchnitz, Leipzig 1889, coll. 966 ss. Più in generale, sulla complessa figura
del giurista, anche in rapporto alla sua produzione letteraria, cfr. P. Frezza, La cultura di Ulpiano, in “Studia et documenta historiae et iuris”
XXXIV (1968), 363 ss.; G. Crifò, Ulpiano. Esperienze e responsabilità del giurista, in Aufstieg und
Niedergang der römischen Welt, II.15, W. de Gruyter, Berlin-New York 1976,
708 ss. (su cui, però, vedi i rilievi di M. Talamanca, Per la
storia della giurisprudenza romana, in “Bullettino dell’Istituto di Diritto
Romano” LXXX [1977], 236 ss.); T.
Honoré, Ulpian, Clarendon
Press, Oxford 1982.
[120] Sul
frammento ulpianeo vedi C. Ferrini, Diritto penale romano. Esposizione storica
e dottrinale, cit., 122; A.
Dell’Oro, I ‘libri de officio’
nella giurisprudenza romana, cit., 163; J.D. Cloud, Parricidium:
from the lex Numae to the lex Pompeia de parricidiis, in “Zeitschrift der
Savigny-Stiftung für Rechtsgeschichte. Rom. Abt.” LXXXIII (1971), 53 s.; Lucia Fanizza, Il parricidio nel sistema della ‘lex Pompeia’, in “Labeo” XXV
(1979), 288 s.; E. Nardi, L’otre dei parricidi e le bestie incluse,
A. Giuffrè, Milano 1980, 6 nt. 3. Per gli aspetti più generali relativi al
parricidio, cfr. H. Kupiszewski, Quelques remarques sur le ‘parricidium’ dans
le droit romain classique et post-classique, in Studi in onore di Edoardo Volterra, vol. IV, A. Giuffrè, Milano
1971, 602 ss.
[121] Lo
stesso insegnamento viene riproposto nelle ‘Istituzioni’ di Giustiniano: Inst. 4.18.6: Alia deinde lex asperrimum crimen nova poena persequitur, quae Pompeia
de parricidiis vocatur. Qua cavetur, ut, si quis parentis aut filii aut omnino
adfectionis eius, quae nuncupatione parricidii continetur, fata properaverit,
sive clam sive palam id ausus fuerit, nec non is, cuius dolo malo id factum
est, vel conscius criminis existit, licet extraneus sit, poena parricidii
punietur.
[122] Sulla
biografia e sulla carriera del giurista, vedi Lucia
Fanizza, Giuristi crimini leggi
nell’età degli Antonini, Jovene, Napoli 1982, 104 ss.; e A. Ruggiero, L. Volusio Meciano tra giurisprudenza e burocrazia, Jovene, Napoli
1983, 9 ss., il quale dedica un intero capitolo della sua monografia ad
esaminare «Il problema biografico di L. Volusio Meciano»; cfr. anche G. De Cristofaro, Note di prosopografia e bibliografia, in F. Casavola, Giuristi
adrianei, cit., 328 ss.; infine Andreina
Magioncalda, Osservazioni sulla
carriera di L. Volusio Meciano, in “Materiali per una storia della cultura giuridica”
XXXVI.2 (dicembre 2006), 467-476.
[123] Per
quanto riguarda la determinazione della provenienza del testo di Meciano,
citato nel frammento ulpianeo, T.
Honoré, Ulpian, cit., 221,
pensa che potrebbe trattarsi di una citazione dal de iudiciis publicis: «In his work on the office of proconsul
Ulpian refers to Maecianus when dealing with the lex Pompeia de parricidiis. The reference is probably to Maecianus’ fourteen book
work on iudicia publica». Inquadra
invece, con puntuali osservazioni, «la figura del conscius» nella riflessione penalistica del giurista Meciano Lucia Fanizza, Giuristi crimini leggi nell’età degli Antonini, cit., 87 ss.: «La
decisione, di particolare severità, si iscrive nella linea del pensiero di
Meciano, e va letta in parallelo alla soluzione adottata circa l’applicabilità
ai servi impuberi ministri vel partecipes
caedis delle disposizioni del senatoconsulto Silaniano. [...] Nell’ipotesi
dei conscii la valutazione
dell’elemento intenzionale è portata alle estreme conseguenze: almeno per i
crimini di maggiore rilievo sociale, il comportamento omissivo produce gli
stessi effetti della compartecipazione attiva. Secondo una metodologia ormai
consolidata, l’interprete costruisce una sistematica della repressione che
ruota intorno alle reali intenzioni dell’agente, comunque esse vengano
manifestate». Infine, per una analisi più ampia sulle problematiche relative al
rapporto tra «tecnica e diritto nell’opera di L. Volusio Meciano», vedi A. Ruggiero, L. Volusio Meciano tra giurisprudenza e burocrazia, cit., 31 ss.;
brevemente, cfr. anche F. Amarelli,
Consilia principum, Jovene, Napoli
1983, 88 s.
[124] Sul
testo citato cfr. C. Ferrini, Diritto penale romano. Esposizione
storica e dottrinale, cit., 122 s.; A. Wacke, Notwehr und Notstand bei der aquilischen Haftung, in "Zeitschrift
der Savigny-Stiftung für Rechtsgeschichte. Rom. Abt." CIXX (1989), 487.
[125] C.I. 9.13.1.3 (Imp.
Iustinianus A. Hermogeni magistro officiorum): Poenas autem quas praediximus, id est mortis et bonorum amissionis,
non tantum adversus raptores, sed etiam contra eos qui hos comitati in ipsa
invasione et rapina fuerint constituimus. Ceteros autem omnes, qui conscii et
ministri huiusmodi criminis reperti et convicti fuerint vel eos susceperint vel
quamcumque opem eis intulerint, sive masculi sive feminae sunt, cuiuscumque
condicionis vel gradus vel dignitatis, poenae tantummodo capitali subicimus, ut
huic poenae omnes subiaceant, sive volentibus sive nolentibus virginibus seu
aliis mulieribus tale facinus fuerit perpetratum.
[126]
Quanto poi all’influenza di queste costituzioni giustinianee sulla prassi
giuridica dell’età intermedia e del rinascimento, vedi G.P. Massetto, I reati
nell’opera di Giulio Claro, in “Studia et documenta historiae et iuris” XLV
(1979), 471 ss.; ma anche A. Laingui,
La théorie de la complicité dans l’ancien
droit penal, in “Tijdschrift voor Rechtsgeschiedenis” XLV (1977), 43 ss.
[127] Per
un inquadramento generale di questa sezione della Carta arborense, risulta ancora utile Hieronymi Olives, Commentaria
et Glosa in Cartam de Logu, cit., 87, il quale si sofferma anche
sull’esplicazione del termine nunza
(«Nunça. Idem est, quod citatio, vel notificatio, quasi nuntio a nuntio, est
enim latinum corruptum, ut saepe dixi, quod lingua Sarda est latinitas
corrupta, quod nunça fit citatio, vel notificatio de aliquo actu probatur infra
cap. 52 de Corona, et in cap. 53 de nunça de Corona, et in cap. 55, in rubric.
de nunças, et in cap. 58 rubr. de mandare nunça»).
Ma a
proposito del processo civile nella Sardegna giudicale cfr., fra gli altri, E. Besta, La Carta de Logu quale monumento storico-giuridico, cit., 31 ss.; Id., La Sardegna medioevale, 2. Le
istituzioni politiche, economiche, giuridiche e sociali, cit., 228 ss.; R. Di Tucci, Nuove ricerche e documenti sull'ordinamento giudiziario e sul processo
sardo nel Medio Evo, Tip. G. Ledda, Cagliari 1923; A. Checchini, Note sull'origine delle istituzioni processuali della Sardegna
medioevale, in Id., Scritti giuridici e storico-giuridici,
vol. II, Storia del processo - Storia del
diritto privato, CEDAM, Padova 1958, 207 ss.; G. Pittiu, Il
procedimento giudiziario nei condaghi e nella Carta de Logu, in “Studi
sardi” IV (1940), 31 ss.; P. Marica,
La Sardegna e gli studi del diritto,
vol. II, Le fonti, Ed. del Gremio, Roma
s. d. (ma 1955), 21 s.; infine, più in generale, Adriana Campitelli, v. Processo
civile (diritto interm.), in Enciclopedia
del Diritto, vol. XXXVI, A. Giuffrè, Milano 1987, 79 ss. (particolare
riferimento alla Sardegna a pagina 86, dove si sostiene, fra l’altro, la
derivazione diretta dei Giudici della Sardegna medioevale da funzionari
giurisdizionali «dei territori legati a Bisanzio»).
[128] La
parola corona si legge nel Ms. (cfr. E. Besta-P.E.
Guarnerio, Carta de Logu de
Arborea. Testo
con prefazioni illustrative, cit., 40; G. Lupinu (a cura), Carta
de Logu dell’Arborea, cit., 120), laddove l’edizione incunabola ha la
parola carta; ma la correzione «corona» è già presente anche nelle
antiche edizioni a stampa: vedi, per tutti, Hieronymi
Olives, Commentaria et Glosa in
Cartam de Logu, cit., 130; G.M.
Mameli De’ Mannelli, Le
Costituzioni di Eleonora giudicessa d'Arborea intitolate Carta de Logu, cit., 92; da ultimo, F.C. Casula, La "Carta de Logu" del regno di Arborea, cit., 108.
[129] La
correzione di «informando»
dell’edizione incunabola in «infirmando»
è basata sul Ms.: cfr. E. Besta-P.E.
Guarnerio, Carta de Logu de
Arborea. Testo con prefazioni illustrative, cit., 40; G. Lupinu (a cura), Carta de Logu dell’Arborea, cit., 120;
ma anche le edizioni a stampa, successive alla prima, contenevano già la
correzione (cfr. Hieronymi Olives,
Commentaria et Glosa in Cartam de Logu,
cit., 130: «sequitur litera, quae etiam hic est mendosa non informando, vult
stare non infirmando, id est revocando cartam localem»; G.M. Mameli De' Mannelli, Le
Costituzioni di Eleonora giudicessa d'Arborea intitolate Carta de Logu, cit., 92; F.C. Casula, La "Carta de Logu" del regno di Arborea, cit., 108).
[130] Carta de Logu, cap. LXXVII (De chertos dubitosos) [trad. italiana]:
«Vogliamo ed ordiniamo: accade che nelle nostre coronas de logu, e
nelle altre coronas tenute per Noi
dal nostro armentariu (de logu), molte volte fra i
"liberi" componenti la corona si crei divisione, discordia e
divergenza nel giudicare qualche lite; e siccome desideriamo che in ogni nostro
territorio regni la giustizia e la ragione, e che non si perdano a causa delle
suddette divisioni, vogliamo ed ordiniamo che se in qualcuna delle dette coronas
perverrà qualche vertenza grave e dubbia che arreca incertezza e divisione
fra i "liberi" giudicanti, allora il nostro armentariu de logu,
o altro funzionario regio presente o futuro, insieme con alcuni
"liberi" della corona, scelti da lui stesso, sia tenuto
a chiedere parere ai savi della nostra Corte, e ciò che essi delibereranno
all'unanimità o a maggioranza verrà letto e reso pubblico come sentenza
definitiva in corona, alla presenza delle parti in causa. E se
non sarà appellata entro il tempo legittimo di dieci giorni, come comanda la
legge, la detta sentenza sia mandata ad esecuzione, sempreché non infirmi la Carta
de Logu».
Riflessioni
sul tenore del capitolo, con un commento che risulta nel complesso ancora assai
utile, in Hieronymi Olives, Commentaria et Glosa in Cartam de Logu,
cit., 130 s.; dove si identifica, peraltro senza alcuna esitazione, la parola sa lege
con l’espressione ius commune: «Quod idem est dicere, quod
mandetur executioni tale pronunciatum, nisi partes, vel altera earum appellent
infra tempus a iure communi statutum non revocando cartam, idest, nisi talis
sit lis super qua aliter sit dispositum per cap. cartae, vel circa
appellationem, vel modum eius, vel circa executionem» (130). Cfr. anche E. Besta, La Carta de Logu quale monumento storico-giuridico, cit., 36.
[131] Carta de Logu, cap. LXXVIII (De appellationibus)
[trad. italiana]: «Stabiliamo ed ordiniamo che ciascuna persona che si sentisse
gravata da una sentenza contraria in una causa davanti ad un funzionario regio,
quella persona, se vuole, si può appellare nel tempo ordinato dalla ragione due
volte – e non di più – secondo quanto specificato sopra; ogni altro appello,
oltre i due concessi, non deve essere accolto».
Cfr.
C.I. 7.70 [Ne liceat in una eademque
causa tertio provocare vel post duas sententias iudicum, quas definitio praefectorum
roboraverit, eas retractare], 1 (Imp.
Iustinianus A. Menae pp.): Si quis in
quacumque lite iterum provocaverit, non licebit ei tertio in eadem lite super
isdem capitulis provocatione uti vel sententias excelletissimorum praefectorum
praetorio retractare: licentia danda litigatoribus arbitro dato ipsius
audientiam qui eum dedit ante litis contestationem invocare et huiusmodi
petitione minime provocationis vim obtinente. Nov. 82.5: Audient
igitur omnes litem quidem usque ad trecentos solidos existentem sub schemate
adnotationis. Sic enim velocius lites iudicabuntur, et circulis cognitionalibus
ac temporis contritione omnes litigantes liberabuntur. Palam vero est, quia
etsi per adnotationem audiant causas, verumtamen dabunt terminum per scripturam,
qui eorum manifestet sententiam. Appellationibus in his nulli penitus
perimendis, nisi forte tertio appellare voluerit aut per contumaciam defuerit:
talibus enim etiam appellationum perimatur ratio.
Davvero
singolare il commento dell’Olives (Hieronymi
Olives, Commentaria et Glosa in
Cartam de Logu, cit., 132), per il quale la procedura arborense avrebbe
consentito alle parti di appellare per ben quattro volte sulla stessa causa:
«quod non licet, nisi bis appellare ab uno, et eodem gravamine […] hoc intellige
ab una, et eadem parte, quod una pars non potest plusquam bis appellare, sed ab
utraque parte inter ambas quater potest appellari super eadem causa, et
gravamine, idest bis per utranque partem»; ma già il Mameli (G.M. Mameli De' Mannelli, Le Costituzioni di Eleonora giudicessa
d'Arborea intitolate Carta de Logu, cit.,
93 s. nt. 138) riteneva inaccettabile la conclusione del giurista
rinascimentale: «Non mi piace l’intelligenza, che da il Comentatore a questo
Capitolo nella parte, in cui dice di non potersi appellare più di due volte,
onde potesse darsi ‘l caso di quattro giudizj d’appello nella stessa questione.
Non somministra la legge alcun fondamento a quest’intelligenza, vi resiste anzi
lo spirito della medesima, e la stessa lettera, che non soffre più di tre
giudicati in una questione; ed è pure contrario l’ordine de’ Tribunali allora
esistenti in Arborèa, i quali non consistevano che nelle Curie ordinarie, nel
Tribunale di prim’appellazione, e nel Tribunale Supremo, a cui s’appellava la
seconda volta, ignota essendo alla Carta
de Logu la supplicazione allo stesso Tribunale». Sul capitolo cfr.,
anche, G. Zirolia, Ricerche storiche sul governo dei Giudici in
Sardegna e relativa legislazione, cit., 187; E. Besta, La Sardegna
medioevale, 2. Le istituzioni
politiche, economiche, giuridiche, sociali, cit., 241.
[132] Carta de Logu, cap. LXXIX (De appellationibus)
[trad. italiana]: «Inoltre ordiniamo. Qualunque persona, che ritiene di essere
gravata da una sentenza contraria, possa appellare se vuole immediatamente, a
viva voce o per iscritto, entro dieci giorni dal momento in cui è stata emessa
la sentenza; quindi deve farsi rilasciare il documento dell’appello e gli atti
del processo e presentarli alla corte entro altri quindici giorni. A meno che
non sia in grado di dare gli atti del processo entro il tempo suddetto per
colpa e negligenza del notaio ovvero dello scrivano».
Hieronymi Olives, Commentaria et Glosa in Cartam de Logu, cit., 132 s.
[133] Carta de Logu, cap. LXXX (De appellaresi)
[trad. italiana]: «Vogliamo e ordiniamo, per evitare spese ai nostri sudditi
che vanno in causa, che non si osi né si debba promuovere appello presso di
noi, i nostri ufficiali o i nostri uditori riguardo a sentenze e giudizi
pronunziati dal nostro armentargiu de Logu
e da altro nostro ufficiale su questioni o liti con pene dai 100 soldi in giù.
Nel caso vi sia istanza di appello, stabiliamo che non abbia valore, poiché
vogliamo che valga la sentenza data con delibera dai nostri ufficiali in tale
causa: essa dovrà essere mandata a esecuzione nei modi previsti dai giudici».
C.I.
7.62.37.pr. (Imp. Iustinianus A. Menae
pp.): In offerendis provocationibus,
ex quibus consultationum more negotium in nostrum sacrum palatium introduci
solebat, hoc addendum esse censemus, ut, si quidem non excedat litis aestimatio
decem librarum auri quantitatem, ex ipsa scilicet sententia iudicis
discernenda, non duobus, sicut antea, magnificis iudicibus, sed uni tantummodo
disceptatio negotii deputetur. Brevemente sul cap. LXXX, vedi Hieronymi Olives, Commentaria et Glosa in Cartam de Logu, cit., 133; G.M. Mameli De' Mannelli, Le Costituzioni di Eleonora giudicessa
d'Arborea intitolate Carta de Logu, cit.,
94 s.
[134] Più
in generale, sui tempora appellandi, vedi R. Orestano, L’appello
civile in diritto romano, 2a ed.,
Giappichelli, Torino 1953, 237 ss.
[135] Sulla
disciplina dell’appello, in alcuni casi anche con particolare riferimento alla
normativa posta in essere da Giustiniano, vedi per tutti V. Scialoja, Procedura civile romana. Esercizio e difesa dei diritti, a cura di
A. Giannini, Anon. Romana
Editoriale, Roma 1936, 505 ss.; L.
Wenger, Istituzioni di procedura
civile romana, trad. italiana, A. Giuffrè, Milano 1938, 302 ss.; R. Orestano, L’appello civile in diritto romano, cit. in nt. precedente; Id., v. Appello, in Novissimo Digesto
Italiano, I, UTET, Torino 1957, 723 ss.; L.
Raggi, Studi sulle impugnazioni
civili nel processo romano, I, A. Giuffrè, Milano 1961, in part. 109 ss.; A.H.M. Jones, The Later
Roman Empire, 284-602, Blackwell, Oxford 1974, 470 ss. [trad.
italiana: Il tardo impero romano,
(284-602), Il Saggiatore, Milano 1974, 695 ss.]; M. Kaser, Das römische
Zivilprozessrecht, Beck, München 1966, 507 ss.; A. Padoa Schioppa, Ricerche
sull’appello nel diritto intermedio, I, A. Giuffrè, Milano 1967, 13 ss.; F. De Martino, Storia della costituzione romana, vol. V, 2ª ed., Jovene, Napoli
1975, 485 ss.; P.E. Pieler, Gerichtsbarkeit. D.
Dominat, in Reallexikon
für Antike und Christentum, vol. X, Anton Hiersemann Verlag, Stuttgart
1978, coll. 391 ss., in part. 434 ss.; I.
Buti, La ‘cognitio extra ordinem’
da Augusto a Diocleziano, in Aufstieg
und Niedergang der römischen Welt, II.14, W. de Gruyter, Berlin-New York
1982, 29 ss. (sull’appello 54 ss.); J.
Caimi, Burocrazia e diritto nel
«De magistratibus» di Giovanni Lido, A. Giuffrè, Milano 1984, 287 ss.; J.L.
Linares Pineda, Para un estudio de los límites de la
apelación romana, in “Seminarios complutenses de derecho romano” III
(1991), 105 ss.; F. Goria, La giustizia nell’impero romano d'Oriente:
organizzazione giudiziaria, in La
giustizia nell'alto medioevo (secoli V-VIII), 7-13 aprile 1994, Settimane
di studio del Centro Italiano di Studi sull'Alto Medioevo XLII, presso la sede
del Centro, Spoleto 1995, 273 ss.; F.
Pergami, L’appello nella
legislazione del tardo impero, [Accademia Romanistica Costantiniana.
Materiali per una palingenesi delle costituzioni tardo-imperiali. Sotto la
direzione di MANLIO SARGENTI. Serie Terza, Monografie 2] Giuffrè, Milano 2000,
in particolare su Giustiniano e sui termini per appellare 222 ss., 387 ss.
[136] In
forma variamente compendiata, la Novella 23 è pervenuta anche nelle Epitomi
greche di Teodoro e Atanasio (Epit. Theod.
23; Epit. Athan. 7.2) e nell’Epitome
latina di Giuliano (Epit. Iuliani 24).
[137]
Un’approfondita analisi della costituzione viene delineata da W. Litewski, Die römische Appellation in Zivilsachen (IV), in “Revue
internationale des droits de l’antiquité”, 3e s., XV (1968), 152 ss., quarta
parte della vasta ricerca dello studioso polacco sull’appello, sostanzialmente
dedicata allo studio dell’«Appellationsverfahren» (vedi anche Id., Die römische Appellation in Zivilsachen (Ein Abriss), I. Principat, in Aufstieg und Niedergang der römischen Welt, II.14, W. de Gruyter,
Berlin-New York 1982, 60 ss.); sul contenuto della Novella 23, cfr. anche il
più recente lavoro di J. Caimi, Burocrazia e diritto nel «De magistratibus»
di Giovanni Lido, cit., 320 ss.
[138] Nov.
23.3: Illud etiam in tertio capitulo
disponendum est, quod antiquitas bene statuit, novitas autem neglexit. Cum enim
veneranda vetustatis auctoritas ita magistratus digessit, ut alii maiores, alii
medii, alii minores sint, et appellationes a minoribus iudicibus non solum ad
maximos iudices remitterentur, sed ad spectabilium iudicum tribunal quatenus et
ipsi sacro auditorio adhibito litem exercerent, novitas autem hoc dereliquit:
evenit, ut super minimis causis maximi nostri iudices inquitentur et homines
propter minimas causas magnis fatigentur dispendiis, ut forsitan totius litis aestimatio
ad sumptus iudiciales non sufficeret. Ideoque sancimus, si quando ex Aegyptiaco
tractu vel adiuncta ei utraque Libya provocatio speratur usque ad decem
librarum auri quantitatem, non in hanc regiam urbem eam venire, sed ad
praefectum augustalem, qui audiat et causam dirimat vice sacri cognitoris,
nulla ei post definitivam sententiam appellatione porrigenda. Similique modo
quoties in Asiana diocesi vel Pontica tale aliquid emerserit usque ad
praedictam quantitatem decem librarum auri, appellationes ad viros spectabiles,
comites forte vel proconsules vel praetores vel moderatores, quibus specialiter
easdem lites peragendas deputavimus, remittantur, quatenus et hi ad
similitudinem praefecti augustalis vice sacri cognitoris intercedant et causas
sine spe quidem appellationis, dei tamen et legum timore perferant decidendas.
Orientalem autem tractum causas appellatione suspensas et usque ad decem
librarum auri quantitatem limitatas ad virum spectabilem comitem Orientis
mittere simili modo audientiam et finem eis impositurum.
[139] Nov.
23.4: Illo videlicet observando, ut viri
spectabiles iudices non ad alios eadem spectabilitate decoratos iudices suas
transmittant appellationes in litibus quantaecumque quantitatis, cum non
oporteat ad compares iudices appellationes referri, sed a minore iudicio in
maius tribunal ascendere. Sed ad illustrissimam praefecturam illorum
appellationes, cuiuscumque sint quantitatis, ut dictum est, dirigantur, qui una
cum viro excelso pro tempore quaestore eas dirimat; utroque officio subministrante,
id est tam ex sacris scriniis more solito quam praefectorio. Ita tamen haec
sancimus, ut nec a ducibus vel aliis spectabilibus iudicibus, quibus forte,
etsi privati sint, imperialis maiestas causas iniunxerit, appellatio ad
memoratos spectabiles iudices currat, ne causa non gradatim procedere, sed
perperam videatur: sed a praesidibus quidem provinciarum et iudicibus a nobis
datis, si non sint spectabiles iudices, intra memoratam quantitatem referetur.
Si autem vel illustres sint dati a nobis iudices quibus apices dignitatum super
spectabilitatem sunt, vel duces qui omnimodo spectabilitate sunt decorati, vel
hi qui a principe delegati sunt spectabilem habeant dignitatem, eorum
appellationes sub quacumque quantitate in hanc regiam urbem ad competentes
antiquo more iudices referuntur. Omnibus aliis, quae in appellationibus statuta
sunt vel ab antiqua prosapia vel ab auctoritate anteriorum constitutionum vel a
nostra humanitate, intactis illibatisque custodiendis.
[140] Per
una visione generale di questa materia rinvio a E. Besta, La Sardegna
medioevale, 2. Le istituzioni
politiche, economiche, giuridiche, sociali, cit., 181 ss., il quale notava
fra l’altro: «Il diritto successorio sardo, in pieno accordo con l’assetto
famigliare, che già si è descritto, non rispondeva più in modo esatto ai
dettami della legislazione giustinianea, sebbene non offra d’altro canto sicura
traccia di quelle deviazioni da essa che si ebbero per opera dei posteriori
legislatori bizantini. Il divario da quella si affermava di già nella
successione legittima che in Sardegna, come del resto in tutte le regioni
italiche, era diventata, nel medioevo, la dominante». Cfr. inoltre G. Zirolia, Ricerche storiche sul governo dei Giudici in Sardegna e relativa
legislazione, cit., 179 ss.
[141] Per
l’integrazione ho seguito il testo del Ms., così come pubblicato da E. Besta-P.E. Guarnerio, Carta de Logu de Arborea. Testo con
prefazioni illustrative, cit., 45; non molto differente la lettura proposta
da Giovanni Lupinu: G. Lupinu (a
cura), Carta de Logu dell’Arborea,
cit., 136: «Et isa dita occagione si depiat provari legitimamente per icusos a qui ant aviri lasadus
sos benes isoro infra uno mesi dae sa
die de sa morte de su testadore».
[142] Carta de Logu, cap. XCVII (De deseredari) [trad. italiana]:
«Vogliamo ed ordiniamo che nessuna persona del nostro regno di Arborea usi
diseredare figlioli o nipoti nati dai propri figli, dei diritti a loro
spettanti per parte di padre o di madre, tranne nel caso che il padre e la
madre prima di morire lo lascino detto esplicitamente e con ragione. E questa
ragione dev’essere provata legittimamente da parte di colui che sarà il
beneficiario dell'eredità, entro un mese dalla morte del testatore». Cfr. Hieronymi Olives, Commentaria et Glosa in Cartam de Logu, cit., 143 ss.; con un ampio
commento al capitolo fortemente ancorato alla dottrina dello ius commune.
[143] Carta de Logu, cap. XCVIII (De coyamentos)
[trad. italiana]: «Costituiamo ed ordiniamo che, se una persona fa sposare sua
figlia con la dote, non sia tenuta a lasciarle in vita o in morte nient'altro
in più di ciò che le ha già dato, se non per sua stessa volontà. Se però non ha
altri figli, dovrà lasciare (alla figlia maritata) la sua parte secondo
ragione, contando in questa parte la dote che aveva avuto in precedenza. La
stessa cosa intendasi per tutti i suoi discendenti. Del rimanente potrà
disporre a piacimento. Nel caso che uno morisse intestato, gli succederà la
figlia sposata, insieme coi fratelli e le sorelle, scontata dalla parte la dote
che aveva già avuto».
Nel
commento dell’Olives si sottolinea, a ragione, il legame di questo capitolo con
il precedente (Hieronymi Olives, Commentaria et Glosa in Cartam de Logu,
cit., 146): «Fuit dictum supra in cap. praecedenti, qualiter filij debeant
institui, vel a parentibus exhaeredari, nunc tex. capituli nostri venit
limitando, et declarando supradictam materiam, et dicit, si quis tradiderit
filiam nuptui ad dotem, et sic eam dotaverit, quod non tenetur relinquere tali
filiae dotatae inter vivos, neque tempore mortis suae, nisi id, quost ei
dederit in dotem, nisi ad libitum suum, idest nisi voluerit ei quid plus
relinquere».
[144] Hieronymi Olives, Commentaria et Glosa in Cartam de Logu, cit., 146: «nam si parens
non habeat alium natum, nisi ipsam solam filiam nuptam, et dotatam, debet
relinquere tali filiae legitimam, illud enim vult dicere text. dum dicit sa
parti sua, secundum ius, in qua tamen legitima debet talis filia conferre
dotem, quam prius habuit, et haec intelligantur, non tantum de filia nupta, et
dotata, sed etiam de omnibus ex ea descendentibus, et sic de nepotibus, et de
neptibus talis filiae nuptae, et dotatae»; cfr., nello stesso senso, G.M. Mameli De' Mannelli, Le Costituzioni di Eleonora giudicessa
d'Arborea intitolate Carta de Logu, cit.,
110 nt. 161.
[145] E. Besta, La Carta de Logu quale monumento storico-giuridico, cit., 58 s.: «A
queste norme diede evidentemente larga ispirazione il diritto romano ed anche
la successione ab intestato fu
essenzialmente regolata secondo le leggi giustinianee. Il c. 99 stabilì però
che i beni del figlio ereditati dall’uno dei genitori ove egli fosse morto in
età minore spettassero al genitore superstite salvo che il coniuge premorto non
avesse altrimenti disposto con una sostituzione pupillare e il c. 98 volle che
le donne dotate, in concorrenza con i fratelli, dovessero star paghe alla dote
ricevuta in occasione del loro matrimonio. Ma il cap. 97 disciplinò le
diseredazioni secondo le norme della Novella 115 e forse pur nelle forme dei testamenti
si intese ritornare al diritto comune».
[146] Sul contenuto della Novella 115 in materia ereditaria,
vedi fra gli altri: C.F. Glück, Ausführliche Erläuterung der Pandecten nach
Hellfeld ein Commentar, VII. 1, Palm, Erlangen 1804, 209 ss. [Commentario
alle Pandette di Federigo Glück, Libro V, tradotto e annotato da B. Brugi, Vallardi, Milano 1893, 507
ss.]; K.E. Zachariä von Ligenthal,
Geschichte des griechisch-römischen
Rechts, um ein Vorwort von M. San
Nicolò, vermehrter Neudruck der dritten Auflage (1893), Scientia, Aalen
1955, 165 ss.; C. Ferrini, Manuale di Pandette, SEI, Milano 1900,
780 s.; K. von Czyhlarz, Lehrbuch der Institutionen des römischen
Rechtes, elfte und zwölfte verbesserte Auflage, Tempsky, Wien-Leipzig 1911,
317 s.; R. Sohm, Institutionen. Geschichte und System des
römischen Privatrechts, vierzehnte, neu durchgearbeitete Auflage, Duncker
& Humblot, Leipzig 1911, 745 ss.; B.
Windscheid, Diritto delle Pandette,
III, trad. italiana di C. Fadda e
P.E. Bensa, [nuova rist.
stereotipa] UTET, Torino 1925, 274 ss.; P.
Bonfante, Istituzioni di diritto
romano, [Opere complete di Pietro
Bonfante, X] Ristampa corretta della 10a ed. (1946) a cura di G.
Bonfante e di G. Crifò, A.
Giuffrè, Milano 1987, 514; P. Voci,
Diritto ereditario romano, II. Parte speciale. Successione ab intestato.
Successione testamentaria, 2ª ed., A. Giuffrè, Milano 1963, 738 ss.; J. Iglesias, Derecho romano. Instituciones de derecho privado, sexta edición
revisada y aumentada, Anel, Barcelona 1972, 679 s.; A. Burdese, Manuale di
diritto privato romano, 3a ed., UTET, Torino 1975, 671; V. Arangio-Ruiz, Istituzioni di diritto romano, XIV edizione riveduta, Jovene,
Napoli 1978, 549 s.; G. Pugliese, con
la collaborazione di F. Sitzia e
L. Vacca, Istituzioni di diritto romano. Sintesi, G. Giappichelli, Torino
1994, 571; M. Talamanca, Istituzioni di diritto romano, A.
Giuffrè, Milano 1990, 772; P. Voci,
Istituzioni di diritto romano, 4a
ed., A. Giuffrè, Milano 1994, 624 s.; M.
Marrone, Istituzioni di Diritto
Romano, 2ª ed., Palumbo, Palermo 1994, 663; C. Sanfilippo, Istituzioni
di Diritto Romano, 9a ed., curata ed aggiornata da A. Corbino e A. Metro, Rubbettino, Soveria Mannelli-Messina 1996, 440; D. Dalla-R. Lambertini, Istituzioni di diritto romano, G.
Giappichelli, Torino 1996, 483 s.
Quanto
poi all’influenza della Novella 115 nella successiva legislazione medioevale,
con particolare riferimento a quella longobarda, vedi B. Paradisi, Il prologo
e l’epilogo dell’Editto di Rotari, in “Studia et documenta historiae et
iuris” XXXIV (1968), 16 [= Id., Studi sul medioevo giuridico, vol. I, Istituto storico italiano per il Medio Evo, Roma
1987, 204]: «Non a caso nei seguenti capp. 168 e 169 si può rilevare l’affinità
con la Nov. 115, 3»; nello stesso senso, in precedenza, N. Tamassia, Le fonti
dell’Editto di Rotari, Spoerri, Pisa 1889, 16; E. Besta, Le fonti
dell’Editto di Rotari, in Atti del I
Congresso di studi longobardi (27-30 settembre 1951), presso l’Accademia spoletina,
Spoleto 1952, 67 nt. 12. Più in generale, su tutta questa problematica è da
vedere anche il saggio di P. Frezza,
L’influsso del diritto romano
giustinianeo nelle formule e nella prassi in Italia, [Ius Romanum Medii
Aevi, pars I, 2, c ee] A. Giuffrè,
Milano 1974.
[147] Cito
il testo della Novella nella versione latina di Authent. 111 = Coll. 8 tit. 12: gloss. Cfr. E. Nardi, Istituzioni di diritto romano, B. Testi 2,
A. Giuffrè, Milano 1975, 276 ss., ivi anche il testo greco con traduzione
italiana.
[149] Così C. Ferrini, Manuale di Pandette, cit., 780 s.: «Giustiniano fonde in un sol
sistema quello formalistico della diseredazione e quello della querela. Si devono istituire ascendenti e
discendenti almeno per una minima porzione (salvo a completare con altre
disposizioni la quantità necessaria), purché non esista alcuna delle giuste
cause, per cui solamente ora è lecito
diseredare. Queste giuste cause sono 14 pei discendenti e 8 per gli
ascendenti; esse devono addursi nominativamente nel testamento. Il
legittimario, al quale è stato lasciato (o in forma di istituzione, se
ascendente o discendente; o in qualsiasi forma, se altrimenti) meno del dovuto,
non intenta più la querela, ma un’azione personale contro l’erede o il coerede
per ottenere, il supplemento della
sua parte; tale azione è trasmissibile e non è soggetta alle altre limitazioni
della querela, di cui non partecipa al carattere odioso». Nello stesso senso, G. Pugliese, Istituzioni di diritto romano. Sintesi, cit., 571: «La materia
venne regolata ex novo dalla Nov. 115 (a. 542), con la quale si stabilì che i
discendenti e gli ascendenti potevano essere diseredati solo qualora si fossero
resi colpevoli nei confronti del testatore di gravi atti, tassativamente
previsti dalla legge (e purché non fossero stati perdonati dal testatore
stesso); non era più necessaria la diseredazione nominatim, ma era sufficiente
l’indicazione esplicita della causa di esclusione».
Più
riduttiva, quanto alla portata delle innovazioni introdotte dalla Novella,
appare la posizione di M. Talamanca,
Istituzioni di diritto romano, cit.,
772: «Con Nov. 115.3 e 4, del 542 d.C., la materia subisce un riordino, più che
altro formale, che non innova sull’ammontare della portio legitima: i soggetti presi in considerazione sono soltanto i
discendenti ed i genitori, e non è del tutto sicuro se alla costituzione sia
sopravvissuto il diritto alla legittima di fratelli e sorelle. I legittimari
cui si riferisce la Novella debbono essere istituiti eredi, e ricevere la loro
parte: la preterizione dei legittimari stessi deve essere giustificata in modo
esplicito nel testamento col richiamo ad una delle cause tassativamente
indicate nei due capita della Nov.
115 relativi all’istituto (le enumerazioni sono diverse per l’una e l’altra
classe); in questo sistema non ha più rilievo l’exheredatio formale del diritto classico, ormai decaduta da tempo
nella prassi. Ove non sia indicata nel testamento una di queste cause (o
risulti falsa quella enunciata), il testamento è invalido limitatamente alle heredis institutiones, e si apre la successione ab intestato: le altre
disposizioni conservano però la loro efficacia. Nel caso in cui il legittimario
sia stato istituito per una quota inferiore alla dovuta, la pars debita
può essere integrata mediante donationes
mortis causa e legati; se ciò non avviene soccorre l’actio ad supplendam legitimam».
[150] P. Voci, Diritto ereditario romano, II.
Parte speciale. Successione ab intestato. Successione testamentaria, cit.,
740: «L’erede necessario ingiustamente trascurato ha un diritto di
impugnazione, che conduce alla rescissione del testamento; l’assegnazione di
una quota inferiore alla dovuta permette l’esperimento dell’actio ad implendam legitimam. La
rescissione colpisce propriamente solo le heredis
institutiones, giacché le altre disposizioni rimangono valide».
[151] Le iustae causae ingratitudinis
relative ai figli, decretate dall’imperatore Giustiniano nella Novella 115, caput 3, sono le seguenti: [3.1] Si quis parentibus suis manus intulerit.
[3.2]
Si gravem et inhonestam iniuriam eis ingesserit. [3.3] Si eos in criminalibus causis accusaverit, quae non sunt adversus
principem seu rempublicam. [3.4]
Si cum maleficis ut maleficus versatur, [3.5] vel vitae parentum suorum per venenum aut alio modo insidiari
temptaverit. [3.6] Si novercae suae
aut concubinae patris filius sese miscuerit. [3.7] Si delator contra parentes filius extiterit et per suam delationem
gravia eos dispendia fecerit sustinere. [3.8] Si quemlibet de praedictis parentibus inclusum esse contigerit, et
liberi qui possunt ab intestato ad eius successionem venire, petiti ab eo, vel
unus ex his in sua eum noluerit fideiussione suscipere vel pro persona vel
debito, in quantum esse qui petitur probatur idoneus. Hoc tamen quod de
fideiussione censuimus ad masculos tantummodo liberos volumus pertinere. [3.9] Si convictus fuerit aliquis liberorum, quia
prohibuit parentes suos condere testamentum, ut si quidem postea facere
potuerint testamentum, sit eis pro tali causa filium exheredandi licentia: … [3.10] Si praeter voluntatem parentum inter
arenarios aut mimos sese filius sociaverit et in hac professione permanserit,
nisi forsitan etiam parentes eius professionis fuerunt. [3.11] Si alicui ex praedictis parentibus volenti
filiae suae vel nepti maritum dare et dotem secundum vires substantiae suae pro
ea praestare illa non consenserit, sed luxuriosam degere vitam elegerit. … [3.12] Si quis de praedictis parentibus furiosus
fuerit, et eius liberi vel quidam ex his aut liberis ei non existentibus alii
eius cognati qui ab intestato ad eius hereditatem vocantur obsequium ei et
curam competentem non praebuerint, si quidem a tali sanus fuerit infirmitate,
erit ei potestas utrum velit neglegentem filium vel filios aut cognatos
ingratum vel ingratos in suo scribere testamento. … [3.13] Si unum de praedictis parentibus in
captivitate detineri contigerit et eius liberi sive omnes sive unus non
festinaverint eum redimere, si quidem valuerit calamitatem captivitatis
evadere, in eius sit potestate, utrum hanc causam ingratitudinis testamento suo
velit adscribere; … [3.14] Si quis de
praedictis parentibus orthodoxus constitutus senserit suum filium vel liberos
non esse catholicae fidei nec in sacrosancta ecclesia communicare, in qua omnes
beatissimi patriarchae una conspiratione et concordia fidem rectissimam
praedicare et sanctas quattuor synodos, Nicaenam Constantinopolitanam Ephesinam
primam et Calchedonensem, amplecti seu recitare noscuntur, ****** licentiam pro
hac maxime causa ingratos eos et exheredes in suo scribere testamento.
Sulle causae ingratitudinis legittime, vedi in particolar modo: C.F. Glück, Ausführliche Erläuterung der Pandecten nach Hellfeld ein Commentar,
VII. 1, cit., 210 ss. [Commentario alle Pandette
di Federigo Glück, Libro V, tradotto e annotato da B. Brugi, cit., 509 ss.]; B.
Windscheid, Diritto delle Pandette,
III, cit., 280 ss.; P. Voci, Diritto ereditario romano, II. Parte speciale. Successione ab intestato.
Successione testamentaria, cit., 739 ss.; P.
Nardi, Istituzioni di diritto
romano, C. Guida ai testi, A.
Giuffrè, Milano 1975, 81.
Anche
dopo la sistematizzazione così rigida delle iustae
ingratitudinis causae, con cui Giustiniano fissò in via definitiva, nella
Novella 115 (c. 3 e c. 4), i motivi legittimi di exheredatio per ascendenti e discendenti, che fino ad allora
solevano avvenire quasi esclusivamente ad arbitrio del de cuius; l’indegnità e la diseredazione continuarono a presentare
«differenze radicali»: E. Nardi, I casi di indegnità nel diritto successorio
romano, A. Giuffrè, Milano 1937, 52 ss.; sull’indegnità vedi inoltre P. Voci, Diritto ereditario romano, I.
Introduzione. Parte generale, A. Giuffrè, Milano 1960, 445 ss.
[152]
Novella 115.3.15; cfr. B. Windscheid,
Diritto delle Pandette, III, cit.,
275: «La verità della causa addotta deve, in caso di contestazione, dimostrarsi
dall’erede istituito».
[153] Sas leges prosas cales si regint in Sardigna,
in Carta de Logu. Riproduzione
dell’edizione quattrocentesca, cit., 46 B: «Qui potest deseredare. Ponamus
qui su padri bolit isderedari asu figiu: podet illu faghiri: o non. Narat su
testu quillu podet fagheri in XIIII maneres. Sa prima esti sissu figiu battit a
su padri. Sa segunda esti sillat naradu villania. Sa III esti sillu accusat
quinde curgiat in pena. Sa IIII esti si habitat cum fardonis. Sa V esti si
averit factu consigiu dellu ochiere. Sa VI si su figiu avirit appidu mugiere de
su padri over femina qui averit issu appidu. Sa VII si su figiu accusat a su patri
a su procuradore de su re. Sa VIII si esseret tentu su patri et su figiu
nondellu bolleret bogare de prigione. Sa IX si su patri bolirit faghiri
testamentu et issu fageri non boleret. Sa X si habitat cum gentis condemnados a
sa arena. Sa XI si esti figia femina et boleret illa coyuare su padri, et issa
non bolerit et bahat a su peccadu. Sas XII sissa figia adiminus de XXV annis
illa podet isderedare, ma sidi at plus de XXV annus non la podet diseredare de
su cat. Sas XIII si su patri est sanu et poscha
deventat machu over malaydu, et nolli darint ayudu de meygu: et essu cant et
plus. Sas XIIII si esseret tentu de paganis over de inimicus et non lo bolerent
recaptare. Sa quale q(uestione) est in autentico». Per le varianti
contenute nel testo del manoscritto, cfr. V. Finzi,
Questioni giuridiche esplicative della
Carta de Logu, cit., 137 s.
[154] V. Finzi, Questioni giuridiche esplicative della Carta de Logu, cit., 126:
«Il testo di esso anche è notabile, perché le citazioni vi sono fatte in modo
assai diverso da quello usato nel continente, e le denominazioni delle varie
parti della legislazione giustinianea vi sono riferite per disteso, senza le
solite caratteristiche abbreviature. Inoltre è da avvertire, che vi si indica
sempre il numero dei libri; che il digesto pare usato secondo la tradizionale
tripartizione, e nel fatto non si ricorda che il digestum vetus e il novum, e per ogni parte vi si contano i
libri senza aver riguardo all’unità dell’opera. L’autentico poi appare diviso in collazioni,
le quali vengono chiamate però libri».
[155] V. Finzi, Questioni giuridiche esplicative della Carta de Logu, cit., 126. Mi
pare, invece, eccessivamente ipercritico il giudizio sul giurista sardo
medioevale formulato dal romanista sassarese Vittorio
Devilla, Casi di diritto agrario nelle c. d. “Questioni esplicative della Carta
de logu”, in Testi e documenti per la
storia del Diritto agrario in Sardegna, cit., 98: « Che egli abbia avuto
sia pure una discreta conoscenza del diritto romano ci sembra dubbio. A parte
le scorrettezze che spesso si riscontrano nelle citazioni dei testi romani, le
leggi del Digesto e del Codice che l’autore richiama, non sempre sono citate a
proposito, né opportunamente applicate quelle norme che avrebbero potuto
offrire sicuri elementi per la risoluzione dei casi proposti. è probabile che il compilatore, il
quale ricorre spesso a testi romani assai noti, facesse ricorso a qualche
raccolta allora in uso. Tutto fa ritenere che i testi delle Pandette e del
Codice siano citati di seconda mano. Di solito infatti sono semplicemente
citati ma non si trova mai riprodotto qualche brano o qualche breve regola
contenuta nei fr. che l’autore riporta, né qualche frase che dimostri avere
egli avuto una conoscenza chiara del materiale giuridico che sfruttava».
[156] E. Besta, La Carta de Logu quale monumento storico-giuridico, in E. Besta-P.E. Guarnerio, Carta de Logu de Arborea. Testo con
prefazioni illustrative, cit., 19 s.: . . et vingnas et sos benes sos quales . . . .
. . . . . ut lege naturali, canonica et civili . . . . . . . . . dimus esser
factu in cussu tempus pro su vigore de . . . et esserli riverentis prossa quali
causa . . . . . . . . . . . . errare quantu pro casione de ciò qui sa iusta et
comuni rasone ordinant et in tempus antiguo fuit observadu per issu privilegiu
nostro ordinamus et bolemus qui su patri ad su figiu et non isu figiu ad su
patrj non poçat diseredare dessa legittima sua exceptu cum iusta casione de sa
lege comuni ordinadu.
[157] Vedi,
in tal senso, anche E. Cortese, L'opera di Antonio Era nella storiografia
giuridica sarda. - Nel ricordo di Antonio Era: una proposta per la datazione
della “Carta de Logu” d'Arborea, cit., 21.
[158] Carta
de Logu (Prologo): Cum
ciò siat causa qui su acrescimentu et exaltamentu dessas provincias, rexiones
et terras descendent et bengiant dae sa iusticia et qui per issos bonos
capidulos sa superbia dessos reos et malvagios hominis si affrenent et
constringhant ad cio quisos bonos et puros et innocentes pozant viver et istare
inter issos reos ad seguritades pro paura dessas penas eissos bonos
prossavertudi dessu amore siant tottu hobedientes assos capidulos et
ordinamentos de custa carta de loghu. Impero, Nos Elionora proissa gracia de
deus iuyghissa de Arbaree, contissa de Ghociani et biscontissa de Basso.
Desiderando qui sos fideles et subdictos nostros dessu rennu nostru de Arbaree,
siant informados de capidulos et ordinementos prossos quales pozant vivere et
si pozant conservare in sa via dessa viridadi et dessa iusticia et in bono
pacifichu et tranquillu istadu. Ad honore de deus omnipotente et dessa gloriosa
virgini Madonna sancta Maria mama sua, et pro conservare de iusticia et
pacifichu tranquillu et bonu istadu dessu pobulu dessu rennu nostru predicto et
dessas ecclesias, regiones ecclesiastigas et dessos lieros et bonos hominis et
pobulu tottu dessa dicta terra nostra et dessu rennu de Arbaree, fachimus sas
ordinationes et capidulos infra scriptos sos qualis bolemus et comandamus
expresamenti qui si deppiant attenne et osservare pro legie per ciaschaduno
dessu iuyghadu nostru de Arbaree perdittu in iudiciu et extra. Sa cartha de loghu sa quali cum
grandissimo et providimento fudi facta per issa bona memoria de iuyghi Margiani
padre nostru in qua directu iuyghi de Arbaree, non essendo correcta per ispaciu
de XVI annos passados, commo per multas varietadis de tempus bissognando de
necessitadi corrigirela et mendari. Considerando sa veridadi et mutacione
dessos tempos qui suntu istadus seghidus poscha et issa conditione dessos
hominis qui est istadu dae tandu innoghi multu per mutada, et plus per qui
ciaschuno est plus inquenivili assu malu fageri qui non assu bene dessa re
plubigha sardischa. Cum deliberadu consigiu illa corrigemus et fagemus et
mutamus dae bene in megius et comandamus qui si deppiant observare integramente
daessa sancta die innantes per issu modo infra scripto cio est.
Carta de Logu
(Prologo) [trad. italiana]: «Affinché
le provincie, le regioni e le terre s'inchinino e si sottopongano alla
Giustizia per meglio accrescere ed elevarsi, e che per i buoni articoli di
legge venga frenata e repressa la superbia dei rei e dei malvagi, sì che i
buoni, i puri e gli innocenti possano vivere tranquilli e sicuri dai colpevoli
per il timore che essi hanno delle pene, e che le stesse buone persone, per
opera dell’amore, siano tutte obbedienti ai capitoli e alle ordinanze di questa
Carta de Logu, per tutto ciò, Noi Eleonora per grazia di Dio giudicessa
di Arborea, contessa del Goceano e viscontessa di Bas, desiderando che i nostri
fedeli e sudditi del nostro regno di Arborea siano disciplinati dai capitoli ed
ordinanze grazie ai quali possano vivere e mantenersi nella via della verità e
della Giustizia, ed in buono, pacifico e tranquillo stato, ad onore di Dio
onnipotente e della gloriosa vergine madonna Santa Maria sua madre, e per
preservare la Giustizia ed il pacifico, tranquillo e buono stato del popolo del
suddetto nostro regno, delle chiese, delle diocesi, dei liberi e dei probi
uomini e di tutto il popolo della suddetta nostra terra e del regno di Arborea,
facciamo le ordinanze ed i capitoli infrascritti che vogliamo e comandiamo
espressamente siano rispettati ed osservati quale legge, sia in giudizio che
fuori, da ogni persona del detto Giudicato nostro Arborea. La Carta de Logu
con grande senno e provvidenza era stata fatta da nostro padre, il
giudice Mariano di buona memoria, in quanto legittimo giudice di Arborea, non
essendo stata rettificata da oltre sedici anni, e perciò necessitando di
correggerla ed emendarla per il mutare dei tempi ad essa susseguiti, e per la
condizione degli uomini che da allora l'ha molto cambiata, tanto più che
ciascuno è maggiormente incline ad operare il male piuttosto che il bene della
‘repubblica’ sarda, con deliberato consiglio la correggiamo, la facciamo e la mutiamo
di bene in meglio, ed ordiniamo che si debba osservare integralmente dal giorno
sopra indicato in poi nella maniera suddetta, e cioè».
Sui
principi fissati dalla sovrana arborense e sulla partizione del citato prologo,
vedi A. Era, Lezioni di storia delle istituzioni giuridiche ed economiche sarde.
Parte I e II § 1, cit., 326 s.; Id.,
Le ‘Carte de logu’, cit., 15 ss.
Dello studioso è da vedere anche la traduzione italiana del prologo della Carta de Logu, predisposta per il
manuale di F. Calasso, Medioevo del diritto, A. Giuffrè,
Milano 1954, 449 nt. 69.
[159]
All’analisi del concetto di res publica, nelle fonti romane e nella
scienza giuridica del periodo che precede la nascita dei Comuni, è dedicato il
saggio di F. Crosara, Respublica e respublicae. Cenni
terminologici dall’età romana all’XI secolo, in Atti del Congresso internazionale di diritto romano e di storia del
diritto, Verona 27-29 XI 1948, a cura di G.
Moschetti, vol. IV, A. Giuffrè, Milano 1953, 227 ss. Sull’uso del
termine in rapporto a Civitas e a Commune, vedi fra gli altri: P. Costa, Iurisdictio. Semantica del potere politico nella pubblicistica
medievale (1100-1433), A. Giuffrè, Milano 1969, 232 ss.; M. Staszków, ‘Civitas’ et ‘Respublica’ chez les glossateurs, in Studi in onore di Edoardo Volterra, vol.
III, A. Giuffrè, Milano 1971, 605 ss.; O.
Banti, «Civitas» e «Commune» nelle
fonti italiane dei secoli XI e XII, in Id.,
Studi di storia e di diplomatica
comunale, Il Centro di Ricerca, Roma 1983, 1 ss. Cfr. inoltre J.
Gaudemet, La contribution des
romanistes et des canonistes médiévaux à la théorie moderne de l’état, in Diritto e potere nella storia europea. Atti in onore di Bruno Paradisi, vol.
I, L.S. Olschki, Firenze 1982, 17 ss.; da ultimo anche I. Birocchi, v. Persona
giuridica nel diritto medioevale e moderno, in Digesto. Delle discipline privatistiche, vol. XIII, UTET, Torino
1996, 407 ss.; Id., Contratto e persona giuridica pubblica.
Spigolature su “causa”, “communis utilitas” e diritto dei privati nell’età del
diritto comune, in I rapporti
contrattuali con la pubblica amministrazione nell’esperienza storico-giuridica.
Atti del Congresso internazionale della
Società Italiana di storia del diritto, Torino 17-19 ottobre 1994, Jovene,
Napoli 1997, 239 ss.
[160] Cfr. Irnerio, Glo. ad l. Lex est, ff. De legibus, v. reipublicae (ed. E. Besta, L’opera d’Irnerio. Contributo alla storia del diritto italiano, II.
Glosse inedite d’Irnerio al Digestum
Vetus, Loescher, Torino 1896, 5): (reipublicae)
scilicet populi, quod unum et idem est re ipsa; secundum diversas inspectiones
hec nomina recipit; populus universitatis iure precipit.
[161] Glossa, Reipublicae, in Authenticum,
De haeredibus et Falcidia, v. reipublicae (Reipublicae, idest totius imperii. Sic in prooemio ff. in princip. Et nota
quod tribus modis respublica dicitur. Primo Romanorum, ut hic. Item pro
civitate Romana tantum: et tunc proprie: ut ff. de verbo. signific. l. eum qui.
Item pro qualibet civitate: et tunc improprie: ut C. de offic. eius qui vicem al. iu. obt. l. j. Ponitur et quarto
pro quolibet municipio: ut ff. de pub. et vec. l. sed et hi. § penult.).
[162] Per
una visione d’insieme sul personaggio, presenta ancora non poco interesse la
consultazione del libro di R. Carta
Raspi, Mariano IV, conte del
Goceano, visconte di Bas, giudice d'Arborea, Edizioni della Fondazione Il
nuraghe, Cagliari 1934, in part. 149 ss.: «L’opera legislativa»; in appendice
il testo del Codice rurale di Mariano
IV, 197 ss. Più di recente, alla figura e all’opera del grande giudice
arborense sono state dedicate molte pagine dei due volumi di F.C. Casula, La Sardegna aragonese, 1. La
Corona d’Aragona, Chiarella, Sassari 1994, 263 ss.; 2. La Nazione sarda, cit., 377 ss.; cfr., sempre del Casula, anche Cultura e scrittura nell'Arborea al tempo della
Carta de Logu, cit., 88 ss. Da vedere, inoltre, il bel lavoro di G. Mele, Un manoscritto arborense inedito del Trecento. Il codice 1bR del
Monastero di Santa Chiara di Oristano, S’alvure Editrice, Oristano 1985, 22
ss.
[163]
Bisogna, tuttavia, sottolineare che in Sardegna le radici del conflitto
agricoltura/pastorizia sono assai più antiche dell’epoca giudicale. Già durante
la dominazione romana, ad esempio, contrasti anche violenti tra pastori e
contadini si verificavano con una certa frequenza nelle campagne della Sardegna
centrale, come attesta la documentazione epigrafica di età imperiale: cfr. La Tavola di Esterzili. Il conflitto tra
pastori e contadini nella 'Barbaria' sarda. Convegno di Studi. Esterzili 13 giugno 1992, a cura di A. Mastino, Gallizzi, Sassari 1993; con
particolare riferimento, fra i saggi ivi pubblicati, alle relazioni del
curatore: ‘Tabularium principis’ e
‘tabularia’ provinciali nel processo contro i ‘Galillenses’ della 'Barbaria'
sarda, 99-117; e di S. Schipani,
La repressione della ‘vis’ nella sentenza
di ‘L. Helvius Agrippa’ del 69 d.C. (Tavola di Esterzili), 133-155. Per la
“continuità” di tale conflitto nel corso dell’età moderna e contemporanea, vedi
le pagine dedicate alla Sardegna centrale da M. Le Lannou, Pâtres et paysans de la Sardaigne, Arrault, Tours 1941, qui citato
in traduzione italiana: Pastori e
contadini di Sardegna, a cura di M. Brigaglia,
Della Torre, Cagliari 1979, 167 ss.
[164]
Edizioni critiche di A. Era, Il codice agrario di Mariano IV d'Arborea,
in Testi e documenti per la storia del
Diritto agrario in Sardegna, cit., 15 ss.; e Barbara Fois, Il "Codice rurale" di Mariano IV
d'Arborea, in "Medioevo. Saggi e rassegne" VIII (1983), 41 ss.
[165] Il
“codice rurale” non compare nel manoscritto cagliaritano della Carta de Logu: cfr. E. Besta, La Carta de Logu quale monumento storico-giuridico, cit., 13: «E
già da questa esposizione risulta una prima differenza importantissima a
paragone della forma sotto la quale la Carta
de logu ci fu tramandata nelle precedenti edizioni, che tutte offrono
infatti una serie di 198 capitoli. Il ms. cagliaritano s’accorda bensì con le
edizioni nei primi 130 capitoli … ma poi i capitoli 132-140 del ms.
corrispondono ai cap. 160-168; i capitoli 144, 145 ai cap. 172, 173; i cap.
146-156 ai capitoli 183-193 e non hanno raffronto con le edizioni i capitoli
142, 145, 158, 161 del ms. mentre d’altro canto quelle offrono in più i cap.
131-159, 170, 171, 174-182, 194-198»; A. Era,
Il codice agrario di Mariano IV d'Arborea,
cit., 5: «è certo, più che
probabile, che Eleonora non volle inserirlo nella sua Carta de logu, poiché
altrimenti avrebbe coordinato con esso le disposizioni date per l’agricoltura,
evitando ripetizioni e, tanto per non scendere a particolari, avrebbe, ad
esempio, pretermesso di dettare il suo cap. CXII»; da ultimo, E. Cortese, Il diritto nella storia medievale, vol. II, Il basso medioevo, cit., 350.
[166] C.G. Mor, Le disposizioni di diritto agrario nella Carta de logu di Eleonora
d'Arborea, in Testi e documenti per la
storia del Diritto agrario in Sardegna, cit., 35; cfr. anche 36-37:
«Statuizioni così severe valgono più che una esplicita affermazione che nella
seconda metà del XIV secolo l'agricoltura stava acquistando una notevole
importanza nell'economia sarda, e che i giudici di Arborea vedevano in essa una
precipua fonte di benessere: il che non è in contrasto con quanto ci
documentano anche i condaghi più
antichi, se pur ci presentino un'economia ancora ad uno stadio arretrato».
[167] Più
in generale, sulla definizione di questi concetti, assimilabili a quelli di causa publica utilitas e di bonum commune, nella scienza giuridica coeva, vedi alcuni rapidi cenni in
I. Birocchi, Contratto e persona giuridica pubblica. Spigolature su “causa”,
“communis utilitas” e diritto dei privati nell’età del diritto comune, in I rapporti contrattuali con la pubblica
amministrazione nell’esperienza storico-giuridica, cit., 260 ss.
[168] Nelle
edizioni a stampa della Carta de Logu
di Eleonora, il prologo del “Codice rurale” segue il cap. CXXXII: Nos Marianus proissa gracia de deus iuyghi
de Arbaree, conpte de Gociano et bisconti de Basso, considerando sos multos
lamentos continuamente sunt istados et sunt per issas terras nostras de Arbaree
et de Loghudore prossas vignas ortos et lavores que si disfaghint et consumant
perissa pocha guardia et cura qui si dat a su bestiamen cussos de qui est et
quillu at in guardia, prossa quali causa multas vignas et ortos sunt eremadas
et multas personas si romanent de lavorare qui lavorari ant pro dubidu qui ant
de non perdere cusso quillo ant fagheri et bolendo nos providere a su utili
cummoni et bonu istadu de sa gente nostra amus deliberado de faghere et
faghemus sos infrascriptos ordinamentos pro qui cussos observando et mantenendo
sas vignas et ortos et lavores ant romane[r] et istare in su gradu issoro et
megiorare et avansare cussas de qui ant essere, et issu bestiamen indat esser
megius gubernadu mantesidu et guardadu.
[169] In
generale sull’utilitas, con ampia
raccolta di testi giuridici romani, vedi F.B. Cicala,
Il concetto di “utile” e sue applicazioni
in diritto romano, Fratelli Bocca, Milano-Torino-Roma 1910; per lo studioso
«il concetto dell'utilitas
signoreggia in tutto il campo del diritto romano» al punto da potersi affermare
«senza tema di esagerare, che una delle rappresentazioni generali meglio
delineate e più vive nella coscienza di tutta la giurisprudenza romana, è
appunto quella, che poggia l'intero edifizio del diritto sulle profonde basi
dell'utile individuale e collettivo» (9). Cfr. inoltre A. Steinwenter, Utilitas publica - utilitas singulorum, in Festschrift Koschaker, I, Böhlau, Weimar 1939, 84 ss.; U. von Lübtow, De iustitia et iure, in “Zeitschrift der Savigny-Stiftung für
Rechtsgeschichte. Rom. Abt.” LXVI (1948), 458 ss.; J. Gaudemet, Utilitas publica, in "Revue historique de droit français et
étranger" XXIX (1951), 465 ss.; H.
Ankum, Utilitatis causa receptum.
Sur la méthode pragmatique des juristes romains classiques, in “Revue internationale
des droits de l'antiquité” XV (1968), 119 ss.; G. Longo, Utilitas publica,
in "Labeo" XIX (1972), 7 ss.; Pia
Fiori Maciocco, D. 1, 3, 16 =
Paulus liber singularis de iure singulari, in “Archivio storico e giuridico
sardo di Sassari”, nuova serie, II (1996), 31 ss.; più di recente vedi R. Scevola, ‘Utilitas publica’, vol. I, Emersione nel pensiero greco e romano, [L’arte del diritto. Collana
diretta da Luigi Garofalo, 23.1] CEDAM, Padova 2012, special. 287 ss.; con
riferimento al pensiero di Cicerone, I.
Mastino, «Utilitas valuit propter honestatem»: Cicerone e il principio giuridico dell’utilitas, in “Diritto @
Storia. Rivista internazionale di Scienze Giuridiche e Tradizione Romana” 11
(2013) (on line 15 gennaio 2014) = http://www.dirittoestoria.it/11/D&Innovazione/Mastino-Cicerone-Principio-giuridico-utilitas.htm .
[170] D.
1.1.1.2 (Ulpianus libro primo
institutionum): Publicum ius est quod
ad statum rei Romanae spectat, privatum quod ad singulorum utilitatem: sunt
enim quaedam publice utilia, quaedam privatim. Riguardo al frammento di
Ulpiano, mi pare che possano ormai considerarsi superate sia le affermazioni
contrarie alla genuinità del testo (F.
Schulz, I principii del diritto
romano, trad. italiana a cura di V.
Arangio-Ruiz, Le lettere, Firenze 1949, 23 nt. 33; U. von Lübtow, Das römische Volk. Sein Staat
und sein Recht, Klostermann, Frankfurt am Main 1955, 618), sia dubbi e
perplessità (B. Albanese, Premessa allo studio del diritto privato
romano, Tip. S. Montaina, Palermo 1978, 192 nt. 295); cfr., fra gli altri, G. Nocera, Ius publicum (D. 2, 14, 38). Contributo alla ricostruzione
storico-esegetica delle regulae iuris, Ed. italiane, Roma 1946, 152 ss.; F. Wieacker, Doppelexemplare der Institutionen Florentins, Marcians und Ulpians,
in Mélanges De Visscher, vol. II,
Office International de Librarie, Bruxelles 1949, 585; P. Catalano, La
divisione del potere in Roma (a proposito di Polibio e di Catone), in Studi in onore di Giuseppe Grosso, vol.
VI, Giappichelli, Torino 1974, 676; C.
Nicolet, Notes complémentaires,
in Polybe, Histoires, Livre VI, a
cura di R. Weil, Belles-Lettres,
Paris 1977, 149 s.; F. Sini, Documenti sacerdotali di Roma antica, I. Libri e commentarii, Dessì, Sassari 1983, 213 s. Per una rassegna degli
studi, cfr. Giuseppina Aricò Anselmo, ‘Ius publicum’ - ‘ius privatum’ in Ulpiano,
Gaio e Cicerone, in “Annali del Seminario giuridico dell’Università di Palermo”
XXXVII (1983), 455 ss. Dedicate, in particolare, all’analisi di «Ius publicum e status rei Romanae» alcune belle pagine della
monografia di V. Marotta, Ulpiano e l’Impero, I, Loffredo Editore,
Napoli 2000, 146 ss.
[171] Cfr.
nello stesso senso anche le Istituzioni di Giustiniano (Inst. 1.1.4: Huius studii
duae sunt positiones, publicum et privatum. Publicum ius est, quod ad statum
rei Romanae spectat, privatum, quod ad singulorum utilitatem pertinet. Dicendum
est igitur de iure privato, quod est tripertitum: collectum est enim ex
naturalibus praeceptis aut gentium aut civilibus). Per l’analisi del
frammento ulpianeo nella prospettiva che qui interessa, vedi F. Stella Maranca, Il diritto pubblico romano nella storia delle istituzioni e delle
dottrine politiche, in Id., Scritti vari di diritto romano, Cacucci,
Bari 1931, 102 ss.; Silvio Romano, La distinzione fra ius publicum e ius privatum nella giurisprudenza
romana, in Scritti giuridici in onore
di Santi Romano, IV, CEDAM, Padova 1940, 157 ss.; A. Carcaterra, L’analisi
del ‘ius’ e della ‘lex’ come elementi primi. Celso, Ulpiano, Modestino, in “Studia et documenta historiae et iuris” XLVI
(1980), 272 ss.; H. Ankum, La noción de "ius publicum" en
derecho romano, in “Anuario de historia del derecho español” LIII (1983),
524 ss.; F. Sini, Bellum nefandum. Virgilio e il problema del “diritto internazionale antico”,
cit., 223 nt. 112; fra la letteratura più recente, vedi ora P. Stein, Ulpian and the Distinction between ius publicum and ius privatum,
in Collatio iuris Romani. études dédiées à Hans Ankum à l’occasion de son 65ème
anniversaire, II, J.C. Gieben, Amsterdam 1995, 499 ss.
[172] Mutuo
l’espressione da E. Blasco Ferrér,
Storia linguistica della Sardegna, M.
Niemeyer, Tübingen 1984, 64, al quale rinvio anche per una più puntuale
definizione del concetto: «Preme rilevare, dapprima, che il concetto stesso di sardo antico, inteso come struttura
linguistica volgare indipendente, non aderisce ad una realtà letteraria
autosufficiente, in quanto veicolo di una larga tradizione orale; si tratta
piuttosto di un complesso imponente, ma limitato, di dati linguistici
appartenenti ad un registro cancelleresco»;
dello stesso autore cfr. inoltre La
lingua sarda contemporanea. Grammatica del logudorese e del campidanese,
Della Torre, Cagliari 1986, 70 s.
[173] Al
tema sono dedicate alcune pagine del saggio di A. Mattone, La
storiografia giuridica dell’Ottocento e il diritto statutario della Sardegna
medievale, cit., in particolare 96 ss.; più di recente, dello stesso autore
vedi Id., La Carta de Logu di Arborea tra diritto comune e diritto patrio (secoli
XV-XVII), in La Carta
de Logu d’Arborea nella storia del diritto medievale e moderno, a
cura di I. Birocchi e A. Mattone, cit., 406-478.
[174]
Riguardo alla definizione del genus
documentario Carta de Logu, di cui
quella di Arborea costituisce il modello più completo che ci è dato conoscere,
faccio riferimento, anche per la mirabile chiarezza di sintesi, a quanto ha
scritto A. Era, Le ‘Carte de Logu’, cit., 15: «La legge
giudicale è un “ordinamentu” che consta di uno [...] o più capitoli [...]
riguardanti però un’unica materia; Carta
de logu è il complesso di più “ordinamentus” ciascuno di materia
diversa e non si presenta come una codificazione finita, sibbene aperta ad
innovazioni ed ampliamenti, ottenuti mediante l’aggiunta di altri
“ordinamentus” singoli o plurimi e, a differenza dei codici moderni che sono
dedicati ad una singola materia e chiusi, abbraccia materie varie, come gli statuti
medievali, e consente successive stratificazioni come un editto romano o
longobardo». Cfr. anche A. Solmi,
Studi storici sulle istituzioni della
Sardegna nel medio evo, cit., 281.
[175] Al di
là della valutazione complessivamente positiva – pur denunciandone una
«singolare arretratezza» compilatoria – espressa da G. Vismara, Momenti della
storia della famiglia sarda, in “Studi sassaresi”, iii serie, ii (1971),
190 ss.; la storiografia giuridica contemporanea ha dedicato, stranamente, solo
«qualche breve accenno», alla consolidazione feliciana: cfr. M. Da Passano, Delitto e delinquenza nella Sardegna sabauda (1823-1844),
[Pubblicazioni della Facoltà di Giurisprudenza dell'Università di Sassari.
Serie storica, 3] A. Giuffrè, Milano, 1984, 1 ss. (con ampia rassegna della
bibliografia precedente); Id., La «Carta de Logu» e le «Leggi» feliciane,
in La Carta
de Logu d’Arborea nella storia del diritto medievale e moderno,
cit., 479 ss., con utilissimo raffronto testuale in appendice, fra «i Capitoli
arborensi richiamati nel progetto Musio e i corrispondenti articoli del
progetto stesso; per la Carta de Logu
– scrive ancora Mario Da Passano – ho usato l’edizione ottocentesca di Giovanni
Mameli, poiché è di pochi anni precedente; la corrispondenza degli articoli e
le eventuali differenze fra il progetto Musio e il testo definitivo delle Leggi feliciane sono segnalate fra
parentesi quadre, senza tener conto delle variazioni puramente formali».
[176] Vedi
l’orgoglioso compiacimento, di stampo “nazionalistico”, di G.M. Mameli De’ Mannelli, Le Costituzioni di Eleonora giudicessa
d'Arborea intitolate Carta de Logu, cit., 7: «Quanta compiacenza mai io
provo, ogni qualvolta rivolgo in mente il vantaggio, che ha recato alla mia
Patria la non interrotta osservanza delle sue leggi antiche, e particolarmente
di questo Codice, che conta già oltre a’ quattrocent’anni, dacchè sono
persuaso, che da ciò in gran parte dipenda l’uniformità de’ costumi
mantenutavisi fin ora pressochè interamente, e la venerazione pe’ suoi propj
Statuti, ed il più fedele attacamento a’ suoi legittimi Sovrani; le quali cose
l’anno preservata dal gettarvi radici lo spirito convulsivo, che in questa
nostra età ha invaso una gran parte dell’Europa, e l’anno animata ad opporre la
più valida resistenza a’ terribili sforzi della più imponente forza nemica, con
ammirazione fin di quelli, che non si son dati il pensiero d’imitarla».
[177] Non è
dunque da condividere, a questo proposito, il giudizio di F. Schupfer, Manuale di storia del diritto italiano, cit., 382, per il quale una
così lunga vigenza della Carta de Logu
«fa fede certamente della bontà intrinseca della legge, ma attesta eziandio
l’indole piuttosto stazionaria di cotesti insulani».
[178] Per
quanto attiene alle caratteristiche della lingua (a parte il lavoro ormai
classico di P.E. Guarnerio, La lingua della «Carta de Logu» secondo il
manoscritto di Cagliari, in E. Besta-P.E.
Guarnerio, Carta de Logu de
Arborea. Testo con prefazioni illustrative, cit., 69 ss.) sono veramente
fondamentali alcuni saggi di A. Sanna,
La lingua della Carta de Logu, in Id., Il dialetto di Sassari e altri saggi, Edizioni 3T, Cagliari 1973, 9
ss.; e soprattutto Il carattere popolare
della lingua della Carta de Logu, in Il
mondo della Carta de Logu, cit., 49 ss.; vedi anche G. Paulis, Parole e
storia nel mondo della ‘Carta de Logu’ e del Giudicato di Arborea, in Studi in onore di Massimo Pittau, vol.
I, Università degli Studi di Sassari, Facoltà di lettere e filosofia, Sassari
1994, 11 ss.; pubblicato, ora, in Società
e cultura nel Giudicato d’Arborea e nella Carta de Logu, cit., 133 ss.; Antonietta Dettori, Testualità e lingua nella «Carta de Logu» di
Arborea, in La Carta de Logu d’Arborea nella storia
del diritto medievale e moderno, cit., 139 ss.
Sugli
aspetti storico-linguistici del «sardo antico del periodo giudicale e dei
condaghi», rinvio a E. Blasco Ferrér,
Storia linguistica della Sardegna,
cit., 64 ss.; Id., Carta de Logu d’Eleonora d’Arborea,
1355-1376, in “Diritto @ Storia. Rivista internazionale di Scienze Giuridiche
e Tradizione Romana” 2 (on line marzo 2003) < http://www.dirittoestoria.it/tradizione2/Blasco-Crestomanzia.htm >.
[179] A. Pertile, Storia del diritto italiano dalla caduta dell'impero romano alla
codificazione, vol. II.2, cit., 88-91.
[180]
Titolare della cattedra di Dottrina dello Stato nell’Università di Sassari fino
alla sua morte prematura, avvenuta nel 1969, Antonio Pigliaru è stato il più
importante filosofo del diritto e uomo di cultura della Sardegna nella seconda
metà del Novecento: una visione d’insieme nella biografia di Mavanna Puliga, Antonio Pigliaru. Cosa vuol dire essere uomini, Iniziative
culturali - ETS, Pisa-Sassari 1996. Da vedere anche il testo della
commemorazione tenuta il 25 giugno 1969 nell’Aula Magna dell’Università di
Sassari da M.A. Cattaneo, Antonio Pigliaru: la figura e l’opera,
pubblicata in Famiglia e società sarda
[= “Studi sassaresi”, III serie, II (1968-1969)], A. Giuffrè, Milano 1971, XXV
ss.; nello stesso volume: Bibliografia di
Antonio Pigliaru, a cura di F. Sechi,
661 ss.; più di recente l’efficace sintesi di V.
Mura, v. Pigliaru, Antonio, in
I. Birocchi, E. Cortese, A. Mattone,
M.N. Miletti (diretto da), Dizionario
biografico dei giuristi italiani (XII-XX secolo), vol. II. Lev-Z, cit.,
1585 s.
[181] A. Pigliaru, La vendetta barbaricina come ordinamento giuridico (1959), ora in Id., Il banditismo in Sardegna. La vendetta barbaricina come ordinamento
giuridico, Nuova edizione, con una introduzione di L.M. Lombardi Satriani, A. Giuffrè, Milano 1975, 85 s.; 168
ss. Da condividere la notazione sull’opera proposta, con felice sintesi, da
Virgilio Mura: V. Mura, v. Pigliaru,
Antonio, cit. in nt. precedente, 1585-1586: «La sua opera principale, un libro particolarmente
innovativo nel campo della filosofia del diritto, è senza dubbio La vendetta
barbaricina come ordinam. giur. (Milano 1959), a torto considerato,
riduttivamente, come una semplice ricostruzione, in chiave antropologica o
demologica, dell'ambiente culturale e del sistema normativo in cui agisce il
banditismo sardo. La Vendetta è qualcosa di più: è il tentativo,
riuscito, di dimostrare la possibilità, fino ad allora soltanto teorizzata,
della compresenza su un medesimo territorio di una molteplicità di ordinamenti
giuridici non coordinati gerarchicamente, ma anzi tanto autonomi da entrare in
conflitto tra loro. Il libro ha un retroterra teorico che affonda le proprie
radici in un lungo dibattito sul pluralismo giuridico, che era iniziato, in
Italia, nel lontano 1918 con la pubblicazione del volume di Santi Romano L’Ordinamento giuridico e che era
proseguito fino agli anni Trenta, coinvolgendo i principali filosofi del
diritto e molti autorevoli giuspubblicisti, per poi scemare e spegnersi
gradualmente col consolidarsi dello Stato fascista. L’opera chiude, dunque, una
lunga stagione di intensi dibattiti specialistici sulla natura del diritto e il
ruolo dello Stato in relazione all’autonomia degli ordinamenti minori. Serve
anche a capire le peculiarità del fenomeno del banditismo sardo, che inquadra
entro la cornice dei suoi presupposti culturali, ma non è un libro sul
banditismo sardo, è un libro sulla dottrina del pluralismo giuridico».
Non è
possibile nello spazio di una nota tratteggiarne la complessità di pensiero, la
molteplicità di interessi teoretici e il fermo impegno civile; posso solo
menzionare alcune altre sue opere, fra le più significative: Persona umana e ordinamento giuridico,
A. Giuffrè, Milano 1953; Meditazioni sul
regime penitenziario italiano, in appendice Saggio sul valore morale della pena, G. Gallizzi, Sassari 1959; La piazza e lo Stato, Ichnusa, Sassari
1961; Struttura, soprastruttura e lotta per
il diritto, CEDAM, Padova 1965; Scritti
sul fascismo, a cura di Marina Addis
Saba e Mavanna Puliga,
Iniziative culturali - ETS, Pisa-Sassari 1983. Sull’attualità della sua opera
filosofica, vedi le relazione pubblicate in Unità
dello Stato e pluralismo degli ordinamenti. Organizzazione del potere,
autonomie e comunità locali nella riflessione giuridica e filosofica di Antonio
Pigliaru, Atti del convegno di Torino 3-4-5 dicembre 1993, Iniziative
culturali, Sassari 1994; al suo ruolo di intellettuale sardo ed all’impegno
civile, è dedicato, invece, il libro di S. Tola,
Gli anni di ‘Ichnusa’. La rivista di
Antonio Pigliaru nella Sardegna della rinascita, Iniziative culturali -
ETS, Pisa-Sassari 1994.
[182] A. Pigliaru, Il banditismo in Sardegna. La vendetta barbaricina come ordinamento
giuridico, cit., 85: «Ora è da dire che l’esperienza colta del diritto
sardo, che ebbe nella Carta de Logu
il suo dato fondamentale, è un’esperienza a sua volta influenzata
dall’esperienza romanistica, ma è un’esperienza che nella legge scritta
riprende visibilmente i termini di quell’esperienza fondamentale che era
l’esperienza consuetudinaria, seppure elevandola a forme giuridiche più
elaborate e più facilmente riducibili in termini colti».
Per
una discussione più completa, rinvio a F.
Sini, Comente comandat sa lege. Diritto
romano nella Carta de Logu d’Arborea,
cit., 12 ss.
[183] A. Pigliaru, Il banditismo in Sardegna. La vendetta barbaricina come ordinamento
giuridico, cit., 85-86: «La Carta de
Logu, per dire il testo legislativo che più è stato presente alla storia
del diritto sardo, appare infatti, a vederla bene, come un testo legislativo
interamente pensato in rapporto alla necessità di articolare sistematicamente
le consuetudini giuridiche sarde, però opponendosi talvolta ad esse nello
sforzo di certificare ulteriormente l’azione giuridica, sottraendola ora al
libito e alle dispersioni cui l’abbandono a se medesimo pareva esporle e le
aveva esposte mentre durava quel periodo di torbidi interni ed esterni che
aveva preceduto l’opera giudicale di Mariano e quindi l’azione riordinatrice di
Eleonora».
[184] A. Pigliaru, Il banditismo in Sardegna. La vendetta barbaricina come ordinamento
giuridico, cit., 171 ss. A conferma della sua tesi lo studioso cita il cap.
VI della Carta de Logu (che poneva in
capo all’intera comunità di villaggio il dovere di catturare e consegnare agli
organi giudicali l’uomo che avesse commesso un omicidio nel territorio della villa), di cui però offre una
interpretazione inusuale: «il tentativo di assicurare il delinquente alla
giustizia posto in essere dalla Carta de
Logu, attraverso quello che il Besta chiamerà “il sistema della
responsabilità collettiva”, non ha, secondo me, solo le funzioni che
normalmente gli vengono attribuite (rimediare all’insufficienza delle forze di
pubblica sicurezza, rompere certi rapporti di omertà); ma più forse quella di
sottrarre il reo all’iniziativa privata» (171); da questo testo scaturirebbe la
verosimiglianza dell’ipotesi prospettata: «Possiamo per altro cominciare a
domandarci, a proposito di questa posizione, se la comunità barbaricina non sia
pervenuta al concetto che la vendetta è un dovere “proprio” attraverso, o anche
“anche” attraverso la esperienza di questa perentoria disposizione che fa
obbligo all’universalità dei soggetti (“tutti gli uomini”) di collaborare
attivamente (e non solo passivamente) al regime della propria sicurezza, dentro
e fuori della città, dentro e fuori casa, intervenendo attivamente e
responsabilmente, epperò entro i limiti della legge, nella repressione delle
colpe» (173); significativo, infine, anche quanto si legge alle 175-176: «Così
invece ciò che ora giova è prendere atto d’un’altra circostanza, quella per cui
nella Carta de Logu, alla
sottilissima costruzione del reato corrisponde una sottilissima costruzione
della pena, in questa pena prevedendosi di norma (e quando la natura del
rapporto reato-pena lo consente) una progressione in alternativa che fa pensare
molto da vicino al precetto barbaricino per cui la vendetta deve essere
adeguata proporzionata e progressiva, come ad un precetto appreso, oltre che da
un senso immediato della giustizia, fors’anche dall’esperienza che le comunità
sarde han fatto dentro lo schema della
legislazione giudicale».
[185] F. Sini,
Poteri religiosi e istituzioni (intervento introduttivo), in “Diritto
@ Storia. Rivista internazionale di Scienze Giuridiche e
Tradizione Romana” 2 (on line marzo 2003)
= < http://www.dirittoestoria.it/memorie2/Testi%20delle%20Comunicazioni/Sini-Introduzione.htm >. Particolarmente illuminanti, per la
prospettiva qui perseguita, i saggi di eminenti studiosi “mediterranei”
pubblicati nel volume F. Sini-P.P. Onida
(a cura di), Poteri religiosi e
istituzioni: il culto di San Costantino imperatore tra Oriente e Occidente,
[Sistemi Giuridici del Mediterraneo. Ricerche e studi, 1] G. Giappichelli-ISPROM, Torino
2003.
[186] F.
Sini, Droit écrit et droit coutumier dans la Sardaigne médiévale: Carta de
Logu de Arborea et droit romain, in “Méditerranées.
Revue de
l’association Méditerranées” 37,
cit., 137-179 [pubblicato anche in “Diritto @ Storia. Rivista internazionale
di Scienze Giuridiche e Tradizione romana” 3
(on line maggio 2004) =
< http://www.dirittoestoria.it/3/TradizioneRomana/Sini-Carta-de-Logu-Fr.htm >.
[187] R. Di Tucci, "Cicero pro
Scauro". Elementi giuridici romani e consuetudini locali nella società
medioevale sarda, in “Archivio
Storico Sardo” XXI (1930), 26 ss.
Sull’orazione
ciceroniana vedi, più di recente, C.M.A. Rinolfi,
Юридические
аспекты
римской Сардинии
в речи
Цицерона “pro Scauro” (Aspetti giuridici della Sardegna romana
nella pro Scauro di Cicerone), in
“Ius Antiquum – Древнее
право” (1-IV), (Moskva) 1999, 63
ss., la quale evidenzia, non senza ragione, una sostanziale mancanza di
interesse negli studi giuridici degli ultimi decenni per ricerche sulla
“strutturazione interna” della provincia
Sardiniae.
[188] Sul
punto, mi permetto di rinviare a quanto scritto in precedenza: F. Sini, Persone e cose: res communes omnium.
Prospettive sistematiche tra
diritto romano e tradizione romanistica, in “Diritto @ Storia. Rivista
internazionale di Scienze Giuridiche e Tradizione Romana” 7 (on line dal 10
dicembre 2008) = < http://www.dirittoestoria.it/7/Tradizione-Romana/Sini-Persone-cose-res-communes-omnium.htm >
[Testo della comunicazione presentata a Novi Sad nel corso dei lavori del IX
Colloquio dei romanisti dell’Europa centro-orientale e dell’Asia «La persona nel sistema del diritto romano. La
difesa dei debitori. Lo studio e l’insegnamento del diritto romano»
(24-26 ottobre 2002), organizzato per iniziativa di Antun Malenica e Pierangelo
Catalano dalla Facoltà di Giurisprudenza dell’Università di Novi Sad e del
Centro per gli studi su diritto romano e sistemi giuridici del CNR]. In data 27
marzo 2009, l’articolo è stato pubblicato anche nel sito internet cinese Centro di
studio del diritto romano e italiano presso Università della Cina di scienze politiche
e giurisprudenza (Pechino) = http://www.csdri.org/italiano/class_detail.asp?infoid=248 . Per ogni discussione su problematiche e
prospettive delle res communes omnium, antiche e moderne, risulta ora assolutamente indispensabile
il recentissimo libro di Andrea Di Porto,
Res in usu publico e ‘beni comuni’. Il
nodo della tutela, G. Giappichelli, Torino 2013.
[189] Carta de Logu, cap. xciv (De sotzus) [trad. italiana]: «Vogliamo ed ordiniamo che alcuno
straniero continentale, che darà un suo giogo di buoi ad un sardo sia come
lavorante sia come soccidario, non abbia a volere nessun altro uomo tranne
quello a cui avrà dato. Ed il lavorante si attenga all’usanza della terra».
Brevi
commenti al testo in G.M. Mameli De’
Mannelli, Le Costituzioni di
Eleonora giudicessa d'Arborea intitolate Carta de Logu, cit., 107 nt. 158;
C.G. Mor, Le disposizioni di diritto agrario nella Carta de logu di Eleonora
d'Arborea, in Testi e documenti per
la storia del Diritto agrario in Sardegna, cit., 39; F.C. Casula, La "Carta de Logu" del regno di Arborèa, cit., 266.
[190] Da
vedere C.G. Mor, Sul commento di Girolamo Olives
Giureconsulto sardo del sec. XVI alla Carta de logu di Eleonora d'Arborea, cit.,
66.
[191] Carta de Logu, capp. CLX-CLXV [= capp.
CXXXII-CXXXVII dell’edizione Besta-Guarnerio;
capp. CXXXI-CXXXVI dell’edizione Lupinu].
Su questi capitoli, risulta assai utile il commento di G.M. Mameli De’ Mannelli, Le Costituzioni di Eleonora giudicessa
d'Arborea intitolate Carta de Logu, cit., 200 ss., in part. nnt. 299-306.
Cfr. anche E. Besta, La Sardegna medioevale, 2. Le istituzioni politiche, economiche,
giuridiche, sociali, cit., 206; C.G. Mor,
Le disposizioni di diritto agrario nella
Carta de logu di Eleonora d'Arborea, cit., 39 s. Per una visione più ampia
della problenatica è ormai fondamentale il libro di G.G. Ortu, L’economia
pastorale della Sardegna. Saggio di antropologia storica sulla «soccida»,
Edizioni Della Torre, Cagliari 1981.
[192] I. Birocchi, La consuetudine nel diritto agrario sardo, riflessioni sugli spunti
offerti dagli Statuti sassaresi, cit., 344.
[193] Carta
de Logu, cap. XLVII (de
fogu in lauore) [trad. italiana]: «Inoltre ordiniamo che se qualche persona
da fuoco intenzionalmente a frumento già mietuto o da mietere o ad una vigna o
ad un orto e sia riconosciuta colpevole paghi per multa lire 50 ed anche il
danno che avrà causato; e se non paga lui stesso ovvero altra persona per lui
gli sia tagliata la mano destra».
[194]
Riferimenti testuali nel “codice” arborense:
Carta de
Logu, cap. XXXVIII:
... Et icussu bestiamen, cant achaptare sos iurados de pardu
ispeciadu ade nocte, cio est covallu domado, ebba domada, boe domadu et
molent:, siant tenudos dellu tenne[r] et baturellu assa corte. et issos iurados
indi appant decussu qui ant a batire a sa corte, sa terza parte dessas
tenturas. Et cio si intendat pro boes domados qui in cussu tempus si paschit a
muda si tenerent pro qui debent giaghere in sa cort:, et appant indi su tersu
secundu quest naradu desupra.
Carta de
Logu, cap. CXLII:
... Et icusso pubillu de vigna o ver orto
o armentargiu o homini suo, over iurado
electu a sa guardia dessas vingnas et ortos et lavores, quillu achaptarint in
alcuna de sas dictas vignas et ortos siat tenudo de accusarellu, comente et
issu bestiamini, a sa pena chi si contenit de supra.
Carta de
Logu, cap. CLXVII:
Item ordinamus qui sas ebbas qui sant
acatari intro dessu pardu desiidu, qui su
maiori de pardu et issos iurados de pardu siant tenudos de maxellari de sas
dictas ebbas, over quillis fassat tentura, de sa quali tentura depiant levari
soddos X a su pubillu de sas ebbas. Ma bolemus qui non deppiat maxedari si non abastat ad ebbas X
insusu et si non abastant ad ebbas X qui depiant levari su mayore de pardu cum
sos compangios soddos I per pegus.
Cfr.
anche Carta de Logu, capp. CLXXI e CXCIV.
[195] Così
sosteneva, ad esempio, G. Zirolia,
Ricerche storiche sul governo dei Giudici
in Sardegna e relativa legislazione, cit., 174: «Il maggiore e i giurati avevano speciale incarico di sorvegliare e di
fare osservare le leggi agrarie di Mariano, ed erano chiamati responsabili dei
danni quante volte sfuggivano alla responsabilità penale coloro che per le
leggi vigenti avrebbero dovuto subire condanna, o fossero scampati a sicura
morte per inavvedutezza degli stessi majores
che li avessero colti in flagrante reato. Vediamo adombrato in queste
prescrizioni l’istituto dei barracelli che vige tuttora in Sardegna e dal quale
si hanno non pochi benefici effetti». Vedi anche Eleonora Mura, Responsabilità
e garanzia collettive nella legislazione statutaria sarda, in “Archivio
storico e giuridico sardo di Sassari”, Nuova serie, III (1996), 72 ss.
[196] Carta
de Logu, cap. XXXVIII (De
proare sos cavallos) [trad. italiana]: «Vogliamo ed ordiniamo che i giurati siano tenuti
ciascuno nella sua curatoria di trovare le prove dei cavalli domati, delle
cavalle domate e dei buoi domati e degli asini uccisi di nascosto o rubati nel
villaggio o nei terreni del villaggio; se non troveranno le prove, i giurati e
tutti gli uomini del villaggio paghino in comune ai padroni del bestiame il
valore del furto. E quel bestiame che i giurati dei pascoli avranno trovato
vagante specialmente di notte, e cioè cavallo domato, cavalla domata, bue
domato ed asino, siano tenuti di catturarli e consegnarli alla corte; ed i
giurati avranno la terza parte delle multe: e ciò si intende che anche nel caso
catturassero buoi domati che pascolino di giorno in luogo vietato, i quali si
debbono consegnare alla corte, avranno la terza parte delle multe, come è detto
sopra; e se alcun maggiore di pascolo, ad altra persona, spingerà un capo del
bestiame suddetto da un terreno a pascolo dentro un campo coltivato, paghi
venti soldi per ciascuna bestia, e per ciascuna volta, se riconosciuto
colpevole».
Cfr.
anche Carta de Logu,
cap. CXLII (Qui iscongiarit bingia o orto);
cap. CLXVII (De su pardu); cap. CXCIV
(De bestiamen rude).
[197] G. Pazzaglia, L’istituto del barracellato e l’agricoltura della Sardegna, in Atti del secondo Congresso Nazionale di
Diritto agrario (Mussolinia-Cagliari-Sassari 16-19 ottobre 1938), Edizioni
Universitarie, Roma 1939, 95 ss., in particolare 96: «è certo [...] che nelle
carte d’Arborea, in una parte che riproduce le leggi rurali dettate da Mariano
IV, padre di Eleonora, ai jurados de logu
e jurados de padro o padrargios erano attribuite facoltà e
responsabilità non molto dissimili da quelle che vennero ad assumere
successivamente durante la dominazione spagnola i barracelli il cui nome pare derivare dallo spagnolo “barrachel”»;
fondamentale, con il saggio più approfondito sulla materia, P. Sanna, Origine delle compagnie
barracellari e gli ordinamenti di polizia rurale nella Sardegna moderna, in La Carta de Logu d’Arborea nella storia del diritto medievale e
moderno, a cura di I. Birocchi
e A. Mattone, cit., 300-346
[pubblicato anche in “Diritto @ Storia. Rivista internazionale di
Scienze Giuridiche e Tradizione Romana” 4 (2005) = http://www.dirittoestoria.it/4/Contributi/Sanna-Origini-compagnie-barracellari.htm ].
[198]
Basterà citare, come esempio, una di queste ordinanze annuali, per lo più
tralatizie nel contenuto: Regione
Autonoma della Sardegna. Decreto del Presidente della Giunta 25 marzo 1997, n.
1 = Ordinanza Regionale antincendi 1997, dal cui prologo traspare
l’incombente presenza del fuoco nella quotidianità della nostra Isola: «Il Presidente della Giunta Regionale,
Considerato che nelle decorse stagioni estive si sono verificati gravi danni
causati dagli incendi nei boschi e nelle campagne della Sardegna; Ritenuto
necessario, per evitare ed attenuare la recrudescenza del fenomeno, predisporre
per tempo, approssimandosi la stagione estiva, misure idonee atte a prevenire,
per quanto possibile, l’insorgere e il diffondersi degli incendi [...] DECRETA:
Art. 1: Ai sensi dell’art. 9 della Legge 1.3.1975, n. 47, dal 1° giugno al 15
ottobre vige lo “STATO DI GRAVE PERICOLOSITÀ” di incendi per le zone boscate
della Sardegna».
[199] Carta
de Logu, cap. XLVI (Qui
ponne fogu in domo): Constituimus et ordinamus: qui si alcuna persona
ponneret fogu ad domo de persona alcuna istudiosamente et fagherit dannu o no
nd-est binchidu: siant tenudos sos juradus et hominis de sa villa deprouare et
detenne su homini qui ad auiri postu su dictu fogu: et dellu battiri tentu a sa
corte nostra, et siat juigadu dellu ligare ad unu palu er fagherellu arder, et
si issos jurados et hominis de sa villa nò tennerent su homini qui ad aver
factu su male paghint cumonalimenti sa villa manna Liras Centu et issa villa
pizina Liras 50 et de sos benes de cussos hominis qui ad aviri postu su fogu si
depiat pagare su dannu qui ad aviri factu.
Carta de
Logu, cap. XLVI (Qui ponne fogu in
domo) [trad. italiana]:
«Costituiamo ed ordiniamo, che se qualche persona abbia incendiato una casa di
un’altra persona intenzionalmente, abbia provocato danni o no, e sia stata dichiarata
colpevole: i giurati e gli altri uomini del villaggio siano tenuti a trovare le
prove ed arrestare l’uomo che abbia appiccato il detto fuoco; e catturato di
condurlo davanti alla nostra corte, dove sia condannato ad essere legato ad un
palo e farlo bruciare; se invece i giurati e gli uomini del villaggio non
abbiano catturato l’uomo che aveva commesso il delitto paghino in comune per un
villaggio grande lire cento e per un villaggio piccolo lire 50 e dai beni
dell’uomo che aveva provocato l’incendio si dovrà pagare il danno a chi lo ha
subito».
Carta de Logu,
cap. XLVII (De fogu in lauore): Et
issos jurados siant tenudos de prouare et de tenne sus malusfactores adicussa
pena qui narat su secundu capidulu.
Carta
de Logu, cap. XLVII (De fogu in lauore) [trad. italiana]: «E gli stessi giurati
siano tenuti di catturare i malfattori e di fornire le prove per sottoporli a
quella pena che prescrive il capitolo secondo».
Carta de
Logu, cap. XLVIII (De fogu): Volemus et ordinamus. qui si su fogu qui sadi ponni in
sa villa over in sa habitationi dessa dita villa qui fazat perdimentu: siant
tenudos sus curadores ciascadunu is sa curadoria sua: et issus officialis qui
ant sas villas afeu. Et issos officialis o armentargios dessas
villas issoro depiant àdare adprezare su dannu qui ad aviri fatu su fogu cuz
sus megios hominis dessa villa et de benne assa corte da inde a dies XV ad
denunciarellu assa corte nostra a pena de pagare su curadore a sa corte Liras
XXV.
Carta de Logu, cap.
XLVIII (De fogu) [trad. italiana]: «Vogliamo ed ordiniamo,
che se il fuoco che sarà appiccato nel villaggio, ovvero nelle pertinenze
coltivate di detto villaggio, provochi dei danni, i curatori ciascuno nella sua
curatoria ne saranno responsabili e gli ufficiali che hanno i villaggi in
feudo. E gli ufficiali, o armentari dei loro villaggi, debbano andare a
valutare il danno che avrà fatto il fuoco, con i migliori uomini del villaggio
e di venire a denunciarlo alla nostra corte entro quindici giorni altrimenti il
curatore dovrà pagare una penale alla corte di lire 25».
[200] Sugli
aspetti generali della repressione degli incendi nella Sardegna giudicale (con
puntuali riferimenti alla Carta de Logu),
da vedere la rapida sintesi di R. Di
Tucci, Il diritto pubblico della
Sardegna nel Medio Evo, cit., 112 s.; ma ora F. Artizzu, La
disciplina dell’acqua e del fuoco negli Statuti medioevali sardi, in Id., Società e istituzioni nella Sardegna medieovale, Deputazione di storia patria per la Sardegna, Cagliari
1995, 133 ss.
[201] Ordinanza Regionale antincendi 1997,
cit., art. 14: «L’ANAS, le
Amministrazioni ferroviarie, le Province e i Comuni dovranno provvedere entro
il 30 giugno […] all’eliminazione di fieno, sterpi o altro materiale
infiammabile lungo la viabilità di propria competenza e nelle rispettive aree
di pertinenza e mantenere tale situazione per tutto il periodo in cui vige lo
Stato di Grave Pericolosità di cui al precedente art. 1».
[202] Carta
de Logu, cap. XLIX (De fogu) [trad. italiana]: «Costituiamo ed ordiniamo che i villaggi, che sono soliti
predisporre fasce tagliafuoco, debbano fare queste fasce tagliafuoco nei tempi
usuali. Ciascun villaggio nei suoi terreni coltivati. Chi non le abbia fatte
per il giorno di San Pietro del mese di giugno paghi 10 soldi per uomo. E quei
villaggi che le faranno, facciano in modo che le fiamme non attraversino le
fasce tagliafuoco. E se il fuoco le supera provocando danni, paghi il villaggio
alla corte 10 soldi per uomo secondo l’uso e lo stesso curatore 10 lire. Se
invece il curatore avrà ordinato ai giurati ovvero agli altri uomini del
villaggio di predisporre le fasce e costoro non le abbiano fatte, paghino
collettivamente la pena che dovrebbe pagare l’ufficiale e lo stesso ufficiale
ne sia liberato».
[203] Ordinanza Regionale antincendi 1997,
cit., art. 10: «I proprietari e i
conduttori di terreni, non compresi tra i boschi e le macchie di cui al
precedente art. 2, possono, sotto la propria diretta responsabilità penale e
civile, procedere all’abbruciamento di stoppie, frasche, cespugli, residui di
colture agrarie e di altre lavorazioni, di pascoli nudi, cespugliati o
alberati, nonché di incolti, anche nel periodo dal 1° giugno al 30 giugno e dal
15 settembre al 15 ottobre, purché muniti di apposita autorizzazione da
rilasciarsi dalla Stazione Forestale e di V.A. competente per il territorio nel
quale dovranno effettuarsi gli abbruciamenti»; da vedere anche gli artt. 11 e 12.
[204] Carta de Logu,
cap. XLV (Ordinamentos de fogu): Volemus
et ordinamus: qui nexuna persona deppiat ne pozat ponne fogu infini ad passadu
sa festa de sancta Maria qui est a dies VIII de capudanni et qui contra
fagherit paghit de maquicia.llrs XXV et ultra so paghit su dannu cat fagher
acuyu ad esser. Et de cussa die inantes ciascaduna
persona pozat ponne fogu a voluntadi sua guardando si pero no fazat dannu ad
atere, et si fagheret damno paghit pro maquicia liras X, et issu dannu ad qui
l'at aver factu. Et si no ad de qui ndi pagare cussu qui ad esser condemnadu in
liras x istit in pregione ad
voluntadi nostra. Et issus
jurados de sa villa hue ponne su fogu siant tenudos de prouare et tenne sos
malefactores predictos et de representarellos a sa corte nostra infra XV dies.
Et si nò los tenint in su dictu tempus sus dictos jurados cum sos hominis dessa
villa paghit de maquicia cio est sa villa manna liras XXX et issa villa pizina
liras XV et issu curadores de ciascuna de cussa villas paghit ssz.C, et de sos
benes cant lassari: cio est sos cant
essere fuidos et inculpadussi deppiant pagare su dannu ad cuy ad esser et issu
remanente decussus benes si deppiant contari in su pagamentu qui ant fagher sos
hominis dessa villa.
Carta
de Logu, cap. XLV (Ordinamentos
de fogu) [trad. italiana]: «Vogliamo
ed ordiniamo che nessuna persona debba né possa abbrucciare stoppie fino a dopo la festa di Santa Maria, che
è il giorno 8 settembre, e chi agirà in senso contrario paghi di multa lire 25
ed inoltre paghi il danno che può aver fatto a colui che lo ha subito. Da quel
giorno in poi ognuno potrà appiccare fuoco a sua volontà, facendo attenzione a non danneggiare altri, se
invece avrà provocato qualche danno paghi per multa lire 10 ed il valore del
danno al danneggiato. Se non ha di che pagare la multa di 10 lire, stia in
prigione a volontà nostra. Ed i giurati del villaggio, dove sarà appiccato il
fuoco, siano tenuti a trovare le
prove e catturare i malfattori ed a portarli davanti alla nostra corte entro
quindici giorni. E se non li catturano nel tempo prescritto detti giurati e gli
uomini di quel villaggio paghino di multa, se è un villaggio grande 30 lire, se
è un villaggio piccolo 15 ed il curatore di ciascuno di questi villaggi paghi
100 soldi, e dai beni che lasceranno, cioè quelli che saranno fuggiti ed
incolpati si dovrà risarcire il danneggiato; mentre la parte rimanente di quei
beni si dovrà computare nel pagamento che faranno gli uomini del villaggio».