Testatina-DInnovazione2013

 

 

pinna Il premio di maggioranza alla prova dell’uguaglianza del voto

 

PIETRO PINNA

Università di Sassari

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SOMMARIO: 1. Premessa. – 2. L’uguale valore dei voti. – 3. Il sistema elettorale della Camera e del Senato. – 4. Il sistema elettorale regionale. – 5. Il sistema elettorale comunale e provinciale.

 

 

1. – Premessa

 

Qui di seguito sviluppo l’idea che l’uguaglianza regola la manifestazione del voto e l’esito della votazione, il diritto al voto e all’elezione. Non riguarda invece la rappresentatività dell’elezione. Questa è un fondamento del governo rappresentativo, ma non è tutto. Il governo deve essere democratico, oltre che rappresentativo; e la democrazia è molto esigente nei confronti dell’elezione: pretende l’uguaglianza degli elettori, intesa nel senso che il voto da essi espresso deve avere lo stesso peso, cosicché ciascun cittadino nella scelta dei governanti conti quanto l’altro, senza alcuna discriminazione. Il governo democratico-rappresentativo richiede allora la rappresentatività degli eletti e l’uguale valore dei voti. E’ un’interpretazione del diritto costituzionale, la quale ha molto a che vedere con la democrazia. Tuttavia non tratto della teoria democratica. Questa dottrina politica sta sullo sfondo del discorso. La evoco preliminarmente e conclusivamente per indicare il punto di connessione tra essa e il diritto positivo come io lo intendo, quindi per mostrare la portata e non il fondamento della ricostruzione. Insomma, qui espongo un’interpretazione del diritto costituzionale e non una teoria della democrazia.

Il sistema elettorale, dunque, deve superare due test di legittimità: la rappresentatività dell’elezione e l’uguaglianza del voto. Qui mi occupo principalmente di quest’ultimo tema, perché considerato sotto il profilo che qui suggerisco è inesplorato e promettente. 

Lo studio dell’uguaglianza del sistema elettorale presuppone l’accettazione dell’interpretazione secondo cui l’uguaglianza incide non solo sulla modalità di espressione del voto da parte dell’elettore, ma anche sulla regola che determina i seggi corrispondenti ai voti dati, quindi stabilisce l’elezione del candidato. Perciò, prima, argomento questa interpretazione e, poi, discuto della legittimità dei sistemi elettorali utilizzati in Italia.

 

 

2. – L’uguale valore dei voti

 

L’art. 48 della Cost. prevede che il voto è uguale, oltre che libero, personale e segreto. La libertà, personalità e segretezza si riferiscono chiaramente alla manifestazione del voto. Sembrerebbe, dunque, che l’uguaglianza attenga solamente alla manifestazione del voto e che non si estenda al voto manifestato, cioè al risultato elettorale. A sostegno di questa interpretazione, specie nella giurisprudenza costituzionale, si adduce l’argomento che la Costituzione non dispone circa il sistema elettorale, la cui disciplina quindi sarebbe lasciata al legislatore ordinario[1]. A essa si oppone la tesi, peraltro argomentata in riferimento anche ad altre norme costituzionali espresse e implicite, secondo cui il voto deve essere uguale anche riguardo agli esiti e perciò non sarebbero consentiti sistemi elettorali maggioritari[2]. Nessuna di queste due letture contrapposte convince: confondono i diversi piani dell’uguaglianza del voto e della rappresentatività dell’elezione, arrivando a conclusioni sbagliate.

Chi sostiene che la regola dell’art. 48 riguardi solamente la manifestazione del voto riduce il significato dell’uguaglianza al divieto del voto plurimo o multiplo. Il voto plurimo è stato ideato e praticato principalmente per mitigare gli effetti del suffragio universale: votano tutti, ma alcuni, per la loro ricchezza, cultura, o posizione sociale, hanno un voto in più o 3 se lo stesso elettore possiede tutti e tre i requisiti. Il voto multiplo ha effetti simili, ma diverse motivazioni: un esempio, invero l’unico che conosca, è la c.d. ‘franchigia elettorale’, abolita in Inghilterra nel 1948: i professori universitari e coloro che lavoravano in un luogo diverso da quello di residenza votavano due volte, nel collegio universitario o in quello di lavoro e nel collegio di residenza.

In definitiva, l’uguaglianza del voto significherebbe che ogni elettore dispone dello stesso numero di voti, semplificando diciamo che ogni elettore ha diritto a un voto.  Non c’è dubbio che questa regola presuppone l’uguaglianza degli elettori, cosicché nessuno di essi, per nessuna ragione, può pretendere di contare di più nell’elezione, quindi di avere il diritto a esprimere più di un voto. Ma ciò implica che la scelta dell’uno sia uguale a quella dell’altro, che valga quanto quella dell’altro: cioè uno. Sostenere il contrario e cioè che l’uguaglianza si applica alla manifestazione del voto e non anche al voto espresso è contradditorio: la previsione che alcuni elettori speciali possono esprimere più voti (due o tre) non è diversa da quella secondo cui il loro voto vale di più (conta non uno, ma due o tre), anzi il risultato è identico; e se è vietata l’una lo è anche l’altra. In effetti, poiché gli elettori sono uguali, il loro voto è uguale, nel senso che ogni elettore ha diritto a esprimere un voto e il voto da lui espresso vale uno. I voti si contano e non si pesano, cioè sono equivalenti. Equivalente è dunque l’espressione che qualifica in modo preciso e pregnante il voto conforme alla regola dell’uguaglianza. I voti hanno lo stesso valore, sia in entrata, come manifestazione, che in uscita, come risultato[3].

Del resto, i candidati sono uguali come gli elettori. Perciò l’elezione deve essere fondata sul maggior numero di voti ottenuti dal candidato[4]. La regola del voto uguale si applica tanto agli elettori, cosicché ciascuno di essi ha diritto a esprimere un solo voto, quanto ai candidati, cosicché il voto espresso a favore dell’uno è uguale a quello manifestato a favore dell’altro candidato. I voti assegnati ai diversi candidati hanno insomma lo stesso valore: come ciascun elettore ha diritto a esprimere un (solo) voto, così il voto dato a un candidato vale (uno), quanto quello dato a un altro candidato. Ne consegue che i candidati possono essere discriminati soltanto in ragione dei voti ottenuti da ciascuno.  L’uguaglianza del voto implica perciò che l’elezione sia giustificata dal numero maggiore dei voti ottenuti: se i voti sono equivalenti, l’averne ottenuto di più è l’unica giustificazione dell’elezione. Basta un solo voto in più affinché un candidato sia preferito a un altro. Ma se il voto in più manca, cioè se la scelta di un candidato non dipende dalla maggiore quantità di preferenze espresse a suo favore, allora l’elezione è arbitraria: è fondata non sui voti dati e attribuiti, ma su altro.

Peraltro dall’uguaglianza del voto così intesa non deriva alcun particolare sistema elettorale. Da essa si può ricavare soltanto la regola che è eletto il candidato che ha ottenuto più voti. Il sistema elettorale, maggioritario o proporzionale che sia, è legittimo se determina l’elezione di chi ha avuto più voti, dando lo stesso valore al voto ottenuto da ogni candidato.

Pertanto, facendo qualche esempio, rispetta questa regola il sistema elettorale inglese secondo cui nel collegio è eletto il candidato più votato. E’ vero, la formula elettorale inglese rende possibile che siano attribuiti più seggi allo schieramento politico che abbia ottenuto meno voti. Ma ragionando dell’appartenenza politica dei candidati, il discorso si sposta su un altro piano, sulla rappresentanza politica. Da questo differente punto di vista, effettivamente può capitare che, non essendoci proporzione tra i voti ottenuti e quelli attribuiti a un raggruppamento, i voti dati al gruppo maggioritario abbiano un maggior valore. Ma, se consideriamo l’elezione dei candidati, i voti sono perfettamente equivalenti e il sistema determina l’elezione del candidato più votato; e questo è il fatto rilevante sotto il profilo dell’uguaglianza del voto, giacché si vota il candidato e non il partito politico cui egli appartiene o dice di appartenere; inoltre l’eletto, non essendo vincolato ad alcun mandato, non è tenuto a mantenere l’appartenenza posseduta o dichiarata prima dell’elezione.  Sicchè, sotto questo profilo, non è neppure possibile stabilire quale relazione vi sia tra il voto espresso a favore del candidato e il risultato politico dell’elezione, dato che sono grandezze non omogenee; bisogna collocare politicamente il candidato, per stabilire quale sia il rapporto tra il voto dato a questo e i seggi assegnati al (o a quello che si ritiene sia il) suo partito; e questa collocazione partitica è giuridicamente arbitraria, dato che nessuna regola impone al candidato un’appartenenza partitica e soprattutto all’eletto di restarle fedele.

E’ pressoché uguale il discorso se il sistema prevede l’elezione della lista di candidati più votata, che è utilizzato, ad esempio negli USA per l’elezione degli elettori presidenziali. Anche in questo caso può capitare che la maggioranza presidenziale non corrisponda alla maggioranza dei voti ‘popolari’. E’ il risultato possibile, ma non necessario, dell’elezione di secondo grado. Tuttavia, la regola dell’equivalenza del voto non è violata in nessuna delle due votazioni nelle quali si articola l’elezione del Presidente. Questa norma è violata invece dal sistema proporzionale, apparentemente simile, utilizzato in Italia per l’elezione dei parlamentari. Infatti, qui si vota una lista di candidati e vengono eletti non tutti, ma soltanto alcuni in base all’ordine di iscrizione dei candidati nella lista. Ma di ciò dirò ampiamente in seguito.

L’uguaglianza del voto implica dunque non una formula elettorale proporzionale, ma l’elezione del candidato più votato.

Il sistema elettorale va valutato anche da un altro punto di vista, quello della rappresentatività dell’eletto. Da questa prospettiva, viene in questione non il diritto al voto e all’elezione, ma il principio istituzionale che fonda il governo rappresentativo, la rappresentanza politica dei governanti. Il discorso in proposito è più fluido di quello sull’uguaglianza del voto, poiché nessuna disposizione costituzionale prevede la rappresentatività e non possediamo alcun parametro preciso e condiviso che la misuri. Soltanto l’art. 15 dello Statuto sardo prescrive che le modalità di elezione del Consiglio regionale, del Presidente della Regione e dei componenti della Giunta regionale siano stabilite dalla legge statutaria, sulla base dei princìpi di rappresentatività e di stabilità. Comunque dal sistema costituzionale si ricava agevolmente che l’elezione serve alla designazione di organi rappresentativi e la sproporzione tra i voti dati (tra la manifestazione del voto) e i seggi attribuiti (l’esito del voto) potrebbe pregiudicare la rappresentazione politica. Sicché, l’elezione non raggiungerebbe il suo scopo. Ma, sotto il profilo rappresentativo, uno scostamento tra i voti dati e i seggi assegnati è inevitabile e comunque accettabile, giacché gli eletti, proprio perché rappresentanti politici, rappresentano tutti e non solo coloro che li hanno eletti. Allora è una questione di misura: la sproporzione non deve essere tale da pregiudicare la rappresentanza politica degli eletti[5]. Siccome la formula proporzionale, in quanto tale, rende minimo lo scostamento, allora essa è da preferire ad altre non proporzionali e tra quelle proporzionali, va preferita la più proporzionale. Le formule maggioritarie sono legittime se la sproporzione che esse implicano consente comunque l’elezione di organi rappresentativi politicamente. Vanno perciò considerate eccezionali e, in quanto eccezionali, richiedono una giustificazione[6].

In conclusione, il sistema elettorale è valido se supera il test di uguaglianza e quello di rappresentatività.

 

 

3. – Il sistema elettorale della Camera e del Senato

 

Qui però non discuto del confine tra il poco e il troppo sproporzionato. Ne ho parlato solamente per evidenziare che la discussione in proposito non tocca l’uguaglianza del voto. Qui, una volta stabilito che il voto deve essere uguale, nel senso che i voti espressi devono avere lo stesso valore, applico il test di uguaglianza ai sistemi elettorali proporzionali con premio di maggioranza utilizzati in Italia nelle elezioni parlamentari, regionali e locali. 

Il collegio è la struttura del corpo elettorale nella quale si delibera l’elezione ed è composto dagli elettori che concorrono alla stessa elezione. La volontà del collegio è imputata al corpo elettorale, però è espressa dagli elettori del collegio. Può essere che il collegio riunisca l’intero corpo elettorale, che quindi sia unico, oppure una sua parte, che quindi ci siano più collegi. Quando il corpo elettorale è strutturato in diversi collegi, nei quali si eleggono i candidati ai seggi che sono attribuiti a ciascun collegio, il voto è uguale se in tutti i collegi si applica il medesimo sistema elettorale: è evidente, infatti, che utilizzando diverse formule elettorali, cioè differenti regole per stabilire quanti voti servono per essere eletti, i voti sono calcolati in modo diverso nei vari collegi e in conseguenza il voto del corpo elettorale è disuguale.  E’ uguale, invece, se l’elettore (come avviene, ad esempio, nei c.d. sistemi misti) esprime non un voto (che è calcolato diversamente nei vari collegi) ma due voti, il primo nel collegio con un  sistema (proporzionale) e il secondo  nel collegio con un altro sistema (maggioritario), cosicché ciascun voto ha il medesimo valore, il voto di tutti gli elettori è calcolato nello stesso modo.

Per comprendere l’operatività di questo test di uguaglianza a livello del corpo elettorale è utile l’esempio del sistema francese previsto dalla legge 519 del 1959 (loi scèlèrate) e applicato alle elezioni del 1951 e del 1956: era previsto l’apparentamento e il premio di maggioranza, fatta eccezione per i collegi dell’area parigina a maggioranza comunista ai quali si applicava la formula proporzionale, senza l’apparentamento e il premio di maggioranza. Il diverso valore dei voti è evidente.

Le leggi elettorali della Camera e del Senato italiani discriminano i voti in un modo analogo. Infatti, per quanto riguarda la prima, nella circoscrizione estero i seggi (12) sono attribuiti in modo proporzionale, in quella della Valle d’Aosta (1) col sistema maggioritario plurality e nelle restanti (617) col sistema del quoziente e l’eventuale premio maggioranza.

Per quanto concerne il Senato, nella maggior parte delle circoscrizioni regionali l’elezione è stabilita col sistema proporzionale e il premio di maggioranza; in Molise non è previsto il premio di maggioranza; in Valle d’Aosta si utilizza il sistema maggioritario plurality; in Trentino Alto-Adige sei seggi sono attribuiti in collegi uninominali a chi ottiene più voti e gli altri spettanti alla regione ai gruppi di candidati non eletti nel collegio col metodo proporzionale; nella circoscrizione estero col sistema proporzionale e il voto di preferenza.

I deputati sono eletti nelle diverse circoscrizioni nelle quali hanno presentato la candidatura, ma la ripartizione dei seggi tra le liste avviene a livello nazionale; e ciò determina varie operazioni arbitrarie, che provocano discriminazioni non fondate sui voti ottenuti dai candidati nel collegio.

Innanzitutto si determina la cifra elettorale nazionale, sommando i voti conseguiti nelle circoscrizioni dalle liste col medesimo contrassegno. La cifra elettorale nazionale è la somma non dei voti conseguiti da una lista di candidati, ma da diverse liste di candidati. E’ vero che si sommano i voti ottenuti nelle circoscrizioni da liste aventi il medesimo contrassegno. Ma si eleggono persone e non contrassegni, i quali servono soltanto a identificare simbolicamente le liste concorrenti. In realtà si sommano i voti di liste diverse ed espressi con diverse deliberazioni dagli elettori dei molti collegi. In altri termini, la cifra elettorale nazionale è il risultato non di una deliberazione di un collegio di elettori, ma di una proiezione matematica, la quale ci dice che cosa sarebbe accaduto con ogni probabilità se in un collegio nazionale si fosse votato un listone contenente tutti i candidati circoscrizionali accomunati dal medesimo contrassegno (la cui democraticità peraltro sarebbe difficile da argomentare). Non discuto la precisione del calcolo proiettivo e quindi l’esattezza della rappresentazione politica che esso offre del voto espresso dagli elettori dei diversi collegi. Dico soltanto che questa cifra elettorale non è l’esito della deliberazione del corpo elettorale.

Dopo aver stabilito la cifra elettorale nazionale, si determina la cifra elettorale nazionale di ciascuna coalizione di liste collegate; e così si compie un’altra operazione arbitraria. Il collegamento o l’apparentamento non consente di sommare i voti ottenuti da ciascuna lista: le liste sono diverse. Sono collegate, è vero, ma il collegamento non può essere utilizzato per sommare voti di diverse liste come se fossero voti dati a un’unica lista. Può servire per altri fini, forse per il superamento di una soglia di sbarramento, che non incide sul calcolo dei voti. 

A questo punto si stabilisce quale lista o quali liste collegate abbiano ottenuto più voti e si suddividono i seggi fra le liste o le colazioni col metodo del quoziente, dopodiché i seggi sono attribuiti nelle circoscrizioni, con un calcolo assai complicato. Semplificando, si stabilisce il quoziente elettorale nazionale dividendo la somma delle cifre elettorali nazionali delle liste o delle coalizioni che hanno superato i vari sbarramenti per i seggi da assegnare. Sulla base del quoziente si calcolano gli indici circoscrizionali per la proclamazione degli eletti. Non è detto che in questo modo la somma dei seggi assegnati nelle circoscrizioni corrisponda a quella risultante dalla precedente attribuzione dei seggi fatta a livello nazionale considerando le cifre elettorali nazionali delle liste col medesimo contrassegno. Perciò è prevista la verifica della corrispondenza dei due risultati[7] e se è negativa si pareggiano le deficienze di eletti in una circoscrizione con le eccedenze di un’altra. Il che dimostra che la ripartizione nazionale dei seggi sulla base della somma dei voti ottenuti dalle liste col medesimo contrassegno, cioè di una proiezione matematica del voto circoscrizionale, oltre a essere arbitraria, può essere anche sbagliata. Ciononostante è utilizzata come punto di riferimento per correggere, cioè stabilire l’elezione nella circoscrizione, e per decidere il ricorso al premio di maggioranza, quindi per determinare chi è eletto.

Se alla lista o alla coalizione che ha conseguito il maggior numero dei voti sono attribuiti meno di 340 seggi, allora ai seggi già assegnati ne vengono aggiunti altri fino ad arrivare a 340. Questa operazione è arbitraria in sé, oltre che per le ragioni che ho illustrato precedentemente; è ciò è rivelato dalla condizione dell’assegnazione di ulteriori seggi, cioè il non aver raggiunto col sistema proporzionale la maggioranza dei seggi auspicata, dal fatto che sia indeterminato il numero dei seggi ulteriori e che questi si aggiungano a quelli già attribuiti. In questo modo, i voti della lista premiata sono calcolati diversamente (valgono non 1, ma 1 più X) da quelli conseguiti dalle altre liste candidati. Un eletto di queste corrisponde a x voti, un eletto di quella a x-n voti. “N” è la variabile dipendente dai seggi ulteriori, cosicché più ne vengono assegnati meno voti occorrono per essere eletti. Insomma, qualora la lista più votata non raggiunga il numero di seggi prestabilito, la formula per calcolare i seggi da attribuire a essa cambia ed è diverso da quello impiegato per le altre liste. Se il premio di maggioranza si attribuisse nel collegio, si applicherebbero diversi sistemi elettorali nel medesimo collegio, provocando le stesse discriminazioni arbitrarie tra i voti e i candidati che avvengono quando si adoperano diversi sistemi elettorali in più collegi del corpo elettorale.

Se viene assegnato il premio di maggioranza, nelle circoscrizioni sono utilizzati diversi quozienti, il quoziente elettorale nazionale o il quoziente elettorale nazionale di maggioranza, per attribuire i seggi alle liste o alle coalizioni premiate,  e il quoziente elettorale nazionale di minoranza, per l’elezione dei candidati delle liste o delle coalizioni minoritarie. Sicché può capitare che siano eletti col premio candidati della lista che nella circoscrizione ha ottenuto meno voti. Può darsi che ciò sia statisticamente improbabile, non lo so e, ovviamente, è inutile saperlo.  Ciò che conta è che le regole del sistema determinano arbitrariamente l’elezione, quindi calcolano in modo ineguale i voti espressi dagli elettori.

Infine, quasi a coronamento della sequenza di discriminazioni non fondate sul voto, nella circoscrizione è proclamato eletto il candidato della lista che viene prima nell’elenco non quello più votato. Quindi l’elezione è determinata non dal fatto di aver ricevuto più voti dagli elettori, ma dalla posizione assegnata al candidato dai presentatori della lista.

Il sistema elettorale del Senato riproduce a livello regionale grosso modo gli stessi vizi di quello dei deputati e non vale la pena qui di esaminarlo analiticamente.

 

 

4. – Il sistema elettorale regionale

 

L’art. 122 della Costituzione dispone che il sistema elettorale della regione sia stabilito con legge regionale nel rispetto dei principi previsti dalla legge statale. Qui interessa principalmente testare il premio di maggioranza, quindi considero non il sistema previsto da ciascuna regione, ma quello disciplinato dalla legge 108 del 1968, che si applica transitoriamente alle regioni ordinarie, in virtù della legge costituzionale n. 1 del 1999, e speciali, in virtù della legge costituzionale n. 2 del 2001.

Il corpo elettorale regionale è ripartito in più collegi aventi circoscrizione provinciale e in un collegio regionale. Le liste provinciali sono collegate con quella regionale, a capo della quale è posto il candidato alla presidenza della Regione. Nelle circoscrizioni provinciali i seggi spettanti alla circoscrizione sono attribuiti col sistema del quoziente. I seggi del collegio regionale sono assegnati alla lista più votata. Alle liste provinciali collegate con questa sono attribuiti almeno il 55% dei seggi consiliari. Viene ‘premiata’ non la lista che consegue più voti, ma la lista provinciale collegata con quella regionale che ha ottenuto più consensi. Tralascio, per non ripetermi, le osservazioni riguardo al collegamento, e mi limito a notare che stavolta ciò che fa scattare il premio è non la somma dei voti delle liste dei diversi collegi, ma i voti ottenuti dalla lista del collegio regionale: il fatto che questa lista abbia ottenuto più voti accresce i seggi non della stessa lista, ma di un’altra lista. In più, i seggi della lista regionale diminuiscono in ragione  dell’incremento dei voti conseguiti dalle liste provinciali con essa collegate. Se le liste provinciali eleggono il 50% o più dei consiglieri, allora sono eletti i candidati della lista regionale collegata sino ad arrivare al 10% dei seggi consiliari.  Se invece conseguono meno seggi del 50%, allora sono eletti tutti i candidati della lista regionale. Se questa ha ottenuto il 40% o meno dei voti del collegio regionale, gli eletti delle liste provinciali arrivano sino al 55% e al 60% se ne ha conseguito di più.

Insomma il premio viene dato perché la lista regionale ha ottenuto più voti, ma vengono incrementati i seggi delle liste provinciali collegate a discapito della lista regionale. Il sistema poi è tale per cui all’aumento dei voti non corrisponde un incremento dei seggi[8]: all’incremento dei voti della lista regionale corrisponde un aumento dei seggi delle liste provinciali, mentre alla crescita dei voti della lista provinciale corrisponde una riduzione dei seggi della lista regionale. In conseguenza, alcuni candidati della lista regionale non sono eletti, nonostante la lista abbia ottenuto il maggior numero dei voti, mentre sono eletti alcuni candidati della lista provinciale collegata i cui voti non bastano per giustificare la loro elezione.

Inoltre il voto è disgiunto. E’ vero che il voto espresso a favore della lista provinciale si intende dato anche alla lista regionale collegata, ma l’elettore può esprimere due voti diversi, quindi non è detto che il secondo sia a favore della lista regionale collegata con quella provinciale che ha votato. Ciononostante la lista provinciale si avvantaggia dei voti conseguiti da quella regionale e grazie a questi voti sono eletti dei candidati che nella loro circoscrizione non hanno conseguito i consensi necessari per l’elezione.

Infine, la lista regionale (il c.d. listino) è bloccata, quindi l’elezione è in ordine di presentazione e non per i voti ottenuti dal candidato.

 

 

5. – Il sistema elettorale comunale e provinciale

 

Il sistema elettorale dei comuni con popolazione superiore a 15.000 abitanti e delle province è diverso da quello dei comuni con una popolazione inferiore ai 15.000.  Peraltro ci sono varie differenze tra il sistema elettorale provinciale e comunale, in particolare nelle elezioni provinciali non è consentito il voto disgiunto, che tuttavia rilevano poco ai fini del mio discorso.

La formula con cui sono attribuiti i seggi nei comuni grandi in fondo è molto simile a quella utilizzata nelle regioni. La principale differenza consiste nel fatto che il collegamento è tra il candidato a sindaco e le liste di candidati al consiglio, mentre alla regione è tra le liste provinciali e quella regionale a capo della quale sta il candidato alla presidenza. Pure qui il fatto politicamente importante è il collegamento con questo candidato. Ma le regole che disciplinano l’elezione dei consiglieri regionali sono diverse e funzionano nel modo particolare che ho descritto in precedenza, sebbene le differenze si apprezzino poco dal punto di vista della competizione politico-elettorale.

Alle liste collegate col candidato a sindaco, se questo è eletto, al primo o al secondo turno – poco incide sull’attribuzione dei seggi -, è assegnato il 60% dei seggi consiliari, semprechè non li abbiano già conseguiti (con i voti) e che nessuna altra lista abbia raggiunto più del 50% dei voti validi.

Il premio di maggioranza scatta, quindi, non per i voti in più dati alla lista, ma per il successo del candidato a sindaco. A parte il fatto che nei comuni il voto è disgiunto e che comunque la preferenza accordata al candidato a sindaco o a presidente della provincia non si trasmette alle liste collegate, il sindaco e il consigliere comunale sono cariche diverse, le elezioni quindi sono differenti, nonostante il corpo elettorale coincida, e i voti non possono essere confusi. Tutto ciò rende evidente che l’eventuale elezione dei consiglieri in più è determinata non dal maggior numero di voti da essi ottenuti. Più precisamente, la loro elezione è dovuta a un calcolo dei propri voti fatto con un criterio diverso da quello utilizzato per stabilire l’elezione dei candidati delle altre liste. Perciò è arbitraria.

Il sistema elettorale dei comuni piccoli non contempla il premio di maggioranza. Infatti, la lista dei candidati al consiglio è collegata al candidato a sindaco; i voti dati a questo sono attribuiti a quella. E’ eletto sindaco il candidato più votato e alla lista collegata, cioè a quella che ha conseguito il maggior numero di preferenze, sono attribuiti due terzi dei seggi assegnati al consiglio. In questo caso è il maggior numero di voti ottenuti dalla lista che giustifica l’elezione. L’unico problema è che i seggi rimanenti sono attribuiti alle altre liste col differente sistema proporzionale di Hondt; e ciò, fra l’altro, è in palese contraddizione con la disposizione per la quale «l'elezione dei consiglieri comunali si effettua con sistema maggioritario» (art. 71, comma 1, dpr. 267/2000). Se si seguisse coerentemente questa regola, i seggi rimanenti andrebbero assegnati alla seconda lista più votata.

Il sistema elettorale delle province abbina al premio di maggioranza la ripartizione del corpo elettorale in collegi. Ma è sensibilmente diverso da quello utilizzato per l’elezione dei deputati e dei senatori. Infatti, la presentazione delle candidature per i singoli collegi è fatta per gruppi contraddistinti da un unico contrassegno. In altri termini, la stessa lista di candidati è presentata in più collegi, indicando però il collegio per il quale viene presentato ciascun candidato. I seggi sono ripartiti proporzionalmente, attribuendo eventualmente il premio di maggioranza, tra i gruppi di candidati. Quindi non nel collegio. Qui sono calcolati i voti di preferenza conseguiti da ciascun candidato del gruppo e viene eletto chi nel collegio ottiene la percentuale più alta di voti, come avveniva per l’elezione dei senatori prima della riforma del 1993. Sicchè, la candidatura nel collegio serve a stabilire a chi sono assegnati i seggi attribuiti al gruppo o alla lista di candidati.

Questo sistema risale al 1951, quindi preesiste alla previsione del premio di maggioranza. Tuttavia, evidenzia che il premio di maggioranza richiede per la ripartizione dei seggi l’organizzazione del corpo elettorale in un unico collegio. Infatti, il suo scopo è quello di assicurare la maggioranza (o comunque un numero di seggi maggiore di quelli spettanti secondo la formula elettorale) alla lista che abbia ottenuto più voti ma non i seggi prestabiliti; e per raggiungerlo bisogna considerare la complessiva composizione dell’organo e non l’elezione nei diversi collegi, la cui somma potrebbe dare esiti imprevedibili. E’ un inconveniente che il sistema  elettorale del senato non risolve, perché la Costituzione impone l’elezione su base regionale. Quello della camera neppure, perché ricorre all’artifizio illegittimo che ho descritto sopra. 

Il collegio elettorale unico forse non consentirebbe un’elezione rappresentativa. Ma la questione fondamentale che ora voglio sollevare è se esso consenta l’elezione democratica. Il problema si pone perché il collegio sarebbe così ampio da non consentire la conoscenza dei candidati e quindi la scelta effettiva degli elettori; e ciò presuppone una concezione secondo cui la democrazia richiede che il potere sia esercitato concretamente dal popolo, in modo consapevole e meditato. Ma questo è un discorso lungo e impegnativo che devo rimandare a una prossima occasione.

 

 



 

[1] Cfr. soprattutto le sentenze della Corte costituzionale: 43/1961; 429/1995; 15/2008, e in dottrina M. Luciani, Il voto e la democrazia, Roma, 1991, 35 ss.

 

[2] Cfr. C. Lavagna, Il sistema elettorale nella Costituzione italiana, in Riv. trim. dir. pubbl., 1952, 849 ss. e spec. 869 ss.

 

[3] La distinzione tra i voti in entrata e in uscita è di M. Luciani, Il voto e la democrazia, cit., 36, che la formula così: «Il principio di eguaglianza del voto…richiede che ciascun voto abbia pari peso nel momento in cui si determinano gli imputs elettorali, non invece nel momento in cui se ne producono gli outputs».

 

[4] G.U. Rescigno, Democrazia e principio maggioritario, in Quaderni cost., 1994, 199, trattando dell’elezione di organi monocratici, collega l’uguaglianza del voto col principio che è eletto chi ha la maggioranza dei voti. Infatti scrive: «Ma, in ogni caso, giunti alla stretta finale decide la maggioranza dei voti (se i voti sono eguali, come abbiamo deciso di presupporre sempre) e non si vede come potrebbe essere altrimenti».

E a 195, discutendo dell’applicazione del principio di maggioranza al caso in cui un collegio debba eleggere più persone e possa quindi dividere il suo voto tra due o più candidati per ciascun posto da ricoprire, osserva che in questo caso il principio di maggioranza «vuol dire, in linea di massima, che viene eletto non chi ottiene la metà + 1 dei voti, ma chi ottiene più voti, qualunque sia il loro numero assoluto. Viene eletto cioè anche chi ha ottenuto una minoranza di voti entro il collegio elettorale, purché si tratti della minoranza più alta rispetto ai voti attribuiti agli altri candidati».

Peraltro il suo discorso si svolge sul piano della rappresentatività e democraticità dei sistemi elettorali e non tocca quello del diritto al voto e all’elezione.

 

[5] La Corte costituzionale nelle sentenze 5/2008 e 13/2012, giudicando dell’ammissibilità del referendum abrogativo della legge elettorale 270/2005, ha segnalato «al Parlamento l'esigenza di considerare con attenzione gli aspetti problematici di una legislazione che non subordina l'attribuzione del premio di maggioranza al raggiungimento di una soglia minima di voti e/o di seggi».

 

[6] G.U. Rescigno, Democrazia e principio maggioritario, cit., 221, afferma che «i sistemi elettorali maggioritari diminuiscono il tasso di democrazia anche ledono gravemente il principio “un uomo un voto”. E’ vero che in entrata (nel momento della votazione e del conteggio dei voti) la regola non viene toccata. Però in uscita, nel momento in cui il voto si trasforma in seggi, nei sistemi maggioritari il voto non è più eguale». Tra questi sistemi egli colloca quello inglese. Per lui essi hanno l’effetto di eliminare o perlomeno diminuire la rappresentatività, «giacché non riflette correttamente le articolazioni del corpo elettorale, e al contrario le deforma gravemente, avvantaggiando alcuni, penalizzando altri» (222). Tuttavia ammette scostamenti dal criterio proporzionale, nonostante il principio di rappresentatività sia soddisfatto soltanto da questo criterio, perché va considerato anche il principio di governabilità. «Se è così, ci troviamo di nuovo di fronte ad un caso di bilanciamento tra principi costituzionali non sempre compatibili, ed anzi spesso confliggenti» (ibidem). E allora occorre bilanciare. Ma «poiché si dice di voler rimanere in democrazia, e democrazia dovrebbe voler dire non governo quale che sia, ma governo della maggioranza degli elettori, non si può ammettere qualsiasi sistema maggioritario, ma solo quei sistemi maggioritari che favoriscono o garantiscono il raggiungimento della maggioranza assoluta in seggi e non oltre, e non sono ammissibili quei sistemi che permettono premi di maggioranza superiori (ad es. un sistema che attribuisce il 60% dei seggi a partiti che raggiungono percentuali di voto molto inferiori). Meglio: sono più democratici quei sistemi politici che, per garantire la governabilità, infliggono al criterio proporzionale ferite minori di altri» (223. Il corsivo è testuale).

 

[7] Art. 83, n. 9: «l’Ufficio accerta se il numero dei seggi assegnati in tutte le circoscrizioni  a ciascuna lista corrisponda al numero dei seggi ad essa attribuito ai sensi del numero 7)», ossia al numero dei seggi attribuiti sulla base della cifra elettorale delle liste col medesimo contrassegno o coalizioni di liste.

 

[8] Cfr. F. Musella, Il premio di maggioranza nelle regioni italiane, in Il premio di maggioranza, a cura di A. Chiarante e G. Tarli Barbieri, Roma, 2011, 168, il quale nota che «le diverse modalità di applicazione del premio di maggioranza sono alla base di un difetto di “monotonicità” che fa in modo che si contraddica una delle regole più semplici degli impianti elettorali: quella che fa corrispondere ad un aumento dei voti un incremento nella conquista di seggi. Ciò è dovuto al meccanismo secondo il quale il premio di maggioranza si dimezza nel caso in cui la coalizione vincente ottenga una percentuale superiore alla metà dei consensi».