Testatina-DInnovazione2013

 

 

Contini-piccolaA proposito di elezione del Presidente della Repubblica Italiana*

 

GIUSEPPE CONTINI

Professore emerito nell’Università di Cagliari

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SOMMARIO: 1. Premessa. – 2. Introduzione. – 3. Il Parlamento in seduta comune. – 4. La sede vacante. – 5. Il Presidente della Camera dei deputati. – 6. I delegati regionali e la verifica dei poteri. – 7. L’elettorato passivo. – 8. Le candidature. – 9. Le votazioni. – 10. Le maggioranze necessarie. – 11. Il giuramento. – 12. Osservazioni finali.

 

 

1. – Premessa

 

Quando si concordarono gli argomenti nei quali si sarebbe dovuto strutturare il presente simposio, si cercò di far sì che ciascun relatore scegliesse quello che più si attagliava ai suoi interessi di ricerca. Personalmente non feci nessuna scelta: così, alla fine, ci si trovò con un argomento ed un relatore che non si scelsero, ma si trovarono accoppiati. In effetti, l’argomento sembrava essere, apparentemente, di carattere meramente espositivo; tuttavia, a ben guardare, le implicazioni problematiche che ne derivano sono numerose, rilevanti per la stessa struttura costituzionale dello Stato e di notevole importanza così da rendere difficile una loro trattazione, se non esauriente quanto meno soddisfacente, in una relazione che deve, peraltro giustamente, essere temporalmente molto limitata.

 

 

2. – Introduzione

 

Bisogna premettere che in uno Stato il quale pone a suo fondamento il riconoscimento che «la sovranità appartiene al popolo» e sceglie la forma di governo parlamentare come strumento basilare per la gestione della cosa pubblica, nel rispetto del principio della divisione dei poteri, non è cosa facile trovare, nel rispetto dell’applicazione della regola del check and balance, il giusto equilibrio tra i diversi organi e le varie funzioni.

Uno degli elementi che costituiscono la struttura portante dell’ordinamento costituzionale di ogni Paese è dato dalla figura del Capo dello Stato. E’ logico quindi che, nel passaggio dalla monarchia alla repubblica, in sede di Assemblea costituente, un’attenzione particolare sia stata riservata a questa istituzione.

Questa fondamentalmente era la problematica davanti alla quale si trovò l’Assemblea costituente italiana quando, nell’ormai lontano 1946, iniziò i suoi lavori.

Fino a quel momento, il capo dello Stato (monarca o Presidente della Repubblica) era visto come il più alto organo dello Stato. All’inizio degli anni ’30, con una formula sintetica ma efficace, lo si definiva come il «gardien de la constitution», cioè come il garante supremo (superior non recognoscens) del patto costituzionale (Gordon, La responsabilité du Chef de l’Etat dans la pratique constitutionnelle recente, Paris, 1931).

C’è da chiedersi se ancora oggi – dopo l’evoluzione che la società ha avuto e le esperienze politiche, storiche e giuridiche che si sono sin qui fatte – una tale definizione sia ancora valida. La risposta pare debba essere negativa. Basti pensare alla nascita delle giurisdizioni costituzionali (variamente chiamate: Corte suprema, corte costituzionale, tribunale costituzionale, consiglio costituzionale e con maggiori o minori competenze nonché con diverse procedure per adirvi) divenute giuridicamente e politicamente non soltanto le vere guardiane, ma addirittura le interpreti della Costituzione, Corti che si pongono persino al di sopra degli stessi Parlamenti (è ipotizzabile addirittura la possibile incostituzionalità delle leggi costituzionali, non fosse altro – ma non solo – che per gli aspetti procedurali) al disopra dello stesso popolo sovrano (basti pensare al giudizio di ammissibilità che spetta alla Corte Costituzionale italiana sulla richiesta di referendum).

Specificamente per quanto riguarda il sistema di elezione del Presidente della Repubblica, in sede di Assemblea costituente furono prospettate due soluzioni che sostenevano l’una la sua elezione diretta a suffragio universale, l’altra la sua elezione da parte delle due Camere riunite. Diversi furono gli argomenti a favore e contro le due tesi.

In particolare, da parte dei sostenitori della prima soluzione si osservava come fosse necessario che il Presidente, per le particolari funzioni a lui attribuite (tra esse specialmente lo scioglimento di una o di entrambe le Camere), dovesse avere una base elettorale sua propria che, provenendo direttamente dal corpo elettorale, gli conferisse una legittimazione tale da dargli la forza di contrapporsi agli altri organi costituzionali che pure derivavano il loro potere dal titolare primo della sovranità, cioè dal popolo. Un’investitura derivata, invece, avrebbe indebolito, forse anche limitato se non addirittura condizionato il Presidente nell’esercizio delle sue alte e delicate funzioni, ponendolo in una posizione quasi di dipendenza, non tanto giuridica, quanto e soprattutto politica e morale, rispetto al Parlamento che lui avrebbe anche potuto sciogliere.

Dall’altra parte si sosteneva che «i rappresentanti del popolo hanno maggiore possibilità di scegliere elementi adatti all’alta funzione» e si considerava inoltre che comunque, in definitiva, sia in Parlamento sia nei confronti del corpo elettorale, l’influenza dei partiti politici era egualmente forte. Era quest’ultima osservazione in particolare una presa d’atto del ruolo che ai partiti politici era riconosciuto anche nella stessa Carta costituzionale (art. 49 Cost.) e che però doveva portare, nel corso del tempo, alla degenerazione da sistema dei partiti in partitocrazia.

Alla fine fu esclusa l’adozione di un sistema di elezione diretta da parte popolare, anche perché fu ritenuto pericoloso il fornire un’investitura popolare tanto forte da essere suscettibile di minare in qualche modo la primauté parlamentare, dando nel contempo eccessivo peso al Presidente.

In effetti, la maggiore preoccupazione che avevano i costituenti era quella di introdurre nella Carta tutte le garanzie possibili al fine di diminuire il rischio del ritorno di un regime antidemocratico, ed in particolare evitare possibili derive dittatoriali. E’ in questo contesto che si debbono inquadrare le norme relative alla salvaguardia degli equilibri tra i diversi organi dello Stato, norme che tendono a non dare, nell’ambito del sistema nel suo complesso, un peso eccessivo ad un organo rispetto ad un altro. Siffatta attenzione ha riguardato specialmente gli organi monocratici e, segnatamente, il Presidente della Repubblica ed il Presidente del Consiglio dei ministri. Non pare si possa negare però che i limiti posti esplicitamente hanno finito per incidere sulla stessa funzionalità di detti organi. La figura ed il ruolo di «supremo equilibratore» riconosciuto al Capo dello Stato, quindi, nasce non tanto dalla lettera della Costituzione, quanto piuttosto dalle prassi che sono andate instaurandosi ed evolvendosi grazie proprio al voluto silenzio della Carta in merito. E’ nell’ambito di un siffatto quadro che si sviluppò la discussione sulla rieleggibilità del Presidente, discussione che si concluse con la decisione salomonica di non stabilire niente in merito e di lasciare che fosse la prassi a dare soluzione al problema. Così è avvenuto che, dal 1948 al 2013, non ci sono state rielezioni. Però la situazione particolare verificatasi negli ultimi anni ha fatto sì che la lunga prassi sia stata interrotta e, per la prima volta nella storia della Repubblica, sia stato rinnovato il mandato presidenziale per un secondo settennato.

Non si può non ricordare che in sede di Assemblea costituente ci fu chi (Tosato, Ass.cost., Resoconti, 338-339, ed ivi anche Ruini) affermò che un Presidente della Repubblica eletto direttamente dal popolo «non si limiterà ad essere un organo che tuteli l’ordinamento e il corretto funzionamento degli organi costituzionali secondo la Costituzione, ma vorrà intervenire effettivamente e decisamente – la natura stessa delle cose lo porta – nella vita dello Stato, far sentire la sua voce, far valere e imporre la sua volontà». Questo, tuttavia, si è puntualmente verificato, nonostante il diverso metodo elettorale scelto. E’ inoltre da ricordare quanto fu approvato nella II sottocommissione dei 75 (Res. seduta del 4 novembre 1946, 102 ss.): «Udita la relazione degli on.li Mortati e Conti, ritenuto che né il tipo del governo presidenziale, né quello del governo direttoriale risponderebbero alle condizioni della società italiana, si pronuncia per l’adozione del sistema parlamentare da disciplinarsi, tuttavia, con dispositivi costituzionali idonei a tutelare le esigenze di stabilità dell’azione di governo e ad evitare le degenerazioni del parlamentarismo». La realtà sembra però abbia tradito gli auspici.

Ciò detto si può passare ora ad esaminare in modo sistematico quanto l’ordinamento costituzionale italiano prevede in ordine al procedimento elettorale per la scelta del Presidente della Repubblica ed alle problematiche relative.

 

 

3. – Il Parlamento in seduta comune

 

Per quanto riguarda l’elettorato attivo, esso è costituito da un collegio elettorale composto da tutti i deputati ed i senatori in carica alla data di inizio delle votazioni oltreché dai 58 delegati eletti dai Consigli regionali (tre per ogni Regione ed uno per la Valle d’Aosta) (art. 83, I e II comma Cost.).

Dal momento in cui nella Costituzione non fu accolta la proposta di dare al Paese un’Assemblea nazionale monocamerale, vista dai più come pericolosa perché sprovvista di contrappesi validi e non si ebbe, peraltro, il coraggio di creare un bicameralismo imperfetto che, fin dall’inizio, desse spazio e voce alle forze economiche e sociali ed alle comunità locali, preoccupati che ciò potesse attentare alla stessa unità nazionale o, addirittura alla tenuta democratica del sistema istituzionale, si optò per un bicameralismo paritario e, temendo l’ombra della Camera dei fasci e delle corporazioni, ma volendo al contempo dare un contentino ai sindacati dei lavoratori e dei datori di lavoro, si arrivò alla concezione abortiva del C.N.E.L. che da sempre ha mostrato di essere un organismo inutile ma costoso, in genere vero e proprio cimitero degli elefanti per personaggi politicamente decotti o, come usa dire oggi, da rottamare.

Ci si rese però conto della necessità funzionale e della opportunità politica che, almeno in particolari ipotesi, i due rami del Parlamento si riunissero congiuntamente in unica assemblea presieduta dal Presidente della Camera dei deputati (art. 63 cpv. Cost.). I casi di riunione in unica assemblea possono essere raggruppati in tre categorie. La prima di carattere, se non di natura, giudiziaria per mettere in stato d’accusa il Capo dello Stato (originariamente anche il Presidente del Consiglio dei ministri ed i ministri, norma eliminata dalla l.c. 16 gennaio 1989, n.1) ed eleggere i delegati parlamentari a sostenere l’accusa davanti alla Corte costituzionale (art. 90 Cost. ed artt. 12 l.c. 11 marzo 1953, n. 1, e 17 l. 25 gennaio 1962, n. 20); la seconda, di carattere dichiarativo o notarile, per ricevere il giuramento del Presidente della Repubblica (art. 91 Cost.) e la terza, di carattere elettorale, per determinare l’elenco di cittadini dai quali estrarre i sedici giudici aggregati per integrare la Corte costituzionale nei giudizi d’accusa contro il Capo dello Stato (art. 135 Cost.); per eleggere un terzo dei componenti il Consiglio superiore della magistratura (art. 104 comma IV Cost.); per eleggere un terzo dei giudici della Corte costituzionale (art. 135 comma I Cost.) ed, infine per l’elezione del Presidente della Repubblica (art. 83 Cost.). In questo ultimo caso l’Assemblea ha ancora più marcate le caratteristiche di vero e proprio corpo distinto dalle altre ipotesi, non fosse altro che per la partecipazione ad esso dei delegati regionali che ne modificano la stessa essenza, tra l’altro, perché, mentre ogni parlamentare rappresenta la Nazione (art. 67 Cost.) ciascuno dei delegati regionali, in quanto delegato da una determinata Regione, non può rappresentare che questa. Tale elemento sembra essere più che sufficiente per poter affermare che si tratta quindi di un corpo elettorale ad hoc, assolutamente distinto da quello costituito dai soli componenti delle due Camere.

Mentre per la prima categoria appare evidente che si tratta di un collegio perfetto, perché lo stesso oggetto rende implicita la necessità di una discussione prima della decisione, per quanto attiene alla seconda ed alla terza categoria sembra che la natura giuridica del collegio sia imperfetta in quanto si tratta di veri e propri corpi elettorali che si riuniscono esclusivamente per esprimere il loro voto. E’ quindi conseguentemente da ritenere che nel corso della seduta elettorale sia esclusa ogni discussione o presa qualsivoglia altra deliberazione. Resta la possibilità che vengano sollevate eccezioni o denunciate irregolarità da parte di uno o più componenti il corpo elettorale, ma ciò non comporta discussione, in quanto è da ritenere che le rimostranze siano rivolte al presidente del seggio elettorale (Mazziotti, Parlamento (funzioni), in Enc. dir., vol. XXXI, 813) che può o meno rispondere essendo il dominus ex lege della situazione. Ciò venne affermato, e da nessuno smentito, già nel 1948 (intervento Dossetti in Atti Camera, I legislatura, I seduta, 10) e successivamente confermato con analoghe dichiarazioni fatte e conseguenti comportamenti tenuti sino ad oggi (si possono ricordare le sedute del 29 luglio 1954 – Atti parl., seduta comune, I leg., I seduta, 15 – e del 28 aprile 1955 e del 2 maggio 1962 –. Resoconti parl. di tali sedute rispettivamente alle pagg. 10 e 28).

In generale, si deve dire che, per quanto riguarda le riunioni del Parlamento in seduta comune, questo potrebbe anche darsi proprie norme regolamentari ma altrettanto non sembra possa dirsi quando il collegio agisce con funzioni elettorali e, in particolare, in forma integrata. D’altro canto anche la prassi instauratasi ha dimostrato ampiamente la non necessità di una tale normativa.

Da parte di qualche autore si è mostrata la preoccupazione che il Presidente della Repubblica possa venire «facilmente a trovarsi legato al collegio elettorale così da divenirne prigioniero» (Marchi, Il Capo dello Stato, in Comm. Calamadrei e Levi, vol. II, 10). Si può dire che l’esperienza maturata durante gli oltre sessant’anni di vita repubblicana non ha confermato questa preoccupazione.

 

 

4. – La sede vacante

 

Con l’espressione “sede vacante” si vuole indicare la situazione giuridica che si verifica quando, in modo permanente ed irreversibile, venga a scoprirsi il posto di Presidente della Repubblica e, per la continuità dell’organo, le funzioni vengano quindi, senza soluzioni di continuità, esercitate in via suppletiva dal Presidente del Senato (art. 86, I comma Cost.). Il termine del settennato comporta che il Presidente della Camera, trenta giorni prima della sua scadenza, convochi il corpo elettorale ad hoc (art. 85 cpv. Cost.). E’ data una sola eccezione, prevista per evitare che si verifichino ingorghi costituzionali (art. 85 u.c., Cost.) eccezione che mostra la preoccupazione del costituente di ridurre al minimo la durata dell’eventuale supplenza da parte del Presidente del Senato. Ma la vacanza al vertice della Repubblica può essere determinata da altre cause che il costituente ha così elencato all’art. 86 cpv. Cost.: impedimento permanente, morte, dimissioni.

Nel caso di impedimento permanente è la persona fisica del Presidente ad essere impossibilitata o comunque incapace di esprimere la propria volontà pertanto ci deve essere un intervento esterno ad essa (o addirittura contro di essa) che però ad essa si sostituisca.

Con l’espressione «impedimento permanente» si è inteso far riferimento ad una serie di ipotesi che vanno dall’incapacità fisica e psichica a quella giuridica. I problemi che qui si pongono non sono pochi né di scarso rilievo e riguardano essenzialmente due elementi: quale sia l’organo competente ad effettuare un tale accertamento, e quale debba essere la procedura da seguire. Non si può infatti pensare che una decisione così importante e delicata possa essere lasciata al Presidente della Camera dei deputati o, comunque, ad un solo organo e per di più monocratico. Per converso non si può nemmeno pensare che vengano coinvolti in questa procedura troppi organi il che, tra l’altro, potrebbe rendere la stessa pericolosamente farraginosa allungando i tempi di una decisione che deve invece essere presa in tempi brevissimi. Al Presidente della Camera, se mai, incombe il dovere di adeguarsi a quanto potrà essere deciso da parte di chi abbia competenza in merito. Nel silenzio della Carta, si deve pensare che solo una convenzione costituzionale, che coinvolga i Presidenti delle due Camere ed il Governo (rectius: il Presidente del Consiglio), potrebbe dare soluzione al problema e che consista nel prendere una decisione da comunicare al Parlamento ed al Paese, formalizzata con la pubblicazione sulla G.U. Da quel momento si entrerebbe in regime di sede vacante.

La morte del Presidente dovrebbe essere dichiarata dal Governo in quanto massimo organo esecutivo responsabile davanti al Parlamento (Rescigno, op. cit., 100) e da quello comunicata immediatamente ai Presidenti dei due rami del Parlamento per quanto di loro competenza ed al resto del Paese mediante la pubblicazione sulla G.U. Un caso a sé si potrebbe avere nell’ipotesi della sparizione del corpo (p.es. caduta in mare di un aereo) quando si dovrebbe ricorrere all’istituto della morte presunta che, per i motivi sopra accennati, non potrebbe seguire la normale procedura.

Per quanto infine riguarda le dimissioni, queste dovrebbero essere inviate ai Presidenti dei due rami del Parlamento in quanto si attivano da quel momento, in capo a ciascuno di essi, precisi doveri. Infatti vi è un ovvio automatismo, tra il momento nel quale hanno efficacia le dimissioni e quello dell’attivazione della supplenza, non dovendosi verificare vacanza nella vita degli organi costituzionali (le roi est mort, vive le roi).

Per l’atto delle dimissioni, c’è da chiedersi se sia da applicare ad esso il disposto dell’art. 89, I comma, relativo alla controfirma. Parrebbe essere questo un atto assolutamente personale che in quanto tale deve essere escluso dalla controfirma. Si tratta in effetti di un atto uguale e contrario a quello dell’accettazione dell’elezione che avviene con la prestazione del giuramento e sul quale non è apposta nessuna controfirma. Proprio dall’atto del giuramento sembra logico far discendere, se mai, che le dimissioni debbano essere presentate almeno ai Presidenti delle Camere e senza nessun intervento necessario del Governo.

Si deve rilevare l’anomalia che si verificò allorché, nel caso del Presidente Segni, le sue dimissioni vennero ricevute (così fu dichiarato), in modo assolutamente irrituale, dal Segretario generale della Presidenza della Repubblica che addirittura ne diede certificazione e comunicazione ai Presidenti delle Camere e del Consiglio dei ministri pur non avendo nessuna veste né politica né tanto meno giuridica per far ciò (Rescigno, op.cit., 107).

A margine, si può notare che, con il succedersi delle presidenze, è andato, di fatto, sempre più crescendo il ruolo attribuito a detto funzionario che si è inserito nel sistema in modo tale da assurgere ad un ruolo addirittura di rilevanza costituzionale confermandosi ancora una volta la deriva verso il presidenzialismo della quale già si è fatto cenno e che trova anche riscontro nel pletorico apparato di supporto del Segretariato che non trova riscontro nel precedente monarchico del ministero della real casa e nemmeno in altri apparati equivalenti di altri ordinamenti.

Infine, è d’uopo prendere in considerazione un’altra ipotesi di possibile impedimento: quella relativa alla situazione conseguente all’eventuale messa in stato d’accusa del Presidente della Repubblica (art. 90 Cost.). Evidentemente, anche al Presidente della Repubblica si deve applicare il principio costituzionale in base al quale nessun imputato «può essere considerato colpevole sino alla condanna definitiva» (art. 27, II c.): egli pertanto non potrà essere dichiarato decaduto sino a quel momento. Potrà (dovrà) invece essere sospeso dall’esercizio delle sue funzioni contestualmente all’approvazione dell’accusa da parte del Parlamento. Iniziato il procedimento davanti alla Corte, questa potrà disporre che nel corso del giudizio, e sino alla conclusione dello stesso, il Presidente sia sospeso dalla carica (art. 45 cpv. l. 11 marzo 1953, n. 87), provvedimento, questo, che decadrà in caso di sentenza di assoluzione ovvero diventerà decadenza nel caso di sentenza di condanna che per legge non è soggetta ad impugnazione (art. 137 u.c.).

 

 

5. – Il Presidente della Camera dei deputati

 

Per quanto riguarda il Presidente della Camera, nella sua veste di presidente del seggio elettorale è opportuno fare ancora qualche riflessione specifica.

Secondo quanto disposto dall’art. 85, I e II comma Cost., è competenza esclusiva del Presidente della Camera dei deputati convocare «in seduta comune il Parlamento e i delegati regionali per eleggere il nuovo Presidente della Repubblica». Ciò significa che, in mancanza di altre norme specifiche, questo è un diritto-dovere del Presidente della Camera che si concretizza non soltanto nell’emanare l’atto di convocazione ma anche nel porre in essere tutti gli atti preliminari del procedimento che sono di mera calendarizzazione nel caso della scadenza naturale del settennato per cui (art. 85, II) trenta giorni prima della scadenza di tale periodo e, al fine di evitare il crearsi di delicati e pericolosi ingorghi costituzionali (art. 85, u.c. Cost.) «Se le Camere sono sciolte» (pare che più correttamente debba intendersi anche se una sola delle due Camere è sciolta) o manchino «meno di tre mesi alla loro cessazione» la riunione deve avvenire entro quindici giorni dalla riunione delle (o della) nuove Camere: «Nel frattempo sono prorogati i poteri del Presidente in carica». Una norma analoga non esiste per quanto riguarda la situazione dei Consigli regionali per cui le designazioni da parte loro potrebbero anche non avvenire senza che ciò incida, ai fini della determinazione del quorum per la elezione del Presidente della Repubblica. Una mancata designazione, o non partecipazione, quindi sarebbero giuridicamente irrilevanti ma potrebbero avere un significato politico preciso. Questo fatto potrebbe essere visto come un elemento aggiuntivo per definire tale partecipazione meramente simbolica e quindi non indispensabile.

Spetta comunque al Presidente della Camera (o ad uno dei vice-presidenti, secondo quanto previsto dal regolamento dell’Assemblea) presiedere le sedute del Parlamento in seduta comune, affiancato, per quanto possibile, dall’Ufficio di presidenza della stessa Camera, assumere tutte le decisioni necessarie per assicurare l’ottimale svolgimento dei lavori sia durante le votazioni che durante lo scrutinio.

E’ opportuno però notare che molte di tali decisioni, nella sostanza, sono generalmente concordate, o comunque in qualche modo condivise, con i rappresentanti delle forze politiche rappresentate in Parlamento.

Rientra tra i compiti attribuiti al Presidente dell’assemblea elettorale la verifica dei poteri dei partecipanti verifica che, se non pone problemi per quanto riguarda i parlamentari in quanto il loro status risulta per tabulas, altrettanto non può dirsi per i delegati delle Regioni. Il loro diritto deve quindi essere convalidato dallo stesso Presidente sulla base della legittimità degli atti regionali di accredito nonché nel rispetto della rappresentanza delle minoranze (art. 83 cpv. Cost.). Il riferimento è agli atti dei Consigli regionali relativi alla elezione dei delegati, ed all’eventuale carteggio relativo in particolare, per quanto riguarda gli eventuali delegati non appartenenti alle assemblee regionali il che rientra nella personale responsabilità del Presidente della Camera dei deputati non potendo in questo caso avvalersi della Giunta per le elezioni della stessa Camera.

 

 

6. – I delegati regionali e la verifica dei poteri

 

Il regionalismo è una peculiarietà del sistema italiano ed è rilevante anche sulla normativa riguardante l’elezione del Presidente della Repubblica.

I costituenti non si posero direttamente e concretamente il problema di una partecipazione organica dei rappresentanti del territorio (enti regione, amministrazioni comunali e provinciali) ma si limitarono a prevedere una semplice partecipazione simbolica di rappresentanti regionali che venne allargata fino a tre elementi per ciascuna di esse (alla Valle d’Aosta ne venne attribuito soltanto uno date le sue dimensioni territoriali e per l‘esiguo numero degli abitanti). Si può ricordare che originariamente si propose un solo rappresentante, portato successivamente a due. Si arrivò infine unanimemente a stabilire che i delegati dovessero essere tre al fine di permettere al Consiglio regionale di eleggere sia rappresentanti della maggioranza che dell’opposizione, principio garantista che venne costituzionalizzato (art. 83 cpv. Cost.). E’ peraltro prassi (alla quale solo raramente non ci si è attenuti) che vengano eletti i Presidenti della Regione e del Consiglio regionale ed un consigliere di norma appartenente alla minoranza consiliare. Va notato che non essendo stato posto nessun divieto, teoricamente, potrebbe da un Consiglio regionale essere votata anche una persona che possedendo le qualità di elettore tale non lo è di quel Consiglio.

E’ opportuno precisare che la partecipazione dei delegati regionali deve avvenire a spese del delegante in quanto tale e cioè del Consiglio regionale e non del Parlamento.

E’ da ritenere inoltre che, per evidenti motivi funzionali, ai delegati debbono essere estese, per lo stretto periodo durante il quale si svolgono le operazioni elettorali, le guarentigie di cui fruiscono gli altri elettori ai sensi dell’art. 68 Cost.

Il rafforzarsi del sistema delle autonomie ha posto, ed ancor più è da ritenere porrà in futuro (specialmente se l’attuale trend dovesse continuare), il problema della loro partecipazione alla vita della Repubblica. Si deve ricordare infatti la modifica all’art. 114 Cost., introdotta dalla l.c. 18.10.2001, n. 3, secondo la quale la Repubblica non si “riparte” bensì è “costituita” dai «Comuni dalle Province, dalle città metropolitane, dalle Regioni e dallo Stato». Ciò comporta che la stessa espressione «eletto a base regionale» (art. 57, I comma Cost.) che la Carta usa per il Senato, sia passibile di una nuova lettura.

Sembra che le modifiche apportate alla Costituzione formale ed ancor più quelle, soprattutto di carattere integrativo, introdotte nel sistema da quella materiale o vivente, siano state tali da imporre ormai anche un ripensamento del sistema di elezione del Presidente della Repubblica, ed in particolare della composizione del corpo elettorale competente ad eleggerlo. Sembra infatti riduttivo che esso sia limitato ai soli parlamentari, con l’aggiunta “simbolica” dei 58 rappresentanti regionali, anche se, in casi estremi, questi potrebbero essere determinanti per l’elezione del Presidente. E’ evidente però che, qualunque sia la base elettorale del Presidente, questa dovrà essere determinata in armonia con le modifiche che dovranno essere apportate alle altre parti della Costituzione, ed in particolare al modo di essere del bicameralismo e conseguentemente alle competenze da attribuire all’ Assemblea che potrebbe sostituire l’attuale Senato.

C’è da notare ancora che i delegati regionali sono stati sempre sin qui esclusi dall’assemblea unitaria delle due Camere davanti alla quale il Presidente della Repubblica eletto giura fedeltà alla Costituzione. Il che sembra abbastanza indicativo in relazione al valore giuridico ed al significato politico della loro partecipazione. E’ vero peraltro che la Costituzione (art. 90 Cost.) recita che «Il Presidente della Repubblica presta giuramento ... dinanzi al Parlamento in seduta comune» senza prevedere, in questo caso, la partecipazione dei delegati regionali. Si deve però rilevare che nel testo non si fa nemmeno menzione del discorso, cosiddetto di insediamento, che il Presidente tiene davanti alla stessa Assemblea. Ancora una volta si deve notare che ciò sembrerebbe confermare il valore più che altro simbolico che da parte del costituente si è, almeno originariamente, voluto dare alla partecipazione all’elezione dei delegati regionali il che si accorderebbe con il tentativo non dichiarato di stemperare in qualche modo il carattere regionalistico dell’ordinamento costituzionale italiano. In altre parole si è verificata una situazione strana e contraddittoria: mentre si innovava così profondamente la struttura dello Stato si era quasi timorosi degli sviluppi che siffatta innovazione avrebbe potuto portare. Questo è stato, d’altro canto, l’atteggiamento di gran parte delle forze politiche (e della stessa Corte costituzionale), anche nei successivi primi decenni. Infatti, non solo gli enti regionali non saranno costituiti – e nemmeno nella loro compiutezza – prima degli anni settanta, ma la vera inversione di tendenza, in senso regionalistico, si avrà gradualmente e toccherà il punto più alto con le modifiche al titolo V della parte II della Costituzione di cui alla l.c. n. 3 del 2001. Tali modifiche hanno inciso in modo notevole – anche se indiretto – sulla stessa forma dello Stato. Ne sono derivate infatti conseguenze più o meno dirette, immediate e significative sull’apparato della Repubblica nel suo complesso e quindi sulla stessa figura del Presidente della Repubblica perché è evidente che ne discende di necessità un ripensamento della stessa base elettorale presidenziale. Se poi, da una forma di bicameralismo perfetto o paritario si dovesse passare ad un qualsivoglia altro sistema per esempio dando rilevanza diversa, rispetto alla prassi, a quanto letteralmente stabilito dall’art. 57, I comma, Cost. sul Senato a base regionale, è evidente che si dovrebbe ripensare lo stesso sistema elettorale presidenziale, perché varierebbero le stesse competenze dei diversi organi e, conseguentemente, anche la composizione non soltanto di uno bensì di entrambi i rami del Parlamento.

Ma vi è di più. Oggi, la stessa forma di governo parlamentare ha subito notevoli modifiche: nei fatti si è verificata una certa deriva in senso presidenzialista, risultato del concorrere di diversi elementi tra i quali, non ultime, le debolezze quando non le successive crisi delle forze politiche, tradizionalmente organizzate in partiti. Legate a vecchie logiche frutto di più o meno rigide impostazioni ideologiche, anche esse ormai superate (quanto meno rispetto al dogmatismo di un tempo) e di contrapposizioni personalistiche, tali crisi hanno portato a interventi “sostitutivi” posti in essere in parte dalla magistratura ed in parte dallo stesso Capo dello Stato. Laddove ciò non è stato possibile, come nel caso delle leggi elettorali, il corpo elettorale non è stato messo in condizioni di esprimere chiaramente e compiutamente la propria volontà; ciò ha quanto meno concorso a creare nelle due Camere una grave e complessa condizione di ingovernabilità, cui ha in parte supplito il Capo dello Stato con un interventismo che è arrivato sino a spostare il punto d’equilibrio del sistema dal Parlamento verso il Presidente, condizionando in modo considerevole persino la composizione ed il modus operandi del Governo. Cosi si è arrivati addirittura a parlare di “governo del Presidente”, cosa inammissibile in un sistema parlamentare capace di funzionare come tale. Affiora anche in questa situazione l’instaurarsi, di fatto, di una forma strisciante di governo semi-presidenziale che, se può trovare una spiegazione nell’eccezionalità del momento, pare porsi ai limiti della stessa legittimità costituzionale. In altre parole la nuova situazione ha portato ad una sostanziale rottura della Carta costituzionale anche per quanto riguarda la stessa attività legislativa, la quale si è svolta quasi esclusivamente, da parte del Governo, con un uso quanto meno anomalo e improprio sia della decretazione d’urgenza (ciò contro il dettato preciso e di garanzia dell’art. 77 cpv. Cost., ma con l’assenso del Presidente della Repubblica), sia dello strumento della fiducia (55 voti di fiducia in poco più di un anno), peraltro con l’approvazione da parte di una tanto numerosa quanto pericolosamente eterogenea maggioranza. Ciò è stato possibile realizzare grazie ad una vera e propria convenzione costituzionale contra costitutionem posta in essere dal Presidente della Repubblica e dal Governo con l’assenso del Parlamento.

 

 

7. – L’elettorato passivo

 

Per quanto attiene la determinazione dell’elettorato passivo la Costituzione, al I comma dell’art. 84, ha stabilito che siano eleggibili tutti i cittadini italiani che abbiano compiuto i 50 anni di età ed abbiano il godimento dei diritti civili e politici (si deve intendere entro il giorno in cui cominciano le votazioni). Si può, per quanto riguarda l’età, dire che essa fu così determinata in base ad una specie di graduatoria che l’ha collegata ai 40 anni previsti per l’elettorato passivo dei senatori (art. 58 cpv. Cost.) ed ai 25 per i deputati (art. 56, III comma Cost.). Per completare il quadro, si può ricordare che l’elettorato attivo per i due rami del Parlamento è fissato ai 18 anni (originariamente era ai 21) (art. 48, I comma Cost.) per la Camera ed ai 25 anni per il Senato (art. 58, I comma Cost.). Siffatte differenze di età sembrano oggi necessitare di una revisione completa e ciò anche alla luce delle modifiche che potrà subire il bicameralismo. Ciò però fa conseguentemente dubitare anche dell’opportunità di mantenere la soglia dei 50 anni per il Presidente della Repubblica (la proposta del 2005 parlava di 40 anni).

Si può ancora aggiungere che non è prevista nessuna esclusione per chi sia in possesso di una doppia cittadinanza, abbia la cittadinanza italiana ma non sia nato sul territorio della Repubblica o non sia di nazionalità italiana, ed ancora, per chi abbia subito condanne penali non passate in giudicato e, tanto meno, per chi abbia procedimenti penali in corso e ciò in base a quanto stabilito sulla presunzione di innocenza dal I comma dell’art. 27 Cost. Queste situazioni soggettive potranno se mai costituire elementi di valutazione politica ma non formare oggetto di discriminazione giuridica.

L’ampiezza dell’elettorato passivo potrebbe portare ad una notevole dispersione di voti, ma questo, in pratica, non si è verificato grazie a regole convenzionali, nate sul campo, in Assemblea, in forza delle quali «se il voto corrisponde in modo non equivoco ad un membro del Parlamento, si intende votato costui; se c’è omonimia non risolvibile sulla base della scheda votata, il voto è nullo; se il voto riguarda una personalità conosciuta che non siede in Parlamento, il voto è valido e viene attribuito a questa personalità; se invece c’è incertezza (p. es. nel caso di omonimia) o il votato è un quisque de populo (o il voto ha chiaramente carattere derisorio), il voto è nullo» (Rescigno, op.cit., 16). Resta comunque confermato che, anche per quanto riguarda lo spoglio e quindi la validità delle schede e la loro attribuzione agli eleggibili il giudice unico ed ultimo è sempre il Presidente della Camera in quanto Presidente del seggio elettorale.

 

 

8. – Le candidature

 

C’è da tenere presente un altro problema, quello delle candidature. Fino ad oggi infatti, essendo il collegio elettorale abbastanza ristretto (1004 i titolari dell’elettorato attivo) non si è posto tale problema. In teoria, sono potenzialmente eleggibili e candidabili tutti i cittadini italiani che abbiano compiuto i 50 anni di età e che godono dei diritti civili e politici. Si tratta cioè di decine e decine di milioni di persone. In pratica, però, la rosa dei papabili è stata da sempre molto ristretta e decisa sostanzialmente dalle forze politiche parlamentari che sono le vere attrici anche di questa parte del procedimento elettorale. Pertanto esistono candidature, di fatto concordate in modo non sempre trasparente, più o meno garantite dai partiti. Ciò può far correre il rischio che il candidato possa avere una qualche tendenza di parte troppo marcata se non addirittura di appartenenza organica ad uno schieramento politico. In effetti, in generale, può dirsi che questo rischio è però stemperato dal fatto che, essendo prestabilite delle maggioranze qualificate, le candidature sono, in effetti, il frutto di trattative e compromessi tra le più diverse forze politiche. In conclusione si tratta di «designazioni politiche implicanti necessariamente una tendenza ed un programma» (Rescigno, op.cit., 17) anche se ciò non viene esplicitato.

Allargando però la base elettorale attiva, diventa indispensabile che sia previsto, in termini formali, un sistema di presentazione delle candidature che non potrà essere ristretto all’ambito parlamentare, o comunque istituzionale, ma essere aperto a tutto il corpo elettorale, cioè a tutti coloro che sono elettori della Camera dei deputati.

 

 

9. – Le votazioni

 

Per quanto riguarda la fase organizzativa dello svolgimento delle votazioni, si deve ricordare che, aperta la seduta, comincia la prima chiamata degli aventi diritto al voto secondo l’ordine alfabetico e per categoria. Al termine si effettua una seconda chiamata per chi non avesse risposto alla prima. Per garantire la segretezza del voto, ad ogni elettore viene consegnata, all’ingresso nella cabina, una scheda che dopo il voto viene imbucata nell’apposita urna. Coloro i quali, pur non avendo risposto a nessuna delle due chiamate, intendessero votare possono farlo sino al momento in cui il Presidente dichiari chiusa la votazione. Lo spoglio delle schede comincia immediatamente dopo, venendo fatto a voce alta personalmente dal Presidente che, al termine, proclama i risultati e pone in votazione il verbale della seduta che provvede senza indugio a notificare all’eletto.

E’ ancora opportuno notare che, dal punto di vista politico, è ben diverso votare scheda bianca, dichiarare di astenersi dall’esprimere il proprio voto o uscire dall’aula al momento della chiama o semplicemente non rispondere ad essa e risultare pertanto assente. Dal punto di vista giuridico, però, tutti e tre questi atteggiamenti sono invece uguali in quanto comunque non incidono in nessun modo sul risultato finale del voto in quanto il quorum è calcolato sempre sul numero degli aventi diritto al voto che si modificherebbe soltanto se qualcuno degli elettori morisse nel corso delle votazioni.

 

 

10. – Le maggioranze necessarie

 

L’ultimo comma dell’art. 84 Cost. dispone che per essere eletti alla Presidenza della Repubblica occorre raggiungere in prima battuta la maggioranza dei due terzi dei voti degli elettori che costituiscono il corpo elettorale e, qualora nessuno consegua tale risultato, sia sufficiente raggiungere, a partire dal quarto scrutinio, la maggioranza assoluta. Ciò fu stabilito perché l’Assemblea costituente ritenne che solo ottenendo un così ampio suffragio (i due terzi) il Presidente della Repubblica potesse essere «l’esponente di una larghissima base parlamentare, soltanto in questo caso, possa avere quella autorità morale e politica, derivante appunto dal diffuso consenso che lo sorregge, tale da consentirgli di poter effettivamente esercitare quei poteri che gli sono assicurati dalla Costituzione» (Carullo, La Costituzione della Repubblica italiana, Bologna, 1950, 269). Proprio sulla base di queste considerazioni Tosato propose il voto popolare diretto suggerendo che l’elezione avvenisse mediante ballottaggio tra due candidati, uno di maggioranza ed uno di opposizione, designati dal Parlamento (Ass. cost., Resoconti, 339). Questa proposta non venne approvata anche perché si ritenne che una siffatta apellatio ad populum avrebbe potuto minare il sistema parlamentare, offrendo al Presidente eletto col suffragio popolare diretto una troppo forte legittimazione e, quindi, una potenziale contrapposizione al Parlamento. La proposta Tosato poteva essere fuori misura in quel momento, ma sembra poter quanto meno formare oggetto di riflessione oggi. Si è anche osservato (Marchi, ivi) che, specialmente nel caso di elezione a maggioranza assoluta, cioè dopo il terzo scrutinio, «la vittoria è troppo sudata, in verità, per il prestigio dell’eletto, il quale può, d’altra parte, finire per trovarsi troppo legato ad un partito di maggioranza; il che può spesso mettere in pericolo la sua imparzialità». Anche in questo caso si può dire che l’esperienza e la prassi fin qui maturate hanno dimostrato che queste preoccupazioni erano eccessive. Si può ricordare che ci sono stati candidati eletti dopo il terzo scrutinio che hanno ottenuto maggioranze superiori non soltanto a quella richiesta ma addirittura superiori ai tre quarti. Comunque, con qualunque maggioranza siano stati eletti, i tredici Presidenti hanno mostrato, in linea di massima, di mantenere un atteggiamento super partes[1].

 

 

11. – Il giuramento

 

Dal momento della notifica dell’avvenuta elezione, fatta personalmente al Presidente della Camera, sorge nell’eletto un jus ad officium, condizionato dal compimento del settennato da parte del predecessore il quale cesserà dalla carica nel momento in cui o rinunci all’elezione o presti, davanti alle Camere riunite, sulla Costituzione, il giuramento di fedeltà ad essa; contemporaneamente assumerà la pienezza dei poteri presidenziali. Il giuramento deve essere incondizionato. Esso è atto essenziale per l’assunzione dell’officium e l’eventuale rifiuto di prestarlo vale quale rinuncia ad esso. In quello stesso momento, senza bisogno di porre in essere atti formali di sorta, in base alla regola che King never dies, il predecessore cessa dalle funzioni presidenziali. Il giuramento quindi non è un atto di carattere meramente formale ma ha invece e soprattutto un preciso valore giuridico (Ferrari, Problemi nuovi del nuovo Parlamento bicamerale, in Ann. dir. comp., XXV, 1950, fasc. II e III, 225; Marchi, Commentario cit., II, 112; Pergolesi, Dir. cost., VII ed., Bologna, 1949, 148).

In sede di Assemblea costituente, nonostante la presenza molto attiva dei rappresentanti i partiti laici ed in particolare il p.c.i., il p.s.i., il p.l.i. ed il p.r.i. ed anche dello stesso partito cattolico, la d.c., che mostrò particolare sensibilità per i temi delle garanzie e delle libertà civili e politiche, nessuno propose che, quanto meno in alternativa al giuramento tradizionalmente inteso, cioè con le connotazioni marcatamente religiose, venisse proposta una forma laica di impegno quale ad es. la promessa solenne. D’altro canto si convenne, di fatto, che non si giurasse su testi sacri di nessuna religione ma invece sul testo della Carta del 1948. È pur vero che nessun caso Rotschild si è verificato durante tutta la vita repubblicana nonostante la, quanto meno areligiosità, di qualche Presidente che ha ugualmente prestato giuramento in tal modo laicizzando questo atto. Ciò peraltro sembrerebbe in linea anche con la giurisprudenza della Corte costituzionale (sent. 8 ottobre 1996, n.334, sull’art. 238 c.p.c.).

Così fu approvato il testo dell’art. 91 Cost. in forza del quale con la prestazione del giuramento il Presidente della Repubblica assume le sue funzioni ed è da questo stesso momento che quindi decorre il settennato.

 

 

12. – Osservazioni finali

 

In base a quanto fin qui osservato, può essere opportuno, se non trarre delle vere e proprie conclusioni, almeno fare qualche considerazione sia di carattere generale sia di carattere specifico.

Anzitutto si deve notare che è stato un errore non apportare tempestivamente alla Costituzione formale quelle modifiche che, col passare degli anni, erano non soltanto opportune ma necessarie in quanto imposte dalla Costituzione vivente che, talvolta prepotentemente, si è andata facendo strada. In effetti la Carta del 1948 per troppo tempo è stata vista, da quasi tutte le forze politiche e dagli stessi organi istituzionali come un tabù intoccabile (un Presidente della Repubblica arrivò addirittura ad affermare la sua non modificabilità). Questo, almeno da un punto di vista formale, la ha, nei fatti, pericolosamente imbalsamata. Non si può però dimenticare che, sebbene in oltre mezzo secolo siano state create ben tre commissioni bicamerali, il legislatore è stato incapace di portare a compimento un qualunque lavoro di revisione. Né sorte migliore, in definitiva, ha avuto il solo testo organico approvato dai due rami del Parlamento a maggioranza assoluta nel novembre 2005 (In G.U. 18 novembre 2005, n. 269) che fu bocciato col referendum. L’unica modifica, peraltro frettolosa e pasticciata, è stata quella complessiva del tit. V (l.c. 18 ottobre 2003).

Ci si è scioccamente crogiolati nel falso mito della «costituzione più bella del mondo» senza tener presente che la società non può essere ingabbiata in una carta costituzionale che, di regola, rappresenta i bisogni e le aspirazioni di una comunità statuale in un determinato contesto storico. Per cui, al contrario, essa deve essere anche, e soprattutto in una prospettiva futura, il portato delle aspettative e delle speranze oltreché delle esigenze della società. E’ pur vero che, grazie alla lungimiranza e alla genialità dei costituenti, l’elasticità con cui è formulata buona parte delle norme contenute nella ormai vecchia Costituzione repubblicana del 1948, ha permesso, entro certi limiti, di adattarla al modificarsi delle realtà negli ultimi sessantacinque anni. Anni che sono stati ricchi, quanto non mai, di modificazioni sia sullo scenario interno sia su quello internazionale, tanto dal un punto di vista ideologico quanto da quello economico, sociale e, non ultimo, tecnologico. Ma anche l’elasticità ha un limite e pare che questo sia stato raggiunto: superarlo potrebbe essere pericoloso.

La particolare situazione costituzionale nella quale ci si trova oggi impone una seria e completa opera di revisione che non può non comprendere anche la figura del Presidente della Repubblica sia per quanto riguarda le competenze a lui attribuite e, quindi, il ruolo che deve avere nell’ambito del sistema costituzionale, sia per lo stesso sistema elettorale che deve portare alla sua individuazione e che gli deve dare piena e completa legittimazione. In tal modo, in definitiva, potrebbe anche essere rafforzato il suo ruolo di rappresentante dell’unità nazionale (art. 87, I comma Cost.) cosa questa di non secondaria importanza specialmente in momenti di crisi.

A seconda delle scelte che verranno fatte sul bicameralismo e sul regionalismo, non soltanto si potrà ma piuttosto si dovrà stabilire un diverso sistema per l’elezione del Presidente della Repubblica che potrà essere più o meno forte, come legittimazione e come funzioni (e quindi come poteri effettivamente attribuitigli) a seconda che nasca da una elezione popolare diretta o mediante una elezione popolare indiretta che comprenda la partecipazione, oltreché del Parlamento, anche di rappresentanti degli enti regione e delle autonomie locali (in particolare dei comuni) ovvero, in senso ampio, delle realtà comunitarie territoriali. E’ ovvio sottolineare che il sistema che verrà adottato dovrà armonizzarsi con il superamento del bicameralismo perfetto.

Si impone cioè un ripensamento dello stesso ruolo che il Presidente della Repubblica deve avere nell’ambito del sistema costituzionale oltreché la determinazione del limite dei suoi poteri e delle garanzie che gli debbono essere riconosciute ed assicurate non tanto per quanto riguarda la sua persona fisica quanto per quanto attiene lo stesso esercizio delle sue funzioni. Tali funzioni, infatti, oggi non sempre vengono chiaramente definite dalla Carta, tanto che già diverse volte è stato necessario ricorrere alla Corte costituzionale sollevando conflitto d’attribuzione ai sensi dell’art. 134 Cost. (Presidente della Repubblica contro ministro della giustizia e Presidente della Repubblica contro Procura della Repubblica di Palermo). In effetti i poteri del Presidente si estendono a fisarmonica ma il mantice comunque ha una estensione limitata. L’elasticità dello stesso sistema può superare il carico di rottura e rompersi. Di qua la generale clausola di salvaguardia prevista dall’art. 138 Cost. dove si prevede che alla Carta non soltanto possano apportarsi modifiche, ma addirittura che essa possa formare oggetto di revisione. In effetti è avvenuto che con il passare del tempo e con carenze e distorsioni dovute sovente ad un uso quanto meno non corretto del loro potere, si sono verificati una serie di interventi sostitutivi tra organi, anche costituzionali, dello Stato; e questo ha finito per incidere sulla stessa forma di governo parlamentare che ha virato, specialmente da ultimo, come si ha avuto di rilevare nel testo, verso una forma semi presidenzialista con profonde modificazioni, in particolare, dei rapporti tra Presidente della Repubblica, Governo e Parlamento. Tutto ciò finisce inevitabilmente per incidere sullo stesso modo di eleggere il Capo dello Stato che, per il nuovo ruolo che va assumendo, ha sempre più bisogno di una maggiore legittimazione costituzionale e di un più forte raccordo con la sovranità popolare e con le stesse comunità ed istituzioni territoriali, non già di essere espressione della sola volontà delle forze politiche rappresentate in Parlamento e nei Consigli regionali. Si potrebbe così, ampliando il corpo elettorale, coinvolgere nella scelta i milioni di cittadini che sostanzialmente non hanno, per motivi diversi, rappresentanza parlamentare nel contempo diminuendo la prepotente arroganza della partitocrazia. Si pensi non soltanto ai milioni di astenuti ma, in particolare, ai milioni di cittadini privi di rappresentanza perché hanno votato liste che non hanno raggiunto i quorum-ghigliottina fissati dalle leggi elettorali normalmente fatte a favore e nell’interesse di determinati partiti e sulla legittimità costituzionale delle quali pare ci sia quanto meno da dubitare

È da sottolineare che, con l’ultima elezione del Presidente della Repubblica avvenuta nell’aprile scorso, si sono verificate due novità significative tra loro collegate. Una riguarda il ruolo attivo, la partecipazione sostanziale dei delegati regionali alla designazione del candidato il che è avvenuto quando una loro numerosa delegazione si è recata al Quirinale per chiedere al Presidente in scadenza di ricandidarsi. L’altra è che con l’accordo di tutte le forze politiche (pare potersi dire dell’intero corpo elettorale presidenziale) si è interrotta la prassi che, nel silenzio voluto del costituente, aveva stabilito la non rieleggibilità del Capo dello Stato per un altro settennato.

Sulla base di quanto sin qui osservato sembra quindi si possa affermare che l’attuale sistema previsto per l’elezione del Presidente della Repubblica sia da ritenere superato e che per il futuro ci sia da auspicare, comunque, almeno un allargamento della base del suo elettorato attivo. Ciò si potrà realizzare sia mantenendo una forma di elezione di secondo grado, sia introducendo un’elezione popolare diretta (a turno unico o a doppio turno in una qualunque delle variabili possibili). Tale soluzione comunque dovrà essere in armonia con l’auspicato nuovo assetto che dovrà essere dato allo Stato repubblicano cosa che potrà essere realizzata soltanto mediante una revisione globale della p. II della Costituzione.

 

 

 



[1] Di seguito si riporta una tabella riassuntiva relativa alla elezione dei Presidenti della Repubblica italiana.

 

Presidente

partito

scrutini 

durata del mandato

voti 

votanti

%

 

Enrico De Nicola

---

1

6/46-12/47

405

556

72,9

Luigi Einaudi

p.l.i.

4

5/48-5/55

518

872

59,4

Giovanni Gronchi

d.c.

4

5/55-5/62

658

833

78,9

Antonio Segni

d.c.

9

5/62-12/64

443

842

52,6

Giuseppe Saragat

p.s.d.i.

21

12/64-12/71

646

937

68,9

Giovanni Leone

d.c.

23

12/71-6/78

518

996

52,0

Sandro Pertini

p.s.i.

16

7/78-6/85

832

995

83,6

Francesco Cossiga

d.c.

1

6/85-4/92

752

977

76,6

Oscar Luigi Scalfaro

d.c.

16

5/92-5/99

672

1014

66,3

Carlo Azeglio Ciampi

---

1

5/99-5/06

707

990

71,0

Giorgio Napolitano

d.s.

4

5/06-4/13

543

1009

53,81

Giorgio Napolitano

p.d.

4

4/13-

738

1004

73,50