Cap. I Parte III della monografia: Omar  Chessa, Il Presidente della Repubblica parlamentare. Un’interpretazione della forma di governo italiana, [Università degli Studi di Sassari. Pubblicazioni del Dipartimento di Scienze Giuridiche, 17] Napoli, Jovene Editore, 2010, pp. X-250. ISBN  88-243-1992-0

Indice-Sommario

 

 

Chessa comm Cossiga

Omar Chessa

Università di Sassari

 

Indirizzo politico e separazione dei poteri nel governo parlamentare

 

 

 

Sommario: 1. La distinzione tra gubernaculum e iurisdictio e l’essenza del costituzionalismo. – 2. La separazione dei poteri nei sistemi presidenziali e parlamentari. – 3. La «fusione tra legislativo ed esecutivo»: l’efficient secret di Walter Bagehot. – 4.  Separazione funzionale e unità d’indirizzo politico nei regimi parlamentari con “governo di partito”. – 5. Il cimento del governo nei sistemi parlamentari. – 6. Il primato del parlamento come teoria normativa della democrazia. – 7. La teoria dei veto players e la fallacia della «democrazia immediata». Il governo come organo esecutivo e potere direttivo dominante. – 8. Un confronto con la dottrina americana della separazione dei poteri. – 9. Segue: il nesso tra separazione dei poteri, sovranità popolare e superiorità della costituzione nel costituzionalismo americano. – 10. Le garanzie sistemiche e il senso del costituzionalismo.

 

 

1. – La distinzione tra gubernaculum e iurisdictio e l’essenza del costituzionalismo

 

Negli ultimi decenni si è consolidato nella dottrina costituzionalistica italiana un modello interpretativo ricorrente: la distinzione tra organi costituzionali di direzione politica e organi costituzionali di controllo e, correlativamente, tra funzione d’indirizzo politico e funzione di garanzia costituzionale. Tra gli organi d’indirizzo si annoverano il Parlamento e il Governo, tra quelli di garanzia la Corte costituzionale e il Capo dello Stato.

A prima vista il modello teorico basato sulla separazione tra indirizzo e garanzia non solo parrebbe perfettamente coerente con l’ideale del costituzionalismo, ma si proporrebbe perfino come il tentativo d’esportarne la logica nel regime parlamentare contemporaneo[1].

Per suffragare questa tesi può evocarsi l’autorità di Charles H. McIlwain e la sua distinzione tra gubernaculum e iurisdictio, rispetto alla quale la distinzione tra indirizzo e garanzia non sarebbe altro che una diversa formulazione terminologica. Com’è noto, mentre il gubernaculum indica il potere politico, più o meno responsabile politicamente di fronte al popolo, la iurisdictio invece designa l’insieme dei diritti, privilegi, principi che il diritto sottrae alla sfera del primo e che pertanto valgono come limite giuridico all’esercizio delle funzioni di direzione politica[2]. Ebbene, sempre a seguire McIlwain, questa convivenza tra gubernaculum e iurisdictio, tra indirizzo e garanzia, pur risalendo alla tradizione giuspolitica medievale, enucleerebbe il significato profondo del costituzionalismo moderno come limitazione giuridica del potere pubblico.

Non c’è ombra di dubbio che le costituzioni democratico-pluraliste abbiano (anche) il duplice obiettivo di fondare e regolare il potere politico[3]; e che, pertanto, siano sempre imperniate sulle due dimensioni dell’indirizzo e della garanzia. La seconda, in particolare, è assicurata anzitutto dal fatto che il testo costituzionale è assunto come fonte del diritto, ossia come base per la costruzione giudiziale di norme vincolanti. La prima esplicazione del principio garantista è, perciò, la sanzionabilità giudiziaria, l’enforcement giudiziale, delle norme costituzionali nell’ambito di qualsiasi possibile controversia, a prescindere che essa sorga tra privati o tra privati e poteri pubblici ovvero tra poteri pubblici distinti[4].

Tuttavia, una volta appurato che senza un potere giudiziario indipendente la iurisdictio non potrebbe mai valere efficacemente come limite del gubernaculum[5], resta ancora da capire come debba intendersi esattamente quest’ultimo: posto che la iurisdictio è l’insieme delle norme sanzionabili da giudici indipendenti dal potere, dobbiamo però capire che cosa il costituzionalismo ha da dirci sulla struttura del potere stesso o gubernaculum. Ed è qui che il contributo di McIlwain si fa particolarmente interessante per il nostro tema, soprattutto nella parte in cui rivolge un attacco frontale alla «dottrina della separazione dei poteri».

Tale dottrina, sempre a giudizio di M., «non si applica veramente alla materia giudiziaria» e «non si può incorrere nell’errore di confondere la separazione dei poteri con l’indipendenza dei giudici, poiché si tratta di due cose ben diverse»[6]. Ma se la «separazione dei poteri» non indica l’indipendenza del potere giudiziario dal gubernaculum, allora non potrà che designare un criterio organizzativo tutto interno a quest’ultimo, il c.d. «equilibrio politico», concetto che per M. sarebbe estraneo alla storia del costituzionalismo[7]. In sostanza, non esisterebbe «una dottrina medievale della separazione dei poteri», mentre vi sarebbe «una ben definita dottrina medievale della limitazione dei poteri»[8]. Di modo che il costituzionalismo si risolverebbe essenzialmente nella limitazione giuridica del potere politico attraverso l’istituzione di un potere giudiziario indipendente, ma non esigerebbe affatto la ripartizione dello stesso potere politico, del gubernaculum, tra più organi reciprocamente indipendenti e potrebbe benissimo convivere con la sua sostanziale unitarietà[9].

Questa visione del costituzionalismo si attaglierebbe alla perfezione ai regimi parlamentari contemporanei, nei quali vi sarebbe appunto una sostanziale unitarietà del potere pubblico, ossia l’unicità del potere di direzione politica, che procederebbe come un flusso continuo lungo il circuito unitario costituito dal raccordo tra corpo elettorale, maggioranza parlamentare e governo. Se il governo parlamentare realizza, come spesso si dice, una «fusione tra legislativo ed esecutivo», se ne conclude allora che è ben possibile che la limitazione giuridica del potere, l’essenza del costituzionalismo, conviva con assetti nei quali manca una vera separazione dei poteri[10].

Seguendo questa linea di pensiero si giunge assai facilmente al binomio indirizzo/garanzia. Se la sostanziale unitarietà della funzione di indirizzo politico si coniuga con la sua limitazione giuridico-costituzionale, ecco che accanto agli organi costituzionali d’indirizzo vi sarebbero di conseguenza i giudici e i c.d. “organi di garanzia”: insomma, oltre al gubernaculum e alla iurisdictio, cioè oltre ad un potere pubblico essenzialmente unitario e ad un potere giudiziario diffuso ed indipendente, nel costituzionalismo del governo parlamentare contemporaneo vi sarebbe un tertium genus, formato precisamente dagli organi di garanzia, cioè dal capo dello stato e il tribunale costituzionale. Anche qui, se si guarda con attenzione, sarebbe presente una qualche forma di separazione dei poteri: non quella tra governo e parlamento, sia beninteso, piuttosto quella tra atti di creazione e atti di esecuzione-applicazione del diritto e, soprattutto, quella tra poteri d’indirizzo e poteri di garanzia o controllo: una separazione che sarebbe, dunque, funzionale alla limitazione giuridica di un potere pubblico la cui unitarietà nondimeno rimarrebbe integra[11].

In definitiva, combinando assieme il binomio indirizzo/garanzia e il pensiero di McIlwain (o meglio: incanalando il primo nel secondo), se ne dovrebbe concludere che il costituzionalismo sarebbe soltanto la distinzione tra gubernaculum e iurisdictio; che implicherebbe solamente la limitazione giuridica del potere politico, ma non la sua ripartizione tra più attori costituzionali distinti; e che perciò accoglierebbe una versione “debole” della separazione dei poteri: ossia quella che l’identificherebbe con la distinzione tra normazione ed esecuzione-applicazione e con la distinzione tra funzioni d’indirizzo politico e funzioni di garanzia.

Tuttavia si tratta di un modello teorico generale che non fa adeguatamente i conti con la complessità del principio della separazione dei poteri.

 

 

2. – La separazione dei poteri nei sistemi presidenziali e parlamentari

 

Nel paragrafo precedente si è accennato ad una versione “debole” del principio della separazione dei poteri: quella che si riscontrerebbe nel costituzionalismo dei governi parlamentari e che si differenzierebbe da quella “forte”, tipica invece del governo presidenziale statunitense.

In questo caso, la debolezza e la forza dipenderebbero dal grado di collegamento o di separazione organica tra il potere esecutivo e quello legislativo, tra il governo e l’assemblea elettiva: nelle forme deboli di separazione dei poteri ci sarebbe un elevato grado di collegamento organico, la c.d. «fusione tra legislativo ed esecutivo», mentre nelle forme forti ci sarebbe una netta distinzione organica tra governo e assemblea.

Come vedremo meglio in seguito, questa è una classificazione importante da cui discendono non pochi svolgimenti di sistema. Ciò nondimeno tralascia di considerare adeguatamente l’altro profilo della separazione dei poteri, quello funzionale. Se non si prende in esame pure quest’aspetto, la distinzione tra versioni deboli e forti (o flessibili e rigide) del principio separazionista rischia d’essere parecchio fuorviante.

Lo prova che il tipo di separazione dei poteri adottato dal modello americano viene definito, con eguale frequenza, dagli uni rigido e dagli altri flessibile. In realtà bisognerebbe dire che è nel contempo rigido e flessibile, secondo il profilo che si considera: quello organico ovvero funzionale. È ben possibile dunque che un dato modello complessivo di separazione sia rigido/forte sotto il profilo organico e (tendenzialmente) flessibile/debole sotto quello funzionale; e viceversa, che sia flessibile/debole sotto il profilo organico e rigido/forte (o tendenzialmente tale) sotto quello funzionale.

Adoperando questo criterio di classificazione, è facile notare come sia il governo presidenziale che quello parlamentare adottano una separazione dei poteri tanto rigida/forte quanto flessibile/debole. In particolare, nel sistema presidenziale la separazione è flessibile sotto il profilo funzionale, ma rigida sotto quello organico: esattamente il contrario del sistema parlamentare. Difatti, nel sistema americano grazie all’istituto del veto, il Presidente partecipa di fatto all’esercizio della funzione legislativa attribuita alla Camera dei rappresentanti e al Senato; e viceversa, grazie al potere di esprimere l’advice and consent sulle nomine presidenziali il Congresso partecipa della funzione esecutiva attribuita al Presidente. Tra i medesimi organi – Presidente, Camera dei rappresentanti e Senato – la separazione è, invece, rigida sotto il profilo organico, perché ciascuno dei tre è provvisto di un proprio canale di legittimazione elettiva, di talché la sua origine e sopravvivenza non dipende dalla volontà degli altri[12]. È propriamente questa miscela d’intrecci funzionali e di separazioni organiche, cui si deve aggiungere lo sfasamento temporale delle elezioni relative ai tre organi, a creare un sistema di checks and balances, di freni e contrappesi[13].

Di segno diverso, se non opposto, è la logica che presiede al sistema parlamentare[14]. Qui, sotto il profilo funzionale c’è (tendenziale) rigidità, perché il governo non condivide col parlamento la funzione legislativa (salvo eventuali poteri d’iniziativa legislativa e di decretazione, che però soltanto introducono un’eccezione limitata rispetto alla regola generale dell’esclusiva titolarità parlamentare). Ma c’è all'opposto flessibilità sotto il profilo organico, perché l’origine e la sopravvivenza del governo dipendono dal parlamento. Pertanto, quando si dice che il regime parlamentare realizza una «fusione tra legislativo ed esecutivo», deve precisarsi che si sta facendo riferimento al profilo organico, ma non certo a quello funzionale.

Ciò precisato, bisogna però dire che nella percezione diffusa – che è poi la stessa di McIlwain – la “vera” separazione dei poteri è quella organica e non quella funzionale. È il checks and balances e non la distinzione tra legis-latio e legis-executio. Solo il primo, infatti, disgrega il potere politico, mentre la seconda è perfettamente compatibile con la sua unitarietà[15].

Ciò spiega perché McIlwain accolga l’uno, ma rifiuti l’altro: a suo giudizio, per il costituzionalismo è giusto limitare (giuridicamente) il potere politico, senza però disgregarlo distribuendolo tra organi diversi e reciprocamente indipendenti. Per dirlo con le categorie del binomio indirizzo/garanzia, è giusto separare i poteri d’indirizzo da quelli di garanzia, ma non frantumare i primi dividendoli tra più attori costituzionali potenzialmente liberi di contrapporsi gli uni agli altri. Il costituzionalismo non solo non sconsiglierebbe, ma addirittura esigerebbe un assetto monistico del potere pubblico.

Il connubio tra la ricostruzione del costituzionalismo offerta da McIlwain e il binomio indirizzo/garanzia non è, però, del tutto riuscito. Vuoi perché la distinzione tra gubernaculum e iurisdictio non è perfettamente sovrapponibile a quella tra funzione d’indirizzo e funzione di garanzia. Vuoi perché rimanendo dentro il recinto degli organi d’indirizzo e della loro presunta unitarietà sostanziale, sarebbe un errore sovrastimare la collaborazione e dipendenza organica tra parlamento e governo, a tutto svantaggio della loro separazione funzionale.

 

 

3. – La «fusione tra legislativo ed esecutivo»: l’efficient secret di Walter Bagehot

 

La tesi che scorge nei sistemi parlamentari una «fusione tra esecutivo e legislativo» risale al secolo XIX. Già Walter Bagehot riteneva obsoleta, con riferimento all’esperienza britannica, la dottrina della separazione dei poteri (e quella connessa del mixed government)[16]; e individuava nel Cabinet l’elemento centrale di questa «fusion» tra potere legislativo ed esecutivo; fusione che costituiva, per usare le sue parole, l’efficient secret della costituzione britannica:

 

«il segreto che rende efficace la Costituzione inglese può essere individuato nella stretta unione, nella fusione pressoché completa del potere esecutivo con quello legislativo. La dottrina tradizionale dominante pretende che la bontà della nostra Costituzione consista nella completa separazione dell’autorità legislativa da quella esecutiva; ma, in verità, la sua superiorità sta proprio nella loro eccezionale vicinanza. Il loro connettivo è costituito dal gabinetto»[17].

 

Per ritrarre con maggiore nettezza l’efficient secret del britannico parliamentary government, cioè quella fusion of powers che lo caratterizzerebbe, Bagehot si vale ampiamente del confronto con l’esperienza nordamericana del governo presidenziale:

 

«gli americani nel 1787 credevano di imitare la Costituzione inglese, ma, in realtà, sono riusciti a fare l’esatto contrario. Il sistema di governo americano può essere definito di tipo complesso, in cui il potere supremo è distribuito tra diverse strutture e diversi soggetti. La Costituzione inglese prevede invece un sistema di governo di tipo estremamente semplice, in cui il potere decisionale su ogni questione è sempre nelle mani degli stessi soggetti (…) La Costituzione inglese, in una parola, è fondata sul principio secondo cui si deve scegliere una sola autorità suprema rendendola forte. Quella americana si basa invece sul principio della frammentazione dell’autorità sovrana, nella speranza che l’esistenza di molteplici autorità possa compensare le loro rispettive debolezze»[18].

 

Ma in cosa consisterebbe, esattamente, questa «fusione tra legislativo ed esecutivo»? Chi si fonde in chi o chi assorbe chi?

A prima vista, considerando il processo di democratizzazione e il passaggio storico dal mixed government al parliamentary government, parrebbe trattarsi d’una fusione dell’esecutivo nel legislativo, d’una attrazione del primo nell’orbita del secondo attraverso il principio della responsabilità ministeriale. Tuttavia questo non è ciò che Bagehot intende dire; esclude, infatti, che la fusion sia l’assorbimento di un potere nell’altro:

 

«il sistema inglese non rappresenta l’inclusione del potere esecutivo nel legislativo, ma la loro fusione. O il gabinetto riesce a legiferare, o scioglie l’assemblea. È una creatura che ha il potere di distruggere il proprio artefice (…) Esso è stato fatto, ma può disfare; pur dipendendo da un altro per la sua creazione, quando è all’opera può distruggere il creatore»[19].

 

È un passo notissimo. Ma la sua fama non è proporzionata alla sua chiarezza. Contrariamente alle aspettative del lettore e all’intendimento palesato dallo stesso Bagehot nel descrivere la semplicità del sistema inglese a confronto con la complessità di quello americano, qui l’immagine della “fusione” non descrive una condizione di unitarietà del potere, ma all’opposto la dialettica, e quindi l’equilibrio, tra due istanze distinte. L’alternativa disegnata dalla formula «o il gabinetto riesce a legiferare, o scioglie l’assemblea» è inequivocabile: o il gabinetto riesce ad ottenere dalla House of Commons l’approvazione del proprio programma legislativo, o come estrema sanzione politica decreta la dissoluzione dell’assemblea[20]. Ma ciò significa che l’assemblea può opporre resistenza alle richieste del gabinetto e che questo, a sua volta, può tentare di vincerle minacciando lo scioglimento anticipato: è l’ammissione che i due organi, potendo esprimere volontà distinte, debbono costantemente venire a patti. Verrebbe da dire che essi aut simul stabunt, aut simul cadent, con ciò dimostrando che la loro fusion non è certo una presupposto dato, ma piuttosto un risultato il cui ottenimento non è mai certo[21].

In conclusione, per quanto solido e duraturo possa essere il legame politico tra due organi distinti, tanto da far dipendere l’origine e la sopravvivenza di ciascuno dalla volontà dell’altro, ciò nondimeno l’esistenza di una separazione funzionale impedisce sempre la perfetta fusione delle volontà e l’assoluta unitarietà del potere di direzione politica. Come vedremo meglio subito, ciò vale anche per il governo parlamentare che opera nella modalità del “governo di partito” [22].

 

 

4. – Separazione funzionale e unità d’indirizzo politico nei regimi parlamentari con “governo di partito”

 

Dire che nei regimi parlamentari c’è una fusione tra legislativo ed esecutivo è solo un altro modo di ribadire il loro carattere monista. Ossia, tra maggioranza parlamentare e gabinetto vi sarebbe un continuum garantito dal fatto che la prima è formata dallo stesso partito o dagli stessi partiti che controllano il secondo. Grazie al “governo di partito” (o dei partiti) vi sarebbe sostanziale identità di volontà politica tra l’esecutivo e la maggioranza dei membri dell’assemblea elettiva[23].

Portando fino alle estreme conseguenze quest’orientamento, talvolta accade che la fusione politico-organica tra parlamento e governo venga esaltata a dispetto della loro separazione funzionale, quasi si dicesse: “se il governo si appropria di funzioni parlamentari, che male c’è, a parte l’avere ignorato l’esistenza di paratie puramente formali? Se l’indirizzo del governo e quello della maggioranza parlamentare sono la medesima cosa, che cambia, nella sostanza, se a fare una data cosa è il governo anziché il parlamento? L’importante è che il secondo sia d’accordo o non manifesti disaccordo”[24].

Ovviamente mi riferisco soprattutto all’usurpazione governativa della funzione legislativa spettante alle Camere, che si manifesta attraverso l’abuso della decretazione d’urgenza, della legislazione delegata e della potestà regolamentare di delegificazione: per questa via il sistema delle fonti e in genere i riparti competenziali tra parlamento e governo divengono una variabile dipendente dalle caratteristiche attribuite alla forma di governo e, in un certo senso, la teoria delle fonti acquista un ruolo ancillare rispetto alla teoria della forma di governo[25].

È una linea di ragionamento che valorizza al massimo grado la dinamica monista del modello parlamentare e che sminuisce l’importanza della separazione funzionale dei poteri, come se la «fusione tra legislativo ed esecutivo», oltre che sul piano dei rapporti organici di dipendenza reciproca, tendesse a sfociare anche su quello funzionale, rimuovendo sostanzialmente la distinzione tra competenze parlamentari e governative e prefigurando l’assorbimento delle prime nelle seconde[26].

Contro questo genere di ricostruzioni può rivolgersi però un’obiezione fondamentale: l’unità d’indirizzo politico tra maggioranza parlamentare e gabinetto è soltanto un presupposto astratto, una vera e propria fictio. In realtà la volontà politica della maggioranza parlamentare non corrisponde quasi mai in modo preciso a quella del governo e non è vero che sia del tutto indifferente che a svolgere un dato compito o prendere una data decisione sia l’uno invece che l’altro, poiché le due sedi decisionali non sono totalmente fungibili. Lo prova che spesso gli esiti del processo decisionale governativo sono del tipo di quelli che mai il processo decisionale parlamentare avrebbe potuto generare[27].

Del resto, i partiti politici – come tutte le organizzazioni umane –  non sono entità monolitiche che realizzano una perfetta fusione delle volontà e degli interessi. Anche nel partito più coeso c’è sempre un ventaglio di posizioni differenti che possono dare vita a sottogruppi e correnti.

Si obietterà che solitamente il gabinetto è formato in modo tale da offrire adeguata rappresentazione di tutti i diversi punti di vista infrapartitici. Ma per quanto accurata, precisa e calcolata sia la composizione dei ministeri e delle altre cariche governative, non bisogna dimenticare che ci sono pur sempre delle irriducibili “differenze di scala” tra parlamento e governo: anche se il secondo cerca di essere la mappatura del primo, una mappa non potrà mai essere tanto precisa e definita quanto il territorio che rappresenta graficamente. E alla fine le differenze tra la volontà parlamentare e quella governativa sono pur sempre l’effetto di questo diverso “grado di definizione” espresso dai due organi[28].

Anche per queste differenze di scala, il processo decisionale parlamentare è sempre più incerto, imprevedibile ed incontrollabile di quello governativo[29]. A ciò deve aggiungersi il ruolo di condizionamento esercitabile dalla minoranza d’opposizione, che può in taluni frangenti attrarre a sé taluni settori della maggioranza e vanificare gli obiettivi governativi.

In definitiva, la c.d. «fusione tra legislativo ed esecutivo» è una formula imprecisa che non rende pienamente giustizia alle effettive dinamiche dei rapporti interorganici ed infrapartitici tra parlamento e governo e che probabilmente sovrastima l’efficacia del governo di partito.

 

 

5. – Il cimento del governo nei sistemi parlamentari

 

Con ragione, il governo viene definito spesso come «comitato direttivo» della maggioranza parlamentare[30].

Che il gabinetto operi come struttura direttiva anziché esecutiva della volontà parlamentare è rilievo, ormai, quasi scontato. Si tratta di un fenomeno anch’esso riconducibile al governo di partito: i capipartito che siedono nel gabinetto guidano i membri del partito che siedono in parlamento; e ciò in tale misura che non esisterebbe una volontà unitaria della maggioranza parlamentare se non ci fosse, appunto, un «comitato direttivo» a plasmarla.

Questo sembrerebbe smentire quanto ho argomentato nel paragrafo precedente, ma non è così. In realtà dimostra che il compito più impegnativo del governo, se non il suo cimento per eccellenza, è proprio quello di tenere unita la maggioranza parlamentare per tutta la legislatura; e che l’unità d’indirizzo politico tra il gabinetto e la sua maggioranza è, più che un presupposto della vita parlamentare, un risultato da conseguire e rinnovare giorno per giorno, suscettibile tra l’altro di realizzazioni più o meno intense. Che la maggioranza segua il suo gabinetto non è mai del tutto scontato[31]: è invece una sfida sempre aperta, da cui dipende in larga misura il successo dell’azione governativa.

Ecco dunque che la separazione funzionale tra governo e parlamento non è un elemento caduco, perché sostanzialmente assorbito dalla fusione tra legislativo ed esecutivo sotto le insegne di un unico partito (o coalizione di partiti). In realtà tale fusione è l’obiettivo che il governo deve conseguire giorno per giorno, se vuole che la sua politica sia efficace. Poiché il parlamento dispone di competenze di cui il governo è privo, quest’ultimo deve costantemente preoccuparsi di convincerlo e guidarlo.

Quanto appena detto non deve però ingenerare l’equivoco che la separazione funzionale sia soltanto un limite all’efficacia dell’azione governativa, cioè soltanto un ostacolo di cui sarebbe sbagliato sottovalutare la difficoltà[32]. Ha inoltre un significato più profondo che attiene alle condizioni di legittimazione democratica del sistema politico-costituzionale. E per “legittimazione democratica” non intendo il consenso che l’opinione pubblica può accordare di volta in volta all’esecutivo che agisse in dispregio delle prerogative parlamentari[33]. Mi riferisco piuttosto alla coerenza con quei principî da cui dipende la natura democratica del sistema costituzionale. Principî che sarebbero ingiustamente sacrificati sull’altare dell’efficienza ove si attribuissero direttamente al governo le funzioni del parlamento, quella legislativa in primis.

Di conseguenza, un governo che si appropriasse di prerogative parlamentari, onde evitare d’impegnarsi in mediazioni defatiganti o eludere il rischio di essere sconfitto dal voto dell’assemblea, è una scorciatoia che tradisce la logica democratica del sistema parlamentare. O l’esecutivo ha il sostegno della maggioranza su ogni atto di cui richieda l’approvazione, e allora quanto del proprio indirizzo riesce a tradurre in pratica potrà legittimamente fregiarsi di essere una decisione presa in nome della sovranità popolare; o non ce l’ha, e allora ciò che dovesse decidere da sé, schivando il passaggio parlamentare, non potrà certo dirsi che sia inveramento della volontà popolare.

 

 

6. – Primato del parlamento e teoria normativa della democrazia

 

La connessione tra regola di maggioranza e processo decisionale democratico è un tema classico d’interrogazione teorica. Sulla scia delle riflessioni di Robert Dahl e prima ancora di Hans Kelsen, qui si dà per acquisito che tale connessione esista e sia necessaria[34].

In particolare assumerò che il principio maggioritario e quello di sovranità popolare non coincidono e che il secondo perciò non si risolve nel primo; e che tuttavia il secondo esige che il processo decisionale sia scandito dalle prescrizioni del primo nella sua duplice veste di «regola per eleggere e regola per governare»[35]. Pertanto si applicherà sia per stabilire chi governa (in senso lato), sia per stabilire come si governa. Perché vi sia un sistema democratico non è sufficiente dunque che si eleggano i governanti a maggioranza, ma è necessario altresì che questi decidano a maggioranza.

Va da sé che questa duplice veste del principio maggioritario postula che chi è eletto come governante (in senso lato) debba essere più di una persona contemporaneamente, in modo da formare così un organo collegiale, fermo restando ovviamente che un sistema democratico può anche prevedere organi elettivi di tipo monocratico: diversamente, ci troveremmo solo di fronte ad una regola per eleggere, ma non anche ad una regola per governare. Non per caso in tutti i sistemi democratico-rappresentativi esistenti è sempre il consenso della maggioranza dei membri di tale organo collegiale elettivo – variamente denominato come parlamento, congresso, consiglio, cortes, dieta, ecc. – il criterio ultimo per individuare se una data decisione o atto è coerente con la sovranità popolare oppure no. Rispetto a tale profilo nodale del processo decisionale democratico le differenze tra regimi parlamentari e presidenziali sfumano.

Nei primi – come già si è osservato – è il gabinetto ad assumere il più delle volte l’iniziativa di formulare proposte di delibera parlamentare e di impegnarsi attivamente perché esse siano approvate dalla maggioranza dei parlamentari. Tuttavia, quest’iniziativa può avere successo o fallire; e in ogni modo sarebbe un tradimento della regola di maggioranza come regola per governare e, quindi, dello stesso principio democratico se il governo, pur forte della fiducia delle camere, si sostituisse nella decisione al parlamento. Ciò vale anche per il governo presidenziale, dove è escluso che il President, pur provvisto d’investitura elettiva (o quasi), possa assumere (unilateralmente) le decisioni legislative spettanti al Congresso: anche qui è l’assemblea elettiva il luogo in cui deve operare la regola di maggioranza come regola per governare e, quindi, come criterio diretto ad assicurare la massima approssimazione possibile tra i contenuti dell’ordinamento e la volontà popolare. Attraverso il potere di veto il President può sì opporsi agli esiti di questi processi decisionali maggioritari, ma non può certo prenderne il posto.

Secondo la teoria normativa del processo decisionale che è presupposta dalle esperienze che, nell’età presente, vengono convenzionalmente definite di tipo democratico, è l’assemblea elettiva la traduzione prima e principale della volontà popolare, ossia la sede in cui i processi decisionali “simulano” quelli popolari. È il parlamento, dunque, che realizza il miracolo della rappresentanza; che dà corpo, cioè, alla grande finzione per cui il rappresentante sta al posto del rappresentato, come se le decisioni del primo fossero in realtà prese dal secondo.

Ora, la ragione per cui è proprio questo rappresentante, l’assemblea elettiva, a poter stare legittimamente al posto del rappresentato, risiede nel fatto che si tratta di un organo collegiale composto secondo determinate caratteristiche, dirette ad assicurare un certo grado di “rispecchiamento” della varietà d’interessi, aspirazioni, idee, bisogni, ecc., che innervano il corpo elettorale. In sostanza è la natura elettiva e collegiale insieme a fondare il primato del parlamento, intendendo con ciò anche e soprattutto la titolarità della funzione legislativa[36].

Naturalmente è ben possibile che un sistema costituzionale di tipo democratico preveda anche organi elettivi monocratici, come nei governi presidenziali e nelle forme di governo regionale e locale in Italia. Anch’essi sono sicuramente espressione del principio democratico di sovranità popolare e si può legittimamente prevedere che partecipino della funzione legislativa insieme ai parlamenti con eguale forza costitutiva e a pari titolo, com’è il caso del governo presidenziale statunitense. Ciò nonostante, alla luce della teoria democratica qui illustrata, l’organo elettivo monocratico – il Presidente – non potrebbe mai assumere integralmente su di sé la titolarità della funzione legislativa. Può affiancare la propria prestazione “plebiscitaria” a quella rappresentativa offerta dall’assemblea elettiva, ma non può surrogarla ponendosi come sola istanza rappresentativa (e legislativa). In caso contrario si avrebbe una democrazia (soltanto) plebiscitaria, ma non una democrazia (anche) rappresentativa[37].

Si può obiettare che nelle democrazie contemporanee elementi plebiscitari convivono con elementi rappresentativi, come Ernst Fraenkel argomenta ampiamente e condivisibilmente. E in passato c’è chi ha perfino sostenuto che lo «stato dei partiti», evoluzione democratica del regime parlamentare classico, fosse più vicino ad un regime plebiscitario che non ad uno genuinamente rappresentativo[38]. Senonché, per quanto siano numerose le «discrepanze tra diritto costituzionale e realtà nelle democrazie contemporanee»[39] e per quanto il disegno costituzionale del sistema rappresentativo subisca le torsioni plebiscitarie impresse nella prassi dal fenomeno del governo di partito, resta comunque inteso che soltanto una democrazia che concentrasse rappresentanza e legislazione in un solo organo elettivo di tipo monocratico sarebbe una democrazia solo plebiscitaria e non anche (e soprattutto) rappresentativa.

 

 

7. – La teoria dei veto players e la fallacia della «democrazia immediata». Il governo come organo esecutivo e potere direttivo dominante

 

All’origine della sottovalutazione della separazione funzionale tra parlamento e governo nei regimi parlamentari c’è sicuramente il mito dell’indirizzo politico[40].

In realtà il potere di direzione politica del partito maggioritario (e del premier in quanto leader dello stesso) è qualcosa la cui esistenza non può mai essere presupposta, ma che invece va provata in occasione d’ogni votazione parlamentare. A ben vedere, l’applicazione della regola di maggioranza per l’approvazione d’ogni provvedimento e lo stesso riparto funzionale tra parlamento e governo muovono sempre dalla presunzione dell’inesistenza di un indirizzo politico unitario: soltanto dopo che un dato provvedimento è stato approvato si può dire che dietro c’è stata una regia efficace, una direzione politica. Ma questa constatazione non dura se non per il breve intervallo temporale che separa dalla richiesta di approvare un nuovo provvedimento: quando giunge questo momento occorre ancora una volta provare che tale indirizzo coeso e dominante sussiste ancora, e così via.

Queste asserzioni paiono indicare una linea di ricerca insolita, ma in realtà corrispondono sostanzialmente ad un filone importante della scienza politica contemporanea: la teoria dei veto players  di George Tsebelis[41]. Collocandosi in una prospettiva controcorrente rispetto agli studi dominanti di scienza politica, Tsebelis rinuncia all’obiettivo d’individuare con precisione dove sia e di chi sia il potere direttivo dominante, per concentrare invece l’attenzione su ciò che ne ostacola il manifestarsi: in un certo senso è come se ritenesse scientificamente più fruttuoso andare alla ricerca non già delle fonti del potere, ma alla ricerca dei contropoteri. E così, dato un certo sistema politico-istituzionale, non possiamo mai dire con sicurezza chi comanda, ma solo chi può impedire che qualcuno comandi.

Di tutt’altro segno sono le elaborazioni teoriche che sorreggono la nozione di «democrazia immediata»[42]. Di essa può farsi sia un uso descrittivo che normativo. Descrittivo, quando si vuole designare quei regimi democratici nei quali il corpo elettorale sceglie in modo diretto, immediato, chi dovrà assumersi la responsabilità del governo (inteso come gabinetto, organo costituzionale tradizionalmente investito del c.d. “potere esecutivo”). Normativo, quando si sostiene che rappresenta un sicuro progresso democratico il fatto che il corpo elettorale abbia una possibilità di questo tipo. In entrambi i casi si muove dalla premessa che nel governo stia il potere direttivo dominante e che pertanto sia immediata (e quindi più avanzata) quella democrazia che consente al popolo di stabilire in modo diretto chi debba esercitarlo.

Non è chiaro, tuttavia, se il popolo deve investire in modo immediato il governo perché questo è il potere direttivo dominante o se debba farlo affinché lo sia.

Nel primo caso si assolutizza e ipostatizza quella che nei regimi parlamentari è solo un’eventualità il cui verificarsi può essere più o meno frequente: come si è visto, la capacità del governo d’imprimere una direzione politica unitaria alle attività statali non può assumersi come presupposto dato, ma solo come obiettivo il cui realizzarsi non può mai essere certo.

Nel secondo caso, invece, la democrazia immediata è proposta come rimedio contro il male costituito dal fatto che il governo non è il potere direttivo dominante (o non lo è abbastanza). Indubbiamente fornire all’esecutivo una diretta investitura elettiva, come nel caso del sistema presidenziale nordamericano, o preordinare il sistema elettorale all’obiettivo di assicurare che le elezioni dei parlamentari valgano, sul piano sostanziale, anche come scelta diretta dell’esecutivo, com’è il caso del sistemi parlamentari del tipo Westminster e simili, non può non rafforzare la legittimazione del governo e creare la condizione perché riesca ad operare come efficace comitato direttivo della maggioranza parlamentare. Ciò nonostante, anche in questo caso il risultato non è affatto assicurato e rimane comunque fermo che non è l’elezione diretta (sia essa formale o sostanziale) il criterio ultimo per assegnare all’esecutivo la palma di potere direttivo dominante, bensì la sua effettiva capacità di guidare l’assemblea elettiva e di ottenere da questa l’approvazione dell’indirizzo governativo.

In ogni modo, anche se il governo – in virtù dell’elezione diretta ovvero di un sistema elettorale di tipo maggioritario per l’elezione dei parlamentari – riesce ad imporsi come potere direttivo dominante e ad orientare il risultato di gran parte delle deliberazioni parlamentari, ciò non toglie che sia pur sempre corretta la sua definizione tradizionale quale “potere esecutivo”. La teoria delle fonti e la teoria delle forme di governo non possono procedere in modo disgiunto, ignorandosi reciprocamente.

Da un lato, dunque, il fenomeno del “governo di partito” (per rimanere alle esperienze parlamentari) affida al gabinetto il compito di guidare la maggioranza parlamentare, ossia di adoperarsi affinché su ogni provvedimento proposto vi sia l’approvazione del parlamento. Dall’altro, una volta che si è raggiunto un consenso parlamentare su un determinato testo, questo entra in vigore come legge e al gabinetto spetta di curarne responsabilmente l’esecuzione. Mentre la caratterizzazione del gabinetto come “potere esecutivo” dipende dalla teoria delle fonti e dalla primarietà delle fonti legislative rispetto all’attività governativa, invece la caratterizzazione del gabinetto come «potere governante»[43] investito della funzione di direzione politica è un portato del ruolo attualmente assunto dal governo quale comitato direttivo della maggioranza parlamentare. E tuttavia, il fatto che sia “comitato direttivo” non esclude che sia anche “potere esecutivo”: sono, infatti, i due profili che disegnano la fisionomia complessiva del ruolo governativo nelle democrazie parlamentari contemporanee[44].

Può obiettarsi che chi ha un ruolo esecutivo è privo di una volontà propria perchè è al servizio di quella altrui; e che, perciò, questa qualità non si attaglierebbe al governo nella misura in cui opera come il comitato direttivo della maggioranza parlamentare: se ne deve perciò concludere che quando il gabinetto formalmente esegue la volontà parlamentare, sostanzialmente realizza la propria. Ma come già si è detto, questo punto di vista tende a far coincidere la volontà parlamentare con quella governativa: il che, però, è più che altro un obiettivo da realizzare volta per volta che non una condizione fattuale da presupporsi costantemente. E a ben vedere, è proprio la distinzione organica e funzionale tra governo e parlamento a dover suggerire l’ipotesi che le due volontà debbano considerarsi distinte per definizione, nonostante sia nella logica del sistema che il gabinetto possa disporre di incentivi potenti per indurre la convergenza dell’assemblea elettiva sull’indirizzo governativo. È dunque vero che la volontà parlamentare si forma di regola su iniziativa del gabinetto, ma è pure vero che l’assemblea può talvolta negare il proprio assenso alla politica governativa e che il gabinetto, quindi, può non riuscire nel suo intento. Del resto, un conto è riuscire di volta in volta a persuadere qualcuno a fare ciò che la nostra volontà suggerisce, altra cosa è ritenere che sia un corpo inerte al quale possiamo imprimere un irresistibile impulso ad agire.

 

 

8. – Un confronto con la dottrina americana della separazione dei poteri

 

Abbandoniamo la separazione funzionale e ritorniamo a quella organica, cioè alla concezione separazionista forte del modello madisoniano (e montesquieiano) accolto nel costituzionalismo statunitense[45].

Questo modello di separazione dei poteri dovrebbe in realtà chiamarsi “separazione del potere”, poiché postula che tutte le funzioni che si connettono alla direzione politica siano oggetto di condivisione sostanziale tra più organi reciprocamente indipendenti e provvisti di legittimazioni autonome. Il governo presidenziale americano dunque non ammette un organo supremo, né tantomeno un’obiettiva funzione di governo dal carattere unificante e quindi preminente rispetto ad ogni altra funzione statale. Non per caso il sistema dei check and balances è congegnato in modo tale da indurre la compartecipazione sostanziale di Presidente, Senato e Camera dei rappresentanti all’esercizio della funzione legislativa e, in parte, di quella esecutiva.

Sulla scia di Mortati può replicarsi che il «principio di divisione» non esclude il «principio d’unità», perché ogni rigida ripartizione di compiti ispirata alla divisione del lavoro presuppone il coordinamento delle diverse articolazioni funzionali in vista di un medesimo prodotto. Se la separazione dei poteri è nient’altro che la divisione del lavoro applicata all’azione statale, occorre che qualcuno o qualcosa organizzi il processo produttivo statale in modo che le diverse sezioni produttive non siano irrazionalmente autoreferenziali ma si combinino logicamente in vista di un risultato comune[46].

Tuttavia un’obiezione di questo tipo fraintenderebbe profondamente il significato americano della separazione dei poteri (o del potere), che non ha nulla a che vedere con l’idea della divisione del lavoro. Non è una forma di specializzazione funzionale finalizzata a garantire un risultato efficiente. N’è la riprova il fatto che non si traduce in una inflessibile separazione delle competenze, poiché le funzioni degli organi costituzionali non sono divise da rigide paratie, senza alcuna possibilità di comunicazione e interferenza reciproca[47].

Peraltro ciò corrisponde al disegno dei Framers’, perlomeno di Madison, il quale nel The Federalist n. 47 evoca l’autorità di Montesquieu per dimostrare «come sia impossibile e inutile tentare di evitare ogni commistione tra i vari organi»[48].

Invece, nel modello industriale classico – cui sembra ispirarsi la visione mortatiana della divisione dei poteri come divisione del lavoro – ciascuna unità produttiva specializzata nella produzione di un “pezzo” specifico secondo la logica della catena di montaggio, può (e più spesso deve) essere tenuta all’oscuro di ciò che fabbricano le altre: il senso complessivo dell’organizzazione aziendale può essere ignoto alle singole unità funzionali, perché la sola cosa importante è che eseguano in modo tecnicamente corretto il loro compito secondo le indicazioni, l’indirizzo fornito dalla dirigenza aziendale. Non determinano ma ricevono il senso del proprio agire.

Nel sistema americano della separazione dei poteri vige la logica opposta. Ciascuna branch of government determina il senso del proprio agire, anche alla luce e per reazione a quello che fanno le altre. E se è necessario per realizzare il proprio indirizzo, ciascuna di esse può usare le proprie competenze per interferire funzionalmente con quelle delle altre fino al punto di ostacolarne l’esercizio.

Lungi dall’essere un inconveniente imprevisto o un difetto di costruzione, la dinamica americana della separazione dei poteri è l’esito di un progetto consapevole e deliberatamente perseguito. Nel The Federalist n. 51, James Madison scrive che il disturbo e l’impedimento reciproco tra gli organi costituzionali sono «la garanzia più sicura contro una graduale concentrazione dei poteri in un unico organo». Onde evitare abusi di potere da parte del government, «all’ambizione bisogna opporre l’ambizione». E dunque la separazione dei poteri consiste «nell’opporre interessi a interessi opposti», poiché «il fine costante è quello di sistemare e ripartire le varie cariche in maniera tale che l’una possa costituire un controllo sull’altra, in maniera tale che l’interesse privato di ciascun individuo possa diventare una sentinella sui diritti di tutti»[49].

Ma se «il potere arresta il potere», secondo la nota formula di Montesquieu (cui Madison stesso si richiama esplicitamente), allora ciascun potere potrà conseguire pienamente il proprio obiettivo solo se non c’è l’opposizione ma la cooperazione degli altri. Ciò significa che da un punto di vista funzionale non c’è separazione ma condivisione, come ormai da tempo è riconosciuto unanimemente dai più avvertiti studiosi della forma di governo americana. Volendo ancora una volta riprendere la felice formula di Neustadt, il governo presidenziale statunitense non è altro che un «governo di istituzioni separate che condividono gli stessi poteri»[50]. Ad esempio, attraverso l’esercizio del potere di veto il Presidente può di fatto costringere il Congresso a condividere la funzione legislativa, e altrettanto può dirsi del Congresso rispetto alle funzioni presidenziali.

Ma qual è allora il nucleo profondo di verità del modello separazionista americano? È sempre Madison a spiegarlo, quando sottolinea la necessità che «ogni organo abbia una volontà propria e che, di conseguenza, sia organizzato in modo da fare intervenire il meno possibile i membri dell’uno nella nomina dei membri degli altri»[51].

Ciò significa che la separazione dei poteri deve essere flessibile per quanto riguarda le funzioni, ma deve essere assolutamente rigida per quanto riguarda invece «l’origine e la sopravvivenza» dei poteri, come in tempi più recenti è stato ribadito da Matthew Shugart e John Carey nel loro ampio studio sui sistemi presidenziali[52].

Difatti, il potere del Presidente interferisce con quello del Congresso, e viceversa. Tuttavia l’origine e la sopravvivenza del primo non dipendono dalla volontà del secondo, e viceversa. In altre parole, siccome nessuno ha il potere di determinare la composizione dell’altro, nessuno può ergersi come organo supremo, rivendicando una funzione di governo o di indirizzo politico in grado di assoggettare e coordinare le competenze di tutti gli altri.

 

 

9. – Segue: il nesso tra separazione dei poteri, sovranità popolare e superiorità della costituzione nel costituzionalismo americano

 

È quasi scontato osservare che la versione americana della separazione dei poteri si riallaccia alla tradizione del costituzionalismo. Ma forse lo è un po’ meno, se si aggiunge che l’esperienza statunitense arricchisce e raffina questa corrente di pensiero, adeguandola a circostanze fino allora inedite. Il principio secondo cui «il potere arresta il potere» (o secondo cui «all’ambizione bisogna opporre l’ambizione»), pur traendo spunto dal pensiero di Montesquieu e non essendo perciò del tutto nuovo, non è tuttavia la semplice riproposta della teoria del “governo limitato da leggi”. È soprattutto Hanna Arendt ad avere sottolineato come nella cultura giuridica e politica dei rivoluzionari americani l’identificazione tra “governo limitato” e “governo costituzionale” fosse un’acquisizione scontata e per certi versi insufficiente[53]. Essi non si accontentarono di accogliere il principio del rule of law e di affermare l’idea che “la legge (o il diritto) limita il potere”, ma andarono ben oltre, convinti – appunto – che solo il potere potesse veramente arrestare il potere. Soprattutto se il potere pubblico è quello che riceve la propria investitura direttamente dal consenso popolare.

Non è possibile, infatti, intendere la logica profonda del costituzionalismo americano se non si tiene presente che ne è parte integrante anche il principio di sovranità popolare. Nel disegno dei Framers è proprio quest’ultimo principio ad imporre il modello dei checks and balances.

Non bisogna dimenticare che la costituzione federale americana non fu la limitazione di un potere preesistente o l’atto di un governo già istituito che, sotto la pressione delle rappresentanze popolari, acconsente alla propria limitazione concedendo una costituzione. Essa fu invece (anche) la fondazione di un potere pubblico interamente nuovo rispetto a quello preesistente degli Stati sorti dalle colonie; un potere nuovo, scaturente dal seno della società e con una legittimazione e forza di gran lunga maggiore rispetto a quella esibita fino ad allora dalle forme conosciute di potere pubblico. La costituzione americana non è «l’atto di un governo», ma è «l’atto con cui un popolo costituisce il proprio governo»[54].

Di fronte a questa nuova realtà, creata dal Prometeo della rivoluzione americana, la ricetta costituzionale tradizionale del “governo limitato da leggi” non poteva bastare. Una volta affermato il principio che la sovranità popolare è il solo ed unico criterio di legittimazione del potere rappresentativo diventa «di grande importanza (…) non solo salvaguardare la società dall’oppressione dei suoi governanti ma anche garantire una parte della società dai soprusi dell’altra parte»[55].

Orbene, la creazione demiurgica di un nuovo potere pubblico di esclusiva derivazione popolare è all’origine del pericolo del factionalism, che altro non è se non il rischio che la volontà popolare sia in realtà la volontà della fazione più forte. Sicché, mentre da una parte la regola di maggioranza è il solo mezzo per accertare quale sia la volontà popolare, dall’altra però si deve constatare che è comunque uno strumento imperfetto, nel quale sarebbe sbagliato risolvere interamente la sovranità popolare: il pericolo – appunto – è che la volontà di una parte rappresenti se stessa come la volontà di tutto il popolo, esibendo così una forza di legittimazione che non merita se non in parte.

Il legame complesso che il costituzionalismo americano istituisce tra sovranità popolare, regola di maggioranza, separazione dei poteri (intesa come checks and balances) e pluralismo delle factions, offre indirettamente anche una soluzione al problema della validità e vigenza dello stesso documento costituzionale.

Per avvedersene, può essere utile riflettere sul fatto che la costituzione americana è la prima che prescrive per ogni potere pubblico il principio dell’investitura elettiva: essa pertanto si propone come fondazione della regola di maggioranza ma anche come suo limite (giuridico). Senonchè, in che modo il documento costituzionale può essere higher law, norma giuridica superiore rispetto al potere legislativo che scaturisce dalla regola di maggioranza? In che modo può mettersi al riparo dalla forza travolgente della formidabile energia politica che fonda e libera? È chiaro infatti che il principio dell’investitura popolare elettiva può creare la condizione perché la faction dominante, nel suo delirio d’onnipotenza, non si senta affatto vincolata dalla costituzione. Di qui la soluzione della separazione dei poteri, cioè l’articolazione della funzione legislativa tra più centri di potere concorrenti e scaturenti, tutti, dalla regola di maggioranza (e quindi provvisti d’investitura elettiva, sia essa di primo o di secondo grado): precisamente, tra federazione e stati membri, tra House of Representatives e Senate, tra Congress complessivamente inteso e President.

Molto realisticamente si prese coscienza che per assicurare la superiorità della written constitution – cioè la sua validità come fonte suprema – occorreva arginare la forza soverchiante della regola di maggioranza per mezzo della stessa regola di maggioranza, cioè prevedendo che operasse come criterio di investitura di più sedi istituzionali ed organi reciprocamente separati (quanto ad origine e sopravvivenza, ma non quanto a funzioni esercitate). La separazione dei poteri attraverso la moltiplicazione dei poteri legittimati dalla regola di maggioranza fu perciò una soluzione obbligata: vuoi per frenare il factionalism, non bastando a tale scopo porre al di sopra del potere legislativo una lex fundamentalis; vuoi per assicurare quest’ultima contro il primo e fondarne così la stabile vigenza come norma superiore.

 

 

10. – Le garanzie sistemiche e il senso del costituzionalismo

 

La separazione dei poteri (o del potere) che trova applicazione paradigmatica nel sistema americano, è totalmente estranea all’esperienza parlamentare italiana? Il governo presidenziale e quello parlamentare italiano mettono capo a due modi d’intendere il costituzionalismo radicalmente divaricati o comunque eterogenei? Il primo sarebbe madisoniano e montesquieiano, mentre il secondo sarebbe del tipo di quello focalizzato da McIlwain, ossia basato sì sulla distinzione tra iurisdictio e gubernaculum ma per nulla disposto a rinunciare alla sostanziale unitarietà di quest’ultimo? In altre parole, è corretto affermare che mentre il governo presidenziale coniuga l’ideale del “governo limitato dal diritto” col principio secondo cui “il potere arresta il potere”, invece il governo parlamentare italiano accoglie il primo ma non il secondo?

Nelle domande ho volutamente omesso di precisare se mi riferisco al sistema parlamentare contemporaneo (e razionalizzato) o al regime parlamentare statutario. A prima vista parrebbe facile osservare che mentre quello statutario – riconducibile al tipo c.d. classico – è una forma d’organizzazione del potere pubblico che sostanzialmente recepisce il principio secondo cui “il potere arresta il potere”, lo stesso non dovrebbe dirsi per il secondo: e difatti, se il passaggio dal sistema parlamentare classico a quello razionalizzato viene descritto come il passaggio da un assetto dualista ad uno monista, il costituzionalismo cui s’ispirano le esperienze parlamentari razionalizzate non potrebbe che essere altra cosa rispetto al filone montesquieiano e madisoniano che invece informa il modello americano.

Se però s’esamina il tema più a fondo, questa conclusione è tutt’altro che scontata. Soprattutto se si guarda al tipo di rapporto che nella nostra esperienza costituzionale intercorre tra PdR e Governo: sono connessi funzionalmente, hanno entrambi lo stesso tipo di legittimazione democratica (più intensa quella del Capo dello Stato), ma nessuno può determinare l’origine e la sopravvivenza dell’altro. Non ha questo potere il Governo nei confronti del Capo dello Stato e né lo ha il secondo nei confronti del primo. È vero che è il PdR a nominare il Governo, ma è vero pure che la scelta è condizionata fortemente dall’assetto e volontà delle forze politiche parlamentari. E in ogni modo non può liberamente revocarlo. Insomma, per intendere il rapporto tra Capo dello Stato e Governo pare più utile fare riferimento al modello separazionista americano che non a quello imperniato sulla distinzione tra indirizzo e garanzia.

Infatti quest’ultimo modello, che tanta fortuna ha avuto nella ricostruzione del diritto costituzionale italiano vigente, non raccoglie l’eredità del costituzionalismo americano di derivazione montesquieuiana e madisoniana, ma si colloca nella meno impegnativa tradizione del governo costituzionale come “governo limitato da leggi”. Non afferma il principio secondo cui “il potere arresta il potere”. Gli organi di garanzia, o quelli che in questi termini vengono descritti, non sono “potere” ma soltanto istanze di controllo della legalità del potere. Non contrappongono indirizzo ad indirizzo, interesse ad interesse, ambizione ad ambizione: solo verificano che il potere non esorbiti dalle competenze assegnategli dal diritto. Pertanto il potere investito dalla regola di maggioranza non incontra il proprio limite in un altro potere, anch’esso legittimato dalla regola di maggioranza.

Come si vede, il binomio indirizzo/garanzia sembra presumere – assai irrealisticamente – una cesura netta tra passione e ragione: la prima tutta nel versante degli organi d’indirizzo, la seconda tutta nel versante degli organi di garanzia. I primi avrebbero il diritto d’essere faziosi, i secondi il dovere dell’obiettività e dell’imparzialità. A ben vedere, il costituzionalismo che distingue tra indirizzo e garanzia, pur aderendo al principio secondo cui il diritto arresta il potere, in realtà per un lungo tratto se ne discosta: precisamente allorquando postula che il limite impersonale del diritto sia gestito non già dall’operare di meccanismi sistemici complessivi, ma da “persone fisiche”, sulla cui volontà e capacità d’essere obiettivi, razionali ed impersonali non si può certo giurare[56].

Se si vuole prendere il costituzionalismo sul serio, deve riconoscersi che la garanzia è un effetto sistemico complessivo del disegno costituzionale; e non già la missione che istituzionalmente qualifica un attore costituzionale particolare, tantomeno se è un organo monocratico. In questo caso, infatti, l’imparzialità della funzione dipenderà dalla volontà o capacità d’essere imparziale del soggetto che riveste la carica. Ma ciò è quanto storicamente il costituzionalismo ha sempre voluto evitare: poiché bisogna diffidare degli uomini, delle loro passioni e appetiti, ci si deve affidare alla garanzia offerta dall’assetto costituzionale complessivo e non alla buona volontà di questo o quell’individuo chiamato a garantire tutti gli altri. La garanzia riposa nel principio secondo cui “il potere arresta il potere” e non nella previsione di un organo la cui funzione sia quella, appunto, di fare da garante.

Lo stesso vale per i giudici: la garanzia della loro imparzialità non è data solo dal fatto d’essere indipendenti rispetto ad ogni altro potere, ma anche dalla loro diffusione e pluralità, ossia dal fatto che la decisione di un giudice che non è stato imparziale può essere sempre corretta o superata dalla decisione di un altro giudice e dal fatto che la produzione giurisprudenziale del diritto vivente è un’impresa collettiva cui partecipa un numero indefinito di soggetti[57]. Se il giudice fosse un unico e onnicompetente Salomone, la sola garanzia della sua imparzialità la darebbe la sua natura d’uomo saggio e prudente: ma il costituzionalismo – come si è detto – muove sempre dall’opposta presunzione che gli uomini non siano quasi mai saggi e prudenti e che per questo occorre un sistema istituzionale bilanciato in modo da trasformare l’arbitrio di uno nell’antidoto contro l’arbitrio dell’altro.

Ciò nondimeno nel costituzionalismo europeo è assai radicato il mito del potere unico imparziale, del pouvoir neutre che assicura il razionale e armonico funzionamento delle istituzioni costituzionali stando al di sopra delle passioni e degli interessi di parte. Occorre dunque risalire alla genealogia di questa mitologia costituzionale, per valutarne l’utilità euristica con riferimento alla figura del capo di stato parlamentare.

 

 



 

[1] È evidente che sto usando il lemma “costituzionalismo” non già per indicare qualsiasi discorso che abbia a che fare con le costituzioni, siano esse intese come documenti scritti o leggi fondamentali ovvero come insieme dei caratteri e/o dei principi che definiscono la struttura di una comunità politica; bensì per designare quell’ideale che propugna la limitazione giuridica del potere politico: ossia, intendo riferirmi al costituzionalismo in senso assiologico e sulla scia di C. J. Friedrich, Constitutional Government and Democracy, Boston, 1950, trad. ital., Governo costituzionale e democrazia, Neri Pozza Editore, Venezia, s.d., 176 ss., al concetto «funzionale» di costituzione come «efficace limitazione regolarizzata del potere».

 

[2] C. H. McIlwain, Constitutionalism: Ancient and Modern, New York, 1947, trad. ital. Costituzionalismo antico e moderno (a cura di N. Matteucci), Il Mulino, Bologna, 1990, passim.

 

[3] Lo stesso probabilmente non poteva dirsi per le costituzioni europee ottocentesche, ivi compreso il nostro Statuto Albertino, il cui obiettivo era piuttosto quello di limitare un potere che ricavava aliunde il proprio fondamento di legittimazione.

 

[4] La concezione della costituzione come fonte del diritto corrisponde a quel fenomeno che S. M. Griffin, American Constitutionalism. From Theory to Politics, Princeton, 1996, trad. ital. Il costituzionalismo americano. Dalla teoria alla politica, Bologna, Il Mulino, 2003, 46, chiama legalization of the Constitution; fenomeno che nell’esperienza americana non fu affatto scontato, tanto che è recentemente emerso un indirizzo di teoria costituzionale, il c.d. Popular constitutionalism, che contesta alla radice sia l’idea che la costituzione debba assumersi come fonte di norme giustiziabili dinanzi ad un giudice, sia il frutto storicamente più importante di quest’idea: la dottrina Marshall inaugurata con la sentenza Marbury vs Madison e, quindi, lo stesso judicial review of legislation. Per tutti vedi L. D. Kramer, The People Themselves: Popular Constitutionalism and Judicial Review, Oxford University Press, New York, 2004, passim.

 

[5] Per C. H. McIlwain, op. cit., 162, «se la iurisdictio è essenziale alla libertà – e la iurisdictio è parte del diritto – è il diritto che deve essere difeso contro l’arbitrio. E la sola istituzione, sopra tutte le altre essenziale alla difesa del diritto, è sempre stata ed è ancora un potere giudiziario onesto, abile, preparato ed indipendente».

 

[6] C. H. McIlwain, op. cit., 163.

 

[7] Occorrerebbe perciò distinguere «tra i limiti legali, ai quali la nostra storia dà un così forte sostegno, e l’equilibrio politico, per il quale v’è una povera tradizione storica, eccettuate le fantasie dei dottrinari del Settecento e dei loro seguaci». Insomma «l’equilibrio politico» non avrebbe «altro fondamento fuori che nell’immaginazione di filosofi di gabinetto come Montesquieu» (Ibidem, 163). 

 

[8] Ibidem, 163.

 

[9] «Quando, nei tempi moderni, le assemblee rappresentative presero su di loro i diritti e i doveri dei monarchi, assunsero un potere e una responsabilità, che era stata sempre concentrata e indivisa» (ibidem, 163). Questa concezione del costituzionalismo, propugnata da McIlwain, venne ripresa in Italia da N. Matteucci, Organizzazione del potere e libertà. Storia del costituzionalismo, Utet, Torino, 1976, passim e Id., Costituzionalismo, in N. Bobbio, N. Matteucci, G. Pasquino, Dizionario di politica, Utet, Torino, 1983. per la visione opposta vedi invece C. J. Friedrich, Governo costituzionale e democrazia, cit., 34, 248 ss., per il quale il costituzionalismo non può mai andare disgiunto dalla separazione dei poteri.

 

[10] Non per caso N. Matteucci, Costituzionalismo, cit., 252, difende la concezione del costituzionalismo proposta da McIlwain rilevando come «il principio della divisione dei poteri, nella versione di Montesquieu (…), sembra assai poco utile per comprendere il funzionamento dei nostri sistemi parlamentari nei quali è venuta meno ogni distinzione fra esecutivo e legislativo e vi è, invece, una continuità di potere o un processo politico che ha il suo momento iniziale nelle elezioni e il suo momento terminale nell’azione di governo». Ma prima ancora vedi B. Mirkine-Guetzevitch, Les constitutions européennes, 1951, trad. ital. Le costituzioni europee, Ed. Comunità, Milano, 1954, 19 ss., che peraltro ricorda come già L. Blum, La riforme gouvernementale, Paris, 1936, 150-151, sostenesse che «in regime democratico, il dogma della separazione dei poteri non è altro, per quanto riguarda il legislativo e l’esecutivo, che una semplice finzione giuridica, sulla quale i nostri giuristi potranno mettersi d’accordo con i nostri storici. La verità è che, ad ogni momento e ad ogni proposito, il legislatore e l’esecutivo vivono in uno stato di penetrazione e di dipendenza reciproche, e che siffatta continua collaborazione rappresenta la legge stessa della nostra attività di governo».

 

[11] A conferma della diffusione di questo modello esplicativo, può essere utile osservare come esso corrisponda all’idea di «costituzione bilanciata» avanzata da M. Fioravanti, Costituzione e popolo sovrano, Il Mulino, Bologna, 1998, 34, 35: le costituzioni che vi corrispondono sarebbero, infatti, «atti fondamentali di bilanciamento tra i due momenti distinti e separati dell’indirizzo e della garanzia», nel senso che conterrebbero «da una parte i poteri d’indirizzo, dall’altra i poteri di garanzia».

 

[12] Traggo la formula della separazione organica dei poteri come separazione «delle fonti dell’origine e della sopravvivenza» da M. S. Shugart, J. M. Carey, Presidents and Assemblies: Constitutional Design and Electoral Dynamics, 1992, trad. ital. Presidenti e assemblee. Disegno costituzionale e dinamiche elettorali, Bologna, Il Mulino, 1995, 36.

 

[13] Che il sistema americano realizzasse un mix di condivisione funzionale e separazione organica è quanto fu osservato, già diversi decenni addietro, da L. Elia, Forma di governo e procedimento legislativo negli Stati Uniti d’America, Milano, 1961, 29 ss., spec. 30, il quale addirittura ipotizzava che tra questi due fenomeni non ci fosse una mera giustapposizione, ma un vero e proprio nesso di strumentalità, nel senso che «la confusione di funzioni relative all’indirizzo politico è, se non prodotta, quanto meno garantita dalla separazione dei poteri, intesi appunto come istituzioni separate». In particolare, come si vedrà meglio in seguito, è lo sfasamento cronologico dei momenti elettorali relativi all’investitura dei tre organi il vero puntello dell’intera costruzione e ciò che rende particolarmente forte il separazionismo della forma di governo statunitense.

 

[14] Perlomeno nella raffigurazione che comunemente se ne dà, perché poi vedremo che la repubblica parlamentare italiana merita un posto a sé.

 

[15] Peraltro è il meccanismo complesso che decontestualizza cronologicamente le elezioni presidenziali e congressuali ad accentuare la forza separazionista del modello americano, come rilevato da ultimo da B. Ackerman, The New Separation of Powers, in Harvard Law Review, Vol. 113, n. 3, 2000, trad. ital. La nuova separazione dei poteri, Carocci, Roma, 2003, 20-24. Nella ricostruzione proposta dall’Autore, le diverse forme di governo si differenziano tra loro secondo il tipo di risposta che forniscono alla domanda: «quante elezioni deve vincere un movimento politico prima di ottenere quanta autorità legislativa?». Ebbene, nei sistemi dove manca una separazione organica forte dei poteri, come quello britannico, «un movimento politico ha bisogno di vincere solo una elezione prima di ottenere un’autorità piena». Al contrario, i sistemi in cui c’è una forte separazione dei poteri, come quello nordamericano, «negano che una singola vittoria elettorale sia sufficiente per investire il movimento politico vincente di una piena autorità legislativa». Insomma, i diversi modelli di separazione dei poteri possono classificarsi «in base al grado di difficoltà che impongono a quei movimenti politici che perseguono una piena autorità. I sistemi deboli impongono come requisito un esiguo numero di elezioni che possono essere condotte in rapida successione; quelli forti richiedono un insieme più ampio di vittorie elettorali».

 

[16] W. Bagehot, The English Constitution, London, 1867, trad. ital., La costituzione inglese, Il Mulino, Bologna, 1995, 46.

 

[17] W. Bagehot, La costituzione inglese, cit., 52. Ma a giudizio di M. J. C. Vile, Constitutionalism and the Separations of Powers, II ed., Indianapolis, 1998, 236 ss., l’opinione di Bagehot era tutt’altro che rivoluzionaria per quel tempo. In particolare, secondo quanto riporta lo stesso Vile (a pag. 240), già nel 1832 J. J. Park (The Dogmas of the Constitution, London, 1832) notava che in Inghilterra da circa centocinquant’anni vigevano due costituzioni, «the one in substance, the other only in form». Secondo la prima, puramente formale, vigevano ancora i principi della divisione tra legislativo ed esecutivo e del bilanciamento o equilibrio tra King, Lords e House of Commons. In base alla seconda, invece, che era «the real Constitution», tutte le prerogative della Corona ormai «had come to be exercised and carried on in the House of Commons». Quale effetto di questo mutamento – sempre seguendo il pensiero di J. J. Park, The Dogmas of the Constitution, cit., 39 – finirono in capo ai membri del gabinetto la «gestione, il controllo e la direzione della totalità della legislazione politica, conformemente agli indirizzi di scienza politica ed economia civile di cui erano portatori». Insomma, com’è stato sottolineato pure da J. Varela Suanzes-Carpegna, Sistema de gobierno y partidos políticos: de Locke a Park, Madrid, 2002, trad. ital. Governo e partiti nel pensiero britannico (1690-1832), Giuffré, Milano, 2007, 144, l’allontanarsi della pratica costituzionale inglese dai moduli del mixed government e della separazione dei poteri indusse Park a sottolineare l’emergere di un’unitaria funzione di governo o d’indirizzo politico.

 

[18] W. Bagehot, op. cit., 213, 214.

 

[19] Ibidem, 55.

 

[20] Non entro nella questione se le tesi di Bagehot circa la titolarità del potere di dissoluzione fossero corrette o no. Com’è noto, Egli riteneva che fosse un potere sostanzialmente governativo e, in particolare, che spettasse al Premier (ibidem, 215 ss.). Tuttavia, intaccando inevitabilmente la solidità della sua tesi, ammetteva pure che «ci sono margini di dubbio sul fatto che il sovrano sia comunque tenuto a sciogliere il parlamento quando il governo gli chiede di farlo» (ibidem, 55). 

 

[21] Anche M. J. C. Vile, Constitutionalism and the Separations of Powers, cit., 249, 250, critica Bagehot, osservando come «the fact that the cabinet has the power to dissolve the Commons surely does not prove that they are fused, but that they are not». Il sistema descritto da Bagehot non sarebbe dunque «a fusion of powers», ma al contrario «a subtle division and interdipendence of two arms of government, each with its proper function to perform»: e per certi versi sarebbe lo stesso Bagehot ad ammetterlo, quando scrive che «the whole life of English politics is the action and reaction between the Ministry and the Parliament».

 

[22] Quanto appena detto con riguardo alla separazione funzionale ridimensiona notevolmente l’importanza che l’efficient secret di Bagehot giocherebbe nel costituzionalismo britannico. Peraltro non bisogna dimenticare che per W. Bagehot, op. cit., 47 ss., occorre riconoscere nella costituzione inglese «due parti»: le parti «nobili», ossia «quelle che stimolano e mantengono la reverenza del popolo», e le parti «efficaci», ossia «quelle per le quali una Costituzione, nei fatti, riesce a funzionare e a comandare». Queste due parti corrispondono ai due «grandi obiettivi che ogni Costituzione deve raggiungere per funzionare, e che ogni Costituzione antica e celebrata dovrebbe aver conseguito: prima conquistare l’autorità, poi esercitarla. Prima deve guadagnare il rispetto e la fiducia del popolo, e poi impiegare quell’ossequio per l’esercizio della sovranità». Questa distinzione, all’apparenza chiara, è invero piuttosto sfuggente, anche perché, a causa della peculiarità, anzi unicità del costituzionalismo britannico, privo – com’è noto – di una costituzione scritta, non è possibile istituire alcuna comparazione con analoghe distinzioni formulate con riferimento ad altre esperienze costituzionali. La distinzione tra parti «nobili» e parti «efficaci» della costituzione non equivale, ad esempio, né a quella tra costituzione scritta e costituzione vivente, né a quella tra costituzione formale e materiale.

Forse, per intenderne correttamente il senso, può farsi corrispondere a quella formulata da un altro autorevole giurista britannico, A. V. Dicey, Introduction to the Study of the Law of the Constitution (1885), London, 9th ed. (1952), 23 ss., ossia alla nota distinzione, ormai tipica del costituzionalismo inglese, tra laws of the Constitutions e conventions of the Constitution: le prime sono «rules which (wheter written or unwritten, whether enacted by statute or derived from the mass of customs, tradition, or judge-made maxims known as the common law) are enforced by the courts (…) and constitute “constitutional law” in the proper sense of that term»; le seconde, invece, «consist of conventions, understandings, habits, or practices which (…) are not in reality laws at all since they are not enforced by the courts». Ebbene, posto che l’efficient secret, cioè la fusion of powers (che si realizza laddove il corpo elettorale, pur votando per l’elezione del solo parlamento, in realtà è come se scegliesse direttamente anche la guida dell’esecutivo), rientra ovviamente tra le «parti efficaci», essa sarebbe al limite un fenomeno riconducibile alle conventions of the Constitution, ma non un precetto, regola o principio, della law of the Constitution. Insomma il diritto costituzionale inglese propriamente detto conoscerebbe, come «parte nobile» e quindi come law of the Constitution, il principio (giuridicamente cogente) della Sovereignty of Parliament (e dunque il conseguente principio della separazione funzionale ed organica tra legislativo ed esecutivo), ma non la fusion of powers: quest’ultima non sarebbe una regola giuridica enforceable, cioè sanzionabile in via giudiziale, ma piuttosto una regolarità politica, una pratica convenzionale condivisa tra gli attori politici, che scandirebbe il funzionamento concreto dei meccanismi costituzionali e che, nelle circostanze date, ne implementerebbe efficacemente il dettato. 

 

[23] La tesi sembra riecheggiare nelle seguenti parole di E. Cheli, Atto politico e funzione d’indirizzo politico, Milano, 1961, 147-148: «la maggioranza parlamentare che consente l’approvazione di un determinato provvedimento legislativo è la stessa maggioranza che, attraverso il voto di fiducia, sostiene l’azione di un determinato Governo: in questa prospettiva la legge non esprime nella generalità dei casi una volontà particolare di maggioranze occasionali, ma si collega organicamente ad un piano di scelte politiche perseguito da quelle stesse forze che dispongono del Governo».

 

[24] Onde evitare equivoci, è bene precisare che le parole del testo tra virgolette sono mie, anche se non le condivido. Esse esprimono un punto di vista non solo diffuso, ma anche risalente nel tempo. Già B. Mirkine-Guetzevitch, Le costituzioni europee, cit., 21-22, sosteneva che,  «con il sistema parlamentare repubblicano, nel quale non esiste più lotta fra esecutivo e legislativo, nel quale l’esecutivo esce dalle elezioni popolari attraverso la mediazione del parlamento, il problema dei decreti-legge e dei pieni poteri si è completamente trasformato. Esso ha perduto il carattere scolastico che gli hanno voluto attribuire gli autori del secolo XIX sotto l’influenza delle teorie elaborate sotto la monarchia costituzionale (…) È chiaro che esse non sono più applicabili al sistema parlamentare moderno, nel quale il ministero si basa sulla maggioranza parlamentare e non vi è pertanto alcuna differenza, dal punto di vista politico, fra una legge proposta dal ministero ed omologata in seguito dal parlamento, ed una norma legislativa preparata direttamente dal ministero in virtù dei pieni poteri. Entrambe queste norme sono basate sul consenso della maggioranza, vale a dire sul suffragio universale». Più recentemente M. Cartabia, Legislazione e funzione di governo, in Riv. dir. cost., 2006, 87, si confronta con considerazioni dello stesso tipo, osservando che «se (…) fossero da condividere pienamente si potrebbe addirittura concludere che il governo controllando il parlamento potrebbe attuare il suo indirizzo politico indifferentemente tramite leggi parlamentari o per mezzo di atti con forza di legge. Ciò varrebbe a fortiori nelle forme di governo parlamentare di tipo maggioritario, perché in esse il dominio del governo sul parlamento diverrebbe quasi totale».

 

[25] C’è da dire, inoltre, che quest’atteggiamento s’è fatto strada perfino nella giurisprudenza costituzionale italiana. È vero che, in tema di decreto-legge, con la sentenza n. 360 del 1996 la Corte costituzionale afferma che «la prassi della reiterazione, tanto più se diffusa e prolungata nel tempo, viene (…) a incidere negli equilibri istituzionali, alterando i caratteri della stessa forma di governo e l’attribuzione della funzione legislativa ordinaria al Parlamento»; ma è vero anche che la medesima pronuncia consente che «il vizio di costituzionalità derivante dall’iterazione o dalla reiterazione (possa) ritenersi sanato quando le Camere, attraverso la legge di conversione (o di sanatoria), abbiano assunto come propri i contenuti o gli effetti della disciplina adottata dal Governo in sede di decretazione d’urgenza». Giustamente A. Simoncini, Corte e concezione della forma di governo, in V. Tondi della Mura, M. Carducci, R. G. Rodio (a cura di), Corte costituzionale e processi di decisione politica, Atti del seminario di Otranto-Lecce svoltosi il 4-5- giugno 2004, Giappichelli, Torino, 2005, 262, osserva che «quando appare nei rapporti e nei comportamenti degli attori istituzionali il continuum politico Parlamento-Governo, anche le regole costituzionali sulle fonti tendono a diventare cedevoli dinanzi a questa signoria della maggioranza politico-parlamentare; a meno che la questione non coinvolga il piano dei diritti». E analoghi rilievi valgono altresì per la legislazione delegata, il cui sindacato di costituzionalità in base ai requisiti dell’art. 76 Cost. avviene assai spesso in forme blande. insomma, per usare ancora una volta le parole di Simoncini, «il principio democratico alla base della nozione parlamentare della forma di governo sembra esaltato nel suo aspetto “sostanziale”, ritenendolo espresso ogniqualvolta esista una maggioranza parlamentare disposta a sostenere, prima o dopo, direttamente o indirettamente, attivamente o addirittura solo per acquiescenza, la decisione».

 

[26] Con riferimento alle vicende della XIV legislatura, A. Carminati, Dinamiche istituzionali e logiche politiche: le interferenze fra Governo e maggioranza parlamentare nel corso della XIV legislatura, in A. D’Andrea, L. Spadacini, La rigidità bipolare del parlamentarismo italiano. Cinque anni di centrodestra (2001-2006), Brescia, 2008, 623 ss., spec. 638 ss., lamenta giustamente «l’indebita incorporazione nel Governo della maggioranza parlamentare».

 

[27] Ritornando all’esempio di prima, per il Governo non è certo indifferente valersi dell’iniziativa legislativa “normale” ovvero di quella peculiare iniziativa legislativa “rinforzata” costituita appunto dal ricorso alla decretazione d’urgenza, poiché non è affatto detto che garantiscano il medesimo risultato. Se è vero, infatti, che – come asserisce A. Simoncini, Tendenze recenti della decretazione d’urgenza in Italia e linee per una nuova riflessione, in Id. (a cura di), L’emergenza infinita. La decretazione d’urgenza in Italia, Eum, Macerata, 2006, 37 – il decreto-legge è diventato «un tipo di iniziativa legislativa del Governo, in cui l’efficacia normativa è anticipata al momento della presentazione del disegno di legge alle Camere», è assai probabile che quest’anticipazione dell’effetto normativo, che in qualche modo mette le Camere “di fronte al fatto compiuto”, sia uno strumento formidabile per vincere eventuali resistenze parlamentari alla richiesta di conversione in legge. Insomma, ci si appropria abusivamente di un pezzo di funzione legislativa per poi condizionarla pesantemente nella sua interezza. 

 

[28] Per descrivere il meccanismo del sistema parlamentare britannico A. L. Lowell, The Government of England, citato da C. Friedrich, Governo costituzionale e democrazia, cit., 524, usa l’immagine dei cerchi concentrici: «l’anello esterno è costituito dal partito che ha una maggioranza alla Camera dei Comuni; l’anello seguente dal ministero, che contiene gli uomini che sono più attivi entro quel partito; e il più piccolo di tutti dal gabinetto, che comprende i veri leaders o capi. Con questo mezzo si assicura quell’unità dell’azione di partito che dipende dal porre il potere direttivo nelle mani di un organo abbastanza piccolo da essere facilmente d’accordo, e abbastanza influente da poter esercitare il controllo». Tutto vero. Sta di fatto, però, che l’anello più piccolo non contiene quelli più grandi e che nella reductio ad unum che scandisce il passaggio dal più grande al più piccolo, qualcosa inevitabilmente si perderà. Difatti, come osservato da M. Cartabia, Legislazione e funzione di governo, 89, «le decisioni che si assumono all’interno del governo non sempre sono sostenute unanimemente dall’intera maggioranza che lo compone. Può facilmente accadere che esse siano frutto di un consenso più limitato, imputabile per così dire alla “maggioranza della maggioranza”».

 

[29] E infatti, sovente «il governo tende a sottrarsi alla sede parlamentare anche per evitare il legislative bargaining che spesso si realizza in quella sede. Per evitare complesse trattative con gruppi di pressione e per evitare che l’appoggio politico di un certo gruppo parlamentare all’approvazione di una legge o di una specifica previsione normativa possa richiedere come contropartita il sostegno ad altra misura legislativa indesiderata, il governo predilige le decisioni in Consiglio dei ministri, dove minore è il numero degli interlocutori da accontentare» (M. Cartabia, op. cit., 88).

 

[30] Per tutti vedi L. Elia, Il Governo come comitato direttivo del Parlamento, in Civitas, n. 1-2, 1951, 59 ss.

 

[31] Come emerge, ad esempio, dalle ricerche “sul campo” effettuate, sotto la guida di Antonio D’Andrea, da L. Spadacini, M. Frau e G. Battisti, con riferimento agli anni 2001-2006, e che possono leggersi in A. D’Andrea, L. Spadacini, La rigidità bipolare del parlamentarismo italiano. Cinque anni di centrodestra (2001-2006), cit.

 

[32] Intendiamoci, basterebbe questo per ridimensionare tutte le ricostruzioni correnti del governo parlamentare come organizzazione unitaria del potere di direzione politica.

 

[33] Non escludo, infatti, che un governo sistematicamente impegnato nella polemica antiparlamentare possa avere successo e godere, proprio per questo, di un largo consenso popolare.

 

[34] R. Dahl, Democracy and its crtics, 1989, trad. ital. La democrazia e i suoi critici, Roma, 1990, 201 ss.; H. Kelsen, Vom Wesen und Wert der Demokratie, Tübingen, J. C. B. Mohr, 1929, trad. ital. Essenza e valore della democrazia, in I fondamenti della democrazia, Bologna 1966.

 

[35] Traggo la formula da A. Barbera, C. Fusaro, Maggioranza (principio di), in Enc. scien. soc., Vol. V, Roma, 1996, 405 ss., ma la impiego per altri fini.

 

[36] Da questo non può però trarsi che la volontà popolare si risolva e riduca interamente nella volontà del rappresentante. La sovranità del popolo non si trasforma in quella del rappresentante, ma al contrario disgiunge definitivamente sovranità e rappresentanza, come argomento in O. Chessa, Corte costituzionale e trasformazioni della democrazia pluralistica, in Dir. pubbl., 3, 2004, 851 ss. (pubblicato, in una versione più estesa, pure in V. Tondi della Mura, M. Carducci, R.G. Rodio, Corte costituzionale e processi di decisione politica, Atti del seminario di Otranto – Lecce svoltosi il 4-5 giugno 2004, Torino, 2005, 17 ss.), 907.

 

[37] aderisco, evidentemente, alla chiave di lettura proposta da E. Fraenkel, Die repräsentative und die plebiszitäre Komponente im demokratischen Verfassungsstaat, Tübingen, 1958, trad. ital. La componente rappresentativa e plebiscitaria nello Stato costituzionale democratico, Torino, 1994, passim, il quale riconduce l’elezione diretta dell’esecutivo alla componente propriamente plebiscitaria e non rappresentativa dei regimi democratici contemporanei.

 

[38] È palese – credo – il riferimento a G. Leibholz, Die Repräsentation in der Demokratie, III ed., Berlin, 1973, trad. ital, La rappresentazione nella democrazia, Milano, Giuffrè, 1989, 161 ss.

 

[39] Per usare le stesse parole che adopera G. Leibholz, op. cit., 161.

 

[40] Sostiene la natura “mitologica” della nozione d’indirizzo politico P. Ciarlo, Mitologie dell’indirizzo politico e identità partitiche, Napoli, Novene, 1988, passim.

 

[41] Illustrata nella monografia Veto Players. How political institutions work, New York, 2002, trad. ital. Poteri di veto. Come funzionano le istituzioni politiche, Bologna, 2004, passim.

 

[42] Che si deve, com’è noto, a M. Duverger, La VI Repubblica e il regime presidenziale, Milano 1962, 38 ss.; Id., I partiti politici, Milano 1970, 475; Id., Institutions politiques et droit constitutionelle, Paris 1973, I, 162; Id., La nostalgie de l’impuissance, cit., 68 ss. In Italia il modello teorico della «democrazia immediata» è assai diffuso: per tutti vedi A. Barbera, Rappresentanza e istituti di democrazia diretta nell’eredità della Rivoluzione francese, in Pol. dir. 1989, 555. Per una critica serrata vedi invece M. Luciani, Il voto e la democrazia, Roma 1991, 65 ss. e G. U. Rescigno, Democrazia e principio maggioritario, in Quad. cost., II, 1994, 187 ss; e più recentemente O. Chessa, La democrazia maggioritaria nell’interpretazione costituzionale della forma di governo, in Dir. Pubbl., I, 2004, 50 ss. 

 

[43] Su cui vedi G. Bognetti, Poteri (divisione dei), in Enc. giur., 375.

 

[44] E quindi aveva sicuramente ragione B. Mirkine-Guetzevitch, Le costituzioni europee, 18, a rimarcare che la definizione del gabinetto come «comitato esecutivo dell’Assemblea (…) non è delle più felici», perché «governare non è soltanto eseguire». Tuttavia sarebbe poco felice anche il rovesciamento di prospettiva: ossia definire il gabinetto soltanto come comitato direttivo del parlamento, tralasciando di considerare il suo ruolo di organo esecutivo.

 

[45] E che McIlwain – come abbiamo visto – dissocia dal significato autentico di costituzionalismo, mentre molti altri invece ne reputano la realizzazione più genuina.

 

[46] Il discorso mortatiano è chiaro. Siccome gli stati moderni sono ordinamenti complessi che ripartiscono le funzioni pubbliche tra una pluralità di organi diversi, al «principio di divisione» occorre affiancare quello «d’unità» come momento necessario di coordinazione delle attività statali particolari. La funzione di governo o d’indirizzo politico è quindi parte integrante dell’ordinamento giuridico statale. Di più, è presupposto di possibilità dell’ordinamento e condizione della sua pluralità organica: «Riesce impossibile mantenere l’unità della volizione dello Stato senza una tale attività (di governo) che raggruppi intorno ai fini generali le volontà singole: solo a tale condizione ed entro questi limiti è possibile ammettere l’esistenza di una pluralità di organi autonomi» (C. Mortati, , L’ordinamento del governo nel nuovo diritto pubblico italiano, Milano, 1931 (ristampa inalterata del 2000), 11). La sua missione è «ricostituire ciò che la divisione delle competenze e degli organi necessariamente divide e di ricostituirli intorno a un centro unitario». Perciò «ha come scopo diretto l’unità, e pertanto agisce come principio motore di tutto il complesso dell’attività statale: indica ai vari organi la via e riconosce la conformità dei loro atti al fine» (ibidem, 15, 16).

 

[47] A tale proposito R. E. Neudstadt, Presidential Power and the Modern Presidents. The Politics of Leadership from Roosevelt to Reagan, New York-Toronto, 1990 (I ed. 1960)., 29, osserva che sì «the Constitutional Convention of 1787 is supposed to have created a government of “separated powers”», tuttavia aggiunge che «it did nothing of the sort»¸perchè piuttosto «it created a government of separated institutions sharing powers» (corsivo mio).

 

[48] A. Hamilton, J. Jay, J, Madison, The Federalist, New York, 1788, trad. ital. (a cura di G. Sacerdoti Mariani), Il federalista, Torino, 1997, 262.

 

[49] Tutte le parti in virgolettato sono tratte da A. Hamilton, J. Jay, J. Madison, Il federalista, cit., 277, 278.

 

[50] R.E. Neustadt, Presidential Power, cit., 29.

 

[51] A. Hamilton, J. Jay, J. Madison, Il federalista, cit., 277.

 

[52] M. S. Shugart, J. M. Carey, Presidenti e assemblee. Disegno costituzionale e dinamiche elettorali, cit., 35 ss., spec. 36: «i poteri non sono mai interamente separati nel presidenzialismo, né lo debbono essere. Gli argomenti di Madison nei Federalist Papers, infatti, suggeriscono che separare le fonti dell’origine e della sopravvivenza dell’esecutivo e del congresso rispondeva al proposito di garantire che ogni potere potesse esercitare un controllo sull’altro senza timore di mettere a repentaglio la propria esistenza. Così, la separazione sotto certi aspetti serve a garantire l’interdipendenza – vale a dire i controlli – sotto altri aspetti».

 

[53] Cfr. H. Arendt, On Revolution (1963), trad. ital. Sulla rivoluzione, Milano, 1999, 163, 164, secondo la quale «quello che preoccupava gli animi dei fondatori non era il costituzionalismo nel senso di governo “limitato” e legale. Su questo erano d’accordo senza bisogno di discussione e neppure di chiarimenti; e anche nei giorni in cui ribolliva più intensamente nel paese il risentimento contro il re d’Inghilterra e il parlamento inglese, essi rimasero sempre in qualche modo consapevoli del fatto che stavano trattando con una “monarchia costituzionale” e non con un sovrano assoluto».

 

[54] Così H. Arendt, Sulla rivoluzione, cit., 162, che cita evidentemente Thomas Paine.

 

[55] Come affermato da J. Madison nel The Federalist n. 51, in A. Hamilton, J. Jay, J. Madison, Il federalista, cit., 279.

 

[56] Come già vigorosamente sostenuto da C. Esposito, Capo dello Stato, in Enc. dir., VI, 235, «la circostanza che nelle più recenti costituzioni parlamentari si è riconosciuto un qualche campo di autonoma attività del Capo dello Stato (…) non significa che con ciò si sia inteso attribuire alla “Ragione” impersonata dal Capo dello Stato un qualche diritto a governare, contro il mondo delle passioni rappresentate dalle camere e dal governo». Difatti, che il PdR «nelle decisioni debba ispirarsi al bene comune, o meglio che ess(o) debba agire secondo le proprie visioni del bene comune, può bene ammettersi, ma non pare che questo costituisca un titolo specifico, distintivo della competenza del Capo dello Stato da cui possa trarsi la conseguenza che alcuni poteri, in quanto debbono essere imparzialmente esercitati, debbano spettare in proprio al Capo dello Stato. Si tratta di un limite o di un elemento generale, esistente in ogni attribuzione di competenza».

 

[57] Ai giudici, che sono essi stessi numerosi e presenti in modo diffuso sul territorio nazionale, debbono infatti aggiungersi tutti coloro, parti private, funzionari amministrativi, avvocati e dottrina, che indirettamente contribuiscono all’elaborazione giurisprudenziale del diritto vivente, costituendo il contesto nel quale si esercita la giurisdizione e dal quale non può non trarre i più vari condizionamenti, influenze, suggerimenti, ecc.