«Utilitas
valuit propter honestatem»: Cicerone e il principio giuridico dell’utilitas
Università Di Sassari
SOMMARIO: 1. Oggetto della ricerca. – 2. Inquadramento dell’utilitas. – 3. L’utilitas nelle opere di Cicerone. –
4. Utilitas e ius naturale. – 5. Utilitas, aequitas, honestas.
– 6. Utilitas e iustitia. – 7. Conclusione.
B. Biondi, nell’Introduzione ai suoi Scritti Giuridici, affermò con passione la necessità di un approccio al diritto romano che avesse, quale «sbocco naturale», il diritto moderno, «in guisa da far tesoro della ricca ed ineguagliabile esperienza romana»[1]. Il concetto di utilitas, così come qualsiasi altro concetto giuridico, racchiude in sé un sostrato razionale che ben si accorda con la natura delle cose: con la natura dell’uomo. Ed il fatto che, nel diritto attuale, l’utilitas sia un concetto particolarmente inflazionato, ne giustifica un’analisi che sia volta alla comprensione delle origini di tale concetto giuridico.
La ricerca si è concentrata sul pensiero ciceroniano. Non è difficile, infatti, concordare con quanto alcuni insigni studiosi (G. La Pira[2], B. Biondi[3], G. Jossa[4], G. Longo[5], P. Cerami[6]) hanno già avuto modo di appurare, e cioè la forte influenza che la dottrina ciceroniana ha avuto sullo sviluppo del diritto e della giurisprudenza romana.
L’oggetto della presente indagine è costituito dall’esame di quelle fonti ciceroniane nelle quali si è inteso ricercare l’origine, le caratteristiche precipue, i limiti, e, soprattutto, i rapporti dell’utilitas con lo ius, poiché si ritiene che la comprensione degli aspetti di tale concetto, tanto discusso quanto polisemico, possa costituire un argine ad un’arbitraria e moderna interpretazione del medesimo, ed un contributo, seppur minimo, alla comprensione di quello ius che costituì l’antecedente dell’attuale diritto.
Anche in altri autori, più risalenti, si rinviene il termine utilitas. Ad esempio in Plauto[7], Edipicus, 634: EP. Satin ego oculis utilitatem optineo sincere an parum?; in Lucrezio, de Rerum Naturae: fra i passi in cui il termine compare[8], uno conduce all’utilitas la causa della formazione dei nomi delle cose: utilitas expressit nomina rerum[9].
Però, è solo con Cicerone che il concetto comincia ad assumere connotati di giuridicità. Connotati, cioè, che ne implichino l’applicazione negli aspetti tanto teorici quanto pratici dello ius. L’eclettismo di Cicerone appare lo specchio attraverso il quale poter osservare le origini di questo concetto nel diritto romano, il suo sviluppo, le varie sfaccettature che, nel prisma della realtà, si riflettono in quei rapporti umani e sociali presi in considerazione, e regolati, dal diritto.
Con Cicerone, si delinea un concetto di utilitas che caratterizza lo ius ed il raggiungimento della iustitia: è un concetto pragmatico, che esplica la sua funzione de iure condendo e de iure condito, conferendo al diritto quella funzione pratica che ne giustifica l’essenza. Ma, al tempo stesso, è di ardua definizione: è un concetto che necessita di limiti precisi, affinché la sua applicazione non conduca ad ingiustizia.
Tre sono i concetti ciceroniani che, nelle opere dell’Arpinate, si intrecciano con l’utilitas: lo ius naturale ed il concetto di natura, in cui Cicerone rinviene le origini dell’utilitas; l’aequitas, che è individuata quale limite e criterio interpretativo dell’utilitas medesima; l’honestas, termine ampio e dalla natura intrinsecamente poco giuridica, ma che acquista forti connotati di giuridicità, laddove intervenga in un’ottica utilitaristica; la iustitia: fine ultimo dell’utilitas in particolare, e del diritto in generale.
Gli aspetti
giuridici che dell’utilitas emergono,
dall’analisi delle opere di Cicerone, sono tali da indurre a ritenere che il
concetto, così delineato, fu in seguito acquisito dai giuristi classici. I
giuristi classici assunsero, quale ratio o
argomentazione delle proprie decisioni, e della maggior parte degli istituti,
sia di diritto privato, sia di diritto pubblico[10], proprio l’utilitas[11]. Autori come A.
Steinwenter[12]
e J. Gaudemet[13],
avevano rilevato, su tale specifica quaestio,
la connessione fra le opere di Cicerone e le concezioni dei giuristi classici,
ritenendo che il concetto di utilitas,
così come accolto dalla giurisprudenza, avesse subìto la forte influenza di
Cicerone e della filosofia greca[14].
L’utilitas è un concetto di ardua definizione[15]. L’utilità, il vantaggio pratico, la concretezza, sono tutti aspetti che, nel diritto romano, trovavano espressione nel termine utilitas[16].
Il significato del termine utilitas, utilizzato dai giuristi romani, era il medesimo che ad esso era stato attribuito dal senso comune[17]. Non appare superflua, pertanto, una previa, breve, analisi terminologica: il termine utilitas è un derivato di utor[18], il quale richiama il concetto di utilità, e di vantaggio, sia astratto che concreto. Nel diritto romano classico[19], aveva il significato semantico di «trarre giovamento, da qualcosa o da qualcuno, per un certo fine»[20].
Tuttavia, l’inquadramento giuridico di tale concetto non appare altrettanto univoco. La sintesi più efficace circa la complessità dell’utilitas fu data, in un fondamentale lavoro del 1910, da F.B. Cicala: «il concetto dell’utilitas signoreggia in tutto il campo del diritto romano: ora si impone alla considerazione del giurista, come un rilevante momento economico-sociale, ora si accosta alla necessitas, per additarci la ratio iuris o il punto di partenza dell’interpretatio, ora offre un criterio di decisiva importanza nella valutazione della giuridica rilevanza di questo o di quel comportamento degli individui, e nella commisurazione della forza ed efficacia dei rimedi giuridici»[21]. B. Biondi, nell’analizzare come il concetto di utilitas influisse sul diritto, sia nella concezione ciceroniana, sia nella giurisprudenza classica, anche a seguito dell’influsso del Cristianesimo, ha definito l’utilitas «base dell’ordinamento giuridico e dei suoi istituti»[22], concetto ribadito anche da G. Jossa, con particolare riferimento all’utilitas rei publicae, definita «fondamento e fine di tutta l’organizzazione giuridico-politica»[23]. Ma vi è una ulteriore particolare accezione di questo concetto. A. Carcaterra ha individuato l’utilitas non solo quale «componente dello ius», ma, altresì, quale «fine stesso dello ius»[24], nell’esegesi di D. 1.1.1.2, Ulpiano Liber primum institutionum:
huius studii duae sunt
positiones, publicum et privatum. Publicum ius est quod ad statum rei Romanae
spectat, privatum quod ad singulorum utilitatem: sunt enim quaedam publice
utilia, quaedam privatim[25].
Circa questo testo, sono fondamentali le considerazioni di G. Aricò Anselmo[26], la quale osserva che i termini huius studii, di cui si analizzano le due positiones, publicum et privatum, si ricollegano a D. 1.1.1.1 [27]:
Cuius merito quis nos sacerdotes appellet: iustitiam namque colimus et boni et aequi notizia profitemur, aequum ab iniquo separantes, licitum ab illicito discernentes, bonos non solum metu poenarum, verum etiam praemiorum quoque exhortatione efficere capiente, veram nisi fallor philosophiam, non simulatam affectantes.
Come afferma l’Autrice, «nella parola studium, usata subito dopo, sono evidentemente richiamati in sintesi – il dimostrativo huius ne è testimone – il iustitiam colere, il boni et aequi notiziam profiteri, l’aequum ab iniquo separare, il licitum ab illicito discernere, etc.: insomma i diversi aspetti della tanto idealizzata professione del giurista»[28]. Ed la dicotomia ius publicum-ius privatum si inquadra proprio in questo tema: «se, dunque, le due positiones di questo studium sono le due positiones della missione o, più prosaicamente, del mestiere di giurista, altro non saranno le positiones stesse (…), cioè il ius publicum e il ius privatum che vengono immediatamente appresso definiti»[29].
Nonostante
emerga la differenza fra ciò che attiene all’utilità pubblica, e ciò che
attiene a quella privata, nell’inciso sunt
enim quaedam publice utilia quaedam privatim, fra queste ultime vi può
essere concorrenza[30], ma mai contrasto o
collisione, «giacchè il riconoscimento della utilitas del singolo armonizza sempre con la utilitas altrui e della collettività»[31]. Nel contemperamento
delle utilitates che vengono in
gioco, tuttavia, quelle che attengono allo status
rei Romanae prevalgono su quelle che attengono, viceversa, «all’utilitas singulorum»[32].
Non solo nei rapporti di diritto privato l’utilitas manifesta il suo valore: è, infatti, nei rapporti di
diritto pubblico, ed in ciò che concerne la cura della res publica ed il bene comune, la communis utilitas, che l’utilitas
esplica il suo valore, la sua funzione, e, non da ultimo, la sua estrema
modernità[33].
Per poter comprendere, dunque, la natura di utilitas, le sue caratteristiche,
ed i suoi rapporti con lo ius, è
necessario porre l’attenzione sulle opere di Cicerone, il cui pensiero sembrò
avere un’eco sulla concezione che, dell’utilitas,
ebbe, in seguito, la giurisprudenza classica[34].
Nelle opere di Cicerone il termine utilitas, nelle sue diverse forme, è citato 352 volte[35]; di queste, utilitas, accostato al termine communis, compare 28 volte; utilitas rei publicae 26 volte; utilitas omnium 2 volte. Addirittura 47 volte cita il termine accostato concettualmente ad honestas. Il rilievo non è senza significato: l’importanza che, da Cicerone, viene attribuita all’utilitas poggia sulla considerazione che l’unica, vera, utilitas, meritevole di essere perseguita, è quella che riguarda il populus, la totalità dei consociati, la quale deve essere sempre improntata all’honestas, come si vedrà in seguito.
La locuzione utilitas publica, invece, compare solo due volte[36]: in Pro Sestio 91: tum res ad communen utilitatem, quas publicas appellamus, laddove qualifica le cose pertinenti alla comune utilità come pubbliche; e in de Off., 3.47: Illa praeclara, in quibus publicae utilitatis species prae honestate contemnitur, in cui emerge un connotato negativo circa “l’apparenza di pubblica utilità”[37]. Un’importante quanto preliminare questione terminologica attiene, appunto, ai rapporti fra dette locuzioni. Fra gli Autori che hanno dibattuto sul tema[38], sia Gaudemet[39] sia Jossa[40] ritengono che utilitas communis abbia lo stesso significato di utilitas rei publicae: entrambe le locuzioni avrebbero, infatti, il significato di individuare, quale utilitas conforme alla giustizia, l’utilitas communis, di tutti i consociati, dunque l’interesse collettivo (omnium). Diversa è, invece, l’interpretazione di utilitas publica, in rapporto ad utilitas communis. Già J. Gaudemet[41] aveva rilevato le differenze fra publicus e communis, osservando che i due termini non possono essere confusi, né sono equivalenti. In pro Sestio 91, Cicerone afferma che tum res ad communen utilitatem, quae publicas appellamus…[42]. Dunque, le cose che attengono alla comune utilità sono dette “pubbliche”. Tuttavia, J. Gaudemet osserva che publicus, pur corrispondendo a communis, con quest’ultimo non si confonde. Publicus, prosegue J. Gaudemet, attiene alla «civitas universa», sulla base di quanto Cicerone afferma in de Inv., 1.27:
Publicum est quod civitas universa aliqua de causa fraequentat, ut ludi, dies festus, bellum; commune, quod accidit omnibus eodem fere tempore, ut messis, vendemia, calor, frigus.
Meritano un’attenta riflessione le parole di commento al passo di J. Gaudemet: «l’utilité naturelle du groupe devient celle du peuple, organisé en cité. Publicus correspond donc bien à communis, mais sans se confondre avec lui. Il suppose le même progrès de l’organisation sociale que celui sépare les conventicola de la civitas, la juxtaposition de huttes de la vie municipale. D’une façon plus générale, il faut d’ailleurs observer que communis et publicus ne son pas équivalents». Pertanto, publicus non sarebbe l’equivalente di communis, poiché atterrebbe alla «civitas universa», mentre communis, secondo quanto rilevato anche da R. Scevola[43] nel commento a tale aspetto terminologico, atterrebbe alla collettività, senza però che questa sia relazionata con la sua «dimensione politica»[44]. R. Scevola aderisce, inoltre, alla tesi di N. Rampazzo[45] che interpreta i due concetti come operanti su piani «sovrapposti e paralleli»[46]. Una tesi contrapposta è, tuttavia, propugnata da G. Jossa, il quale, contrastando con quanto sostenuto da Gaudemet, afferma che «utilitas publica e utilitas communis sono in quest’epoca sinonimi, poiché l’utilitas publica è l’interesse della res publica, che in quest’epoca è ancora res populi, cioè collettività»; difatti, la stessa etimologia dell’espressione res publicae «porta a res populi (populicae, poplicae), cioè alle res del Popolo romano»[47].
Un punto sul quale, tuttavia, gli Autori summenzionati concordano, è la fondamentale importanza riconosciuta all’utilitas communis da Cicerone, e che raggiunge il suo apice nella definizione di populus, in de Re Pub., 1.39:
populus autem non omnis
hominum coetus quoquo modo congregatus, sed coetus multitudinis iuris consensu
et utilitatis communione sociatus[48].
In questa famosa definizione, il punto centrale, ai fini dell’esame sul concetto di utilitas, è costituito dalla locuzione utilitatis communione sociatus, che costituisce uno dei due elementi che concorrono al perseguimento del bene comune, ed alla «condivisione dell’utilità»[49], e dalla quale emergono le implicazioni politico filosofiche che si intersecano con gli aspetti giuridici che caratterizzano l’utilitas. Il perseguimento dell’utilità comune è uno dei due cardini che unisce il populus, oltre al iuris consensu, definito da L. Perelli «il giusto ed equilibrato riconoscimento dei reciproci diritti»[50]. Sull’interpretazione del iuris consensu, vi sono due fondamentali teorie: la prima, propugnata dallo stesso L. Perelli[51], vede in detta locuzione la precipua influenza di una teoria contrattualistica, sostenendo che «il consensus è un accordo tra parti contraenti che accettano una limitazione dei loro diritti al fine dell’utilità collettiva e della possibilità di una pacifica convivenza»[52], e respinge invece la teoria, esposta da E. Berti[53], secondo cui il ius, su cui poggia il consensus, coinciderebbe col diritto naturale. Tuttavia, lo stesso L. Perelli, nella prosecuzione del commento al brano, afferma che la ragione, la causa per la quale gli uomini sono spinti ad associarsi è da rinvenirsi in un «impulso naturale», secondo quanto affermato da Cicerone nel prosieguo del brano:
eius autem prima causa coeundi est non tam imbecillitas quam naturalis quaedam hominum congregatio[54].
Una posizione di compromesso fra le due teorie è assunta da R. Scevola, secondo il quale «il riassetto armonico di giustizia e utilità» passa attraverso la «concorrenza partecipata di entrambi al conseguimento del bene comune»[55].
Il perseguimento della comune utilità è un principio che non appare affatto esente da esigenze giusnaturalistiche, come si evince dalla lettura di de Leg., 1.42:
Est enim unum ius quo devincta est hominum societas et quod lex
constituit una, quae lex est recta ratio imperandi atque prohibendi. Quam qui ignorat, is est iniustus, sive
est illa scripta uspiam sive nusquam. Quodsi iustitia est obtemperatio scriptis
legibus institutisque populorum, et si, ut eidem dicunt, utilitate omnia
metienda sunt, negleget leges easque perrumpet, si poterit, is qui sibi eam rem
fructuosam putabit fore. Ita fit ut nulla sit omnino iustitia, si neque natura
est <et> ea quae propter utilitatem constituitur utilitate <a>lia
convellitur, utque si natura confirmatura ius non erit, <virtutes omnes>
tollantur[56].
Secondo Cicerone, dunque, l’utilità deve essere connaturata al diritto naturale, ed a questo deve conformarsi. È unico, infatti, il diritto dal quale è unita la società degli uomini. E questo diritto è costituito da una sola legge, la quale è la retta ragione di comandare e di proibire. Colui che la disconoscesse, commetterebbe un’ingiustizia, sia che tale legge fosse scritta o non scritta.
Qui sta un punto fondamentale della riflessione ciceroniana: se la giustizia coincidesse con la sola ottemperanza alle leggi scritte dei popoli, e se tutto fosse da riferirsi all’utilità, quest’ultima diventerebbe un concetto soggettivo e personale, motivo e cagione dell’inosservanza delle leggi stesse. La vera giustizia è solo quella conforme a natura, poiché, come ha osservato P. Cerami, il diritto naturale, assurge ad «entità positiva e storica: positiva, nella misura in cui risulta strettamente legata all’essenza razionale dell’uomo, partecipe della sua stessa essenza divina; storica, nella misura in cui si radica e si innerva nella storia universale dell’umanità»[57]. Prosegue enfaticamente l’oratore, quae propter utilitatem constituitur utilitate illa convellitur: la giustizia, istituita per utilità, dall’utilità stessa potrebbe venir sradicata. Dunque, l’utilità non attinge in se stessa il suo valore. Non è un concetto autonomo, che può, da sé medesimo, condurre a giustizia. Se ne desume che l’utilità attinge la sua funzione proprio in rispetto alla sua corrispondenza col diritto naturale, e con gli altri principi che da questo derivano[58].
Il primo aspetto da analizzare, per un
previo inquadramento del concetto di utilitas,
è il suo rapporto con il diritto naturale, come emerge da de Off.[59],
3.30:
Haec ad iudicandum sunt facillima. Nam si quid ab homine ad nullam partem utili utilitatis tuae causa detraxeris, inhumane feceris contraque naturae legem, sin autem is tu sis, qui multam utilitatem rei publicae atque hominum societati, si in vita remaneas, adferre possis si quid ob eam causam alteri detraxeris, non sit reprehendendum. Sin autem id non sit eiusmodi, suum cuique incommodum ferendum est potius quam de alterius commodis detrahendum. Non igitur magis est contra naturam morbus aut egestas aut quid eiusmodi quam detractio atque appetitio alieni, sed communis utilitatis derelictio contra naturam est; est enim iniusta[60].
Il passo è significativo. L’oratore discute il caso della sottrazione di un bene da parte di un uomo in danno di un altro uomo. E dichiara che si tratterebbe di un’azione contro la legge di natura, se venisse compiuta per il particolare vantaggio del singolo. Viceversa, qualora tale azione venisse compiuta per l’utilitas rei publicae atque hominum societati, non si tratterebbe più di un’azione da biasimare. Dunque, il perseguimento dell’utilitas communis dà valore anche ad un’azione che, prima facie, possa apparire contra ius. La parte finale del brano è emblematica: il trascurare la comune utilità significa agire contro natura. Dunque, a contrario, si comprende che il perseguimento della comune utilità è un principio del diritto naturale.
Sorge quindi
il problema di delimitare i rapporti fra l’utilitas
ed il ius naturale[61]. Per Cicerone, il diritto naturale è la legge non scritta, che scaturisce
direttamente dalla natura. Questo principio viene esposto enfaticamente
nell’orazione Pro Milone:
Pro Mil., 4.10: Insidiatori vero et latroni quae potest inferri iniusta nex? Quid comitatus nostri, quid gladii volunt? quos habere certe non liceret, si uti illis nullo pacto liceret. Est igitur haec, iudices, non scripta, sed nata lex; quam non didicimus, accepimus, legimus, verum ex natura ipsa adripuimus, hausimus, expressimus; ad quam non docti sed facti, non instituti sed imbuti sumus, —ut, si vita nostra in aliquas insidias, si in vim et in tela aut latronum aut inimicorum incidisset, omnis honesta ratio esset expediendae salutis[62].
Nella difesa di Milone, ed a proposito
della legittima difesa, Cicerone sostiene che la legge naturale -dalla quale,
nel caso di specie, scaturisce il diritto di tutelare se stessi contro una
ingiusta aggressione[63]- la si
deve esclusivamente alla natura. È dalla natura che si attinge, si prende, si
ricava questa legge, alla quale non si giunge per via di insegnamenti, ma in
forza della natura stessa; non per educazione, ma per istinto.
P. Cerami, nell’analisi di tale aspetto
della dottrina ciceroniana, osserva che, per Cicerone, «l’essenza del
«giuridico» è data dalla natura dell’uomo, e, precisamente, dalla naturalis ratio»[64], la
quale assurge a «supremo parametro di giuridicità»[65]. Lo
stesso Autore, per rafforzare il concetto, esamina Cicero, de Leg., 1.18:
lex est ratio summa, insita in natura,
quae iubet ea quae facienda sunt, prohibetque contraria. Eadem ratio, cum est in hominis
mente confirmata et <per>fecta, lex est[66].
La legge è intesa quale ratio suprema, insita in natura, che
ordina ciò che si deve fare, e proibisce ciò che non si deve. Questa stessa ratio, che nella mente degli uomini è
consolidata e compiuta, è legge, e da P. Cerami, nell’analisi del testo appena
citato, la legge viene intesa quale «fondamento (exordium) stesso del diritto»[67].
Il diritto, dunque, deriva dalla
natura, e Cicerone lo enuncia in de Leg.,
1.33: videtur quidem certe ex natura
ortum esse ius. E altrettanto avviene per l’utilitas, che, derivando dalla natura, e confluendo nel diritto
naturale quale principio, non può essere scissa dal diritto medesimo:
Cicero, de Leg., 1.33: Ius igitur
datum est omnibus, recteque Socrates exsecrari eum solebat qui primus
utilitatem a <iure> seiunxisset; id enim querebatur caput esse exitiorum
omnium[68].
L’utilitas dunque trae origine dalla natura e confluisce in quel diritto naturale che origina dalla natura anch’esso, e che è insito nella mente di tutti gli uomini. Cicerone concorda con Socrate, il quale esecrava colui che, per primo, aveva disgiunto l’utilità dal diritto (e dunque dagli altri principi che del medesimo fanno parte). Disgiungere l’utilità dal diritto comporterebbe l’origine di ogni rovina.
L’utilitas, tuttavia, costituisce la linea spartiacque, il «vero criterio distintivo»[69] fra il diritto naturale ed il diritto civile. Ciò che del diritto naturale non veniva rispettato, dal diritto civile, veniva giustificato sulla base dell’utilitas. Ma se lo stesso perseguimento dell’utilitas è un principio di diritto naturale, ecco che l’interpretazione di un determinato fatto o atto diviene più semplice, perché effettuata alla stregua di un oggettivo principio che scaturisce dal diritto naturale, e che opera quale principio mediatore fra il diritto naturale ed il diritto civile.
L’origine dell’utilitas, come affermato sopra, scaturisce direttamente dalla natura, e confluisce in quel diritto naturale di cui la natura è matrice[70]. Tuttavia, l’utilitas si interseca con altri elementi che Cicerone afferma scaturire anch’essi dalla natura, per confluire nello ius naturale: l’aequitas, la fides e la iustitia. Lo si apprende da de Fin., 2.59:
si scieris, inquit Carneades, aspidem occulte latere uspiam, et velle
aliquem inprudentem super eam assidere, cuius mors tibi emolumentum futura sit,
improbe feceris, nisi monueris ne assidat, sed inpunite tamen; scisse enim te
quis coarguere possit? Sed nimis multa. perspicuum est enim, nisi aequitas,
fides, iustitia proficiscantur a natura, et si omnia haec ad utilitatem
referantur, virum bonum non posse reperiri; deque his rebus satis multa in
nostris de re publica libris sunt dicta a Laelio[71].
Cicerone riporta un esempio del filosofo Carneade: se
si ha conoscenza che in un luogo è nascosto un aspide, e che su di esso vuole
sedersi, senza averlo notato, un uomo la cui morte può recare un vantaggio
personale, si commetterebbe un’azione malvagia a non avvertirlo. Ma l’impunità
per l’omissione sarebbe data dalla mancata prova della pregressa conoscenza del
pericolo. Cicerone, asserendo con forza nimis
multa, contesta il perseguimento del vantaggio personale, affermando che è
limpido, chiaro (perspicuum est) come
dalla natura derivino l’aequitas, la fides e la iustitia: perspicuum est
enim, nisi aequitas, fides, iustitia proficiscantur a natura. Ed il
prosieguo del passo è ancor più significativo: et si omnia haec ad utilitatem referantur, virum bonum non posse
reperiri. Se infatti l’aequitas,
la fides, la iustitia, fossero tutte rivolte esclusivamente al conseguimento
dell’utilità, in questo caso dell’utilità personale, non si potrebbe trovare un
uomo buono. L’utilitas è un principio
di diritto naturale, ma non è indipendente. Non può infatti operare, né
apportare alcun bene, laddove prescinda dall’aequitas, dalla fides, e
dalla iustitia, e dalla natura di communis che lo rende conforme a iustitia.
Nel pensiero ciceroniano, l’utilitas e l’aequitas sono elementi inscindibili, come si legge in un passo del de Finibus:
Cicero, de Fin., 3.71: Ius autem,
quod ita dici appellarique possit, id esse natura, alienumque esse a sapiente
non modo iniuriam cui facere, verum etiam nocere. nec vero rectum est cum
amicis aut bene meritis consociare aut coniungere iniuriam, gravissimeque et
verissime defenditur numquam aequitatem ab utilitate posse seiungi, et quicquid
aequum iustumque esset, id etiam honestum vicissimque, quicquid esset honestum,
id iustum etiam atque aequum fore[72].
Secondo la dottrina stoica, ciò che
viene definito “diritto” ha fondamento nella natura. Il punto fondamentale dal
passo è costituito dall’affermazione secondo cui gravissimeque et verissime defenditur numquam aequitatem ab utilitate
posse seiungi: giammai l’utilità può essere
disgiunta dall’aequità. Sembrerebbe, dunque, che il binomio aequitas-utilitas operi nel senso di un reciproco, quanto necessario,
contemperamento. Cicerone, però, prosegue: ciò che è utile deve essere
necessariamente equo. Ciò che è equo è dunque giusto e, pertanto, ciò che è
giusto è anche onesto. Ecco che si delinea l’influenza che l’honestas deve avere sull’utilitas, nei suoi rapporti con l’aequitas, e che riecheggia in de Off., 3.119:
nam ut utilitatem nullam esse docuimus quae honestati esset contraria sic omnem voluptatem dicimus honestati esse contrariam
In questo passo, Cicerone avverte che
l’utilità non ha valore, laddove sia contraria all’onestà, così come tutte le
voluttà, connotate da cieco egoismo, siano contrarie all’onestà.
In un altro testo, de Off., 3.101, la corrispondenza dell’utilità con l’onestà è
definita quale principio di natura:
Pervertunt homines ea quae sunt fundamenta naturae cum utilitatem ab honestate seiungunt[73].
Gli uomini che separano, disgiungono,
l’utilità dall’onestà, distruggono quelle che sono le fondamenta stesse della
natura: dunque, la stretta connessione fra utilità ed equità.
Il concetto di utilitas, non contemperato dall’aequitas,
porta a pericolose distorsioni del diritto, che si allontanerebbe da quella iustitia cui deve necessariamente
tendere[74]. Dunque,
l’utilitas, in quanto principio di
diritto naturale, inscindibile dall’aequitas,
deve essere improntato all’honestum[75]. Un passo significativo
in proposito si trova in de Off.,
3.74:
Atqui in talibus rebus aliud utile interdum, aliud honestum videri
solet. Falso; nam eadem utilitatis quae honestatis est regula[76].
Cicerone fa coincidere l’onestà con l’utilità, quasi a rafforzarne l’influenza reciproca, osservando che la regola dell’onestà è la medesima dell’utilità. Viene rimarcata, in tal modo, la reciprocità di tali due concetti, soprattutto a livello interpretativo di un determinato atto o fatto giuridico.
L’utilitas, contemperata dall’aequitas e limitata dall’honestum, concorre al raggiungimento della iustitia da parte del diritto. Esplicativo è il famoso passo Topica, 9, laddove Cicerone definisce lo ius civile:
Cicero, Top., 9: ius civile est aequitas constituta eis quis eiusdem
civitatis sunt ad res suas obtinendas; eius autem aequitatis utilis cognitio
est; utilis ergo est iuris civilis scienta[77].
L’equità è intesa come l’adeguamento della previsione normativa alle peculiarità del caso concreto, rispetto alla fattispecie generale ed astratta, ed implica, inevitabilmente, l’esistenza dell’uguaglianza sostanziale, alla quale devono ispirarsi tutte le norme giuridiche[78]. Cicerone, nel testo, afferma che lo ius civile nasce dal giusto contemperamento fra l’aequitas[79], e l’utilitas. Il riferimento a quest’ultima è dato dall’assunto ad res suas obtinendas, e dall’inquadramento della iuris civilis scientia come utilis. Ancora una volta, l’utilitas si pone quale concetto mediatore fra il diritto naturale ed il diritto civile. Come ha osservato E. Costa[80], lo ius civile, pur corrispondendo, nelle sue «basi essenziali», al ius naturale- proprio in quanto improntato all’aequitas, e dunque costituendo fra gli appartenenti al populus «la comune guarentigia di libertà e uguaglianza»-, con quest’ultimo non potrà mai coincidere interamente, «dovendo adattarsi necessariamente alle varie esigenze della civitas a cui si riferisce».
Il diritto deve avere dei necessari
risvolti pratici. Tuttavia, per essere conforme alla iustitia auspicata, che ha come sostrato il diritto di natura, deve
essere improntato all’aequitas[81]. Solo in
tal modo si può raggiungere quella giustizia, che consiste nel «saggio
coordinamento o subordinazione delle utilitates
che vengono in considerazione»[82].
Nell’effettuare questa operazione ermeneutica, tuttavia, il legislatore, e di
conseguenza, l’interprete, devono saper interpretare la coscienza sociale del
tempo, sfrondandola di quelle che possono essere mere istanze egoistiche, ed
individuando sia gli effettivi interessi da contemperare, sia le relative
necessità cui dar risposte concrete. Una particolare attenzione, però,
dev’essere posta a ciò che Cicerone chiama species
utilitatis[83],
nel de Officiis, 3.46, e che riguarda
l’‘apparenza’ di utilità:
Cum igitur id, quod utile videtur in
amicitia, cum eo, quod honestum est, comparatur, iaceat utilitatis species,
valeat honestas.. cum autem in amicitia, quae honesta non sunt, postulabuntur,
religio et fides anteponatur amicitiae; sic habebitur is, quem exquirimus
dilectus officii. Sed utilitatis specie in republica saepissime peccatur…[84].
La lettura di questo brano deve essere
combinata con la lettura di de Off., 3.109:
hic ea
quae videbatur utilitas plus valuit quam honestas apud superiores utilitatis
species falsa ab honestatis auctoritate superata est[85].
Cicerone spiega che, qualora ciò che sembri utilitas abbia maggior valore dell’honestas, questa falsa apparenza di utilità (utilitatis species falsa) è superata dall’autorità dell’onestà. Non si deve infatti confondere l’interesse particolare con l’utilità generale. In ciò acquistano significato i rapporti fra l’utilitas e l’aequitas. Aequitas deriva dal termine aequum[86], il quale indica ciò che è piatto, livellato, uniforme, uguale, come la superficie del mare (aequor). Aequum è ciò che vale allo stesso modo per tutti; una legge equa procura il bene di tutti i cittadini, una iniqua procura vantaggi solo ad alcuni[87]: Cicerone, in Top., 23, afferma: aequitas, quae paribus in causis paria iura desiderat. Sempre viva rimane, al riguardo, la dissertazione di S. Riccobono, il quale rileva come aequitas racchiuda, al suo interno, una varietà di significati, volti ad indicare ciò che, secondo la coscienza sociale, propria di una determinata epoca, è ritenuto giusto per tutti, secondo i principi dell’uguaglianza[88], e come essa indichi «quel che, secondo la coscienza comune di un’epoca, è giusto per tutti ugualmente e in tutti i casi della medesima specie»[89]. Anche A. Guarino, nell’analizzare le origini etimologiche di aequitas, rinvenute nel sanscrito “aika”, o “aikya”, pone l’accento sul significato intrinseco di tali termini, i quali denotano «l’idea dell’uguaglianza, dell’equilibrio, della proporzione»[90]. Ancora, B. Riposati osserva come l’essenza dell’aequitas sia ravvisabile in due elementi fondamentali, che si integrano e si compenetrano: il primo elemento attiene alla sua consonanza col diritto naturale, e ne evidenzia l’immanenza e l’eternità; il secondo elemento, che dal primo non può prescindere, concerne la sua applicazione eminentemente pratica[91].
L’equità è intesa come l’adeguamento della previsione normativa alle peculiarità del caso concreto, rispetto alla fattispecie generale ed astratta, ed implica, inevitabilmente, l’esistenza dell’uguaglianza sostanziale, alla quale devono ispirarsi tutte le norme giuridiche[92]. In tal senso, Cicerone afferma che ius civile est aequitas constituta eis qui eiusdem civitatis sunt e, in de Off., 2.42, che il diritto dovrebbe essere, e altrimenti non potrebbe essere, aequabile, quindi uniforme, imparziale, uguale per tutti: ius enim semper est quaesitum aequabile; neque aliter esset ius[93]. Ancora, afferma che il fine proprio del diritto consiste nella conservazione dell’aequabilitas[94], sia nei rapporti, sia nelle liti fra i cittadini: sit ergo in iure civili finis hic: legitimae atque usitatae in rebus causisque civium aequabilitatis conservatio[95]. L’aequabilitas è intesa quale imparzialità data dall’applicazione di uno «ius uguale per tutti»[96], la cui utilità, che gli uomini, alle origini, non coglievano, è richiamata in de Inv., 1.2 [97],: homines (…) non, ius aequabile quid utilitatis haberet, acceperat.
Ma ancora maggior rilievo acquistano i rapporti fra l’utile e l’onesto. È emblematico, al riguardo, de Off., 3.40:
Incidunt multae saepe causae, quae conturbent animos utilitatis
specie, non, cum hoc deliberetur, relinquendane sit honestas propter utilitatis
magnitudinem (nam id quidem improbum est), sed illud, possitne id, quod utile
videatur, fieri non turpiter. Cum Collatino collegae Brutus imperium abrogabat,
poterat videri facere id iniuste; fuerat enim in regibus expellendis socius
Bruti consiliorum et adiutor. Cum autem consilium hoc principes cepissent,
cognationem Superbi nomenque Tarquiniorum et memoriam regni esse tollendam,
quod erat utile, patriae consulere, id erat ita honestum, ut etiam ipsi
Collatino placere deberet. Itaque
utilitas valuit propter honestatem, sine qua ne utilitas quidem esse potuisset.
Nel passo, emerge il problema dell’apparenza di utilità, che può indurre in errore circa il giudizio su un determinato atto. E, richiamando la destituizione di Collatino da parte di Bruto, Cicerone sostiene che, per quanto l’azione di Bruto potesse sembrare ingiusta, in realtà attingeva la sua giustizia dall’utilità, e dunque dal bene, che aveva comportato, per la patria, la cacciata dei Tarquini, così come l’eliminazione dei parenti stessi di Tarquinio il Superbo, e persino il nome dei Tarquinii insieme al ricordo del regno. E provvedere al bene ed all’utilità della patria è honestum. Ancora una volta è l’utilitas communis a nobilitare ogni atto giuridico. Nel caso narrato citato, l’utilità ha prevalso proprio in virtù della sua onestà: utilitas valuit propter honestatem. E Cicerone conclude che, in assenza dell’onestà, non sarebbe stata possibile l’esistenza dell’utilità stessa. L’utilitas, l’aequitas, e l’honestas, nell’applicazione dello ius, concorrono, congiuntamente, al raggiungimento della iustitia.
Cicerone definisce la giustizia in un famoso passo del de Inventione:
[2.160] Iustitia est habitus animi communi utilitate conservata suam cuique tribuens dignitatem[98].
La giustizia, dunque, è quella
particolare disposizione d’animo volta a conseguire la comune utilità e ad attribuire
a ciascuno la sua dignitas. Questi
due elementi si trovano in concordanza logico-sostanziale: il raggiungimento
della comune utilità è posto quale primo elemento della giustizia, a
testimonianza del carattere collettivo della giustizia, da un lato; dall’altro,
“attribuire a ciascuno” indica il carattere individuale della giustizia, ancora
una volta posto in second’ordine rispetto alla comunità, e testimonia quel
concetto di «giustizia distributiva»[99] che è
proprio non solo di Cicerone, ma di tutta la mentalità giuridica romana.
Nell’ideale di iustitia che gli è proprio, Cicerone individua gli elementi che ne costituiscono il fondamento: il rispetto altrui, ed il perseguimento della comune utilità. L’utilitas viene così definita quale fondamento stesso della giustizia:
Cicero, de Off., 1.31: Sed
incidunt saepe tempora, cum ea, quae maxime videntur digna esse iusto homine,
eoque quem virum bonum dicimus, commutantur fiuntque contraria, ut reddere
depositum, [etiamne furioso?] facere promissum quaeque pertinent ad veritatem
et ad fidem; ea migrare interdum et non servare fit iustum. Referri enim decet
ad ea, quae posui principio fundamenta iustitiae, primum ut ne cui noceatur,
deinde ut communi utilitati serviatur. Ea cum tempore commutantur, commutatur officium et non semper est idem[100].
In questo brano, viene affermato il perpetuarsi costante dell’utilitas quale fine del diritto e
fondamento della giustizia. Se è vero, infatti, che la natura dell’uomo è cangiante
e mutevole, e si sostanzia proprio in un continuo cambiamento, è altrettanto
vero che, per quanto possano cambiare i tempi, e la relativa percezione dei
doveri e dei diritti dell’uomo, giammai muteranno i fundamenta iustitiae, che da Cicerone vengono individuati nel
rispetto dell’altro, e nel servire la comune utilità. La giustizia si attua quando viene posto in essere il giusto
contemperamento fra le utilitates che
vengono in considerazione, fra il singolo e l’universalità di consociati, come
si legge nel de Officiis:
Cicero, de Off., 3.26: ergo unum debet esse
omnibus propositum, ut eadem sit utilitas uniuscuiusque et universorum; quam si
ad se quisque rapiet, dissolvetur omnis humana consortio[101].
Cicerone rimarca quello che, a suo avviso,
dev’essere l’unico proposito degli uomini: far sì che l’utilità di ciascuno sia
la medesima utilità di tutti. Poiché, se taluno riservasse a sé solo l’utilità,
si dissolverebbe omnis humana consortio.
Questo concetto, espresso enfaticamente nel testo, è espresso, per quanto
concerne il populus, in de Rep., 1.39: il populus è un coetus
multitudinis iuris consensu et utilitatis communione sociatus, unito dal iuris
consensus e dal perseguimento dell’utilità comune, colonna portante che,
qualora venisse a mancare, provocherebbe il crollo di qualsiasi società umana.
Nei rapporti fra l’utilitas del
singolo e quella generale, la prima viene dunque sacrificata, qualora collida
con la seconda. Lo si apprende da de Fin.,
3.64:
Mundum autem censent
regi numine deorum, eumque esse quasi communem urbem et civitatem hominum et
deorum, et unum quemque nostrum eius mundi esse partem; ex quo illud natura
consequi, ut communem utilitatem nostrae anteponamus. nec magis est vituperandus proditor patriae quam communis utilitatis
aut salutis desertor propter suam utilitatem aut salutem
La prima parte del testo, in cui si
afferma che il mondo è retto dalla volontà divina, che si identifica in una civitas comune, di uomini e dèi, e che
da ciò consequi illud natura, cosituisce
una testimonianza di quel principio stoico secondo cui, per utilizzare le
parole di F. Cancelli, «la divinità reggitrice e ordinatrice dell’universo
s’identifica poi con la ragione, lógos, che a sua volta è la natura stessa»[102]. Nel
prosieguo del passo, Cicerone enuncia quale sia il principio di natura che
consegue da tale premessa: egli condanna severamente quel cittadino che
antepone all’utilità ed alla salute comune la sua personale salute e utilità,
considerandolo come un vero e proprio proditor
patriae. Per Cicerone, dunque, l’utilità comune, di tutti i consociati,
prevale sempre sull’utilitas del
singolo; non l’utilitas in sé, ma
solo l’utilitas che sia communis risponde al dritto naturale e
deve essere perseguita.
Costituisce un esempio significativo,
in tal senso, il caso prospettato da Cicerone in de Off., 3.19. Nel testo, si discute dell’uccisione di un
familiare: Cicerone riconosce che esso è il crimine più scellerato ed efferato
che possa esser commesso. Ma, prosegue, se tale atto è volto all’eliminazione
di un tiranno, e dunque al fine di tutelare il bene comune, non può più essere
qualificato come crimine, perché il perseguimento dell’utilitas communis ha conferito giustizia all’atto medesimo[103]. L’utilitas, come l’aequitas, costituisce allora l’aspetto mutevole, in taluni casi
pericolosamente, del diritto. Il testo citato è il seguente:
Cicero, de Off., 3.19: Saepe
enim tempore fit, ut quod turpe plerumque haberi soleat, inveniatur non esse
turpe. Exempli causa ponatur aliquid, quod pateat latius. Quod potest maius
scelus quam non modo hominem, sed etiam familiarem hominem occidere? Num igitur
se adstrinxit scelere, si qui tyrannum occidit quamvis familiarem? Populo
quidem Romano non videtur, qui ex omnibus praeclaris factis illud pulcherrimum
existimat. Vicit ergo utilitas honestatem? Immo vero honestas utilitatem secuta
est. Itaque, ut sine ullo errore diiudicare possimus, si quando cum illo, quod
honestum intellegimus, pugnare id videbitur, quod appellamus utile, formula
quaedam constituenda est; quam si sequemur in comparatione rerum, ab officio
numquam recedemus.
Nel brano, appare chiaro il riferimento
alla vicenda dell’uccisione di Cesare da parte di Bruto[104].
L’oratore pone la questione se, nel caso, l’utilitas
abbia prevalso sull’honestas; e
dichiara che, al contrario, è l’onestà che consegue (secuta est) all’utilitas.
Perciò, quando ciò che si ritiene onesto sembra contrastare (pugnare) con ciò che viene detto utile,
si deve seguire tale regola di comparazione (formula quaedam): se nel confronto di ciò che è onesto e di ciò che
è utile, l’uno consegue all’altro, significa che l’atto compiuto non ha
comportato alcun allontanamento dai proprii doveri, ed è stato dunque conforme
a giustizia. Ciò che, perciò, è veramente utile per il bene comune, è, di
conseguenza, honestum. Il termine formula richiama la conformità di tale
regola con la dottrina stoica, come esposto nel prosieguo del passo, de Off., 3.20: erit autem haec formula Stoicorum rationi disciplinaeque maxime
consentanea, secondo la quale esiste una gerarchia fra ciò che è conforme a
natura e cò che, invece, è contro natura[105].
L’utilitas
communis è il criterio giustificativo, la ratio, di qualunque norma, anche di quella che maggiormente può
apparire ingiusta, poiché è l’aderenza all’utilitas
che rende quella norma buona ed equa. A tal proposito, può valere la notazione
del Biondi, per quanto riferita ad altro contesto storico, il quale ha
sostenuto che bonum et aequum va
inteso come «quell’elemento di utile, individuale e sociale, che diventa
giusto. Non implica una semplice valutazione etica […]; è piuttosto il
conveniente, l’opportuno, l’utile in conformità alla giustizia»[106].
Tornando al testo ciceroniano, si deve
rilevare che la discussione verte sulla quaestio
se l’utile abbia, nel caso citato, conflitto con l’honestum[107]. E
Cicerone perviene alla conclusione che l’utile non ha prevalso sull’onesto, ma,
anzi, ad esso è stato conforme, perché ciò che è utile è anche onesto[108].
In ciò sta la forza e la giuridicità
delle osservazioni di Cicerone: nonostante vi sia una costante e sofferta
antitesi fra l’utile e l’onesto, nella quale egli tenta di giustificare il
secondo con il primo, quest’ultimo tende comunque a prevalere[109],
comportando il condizionamento della giustizia all’utilitas, poiché vi è giustizia solo in ciò che, pur nel rispetto
dell’honestum, serve alla respublica[110] ed alla communis utilitatis. In
Cicerone, il tentativo di conciliare l’utile con l’onesto appare quasi una
esigenza insopprimibile. Ed il perseguimento dell’utilitas, contemperato dall’aequitas
ed improntato all’honestum, è il criterio secondo il quale il
diritto deve operare.
Dall’analisi delle fonti esaminate, conseguono
determinate considerazioni. Anzitutto, in Cicerone, il concetto di utilitas non può essere disgiunto dal
concetto di communis, nel senso di utilitas di tutti i consociati: solo in
tale locuzione, così come in quella di utilitas
rei publicae, il perseguimento dell’utilitas
costituisce uno dei principi del diritto naturale, al pari dell’aequitas, dell’honestas. Quest’ultima assume caratteri di giuridicità, laddove
venga accostata all’utilitas. In
Cicerone, sembra emergere una costante compenetrazione di utilitas, aequitas e honestas, poichè soltanto dal
contemperamento di tali concetti può essere realmente perseguita la iustitia, della quale l’utilitas, per Cicerone, costituisce
addirittura uno dei fondamenti.
L’utilitas
assurge, inoltre, a criterio cardine d’interpretazione del diritto e delle
vicende umane che dal sistema giuridico-religioso romano vengono ritenute
meritevoli di tutela giuridica. Tale concetto non esula, tuttavia, dal rischio
di determinare ingiustizie, a causa della polisemia che le è propria. Affinchè
possa realmente condurre a iustitia,
l’interpretatio dell’utilitas communis deve avvenire alla
stregua del criterio, non meno elastico, per sua propria natura, dell’aequitas, e di una accurata valutazione
del bene comune, secondo i principi dell’honestas.
E il bene comune è il bene dei
consociati stessi, i quali formano quella collettività che il diritto, per sua
intrinseca natura, è volto a regolare, inquadrando, di tale collettività, gli
aspetti eminentemente pratici, e non di meno morali.
Ancorchè il diritto si possa non
rivelare in grado di comprendere tutta la fitta trama della realtà, la
giustizia risulterà pur tuttavia perseguibile laddove si tenga conto del
criterio dell’utilitas communis, da
contemperare, nel pensiero ciceroniano, con l’aequitas con l’honestas.
Una iustitia pur sempre umana,
necessariamente imperfetta, ma che costituisce il risultato più elevato che un
diritto, bonum et aequum, saprà
sempre perseguire.
[2] G. La Pira, Istituzioni di diritto romano, Firenze 1955, 9 ss.
[3] B. Biondi, Il diritto romano, Bologna 1957, 180 ss., e 225 s.
[4] G. Jossa, L’utilitas rei publicae nel pensiero imperiale dell’epoca classica, in Studi Romani, XI, 1963, 387 ss.; 387 ss.; Id., L’«utilitas rei publicae» nel pensiero di Cicerone, in Studi Romani, XII, 1964, 272; G. Longo, Utilitas publica, in Labeo, XVIII, 1972, 7 ss.
[5] G. Longo, Utilitas publica, cit., 7 ss.;
[6] P. Cerami, «Lex aeterna» e «ius naturale»: alle radici della giuridicità, in Index, 34, 2006, 77 ss.
[7] Su Plauto, si veda
E. Costa, Il diritto privato
romano nelle commedie di Plauto, Roma
1968; da ultimo, C. Venturini, Plauto come fonte giuridica: osservazioni e problemi, in L.
Agostiniani, R.M. Danese, P. Desideri, L. Peppe, R. Raffaelli, C. Venturini, Plauto testimone della società del suo tempo, Napoli 2002, 113 ss.
[8] Lucretius, de Rerum Naturae: 4.25; 4.854; 4.857; 5.860; 5.870; 5.873; 5.1029; 5.1048; 6.893; 6.1171. Sull’opera di Lucrezio, si veda S. Mcconnell, Lucretius and civil strife, in Phoenix, LXVI, 2012, 97 ss.
[10] Su questo punto, si veda: A. Steinwenter, Utilitas
publica utilitas singulorum, in Festschrift
P. Koschaker zum 60, I, 1939, 84 ss.; J.
Gaudemet, Utilitas publica, in
RD, XXIX, 1951, 465 ss.; G. Jossa, L’«utilitas rei publicae» nel
pensiero di Cicerone, cit., 272; Id., L’utilitas rei publicae nel
pensiero imperiale dell’epoca classica, cit., 387 ss.; G. Longo, Utilitas publica, cit., 7
ss.; M. L. Navarra, Utilitas
publica-utilitas singulorum tra IV e V
sec. d.C. Alcune osservazioni, in SDHI,
63, 1997, 269 ss.; R. Scevola,
Utilitas publica. Emersione nel pensiero
greco e romano, Milano 2012, 350 ss.;
Id., Utilitas publica. Elaborazione
della giurisprudenza severiana, Milano 2012, 347 ss.
[11] Su questo aspetto, si rimanda al lavoro di
M.L. Navarra, Ricerche sulla utilitas nel pensiero dei giuristi romani, Torino
2002, ed alla recente monorafia di R.
Scevola, Utilitas publica. Elaborazione
della giurisprudenza severiana, cit.
[12]
A. Steinwenter, Utilitas
publica-utilitas singulorum, cit., 89 ss.
[13] J. Gaudemet, Utilitas publica, cit., 468 ss.; nello stesso senso, vedi anche G. Longo, Utilitas publica, cit., 9.
[14] F.B. Cicala,
Il concetto dell’“utile” e le sue
applicazioni nel diritto romano, Torino 1910, 9. Si veda, in proposito, R. Scevola, ‘Utilitas publica’. Emersione nel pensiero greco e romano,
cit., 350 ss: R. Scevola ha
osservato che il concetto di utilitas,
nel pensiero greco, aveva una duplice esplicazione: da un lato oscillava «tra
una visione qualificabile in termini di realismo politico, altresì produttiva
di una nozione di giustizia subordinata alla volontà del potere vigente», ma,
dall’altro, poneva «in primo piano la ricerca del ‘giusto’, nella convinzione
secondo cui il conseguimento del medesimo fosse anche ‘utile’». Questa
concezione si sviluppò anche a Roma, durante l’età repubblicana. Lo stesso R.
Scevola, nell’esaminare la fase di integrazione culturale fra i greci ed i
romani, pone l’accento su quel fenomeno, che definisce come «costruzione dei
fondamenti ideologici dell’ormai costituito impero».
[15] La complessità del concetto di utilitas fu bene messa in luce in da F.B. Cicala, Intorno al concetto dell’«utile»
e le sue applicazioni nel diritto romano,
cit., 9.
[16] Si veda, in particolare: F.B. Cicala, Intorno al
concetto dell’«utile» e le sue applicazioni nel diritto romano,
cit., 8 ss.; H. Heumann – E. Seckel,
Handlexicon zu den Quellen des römischen
Rechts, Jena 1926, «Utilitas», 610; A.
Steinwenter, Utilitas publica utilitas singulorum, cit., 84 ss.; P.F. Izzo, Cicero and political expediency, in CW,
XLII, 1948-1949, 168 ss.; J. Gaudemet,
Utilitas publica, cit., 465 ss.; B. Biondi,
Il diritto romano cristiano, Milano
1952, 94 ss.; Id., Il diritto romano, cit., 180 ss., e 225
s.; H. Merguet, Handlexikon zu Cicero, Hildesheim 1962,
v. Utilitas, 812 s.; G. Jossa, L’utilitas rei publicae nel
pensiero imperiale dell’epoca classica, cit., 387 ss.; H. Ankum, Utilitatis causa receptum. Sur la méthode pragmatique des juristes romains
classiques, in RIDA, XV, 1968, 119 ss.; U. Leptien, Utilitas causa. Zweckmässigkeitsentscheidungen im römischen
Recht, in SDHI, XXXV, 1969, 51
ss.; G. Longo, Utilitas publica,
cit., 7 ss.; A. Carcaterra, L’analisi
del ius e della lex in elementi primi.
Celso, Ulpiano, Modestino, in SDHI, XLVI, 1980, 248 ss.; G.G. Archi, Il diritto nell’azione politica di
Giustiniano, in SDHI, XLVII,
1981, 31 ss.; G. Aricò Anselmo,
Ius publicum - ius privatum in Ulpiano,
Gaio e Cicerone, in ASGP, XXXVII, 1983, 445 ss.; L. R. Lind, The idea of the republic and
the foundation of Roman morality, in Studies
In Latin literature and Roman history, Bruxelles 1989, 5 ss.; A. Leen, Cicero and the rhetoric of art, in AJPH,
CXII, 1991, 229 ss.; F. Sini,
Bellum Nefandum, Virgilio e il problema
del “diritto internazionale antico”,
Sassari, 1991, 221 ss.; A. Lehmann,
«Utilitas» et «delectatio»: Varron théoricien de l’esthétique classique, in Melanges offerts à R. Chevalier, I,
Luxembourg 1994, 249 ss.; E. Dovere,
Le discourse juridique et moral d’«utilitas»
à Rome, in SDHI, 65, 1999, 239 ss.; E.C.
Gebbia, Cicerone e l’«utilitas
provinciae Siciliae», in Kokalos, 45,
1999, 27 ss.; M. L. Navarra, Ricerche sulla «utilitas» nel pensiero
dei giuristi romani, cit., 10 ss.; B.
Holmes, «Daedala lingua»: crafted
speech in «De rerum natura», in AJFH,
126, 2005, 527 ss.; T. Baier, Dicearco e il «De vita populi romani» di Varrone: il ruolo di «utilitas» e «voluptas»,
in Aevum(ant) N. S. 7, 2007, 259 ss.;
R. Scevola, ‘Utilitas publica’. Tomo primo, Emersione
nel pensiero greco e romano, cit., 287 ss.
[17] A. Carcaterra, L’analisi del ‘ius’ e della ‘lex’ in elementi primi, cit., 274.
[18]
A. Ernout, A. Meillet, Dictionnaire étymologique de la langue
latine, Paris 1967, 757; A. Walde,
J.B. Hofmann, Lateinisches etymologisches wörterbuch,
Heidelberg 1972, 368.
[19] A. Carcaterra, L’analisi del ‘ius’ e della ‘lex’ in elementi primi, cit., 274: l’Autore pone in evidenza l’univocità che concetto di utilitas aveva, quanto meno fino ai tempi di Ulpiano, rilevando come « l’ utilitas permei tutta la civiltà romana», ed in particolar modo lo ius.
[20] A. Carcaterra, L’analisi del ‘ius’ e della ‘lex’ in elementi primi, cit., 274.
[21] F.B. Cicala, Il concetto dell “utile” e le sue applicazioni nel diritto romano, cit., 9.
[22] B. Biondi, Il diritto romano cristiano, cit., 97.
[23] G. Jossa, L’«utilitas rei publicae» nel pensiero imperiale dell’epoca classica, cit., 387.
[24] A. Carcaterra, L’analisi del ‘ius’ e della ‘lex’ in elementi primi, cit., 274.
[25] Sul testo, v. F. Stella Maranca, Il diritto pubblico romano nella storia delle istituzioni e delle dottrine politiche, in Scritti vari di diritto romano, Bari 1931, 102 ss.; A. Carcaterra, L’analisi del ius e della lex in elementi primi. Celso, Ulpiano, Modestino, cit., 272 ss.; G. Aricò Anselmo, Ius publicum-ius privatum in Ulpiano, Gaio e Cicerone, in Annali del Seminario giuridico di Palermo 37, 1983, 452 ss.; M. KASER, Ius publicum und ius privatum, in Zeitschrift der Savigny-Stiftung für Rechtsgeschichte, 103, 1986, 6 ss.; F. Sini, Bellum Nefandum, Virgilio e il problema del “diritto internazionale antico”, cit., 221 ss.; G. Nocera, Il binomio pubblico-privato nella storia del diritto, Napoli 1989, 171 ss; F. Sini, Sua cuique civitati religio. Religione e diritto pubblico in Roma antica, Torino 2001, 174 ss.; M. L. Navarra, ‘Utilitas publica utilitas singulorum’ tra IV e V sec. d. C. Alcune osservazioni, in SDHI, LXIII, 1997, 277, nt. 55; T. Honorè, Ulpian pioneer of Human Rights, Oxford 2002, 10 ss.; R. Scevola, Utilitas publica. Elaborazione della giurisprudenza severiana, cit., 2, nt. 1, e 346.
[26]
G. Aricò Anselmo, Ius
publicum-ius privatum in Ulpiano, Gaio e Cicerone, cit., 1983, 452 ss.
[27] La bibliografia relativa al passo è sterminata. Si veda, per tutti, R. Scevola, Utilitas publica. Elaborazione della giurisprudenza severiana, cit., 344 ss.
[28] G. Aricò Anselmo, Ius publicum-ius privatum in Ulpiano, Gaio e Cicerone, cit., 454.
[29] G. Aricò Anselmo, Ius publicum-ius privatum in Ulpiano, Gaio e Cicerone, cit., 454.
[30] G. Aricò Anselmo, Ius publicum-ius privatum in Ulpiano, Gaio e Cicerone, cit., 460, e, sulla contrapposizione fra i termini status e utilitas, 480.
[31] B. Biondi, Il diritto romano, cit., 181.
[32] G. Aricò Anselmo, Ius publicum-ius privatum in Ulpiano, Gaio e Cicerone, cit., 505.
[33]
V. Scarano Ussani, L’utilità e la certezza, cit., 53.
[34] Per un’ampia disamina delle fonti giuridiche in senso
stretto, in cui il termine utilitas
appare, nelle sue diverse accezioni, si veda: F.B.
Cicala, Il concetto dell’“utile” e
le sue applicazioni nel diritto romano, cit., 10 ss.; H. Heumann, E. Seckel, Handlexicon zu den Quellen des römischen
Rects, cit., v. Utilitas, 610 s. ; B.
Biondi, Il diritto romano
cristiano, cit., 94 ss.; M.L.
Navarra, Ricerche sulla
utilitas nel pensiero dei giuristi romani,
cit., 9 ss.; R. Scevola, Utilitas
publica. Elaborazione della
giurisprudenza severiana, cit., 347 ss.
[35] La ricerca è stata condotta nella banca dati Library of Latin Text, in
http://clt.brepolis.net/llta/Default.aspx.
[36] Si veda Pro Sestio, 91: iudices, ignorat ita naturam rerum tulisse ut quodam tempore homines nondum neque naturali neque civili iure descripto fusi per agros ac dispersi vagarentur, tantumque haberent quantum manu ac viribus per caedem ac vulnera aut eripere aut retinere potuissent? qui igitur primi virtute et consilio praestanti exstiterunt, ii perspecto genere humanae docilitatis atque ingeni dissupatos unum in locum congregarunt eosque ex feritate illa ad iustitiam atque ad mansuetudinem transduxerunt. tum res ad communem utilitatem, quas publicas appellamus, tum conventicula hominum, quae postea civitates nominatae sunt, tum domicilia coniuncta, quas urbis dicimus, invento et divino iure et humano moenibus saepserunt; de Off., 3.47: Male etiam, qui peregrinos urbibus uti prohibent eosque exterminant, ut Pennus apud patres nostros, Papius nuper. Nam esse pro cive, qui civis non sit, rectum est non licere, quam legem tulerunt sapientissimi consules Crassus et Scaevola. Usu vero urbis prohibere peregrinos, sane inhumanum est. Illa praeclara, in quibus publicae utilitatis species prae honestate contemnitur. Plena exemplorum est nostra res publica cum saepe, tum maxime bello Punico secundo, quae Cannensi calamitate accepta maiores animos habuit quam unquam rebus secundis; nulla timoris significatio, nulla mentio pacis. Tanta vis est honesti, ut speciem utilitatis oscure; Per un’ultieriore interpretazione della locuzione utilitas publica, si veda anche A.S. Ahmedov, On question of influence of Roman law on Islamic law, in Diritto@Storia, Rivista Internazionale di Scienze Giuridiche e Tradizione Romana, http://www.dirittoestoria.it/8/Contributi/Ahmedov-Influence-%20Roman%20law-on-Islamic law.htm#_ftn38; A. Berger, Encyclopedic Dictionary of Roman Law, New Series, Vol. 43, Parte 2, Philadelphia 1991, 756, alla voce utilitas communis si rimanda all’utilitas publica, la quale concerne, secondo quanto riportato dalla voce, «l’interesse dello Stato».
[37] Sul passo, v. J. Gaudemet, Utilitas publica, cit., 471; G. Jossa, L’ «utilitas rei publicae» nel pensiero di Cicerone, cit., 282; R. Scevola, ‘Utilitas publica’. Tomo primo, Emersione nel pensiero greco e romano, cit., 378 ss.
[38] Sulle diverse posizioni dottrinali concernenti il rapporto fra utilitas rei publicae e utilitas publica nella giurisprudenza, si veda A. Steinwenter, Utilitas publica-utilitas singulorum, cit., 90; J. Gaudemet, Utilitas publica, cit., 471; G. Jossa, L’«utilitas rei publicae» nel pensiero di Cicerone, cit., 286; G. Longo, «Utilitas publica», cit., 13; M. Bartosek, Utilitas publica? Utilitas communis? Utilitas omnium? in Collectanea Opusculorum ad iuris historiam spectantium Venceslao Vanecek Septuagenario ab amicis discipulisque oblata, Praga 1975, 331 ss.; E. Dovere, Le discours juridique et moral d’utilitas à Rome, cit., 245; M.L. Navarra, ‘Utilitas publica utilitas singulorum’ tra IV e V sec. d. C. Alcune osservazioni, cit., 269 ss. Sul concetto di utilitas communis, così come teorizzato da Quintiliano, quale cioè «criterio fondamentale», si veda V. Scarano Ussani, L’utilità e la certezza, Milano 1987, 51; R. Scevola, ‘Utilitas publica’. Tomo primo, Emersione nel pensiero greco e romano, cit., 287 ss.
[39] J.
Gaudemet, Utilitas publica, cit., 467.
[40] G. Jossa, L’«utilitas rei publicae» nel pensiero di Cicerone, cit., 279.
[41] J.
Gaudemet, Utilitas publica, cit., 471.
[42] Sul testo, si veda R. Scevola, ‘Utilitas publica’. Tomo primo, Emersione nel pensiero greco e romano, cit., 340, nt. 71.
[43] R. Scevola, ‘Utilitas publica’. Tomo primo, Emersione nel pensiero greco e romano, cit., 340, nt. 71.
[44] R. Scevola, ‘Utilitas publica’. Tomo primo, Emersione nel pensiero greco e romano, cit., 340, nt. 71.
[45] N. Rampazzo, ‘Quasi praetor non fuerit’. Studi sulle elezioni
magistratuali in Roma repubblicana tra regola ed eccezione, Napoli 2008, 487
ss. e nt. 445.
[46] N.
Rampazzo, ‘Quasi praetor non fuerit’. Studi sulle elezioni magistratuali
in Roma repubblicana tra regola ed eccezione, cit., n. 445.
[47] F. Sini, Persone e cose: res communes omnium. Prospettive sistematiche tra diritto romano e tradizione romanistica, in Diritto@Storia, Rivista Internazionale di Scienze Giuridiche e Tradizione Romana, 7, 2008, http://www.dirittoestoria.it/7/Tradizione-Romana/Sini-Persone-cose-res-communes-omnium.htm#_3._–_Brevi_cenni_alle_vicende_stori
[48] Per la bibliografia ed il commento del passo, si rimanda a R. Scevola, ‘Utilitas publica’. Tomo primo, Emersione nel pensiero greco e romano, cit., 339 ss.; A. Valvo, Le condizioni del buon governo. Temi “municipali” nel De Officiis e nel De re Publica, in La praxis municipale dans l’Occident romain, 2010, 21 ss.; G. Lobrano, Res publica res populi, La legge e la limitazione del potere, Torino 1996, 114; L. Perelli, Il pensiero politico di Cicerone. Tra filosofia greca e ideologia aristocratica romana, Firenze 1990, 17 ss. Sul passo, sempre fondamentale rimane E. Costa, Cicerone Giureconsulto, cit., 16.
[49] R. Scevola, ‘Utilitas publica’. Tomo primo, Emersione nel pensiero greco e romano, cit., 351.
[53] Su questa posizione, si veda E. Berti, Il ‘de Republica’ di Cicerone e il pensiero politico classico, Padova 1963, 28 ss.
[54] Per quanto concerne quelle che, da L. Perelli, vengono chiamate «oscillazioni filosofiche», nel de Republica di Cicerone, si veda Id., Il pensiero politico di Cicerone, cit., 17 ss.
[56] Sul testo, vedi la traduzione di F. CANCELLI, Cicero, de Legibus, a cura di F. C., Roma 2008, 85 ss., da confrontare con il commento di L. Perelli, Il pensiero politico di Cicerone, cit., 120 ss. Per completare la visione ciceroniana, pare opportuno trascrivere quanto precede il passo appena citato (Cicero, de Leg., 1.42): Iam vero illud stultissimum, existimare omnia iusta esse quae s<c>ita sint in populorum institutis aut legibus. Etiamne si quae leges sint tyrannorum? Si triginta illi Athenis leges inponere voluissent, et si omnes Athenienses delectarentur tyrannicis legibus, num idcirco eae leges iustae haberentur? Nihilo credo magis illa quam interrex noster tulit, ut dictator quem vellet civium <nominatim> aut indicta causa inpune posset occidere. Sul testo, vedi la traduzione di F. CANCELLI, Cicero, de Legibus, a cura di F. C., cit., 85 ss., da confrontare con il commento di L. Perelli, Il pensiero politico di Cicerone, cit., 120 ss.
[57] Sul punto, v. P. Cerami, «Lex aeterna» e «ius naturale»: alle radici della giuridicità, cit., 77 ss.
[58] Si veda anche Cicero, de Inv., 2.65: Nunc huius generis praecepta videamus. Utrisque aut etiam omnibus, si plures ambigent, ius ex quibus rebus constet, considerandum est. Initium ergo eius ab natura ductum videtur; quaedam autem ex utilitatis ratione aut perspicua nobis aut obscura in consuetudinem venisse; post autem adprobata quaedam a consuetudine aut vero utilia visa legibus esse firmata. Ac naturae quidem ius esse, quod nobis non opinio, sed quaedam innata vis adferat, ut religionem, pietatem, gratiam, vindicationem, observantiam, veritatem. In questo brano, commentato da L. Perelli, Il pensiero politico di Cicerone, cit., 123, Cicerone individua l’origine e il fondamento del diritto nella natura, evidenziando poi come molte norme siano entrate nella consuetudine ex utilitatis ratione, in ragione della loro utilità. E solo in seguito alla consolidazione di queste norme, per consuetudine, o per la loro utilità, le norme medesime vennero fissate in una legge.
[59] Sul de Officiis, si veda: A. Michel, Philosophie grecque et libertes individuelles dans le de Officiis de Ciceron, in Colloquio. La filosofia graeca e il diritto romano, I, Roma, Acc. Nazionale dei Lincei, 1976, 83 ss.; E. Gabba, Per un’interpretazione politica del de Officiis di Cicerone, in Rendiconti Accademia dei Lincei, XXXIV, 1979, 117 ss.; L. Perelli, Il pensiero politico di Cicerone, cit., 137 ss.; A. R. Dick, A commentary on Cicero, De Officiis, Ann Arbor 1996; R. Fiori, Bonus vir. Politica filosofia retorica e diritto nel de Officiis di Cicerone, Napoli 2011; A. Valvo, Le condizioni del buon governo. Temi “municipali” nel De Officiis e nel De re Publica, cit., 21 ss.
[60]
Per un approfondito commento al passo, A.R.
Dick, A commentary on Cicero,
De Officiis, Ann Arbor 1996, 524 ss.; si veda, sul punto, anche G. Jossa, L’«utilitas rei publicae» nel
pensiero di Cicerone, cit., 274.
[61] Sul concetto di ius
naturale, si veda, in particolare: A.
Burdese, v. Ius naturale, in Novissimo
Digesto Italiano, IX, 384 ss.; E. Albertario,
Sul concetto di ius naturale, in Rendiconti del Reale Istituto Lombardo di Scienze
e Lettere (RIL), LVII, 1924, 168 ss.; Id.,
Concetto classico e definizioni
postclassiche del ius naturale, in Studi
di diritto romano, Milano 1937, 279 ss.; E.
Betti, Diritto romano, Padova
1935, 22 ss.; C.A. Maschi, La concezione
naturalistica degli istituti giuridici romani, Milano 1937, 3 ss.; Id., Filosofia del diritto e
diritto positivo, l’esperienza antica
(impostazione di una ricerca), in Studi in memoria
di G. Donatuti, Milano 1973, 711; P. Bonfante, Istituzioni di diritto romano, Roma
1943, 18, 20, 254.; G. Lombardi, Sul concetto
di ius gentium, Roma 1947, 61 ss.; E. Levy, Natural law
in roman thought, in SDHI, 15, 1949, 2; Id.,
Ricerche in tema di ius gentium, Milano 1946, 7 ss.; B.
Biondi, La concezione cristiana
del diritto naturale nella codificazione giustinianea, in RIDA, IV, 1950, 129 ss.; Id., Diritto romano cristiano, cit., 4 ss.; Id., Il diritto romano,
cit., 172; J. Gaudemet, Quelques remarques sur le droit naturel à
Rome, in RIDA, I, 1952, 445 ss.; G. Crifò, Diritti della personalità e diritto romano cristiano, in BIDR, LXIV. 38, 1961, nt. 21, 41 ss.; Id., A proposito di humanitas, in “Ars
boni et aequi”, in Festschrift für W.
Waldstein, Stuttgart 1993, 79 ss.; G.
Bonfante, Diritto romano e diritto
indoeuropeo, in Studi in onore di E.
Betti, II , Milano 1962, 85 ss.; F.
Cancelli, Per l'interpretazione
del De legibus di Cicerone, in RCCM, XV, 1973, 185 ss.; R. Harder, Zu Ciceros Rechtsphilosophie, in Atti del Congresso internazionale di diritto romano, I, Roma 1933,
169 ss.; E. von Hippel, Elemente des Naturrechts: eine einfuhrung, Berlin 1969; C. Longo, Note
critiche a proposito della tricotomia
ius naturale, gentium, civile, in RIL, 40, 632 ss.; R. Orestano, Introduzione allo
studio storico del diritto romano, Torino 1953, 355 ss.; G. Righi, La filosofia civile e
giuridica di Cicerone, Bologna 1930, 80; F.
Schulz, History
of Roman Legal Science, Oxford 1953, 73, 137, 163 ; G. Nocera, Ius naturale nella esperienza giuridica romana, Milano 1962; M. Voigt, Das jus naturale, aequum et bonum und jus gentium der Römer, Aalen 1966, 176 ss.; H. Wagner, Studien zur
allgemeinen Rechtslehre des Gaius. Ius gentium und ius naturale in ihrem
Verhältnis zum ius civile, in IVRA, XXIX, 1978 [1982], 271 ss.; R. Pizzorni, Il diritto naturale dalle origini a S. Tommaso d’Aquino: saggio
storico-critico, Roma 1978; G. Wesener, Römisches Recht und Naturrecht, Graz 1978; F. Gallo, Per il riesame
di una tesi fortunata sulla solutio legibus, in Sodalitas: Scritti in onore
di A. Guarino, II, Napoli 1984, 651 ss.; Id.,
Diritto e giustizia nel titolo I del
Digesto, in SDHI, 54, 1988, 7; L.C. Winkel, Einige Bemerkungen über ius naturale und ius gentium, in “Ars boni
et aequi”, Festschrift für W. Waldstein, cit., 443 ss.; W. Waldstein, Bemerkungen
zum ius naturale bei den klassichen
Juristen, in ZRG, 105, 1988, 702
ss.; Id., Ius naturale im nachklassischen römischen Recht und bei
Justinian, in ZRG, 111, 1994; Id., «Natura debere», «ius gentium» und «natura aequum» im klassischen römischen Recht, in ASGP, 52, 2007-2008, 429 ss.; M. Kaser, Ius gentium, Köln 1993, 64 ss.; C.
Gioffredi, Libertà e cittadinanza,
in Studi in onore di E. Betti, II,
cit., 509 ss.; G. Hamza, Zum Begriff des ius naturale bei Cicero, in ACD, 31, 1995, 75 ss.; P.P. Onida, Studi sulla
condizione degli animali non umani nel sistema giuridico romano, Torino
2002, 95 ss.; P.
Cerami, «Lex aeterna» e «ius naturale»: alle radici della giuridicità,
cit., 77 ss.; K.-W. Welwei, Die Stellung der Sklaven im Spannungsfeld
von «ius gentium» und «ius naturale»
aus der Sicht römischer Juristen, in Laverna,
17, 2006, 87 ss.; L.L. Kofanov, Fas e ius naturale nel pensiero di Cicerone e dei giuristi romani, in Diritto @ Storia, 8, 2009, http://www.dirittoestoria.it/8/Tradizione-Romana/Kofanov-Fas-ius-naturae-Cicerone-giuristi-romani.htm.
[62] Cicero, Pro Mil., 4.10. Fondamentale, per quanto concerne un’analisi del diritto naturale e, del concetto ciceroniano di diritto naturale, rimane l’opera di M. Voigt, Das jus naturale, aequum et bonum und jus gentium der Römer, cit., 176 ss.; sul passo de quo, E. Levy, Natural law in roman thought, cit., 3.
[64] P. Cerami, «Lex aeterna» e «ius naturale»: alle radici della giuridicità, cit., 77.
[66] Cicero, de Leg., 1.18-19: Igitur
doctissimis viris proficisci placuit a lege, haud scio an recte, si modo, ut
idem definiunt lex est – lex est. Itaque arbitrantur prudentiam
esse legem, cuius ea vis sit, ut recte facere iubeat, vetet delinquere, eamque
rem illi Graeco putant nomine nòmon <a> suum cuique tribuendo appellatam,
ego nostro a legendo. Nam ut illi aequitatis, sic nos delectus vim in lege
ponimus, et proprium tamen utrumque legis est. Quod si ita recte dicitur, ut
mihi quidem plerumque videri solet, a lege ducendum est iuris exordium. Ea est
enim naturae vis, ea mens ratioque prudentis, ea iuris atque iniuriae regula.
Sed quoniam in populari ratione omnis nostra versatur oratio, populariter
interdum loqui necesse erit, et appellare eam legem, quae scripta sancit quod
vult aut iubendo <aut prohibendo>, ut vulgus appellare <solet>.
Constituendi vero iuris ab illa summa lege capiamus exordium, quae, saeclis
<communis> omnibus, ante nata est quam scripta lex ulla aut quam omnino
civitas constituta. Si veda, sul passo, E. Levy, Natural law in Roman thought, cit., 2; P. Cerami, «Lex aeterna» e «ius
naturale»: alle radici della giuridicità, cit., 77 ss.; Cicero, de Legibus, a
cura di F. Cancelli, cit., 69; F. Fontanella,
Introduzione al de Legibus, cit., 494 s.
[67] P. Cerami, «Lex aeterna» e «ius naturale»: alle radici della giuridicità, cit., 77.
[68] Cicero, de Leg., 1.33: Sequitur igitur ad participandum alium <cum> alio communicandumque inter omnes ius <n>os natura esse factos. Atque hoc in omni hac disputatione sic intellegi uolo, quo<m> dicam naturam [esse]; tantam autem esse corruptelam malae consuetudinis, ut ab ea tamquam igniculi exstinguantur a natura dati, exorianturque et confirmentur vitia contraria. Quodsi, quo modo s<un>t natura, sic iudicio homines 'humani, ut ait poeta, nihil a se alienum putarent', coleretur ius aeque ab omnibus. Quibus enim ratio <a> natura data est, isdem etiam recta ratio data est; ergo et lex, quae est recta ratio in iubendo et vetando; si lex, ius quoque; et omnibus ratio.
[69]
F. Sini, Bellum Nefandum, Virgilio e il problema del “diritto internazionale antico”, cit.,
222. Si veda, inoltre, Ibid., 221.
[70] J.
Gaudemet, Quelques remarques sur le droit naturel à Rome,
cit., 450 ss.; R.N. Wilkin,
Eternal Lawyer, A Legal Biografy of Cicero, New York 1947, 223 ss.
[71] Cicerone, De fin., 2.59. Si veda Cicero, I termini estremi del bene e del male, a cura di N. Marinone, Torino 1988, 172 ss.
[72] Cicero, Sui termini estremi del bene e del male, cit., 291.
[74] Anche se, per quanto riguarda i rapporti fra la guerra
e l’utilitas, si veda F. Sini, Bellum Nefandum. Virgilio e il problema del diritto
internazionale antico, cit., 221: «Cicerone, nel famoso discorso di Furio
Filo, improntato com’è noto alle idee di Carneade, ricorre all’esempio della
guerra per dimostrare quantum ab iustitia
recedat utilitas: Cur enim per omnes
populos diversa et varia iura sunt condita, nisi quod una quaeque gens id sibi
sanxit, quod putavit rebus suis utile? Quantum autem ab iustitia recedat
utilitas, populus ipse Romanus docet, qui per fetiales bella indicendo et
legitime iniurias faciendo semperque aliena cupiendo atque rapiendo
possessionem sibi totius orbis comparavit».
[75] F.B. Cicala, Il concetto dell “utile” e le sue applicazioni nel diritto romano, cit., 9.
[76] Cicero, de Off.,
3.74: Sed cum Basilus M. Satrium sororis
filium nomen suum ferre voluisset eumque fecisset heredem (hunc dico patronum
agri Piceni et Sabini; o turpe notam temporum [nomen illorum]!), non erat
aequum principes civis rem habere, ad Satrium nihil praeter nomen pervenire.
Etenim si is, qui non defendit iniuriam neque propulsat a suis, cum potest,
iniuste facit, ut in primo libro disserui, qualis habendus est is, qui non modo
non repellit, sed etiam adiuvat iniuriam? Mihi quidem etiam verae hereditates
non honestae videntur, si sunt malitiosis blanditiis, officiorum non veritate,
sed simulatione quaesitae. Atqui in talibus rebus aliud utile interdum, aliud
honestum videri solet. Falso; nam eadem utilitatis quae honestatis est regula.
Sul passo, A.R. Dick, A commentary on Cicero, De Officiis,
cit., 590.
[77]
Sul passo, fondamentale rimane il commento di E.
Costa, Cicerone giureconsulto,
cit., 21.
[78] F. Gallo, Diritto e giustizia nel titolo I del Digesto, cit., 33.
[79] Sull’aequitas, in particolare: P. Bonfante, Aequitas, in «Scritti giuridici vari», IV, Torino 1918, 124 ss.; F. Pringsheim, Aequitas und bona fides, in Conferenza per il XIV Centenario delle Pandette, Milano 1930, 183 ss.; A. Giannini, L’equità, in AG XXI, 1931, 177 ss.; V. Devilla, Aequitas naturalis, in Scritti di diritto ed economia in onore di F. Mancaleoni, Sassari 1938, 125 ss.; Per il concetto di “equità”, si veda C. Perris, Equità, in Nuovo Digesto Italiano, V, Torino 1938, 446 ss.; H.K.J. Ridder, Aequitas and equità, in Archiv. für Rechts- & Sozialphilos, XXXIX, 1951, 181 ss.; A. Biscardi, Riflessioni minime sul concetto di aequitas, in Studi Donatuti, cit., 137 ss.; B. Riposati, Una singolare nozione di aequitas in Cicerone, in Studi in onore di B. Biondi, II, Milano 1965, 447 ss.; A. Zamboni, L’aequitas in Cicerone, in AG, CLXX, 1966, 167 ss.; E. Fantham, Aequabilitas in Cicero’s political theory and the Greek tradition of proportional justice, in CQ, XXIII 1973, 285 ss.; A. Guarino, Equità, in Novissimo Digesto Italiano, VI, 5619 ss.; C.A. Maschi, Filosofia del diritto e diritto positivo. L’esperienza antica (Impostazione di una ricerca), cit., 709 ss.; P. Pinna Parpaglia, Aequitas in libera republica, Milano 1973; Id., Έπιέίκεια greca, aequitas romana e filosofia greca a Roma, in SDHI, XL, 1974, 415 ss.; O. Robleda, La aequitas en Ciceron, in Humanidades II, 1950, 31 ss.; P. Silli, Mito e realtà dell’«aequitas christiana», Milano 1980, 5 ss.; W. Waldstein, Aequitas und summum ius, in Tradition und Fortenwicklung im Recht, Festschrift für Ulrich von Lübtov, 1991, 23 ss.; F. Sini, Bellum Nefandum, Virgilio e il problema del “diritto internazionale antico”, cit., 221 ss.; M. Talamanca, L’«aequitas naturalis» e Celso in Ulp. 26 Ad ed. D.12,4,3,7, in BIDR, 35-36, 1993-1994, 3° ser., 1 ss.; Id., Idee vecchie e nuove su Cels.- Ulp. 26 ad Ed. D.12,4,3,7, in BIDR, 39, 1997, 3° ser. 567 ss; P. Voci, «Ars boni et aequi», in INDEX, 27, 1999, 1 ss; per il concetto di Equity, proprio della common law, si veda M. Sarfatti, Equity, in Nuovo Digesto Italiano, V, Torino 1938, 450 ss. L’aequitas, in Cicerone, è stata definita «uno dei cardini della sua ideologia»: G. Jossa, L’«utilitas rei publicae» nel pensiero di Cicerone, cit., 277.
[80] E. COSTA, Cicerone giureconsulto, cit., 22 ss.
[81] M. Voigt, Das jus naturale, aequum et bonum und jus gentium der Römer, cit., 34
ss.
[82]
B. Biondi, Diritto Romano Cristiano, cit., 97.
[83] Sulle species utilitatis, si veda R. Scevola, ‘Utilitas publica’. Emersione nel pensiero greco e romano, cit., 379; G. Jossa, L’ «utilitas rei publicae» nel pensiero di Cicerone, cit., 282.
[84] Per il commento a questo passo, si veda G. Jossa, L’ «utilitas rei publicae» nel pensiero di Cicerone, cit., 282.
[85] Sul passo, A.R. Dick, A commentary on Cicero, De Officiis, cit., 633.
[86] A. Ernout- A.Meillet, cit., 11.
[87] A. Mastrocinque, Il giuramento sul Monte Sacro, in Diritto @ Storia. Rivista Internazionale di Scienze Giuridiche e Tradizione Romana, 6, 2007, http://www.dirittoestoria.it/6/Memorie/Tribunato_della_Plebe/Mastrocinque-Giuramento-Monte-Sacro.htm
[88] S. Riccobono, Aequitas, in Nuovo Digesto Italiano, I, Torino 1937, 211.
[89]
S. Riccobono, Aequitas, cit.,
210.
[92] F. Gallo, Diritto e giustizia nel
titolo I del Digesto, cit., 33.
[93] Sul punto, E. Costa, Cicerone giureconsulto, cit., 29.
[94] Sul concetto di aequabilitas, si veda F. Pagnotta, Cicerone e l’ideale dell’aequabilitas. L’eredità di un antico concetto filosofico, Cesena 2007, 68 ss.
[95] Cicero, de Or., 1.188. Su tale passo, si veda F. Fontanella, Ius pontificium, ius civile e ius naturae in de Legibus II, 45-53, cit., 1, 257.
[96] Sul punto, si veda D. Mantovani, Cicerone storico del diritto, in Ciceroniana. Atti del XIII Colloquium Tullianum, Milano, 27-29 marzo 2008, Roma, Centro di studi ciceroniani, 2009, 308, e nt. 38.
[97] Cicero, de Inv., 1.2: Nam fuit quoddam tempus, cum in agris homines passim bestiarum modo vagabantur et sibi victu fero vitam propagabant nec ratione animi quicquam, sed pleraque viribus corporis administrabant, nondum divinae religionis, non humani officii ratio colebatur, nemo nuptias viderat legitimas, non certos quisquam aspexerat liberos, non, ius aequabile quid utilitatis haberet, acceperat. Ita propter errorem atque inscientiam caeca ac temeraria dominatrix animi cupiditas ad se explendam viribus corporis abutebatur, perniciosissimis satellitibus.
[98]
Cicero, de Inv., 2.160: Prudentia est rerum bonarum et malarum neutrarumque
scientia. Partes eius: memoria, intellegentia, providentia. Memoria est, per
quam animus repetit illa, quae fuerunt; intellegentia, per quam ea perspicit,
quae sunt; providentia, per quam futurum aliquid videtur ante quam factum est. Iustitia
est habitus animi communi utilitate conservata suam cuique tribuens dignitatem.
Eius initium est ab natura profectum; deinde quaedam in consuetudinem ex
utilitatis ratione venerunt: postea res et ab natura profectas et ab
consuetudine probatas legum metus et religio sanxit. Su tale celeberrima
definizione, e sul concetto di “iustitia pagana”, si veda l’analisi di B. Biondi, Il diritto romano cristiano,
cit., 94 ss. e L. Perelli, Il
pensiero politico di Cicerone, cit., 117.
[99] L. Perelli, Il pensiero politico di Cicerone, cit., 117.
[100]
Cicero, de Off., 1.31.
[101] Cicero, de Off., 3.26.
[102] Cicero, de Legibus, a cura di F. Cancelli, Roma 2008, 16.
[103]
Sul brano, si vedano le considerazioni di G.
Jossa, L’«utilitas rei
publicae» nel pensiero di Cicerone,
cit., 280.
[104] L. Perelli, Il pensiero politico di Cicerone, cit., 140.
[105] A. Dick, A commentary on Cicero, cit., 520 ss.
[106]
B. Biondi, Il diritto romano
cristiano, cit., 58.
[107] Su questo punto, si veda J. Gaudemet,
Utilitas publica, in Revue historique de
droit français et étranger, 4° serie, 1951, 468 ss.
[108] In numerosi altri passi Cicerone cerca di coniugare
l’utile con l’honestum. Si veda, in
particolare, de Off., 3.11: Quam ob rem de iudicio Panaetii dubitari non
potest; rectene autem hanc tertiam partem ad exquirendum officium adiunxerit an
secus, de eo fortasse disputari potest. Nam, sive honestum solum bonum est, ut
Stoicis placet, sive, quod honestum est, id ita summum bonum est, quemadmodum
Peripateticis vestris videtur, ut omnia ex altera parte collocata vix minimi
momenti instar habeant, dubitandum non est quin numquam possit utilitas cum
honestate contendere. Itaque accepimus Socratem exsecrari solitum eos, qui
primum haec natura cohaerentia opinione distraxissent. Cui quidem ita sunt
Stoici assensi, ut et, quicquid honestum esset, id utile esse censerent, nec
utile quicquam, quod non honestum; e de
Off., 3.46: Cum igitur id, quod utile
videtur in amicitia, cum eo, quod honestum est, comparatur, iaceat utilitatis
species, valeat honestas. Cum autem in amicitia, quae honesta non sunt,
postulabuntur, religio et fides anteponatur amicitiae; sic habebitur is, quem
exquirimus dilectus officii. Sed utilitatis specie in republica saepissime
peccatur, ut in Corinthi disturbatione nostri; durius etiam Athenienses, qui
sciverunt, ut Aeginetis, qui classe valebant, pollices praeciderentur. Hoc visum est utile; nimis enim
imminebat propter propinquitatem Aegina Piraeo. Sed nihil, quod crudele, utile;
est enim hominum naturae, quam sequi debemus, maxima inimica crudelitas.
[109]
B. Biondi, Il diritto romano
cristiano, cit., 96.
[110] G. Jossa, L’«utilitas rei publicae» nel pensiero di Cicerone, cit., 275 e
281: l’analisi dell’Autore, circa il valore dei passi in cui Cicerone cerca di
far coincidere l’utile con l’honestum,
è di estremo rilievo: «Ciò non significa tuttavia che non si sia insinuato
anche in Cicerone il sospetto di un possibile contrasto tra giusto ed utile,
equità e diritto. (…)»; Cicerone credeva «in una sorta di repubblica ideale»
nella quale non vi sia contrasto fra il giusto e l’utile, «ma è difficile
credere che Cicerone non si accorgesse affatto dell’esistenza di quel contrasto
nella politica e anche nel diritto di Roma, o che, vedendolo, lo giustificasse
appieno altrimenti da un punto di vista squisitamente politico».