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Franco Vallocchia

Università di Roma “La Sapienza”

 

Sacerdoti e magistrati nel diritto pubblico romano*

 

 

 

 

SOMMARIO: 1. Relazione tra sacerdoti e magistrati nella dottrina contemporanea. – 2. La cosiddetta “laicizzazione” del diritto. – 3. La distinzione tra sacerdoti e magistrati nelle fonti. – 4. L’introduzione del principio elettorale nella scelta dei sacerdoti. – 5. La cooptazione. – 6. La partizione del diritto pubblico romano, dalla repubblica all’età imperiale fino a Giustiniano.

 

 

1. – Relazione tra sacerdoti e magistrati nella dottrina contemporanea

 

La relazione tra sacerdoti e magistrati costituisce uno degli aspetti della più generale relazione tra religione e diritto. Essa è stata esaminata in vario modo dagli studiosi, e non si può dire, ad oggi, che siano state raggiunte conclusioni esaurienti.

Tra il 1874 ed il 1875, Mommsen[1] affermava che «wenn in Rom anfänglich in der Person des Königs Amt und Priesterthum zur Einheit verschmolzen gewesen sind, so ist zwischen der Magistratur und dem Priesterthum der Republik die Grenzlinie mit römischer Schärfe gezogen».  Lo studioso tedesco individuava una “Grenzlinie” tra i sacerdozi e le magistrature e ne collocava l’origine all’inizio dell’età repubblicana.

Nel passaggio tra la monarchia e la repubblica sarebbe stata avvertita la necessità di attribuire ad un solo sacerdote maggiori poteri rispetto agli altri, affinché questi avesse la guida suprema dei sacerdotes: «das Ergebniss davon ist die Einsetzung eines eigenen mit Auspicium und Imperium ausgestatteten und dem König lebenslänglichen und unabsetzbaren sacralen Oberen, des Pontifex maximus».  Lo stesso Mommsen, però, dopo poche pagine, trovava il modo di attenuare le sue conclusioni riguardo all’imperium; affrontando la questione relativa ai poteri necessari per riunire i comitia pontificis maximi (che erano tenuti da uno dei pontefici «als stellvertretender Oberpontifex»), dopo aver sostenuto che questi comizi «müssen auspicato stattgefunden haben», affermava che essi «sind ohne eine dem Imperium analoge Gewalt nicht denkbar».  In conclusione, il pontefice massimo non era un magistrato, ma possedeva poteri da magistrato (lo studioso tedesco elencava auspicium ed imperium o «eine dem Imperium analoge Gewalt»); infatti, la prima parte del secondo volume di Römisches Staatsrecht era intitolata da Mommsen “Die magistratische Befugniss des Oberpontifex” (la versione francese traduceva “Les pouvoirs de magistrat du grand pontife”).

Nel 1915 uno studioso italiano, Ettore Pais, criticando Mommsen e la pretesa separazione tra sacerdozi e magistrature nell’età repubblicana, sosteneva che le “funzioni” dei sacerdoti e quelle dei magistrati si incrociavano, costituendo una caratteristica fondamentale dello “Stato romano”: «a Roma si mantennero chiare le tracce di un governo in cui l’elemento sacerdotale era non meno vigoroso di quello militare.  (...) I due elementi furono così poco separati e distinti che il pontefice massimo, il flamine Diale e il Marziale continuarono a far parte del Senato.  L’elemento religioso serbò parte così notevole nel Governo, che i magistrati civili nulla potevano compiere senza una precedente osservanza degli auspici ed una espiazione dei prodigi per mezzo dei pontefici.  E la necessità di interpretare prima il volere degli Dei per mezzo del volo degli uccelli sta in perfetta correlazione col concetto che per molto tempo reputò necessaria la patrum auctoritas prima di procedere alla rogazione di una legge davanti al popolo»[2].

Nonostante la profonda differenza, la tesi di Mommsen e quella di Pais si incontrano quanto ai caratteri che distinguono la figura del pontifex maximus.  La conclusione su cui convergono Mommsen e Pais è che il pontifex maximus è provvisto di imperium (o, per lo studioso tedesco, di «eine dem Imperium analoge Gewalt»), con questa differenza: Mommsen attribuisce al solo pontefice massimo poteri analoghi a quelli dei magistrati, come una sorta di eccezione alla collocazione su piani distinti di sacerdozi e magistrature da lui teorizzata; Pais, invece, osservando che «i sacerdozi erano coperti da quelle medesime persone che occupavano le sedie curuli» e sostenendo che «le funzioni dei sacerdoti non vennero mai interamente distinte da quelle dei magistrati», perviene alla conclusione che il pontefice massimo aveva una certa giurisdizione non solo su sacerdoti, ma anche «su qualunque magistrato civile».

Successivamente, solo pochi autori hanno aderito alla tesi di Mommsen sull’imperium del pontefice massimo; come pochi sono coloro che hanno seguito la tesi di Pais sull’“incrocio” tra sacerdozi e magistrature.  Forse è proprio l’esiguità del numero di questi studiosi che ha condizionato la quasi totalità della critica moderna, non facendole avvertire la necessità di approfondire i caratteri fondanti della “Grenzlinie”.  Così, la maggiore sensibilità per i contenuti del potere del pontefice massimo ha portato gran parte della dottrina più recente ad interessarsi della intensità dei poteri sacerdotali e somiglianza con i magistrati invece che dei loro diversi fondamenti[3].

 

 

2. – La cosiddetta “laicizzazione” del diritto

 

A) La dottrina

 

Il problema principale nello studio della relazione tra religione e diritto, quindi, è costituito dalla polisemia del termine “laicità” (dunque, dalla sua ambiguità) e dall’uso, spesso acritico, fattone dai giuristi odierni per spiegare questa relazione anche nel mondo antico[4].  Ora, non è mia intenzione procedere ad una ricognizione degli studi sulla relazione tra religione e diritto; mi limiterò ad esaminarne brevemente pochi, esemplari aspetti.

Max Weber sostenne che il rapporto tra religione e sistemi giuridici sarebbe stato da sempre caratterizzato da due processi: «Entzauberung» ed «Entgöttlichung»[5].

Fritz Schulz, nel 1934 e nel 1946, sostenne che il rapporto tra «das geistliche und das weltliche Recht» sarebbe stato caratterizzato dal passaggio da «Sonderung» a «Isolierung» a partire dal III secolo a.C., quando la giurisprudenza romana avrebbe subito un processo di “laicizzazione”, per effetto del quale i giuristi non appartenevano più necessariamente ad un collegio sacerdotale[6].

Weber e Schulz hanno avuto e tuttora hanno tanta influenza sugli studi romanistici; ma spesso le loro teorie sono state portate a conseguenze estreme.  Su queste basi, infatti, si è giunti successivamente a teorizzare la “laicizzazione” del diritto stesso[7].

Eppure, dalle fonti emerge una maggiore complessità per ciò che concerne la relazione tra religione e diritto.

 

B) Le fonti

 

In un passo tratto dall’opera di Aulo Gellio appare che il diritto pontificio ed il diritto augurale sono studiati anche da chi non è sacerdote[8]. Ebbene come si può interpretare questo testo, se si procede dalla prospettiva della “laicizzazione della giurisprudenza” intesa quale presupposto della “laicizzazione” del diritto? Forse che anche il diritto pontificio ed il diritto augurale sarebbero stati “laicizzati”? [9]

Ed altresì, procedendo dalla medesima prospettiva, come si può interpretare il passo del giurista Ulpiano, in cui è evidente la stretta relazione, per la giurisprudenza, tra la conoscenza delle cose divine e la conoscenza delle cose umane? [10]

Peraltro, nel passo del primo libro del Digesto in cui il giurista Pomponio tratta della storia del diritto, l’attività dei giuristi pontefici è definita “scienza”, al pari di quella dei giuristi cosiddetti “laici”[11].

Infine il potere di prendere auspici è massimamente diffuso, in quanto gli auspici appartengono ad ogni cittadino.

Nel sistema romano, pertanto, il diritto non è separato né isolato dalla religione; così, l’utilizzazione di termini e concetti moderni (quali laico, laicismo, laicità, laicizzazione) per spiegare la relazione tra religione e diritto nella Roma antica è frutto di “autoproiezioni” concettuali e conduce a contraddizioni.

 

 

3. – La distinzione tra sacerdoti e magistrati nelle fonti

 

La base testuale sulla quale Mommsen fondava la sua tesi sull’imperium del pontefice massimo è costituita da un passo di Livio, in cui è narrato un conflitto tra il pontefice massimo Licinio ed il flamen Quirinalis e praetor Fabio Pittore, i quali avrebbero opposto l’uno all’altro il loro imperium:

 

priusquam in prouincias praetores irent, certamen inter P. Licinium pontificem maximum fuit et Q. Fabium Pictorem flaminem Quirinalem, quale patrum memoria inter L. Metellum et Postumium Albinum fuerat. consulem illum cum C. Lutatio collega in Siciliam ad classem proficiscentem ad sacra retinuerat Metellus, pontifex maximus; praetorem hunc, ne in Sardiniam proficisceretur, P. Licinius tenuit. et in senatu et ad populum magnis contentionibus certatum, et imperia inhibita ultro citroque, et pignera capta, et multae dictae, et tribuni appellati, et prouocatum ad populum est. religio ad postremum uicit; ut dicto audiens esset flamen pontifici iussus; et multa iussu populi ei remissa[12].

 

          Il fatto che il conflitto tra i due personaggi viene presentato da Livio in termini di opposizione di poteri, proverebbe che il pontefice massimo abbia l’imperium proprio dei magistrati.  Ma è provato che Livio spesso utilizza la parola imperium in modo improprio, intendendo in verità indicare più genericamente potestas.

Questo fa maturare la convinzione che non vi sono fonti attraverso le quali sia possibile dimostrare che il pontefice massimo ed anche altri sacerdoti avessero poteri analoghi a quelli dei magistrati[13]. Ma ciò non significa che sacerdozi e magistrature fossero tra loro separati o isolati; del resto, Cicerone affermava chiaramente che le medesime persone presiedevano alla religione ed al governo della res publica[14].  Inoltre, nella religione politeista dei Romani i singoli cittadini, i magistrati ed i sacerdoti avevano auspicia, considerati una proiezione dei poteri umani sul piano del diritto divino; nessuno, quindi, aveva l’esclusività della consultazione della volontà divina.

Allora, se religione e diritto non erano separati o isolati, e se la medesima persona poteva contemporaneamente rivestire sia la carica di sacerdote sia la carica di magistrato, come si rapportavano tra loro poteri sacerdotali e poteri magistratuali?

 

A) Magistrati

 

I magistrati sono eletti dal popolo organizzato nei comizi. Gli stessi poteri dei magistrati hanno fondamento nel popolo che li ha eletti, come emerge chiaramente da un testo di Cicerone:

 

omnes potestates, imperia, curationes ab universo populo Romano proficisci convenit[15].

 

In questo testo è evidente che i poteri possono essere attribuiti ai magistrati solo dal popolo intero, cioè nella interezza delle parti che lo compongono.

Secondo la celebre definizione di Cicerone, «populus ... coetus multitudinis iuris consensu et utilitatis communione sociatus»[16]. Da questo testo emerge una concezione concreta del popolo. Popolo è, pertanto, un termine che indica un’unità complessa composta di parti; e le parti sono: i cittadini, gli ordini (ad esempio patrizi e plebei), le centurie e le tribù, cioè le unità di voto, rispettivamente, dei comizi centuriati e dei comizi tributi.

Con il termine ‘popolo’, quindi, le fonti indicano concretamente l’insieme dei cittadini che, per esprimere la propria volontà, sono organizzati nei comizi, riuniti per eleggere i magistrati ovvero per approvare le leggi rogate dai magistrati. Infatti, la legge è definita pubblica perché proviene dal popolo; allo stesso modo, i magistrati sono detti pubblici perché sono eletti dal popolo ed i loro poteri hanno fondamento nel popolo.

Gli auspici appartengono ad ogni cittadino e conseguentemente al popolo, essendo questo la concreta somma di tutti i cittadini. Dal popolo, gli auspici sono attribuiti ai magistrati attraverso la lex curiata (una particolare investitura che avviene di fronte ai littori in rappresentanza del popolo riunito nell’assemblea delle curie), fatta eccezione per i censori i cui auspici hanno fondamento nei comizi centuriati[17]. Pertanto gli auspici dei magistrati, cioè il potere di consultare la volontà divina nell’interesse della res publica, trovano fondamento negli auspici pubblici.  Gli auspici dei magistrati sono pure definiti pubblici, perché hanno come fondamento gli auspici del popolo; il potere di consultare la divinità, quindi, non proviene al magistrato direttamente dagli dèi.

La distinzione tra magistrati maggiori e minori dipende dalla diversità degli auspici: coloro che hanno gli auspici massimi sono definiti magistrati maggiori; coloro che hanno gli auspici minori sono detti magistrati minori[18]. Tutti i magistrati, quindi, hanno auspici (il tribuno della plebe, che non è un magistrato del popolo romano bensì della sola parte plebea, non ha auspici); i magistrati maggiori hanno anche l’imperium (ad eccezione del censore), che consiste essenzialmente nel potere di comandare un esercito e di riunire il popolo nei comizi.

Le più importanti attività dei magistrati devono avvenire nei giorni fasti (secondo il calendario redatto dai pontefici) e dopo che dallo stesso magistrato siano stati osservati segni divini favorevoli (auspici); nonché in un luogo inaugurato nel quale sia possibile la comunicazione con la divinità, perché le sostenga o, più semplicemente, vi assista.

I comizi, di regola, sono convocati dai magistrati maggiori (consoli e pretori) in un luogo inaugurato e solo dopo aver accertato il favore degli dèi attraverso gli auspici. Il luogo inaugurato è definito templum ed è destinato allo svolgimento di attività magistratuali e sacerdotali, in quanto da esso è possibile la comunicazione con la divinità; l’augure è il solo sacerdote che possa procedere alla inaugurazione dei luoghi. Gli auspici favorevoli, attraverso l’interpretazione di determinati segni da parte dal magistrato che convoca i comizi, attestano il sostegno della divinità.

Questo modello non può essere modificato; il tentativo del tribuno della plebe Servilio Rullo nel 63 a.C. di fare eleggere magistrati da comizi composti solo da diciassette delle trentacinque tribù in cui è riunito il popolo romano, viene respinto e quei comizi sono definiti “non veri”[19].

Il fondamento dei poteri magistratuali, dunque, è nel popolo, inteso nella sua totalità, ovvero nella concreta interezza delle sue parti, e l’elezione del magistrato non è frutto di una imposizione divina, ma della volontà del popolo sostenuta dalla divinità attraverso gli auspici favorevoli.

 

B) Sacerdoti

 

I sacerdoti sovrintendono ai culti della città secondo varie specializzazioni. Quattro sono i collegi sacerdotali più importanti a Roma: pontifices, augures, septemviri epulones, decemviri sacris faciundis. I pontefici curano l’osservanza delle norme rituali e la loro spiegazione al popolo; gli auguri sono gli interpreti di Giove Ottimo Massimo attraverso i segni; gli epuloni organizzano banchetti sacri in onore di Giove; i custodi ed interpreti dei Libri Sibillini si occupano della conservazione e consultazione dei Libri Sibillini. Vi sono anche numerosi sacerdoti non organizzati in collegi, come i flamini ed il re dei sacrifici.

I sacerdoti organizzati in collegi sono scelti dagli stessi membri del collegio nel quale entrano a far parte, attraverso la cooptazione; gli altri sacerdoti sono scelti dal pontefice massimo. Anche il pontefice massimo è scelto tra i pontefici dagli stessi componenti del collegio pontificio.

Alla scelta del sacerdote, che in latino è chiamata “creatio”, deve fare seguito la inauguratio, una particolare cerimonia attraverso la quale gli auguri pongono il nuovo sacerdote in comunicazione con la divinità.

Tra i poteri dei sacerdoti sono gli auspici; ma questi poteri hanno caratteristiche diverse da quelli magistratuali, perché non hanno fondamento nel popolo che non partecipa né alla scelta né alla inaugurazione dei sacerdoti. Gli auspici sacerdotali, infatti, sono definiti privati, al pari di quelli dei singoli cittadini, e se i sacerdoti sono chiamati pubblici ciò avviene in quanto essi appartengono, per dir così, al popolo, ma non perché i loro poteri derivino dal popolo.

Pertanto, il fondamento dei poteri sacerdotali non è nel popolo, ma è esclusivamente divino. La distinzione tra i fondamenti dei poteri sacerdotali e dei poteri magistratuali trova la sua ragione nella collocazione su piani distinti del potere del popolo e del potere divino. I sacerdoti non hanno il potere di consultare la divinità sulla base degli auspici del popolo; essi sono esperti dotati di capacità e poteri religiosi che non hanno fondamento nel potere del popolo ed il meccanismo della cooptazione e della scelta diretta del pontefice massimo indica che la loro scelta non può e non deve dipendere dalla volontà del popolo.

 

 

4. – L’introduzione del principio elettorale nella scelta dei sacerdoti

 

Le modalità di scelta dei sacerdoti cambiano a partire dal 212 a.C., anno in cui emerge nelle fonti l’esistenza dei comitia pontificis maximi, che provvedono alla elezione del pontefice massimo[20]; inoltre, nel 103 a.C. il tribuno della plebe Domizio Enobarbo fa approvare un plebiscito in virtù del quale la competenza sulla scelta di sacerdoti organizzati in collegi (in particolare degli auguri, dei pontefici, degli epuloni e dei custodi ed interpreti dei Libri Sibillini) è attribuita ai comitia sacerdotiorum[21]. Con l’introduzione del principio elettorale nelle modalità di scelta dei sacerdoti, la distinzione tra sacerdoti e magistrati sembra meno netta. Dall’esame delle fonti, però, è evidente che questa distinzione non cade.

Un passo di Cicerone costituisce la migliore testimonianza su come erano strutturati i comizi del pontefice massimo ed i comizi dei sacerdozi:

 

primum caput (...) legis agrariae (...) iubet (...) tribunum plebis qui eam legem tulerit creare Xuiros per tribus XVII (...). “ITEM,” inquit, “EODEMQVE MODO,” capite altero, “VT COMITIIS PONTIFICIS MAXIMI.” Ne hoc quidem uidit, maiores nostros tam fuisse popularis ut, quem per populum creari fas non erat propter religionem sacrorum, in eo tamen propter amplitudinem sacerdoti uoluerint populo supplicari. Atque hoc idem de ceteris sacerdotiis Cn. Domitius, tribunus plebis, uir clarissimus, tulit, quod populus per religionem sacerdotia mandare non poterat, ut minor pars populi uocaretur; ab ea parte qui esset factus, is a conlegio cooptaretur[22].

 

Dal testo di Cicerone si ricava che: 1) questi comizi sono organizzati per tribù e, pertanto, hanno la stessa struttura dei comizi che eleggono i magistrati minori; 2) le tribù che compongono tali comizi sono diciassette e, quindi, essi non hanno la stessa composizione dei comizi tributi che eleggono i magistrati, che sono invece formati da trentacinque tribù (cioè la totalità del popolo); 3) queste diciassette tribù sono qualificate come “minor pars populi; 4) gli eletti dai comizi sono successivamente cooptati dai rispettivi collegi.

 

A) La religione come limite ai poteri del popolo

 

Cicerone ricorre alla frase: quod populus per religionem sacerdotia mandare non poterat, per esprimere un concetto: le limitazioni al potere del popolo[23]. E’ evidente che il ‘mandare sacerdotia’ non rientra tra le attività che il popolo può compiere. Vi sono infatti materie nelle quali il popolo non è dotato di un potere dispositivo illimitato.

Per quanto concerne le parole utilizzate dall’Arpinate per designare questa ‘carenza’, non v’è dubbio che ‘non poterat’ (da questo momento adotterò l’espressione generica ‘non posse’), seguito da un verbo posto all’infinito, sintetizza un tecnicismo[24]. L’aspetto interessante è però un altro; cioè il fatto che nelle fonti ricorre molto raramente ‘populus non posse’.  In particolare, è evidente il silenzio delle fonti giuridiche, ove questa espressione appare una sola volta[25], per di più senza enunciare alcuna incompetenza a compiere atti, limitandosi il giurista (si tratta di Giavoleno) ad evidenziare l’inapplicabilità di alcune fattispecie proprie delle servitù prediali al regime delle strade pubbliche[26].  Del resto, anche la formulazione positiva (populus posse) è pressoché inesistente nelle fonti giuridiche, utilizzata infatti solo da Ulpiano per risolvere la famosa vicenda legata alla nomina, quale pretore, del servus fugitivus Barbarius Philippus[27]. Gioverà qui accennare al fatto che più numerosi appaiono nelle fonti giuridiche i riferimenti alla formulazione ‘non posse’ collegata ai municipes; si veda, ad esempio, Ulpiano in D. 4.3.15.1: sed an in municipes de dolo detur actio, dubitatur. Et puto ex suo quidem dolo non posse dari: quid enim municipes dolo facere possunt?

Da una ricerca effettuata sulle fonti letterarie, anche con l’ausilio degli strumenti informatici[28], risultano quattro i casi in cui ricorre ‘populus non posse’, oltre a quelli contenuti nell’orazione contro la rogatio Servilia agraria; solo in una occasione, però, si può dire che l’espressione indichi un difetto di appartenenza ed esercizio di poteri. Si tratta di un noto passo di Cicerone sulla sanctio legis de civitate Volaterranis adimenda, nell’orazione in difesa di Aulo Cecina:

 

at enim Sulla legem tulit... ascripsisse eundem Sullam in eadem lege: ‘SI QUID IUS NON ESSET ROGARIER, EIUS EA LEGE NIHILUM ROGATUM’. Quid est quod ius non sit, quod populus iubere aut vetare non possit? Ut ne longius abeam, declarat ista ascriptio esse aliquid; nam, nisi esset, hoc in omnibus legibus non ascriberetur[29].

 

Nel brano, l’Arpinate espone le ragioni del silenzio delle fonti, utilizzando la forma interrogativa, retorica solo in apparenza; infatti, l’oratore afferma che vi sono materie nelle quali il populus non è dotato di un potere dispositivo illimitato[30].  Lo stesso Cicerone, in un’altra orazione, ritorna sul tema della lex de civitate Volaterranis adimenda, sottolineando la carenza di potere da parte del populus in relazione alla sottrazione della cittadinanza romana agli abitanti di Volterra:

 

vero Volaterranis, cum etiam tum essent in armis, L. Sulla victor re publica reciperata comitiis centuriatis civitatem eripere non potuit... Hodieque Volaterrani non modo cives, sed etiam optimi cives fruuntur nobiscum simul hac civitate[31].

 

          L’espressione usata dall’Arpinate in quest’ultimo testo è simile a quella usata nell’orazione per Cecina; pur mutando il soggetto grammaticale, il soggetto logico è lo stesso: il populus nella organizzazione comiziale (Sulla comitiis centuriatis non potuit – populus non possit).  Pertanto, nei due testi di Cicerone è evidente che la potestas populi non è illimitata, tanto che l’oratore ricorda che nella lex Cornelia de civitate Volaterranis adimenda era contenuta un’apposita sanctio legis dal contenuto generale (SI QUID IUS NON ESSET ROGARIER, EIUS EA LEGE NIHILUM ROGATUM).

Le affermazioni di Cicerone non si scontrano con l’enunciato della norma delle XII Tavole relativa al potere legislativo del popolo (in XII tabulis legem esse, ut quodcumque postremum populus iussisset, id ius ratumque esset: Liv. 7.17.12), perché il precetto decemvirale, stabilendo certamente che gli iussa populi creano iura, pone la parola ‘postremum’ a qualificare e limitare l’oggetto ‘quodcumque[32]; la norma delle XII Tavole non dispone dunque che il popolo possa creare diritto oltre ogni limite fissato da altre fonti dello ius[33].

Nel testo dell’orazione contro la proposta legislativa di Servilio Rullo (... quod populus per religionem sacerdotia mandare non poterat), è evidenziata con terminologia analoga una carenza di potere da parte del popolo con riguardo ad una fattispecie concreta, la cui specificità realizza una di quelle ipotesi genericamente delineate da Cicerone nella precedente orazione in difesa di Aulo Cecina con l’ausilio di pronomi neutri (quid ... quod ... aliquid)[34].

Il fatto che l’espressione ‘populus non posse’ non appaia nelle fonti prima di Cicerone e che lo stesso Arpinate la utilizzi per teorizzare limitazioni ai poteri del populus, dimostra la presenza di una più acuta sensibilità, nell’ultimo secolo della repubblica, per la puntualizzazione della vicenda sotto il profilo politico e dogmatico; sensibilità dovuta probabilmente alla necessità di ribadire concetti non più condivisi con uguale intensità. 

Nelle nuove modalità di scelta dei sacerdoti appare evidente il riconoscimento della distinzione tra volontà divina e volontà umana, tra diritto sacro e “sovranità” popolare, sotto il duplice profilo del fondamento dei poteri sacerdotali e della espressione del potere del popolo: il popolo non può attribuire ciò che non possiede, e questo perché verrebbe concretamente stravolto il sistema stesso di poteri sui quali il popolo medesimo si fonda.

Secondo la ricostruzione di Cicerone, pertanto, la scelta dei sacerdoti organizzati in collegi non può essere effettuata attraverso gli strumenti con i quali il popolo usa ‘conferire le magistrature’; l’attività svolta dall’universus populus nella elezione dei magistrati produce effetti giuridici non adattabili alla scelta dei sacerdoti.

 

B) Minor pars populi

 

Se il popolo non può ‘conferire i sacerdozi’ come invece può ‘conferire le magistrature’, è allora necessario che l’elezione comiziale dei sacerdoti produca effetti diversi da quelli cagionati seguendo le procedure previste per le magistrature. Ecco allora il meccanismo individuato da Domizio: non è il ‘popolo intero’ organizzato nei comizi delle trentacinque tribù che elegge i sacerdoti, ma sono alcune ‘parti del popolo’, le diciassette tribù, che scelgono il nome del candidato da cooptare.

Il rapporto ‘somma-popolo’ e ‘addendi-parti’, presente nel concetto di ‘minor pars populiespresso da Cicerone[35], è puntualizzato dai giuristi: Servio Sulpicio Rufo[36] ed il suo allievo Alfeno Varo[37], Ateio Capitone[38] ed il suo allievo Masurio Sabino[39] si interrogano sulla funzione che le parti del popolo possono svolgere sul piano costituzionale. Parimenti, la definizione di ‘parte’ elaborata dal giurista Quinto Mucio Scevola[40] è stata ispirata anche dalla necessità di mettere a fuoco concetti quali ‘parte-parti del popolo’: la ‘minor pars’ non può realizzare quegli effetti giuridici che solo ‘omnes partes’ o ‘maior pars’ possono produrre[41].

La ‘minor pars populi’ permette di risolvere il problema della carenza di potere del popolo nella scelta dei sacerdoti. Le modalità di scelta dei magistrati non sono in alcun modo applicabili alla scelta dei sacerdoti; e questo, non solo perché la relazione tra cittadini elettori e magistrati eletti si fonda su principi quali ‘omnes potestates ab universo populo proficisci convenit[42], ma anche perché non è l’elezione comiziale, da sola, che costituisce la scelta del sacerdote.

 

 

5. – La cooptazione

 

Dal passo di Cicerone si ricava che la cooptazione resta comunque un atto necessario ai fini della scelta del sacerdote, pur dopo l’introduzione del principio elettorale[43].

La procedura di creatio dei sacerdoti organizzati in collegi si fonda, pertanto, su due elementi, uno nuovo e l’altro, precisamente la cooptatio, preesistente al plebiscito rogato da Domizio:

a)        la scelta del sacerdote è rimessa a comitia che non comprendono l’universus populus, ma solo la minor pars (ab ea parte qui esset factus);

b)        la cooptatio resta comunque atto necessario ai fini della creatio del sacerdote (is a conlegio cooptaretur).

          La cooptazione, a fronte dell’introduzione della novità costituita dalla preliminare elezione comiziale del candidato al collegio sacerdotale, assume una valenza formale per ciò che concerne la scelta dell’aspirante alla carica, ma conserva tutto il suo valore sostanziale in relazione ai presupposti necessari ai fini della creatio e, dunque, della inauguratio del sacerdote[44].

          Quindi, la vicenda può essere analizzata da due prospettive diverse.  Sotto il profilo dei poteri dei collegi sacerdotali, è palese il loro decadimento, seppur parziale: la scelta del nome del futuro sacerdote è sottratta ai membri dei collegi per essere attribuita ai comitia composti da diciassette tribù, estratte a sorte fra le trentacinque in cui è suddiviso il populus Romanus.  Nella prospettiva della cooptatio, intesa come presupposto necessario ai fini della creatio e, quindi, della inauguratio del sacerdote, è invece evidente la sua perfetta tenuta: questo atto mantiene la sua essenzialità, dimostrando di non essere sopprimibile né sostituibile.

          In altri termini, il ruolo dei comitia sacerdotum trova il suo limite nella stessa cooptatio, come i poteri dei comitia tributa elettorali sono definiti dalle funzioni del magistrato presidente.  Nell’anno del plebiscito rogato da Domizio, cioè in un tempo in cui i rapporti tra i comitia ed i magistrati che li presiedono sembrano tendere verso una maggiore autonomia dei primi, il sistema elettorale, pur basato sulla minor pars populi, è esteso alla scelta dei nominativi dei futuri sacerdoti, ma è fermato di fronte alla valenza funzionale della cooptazione.

          Sulla base di quel poco che è possibile ricavare dalle fonti epigrafiche, mi sembra sia attestata una sorta di ‘supremazia’ della cooptatio sulla elezione dei comitia sacerdotum; infatti, il modo di citare l’assunzione di nuovi membri all’interno dei collegi sacerdotali non muta neppure dopo l’emanazione del plebiscitum rogato da Domizio, apparendo menzionata esclusivamente la cooptazione[45].

La cooptatio, pertanto, costituisce un atto imprescindibile nel procedimento che conduce al sacerdozio.  Senza di essa l’eletto dai comitia non può in alcun modo accedere alla inauguratio, come sembra dimostrare Cicerone in un celebre passo del Brutus[46].  Elezione e cooptazione, procedendo da strade del tutto diverse, convergono in una sorta di atto complesso, ove la concorrenza di entrambe fa sì che esso possa produrre i suoi effetti.

Il ruolo dei comizi del pontefice massimo e dei sacerdozi trova, quindi, il suo limite nella stessa cooptazione. Al momento dell’elezione, il candidato al pontificato massimo è già sacerdote, cooptato all’interno del collegio dei pontefici e successivamente inaugurato come pontefice. Allo stesso modo, chi viene eletto dai comizi dei sacerdozi non per questo entra a far parte dei collegi sacerdotali, perché solo la cooptazione da parte di questi ultimi perfeziona il procedimento della scelta del sacerdote.

L’imprescindibile valore giuridico della cooptazione appare ancor più chiaro alla luce delle particolari regole che disciplinano il funzionamento di questi comizi e le candidature. Il fatto che queste ultime siano gestite esclusivamente all’interno del collegio, attraverso il meccanismo della nominatio da parte dei membri del collegio stesso[47], unitamente alle limitazioni circa il numero dei candidati presentabili[48], dimostra che i comizi sono chiamati sì ad operare una scelta, ma nei ristretti ambiti disegnati dai collegi sacerdotali.

 

 

6. – La partizione del diritto pubblico romano, dalla repubblica all’età imperiale fino a Giustiniano

 

L’esame delle caratteristiche dei comizi del pontefice massimo e dei successivi comizi dei sacerdozi costituisce un percorso obbligato per chi voglia approfondire la relazione tra religione e diritto. Nel momento in cui è coinvolto il popolo nella scelta dei sacerdoti, si avverte la necessità di puntualizzare tre aspetti:

a)     il popolo, nella sua interezza, non può “nominare” sacerdoti o “conferire” sacerdozi perché violerebbe i principi giuridico-religiosi sui quali si basano i suoi stessi poteri;

b)    gli effetti prodotti dagli atti posti in essere dall’intero popolo sono diversi da quelli prodotti da sue parti;

c)     il fondamento dei poteri sacerdotali è e rimane esclusivamente divino.

Da ciò emerge che l’introduzione del principio elettorale nella scelta dei sacerdoti non muta i principi sui quali si basa il sistema giuridico-religioso romano: i fondamenti dei poteri dei sacerdoti sono distinti da quelli dei magistrati, come distinti sono i piani su cui si trovano il potere divino e il potere del popolo, che però non sono separati né isolati.

Nel popolo, quindi, sono i fondamenti dei poteri magistratuali, ma essi non sono separati né isolati dalla volontà divina. Giove è indicato come re degli dèi e degli uomini e tutti i poteri, anche quelli umani, si ritiene che abbiano origine nel potere divino[49]. Tuttavia, il potere del popolo e il potere della divinità non sono posti sullo stesso piano, ma su piani distinti. Giove è qualificato come onnipotente, ma la divinità non impone la propria volontà alla volontà del popolo, piuttosto ne sostiene la estrinsecazione attraverso gli auspici. La stessa localizzazione del popolo romano e l’inizio della sua organizzazione giuridica sono sostenute ed autorizzate dalla divinità.

In questo sta il carattere popolare della religione nella repubblica romana. Il popolo entra nei meccanismi di scelta di sacerdoti e magistrati: nel caso dei magistrati, in modo pieno e sostenuto dalla volontà divinità attraverso gli auspici; nel caso dei sacerdoti, in modo parziale ed estraneo al fondamento divino dei loro poteri. E questo modello permarrà anche nell’età imperiale. In un testo del giurista Ulpiano, infatti, è teorizzata la partizione del diritto pubblico, in base alla quale sacerdoti e magistrati sono parti (distinte) dello stesso sistema giuridico:

 

publicum ius in sacris, in sacerdotibus, in magistratibus consistit[50].

 

          Ed i compilatori giustinianei recepirono questa partizione tra i principi del Titolo I del primo Libro del Digesto.  Da qui, ancora, l'idea di ‘consonantia’ (o, in greco, di ‘symphonia’) tra sacerdotium et imperium, espressa dallo stesso Giustiniano nel 535 nella Nov. 6 [51].

 

 



 

[I contributi della sezione “Memorie” sono stati oggetto di valutazione da parte dei promotori e del Comitato scientifico del Colloquio internazionale, d’intesa con la direzione di Diritto @ Storia].

 

* Questo scritto riproduce, con integrazioni, il testo della comunicazione da me presentata nel Colloquio Internazionale “La laicità nella costruzione dell’Europa. Dualità del potere e neutralità religiosa” (Bari, 4-5 novembre 2010), organizzato dalla Facoltà di Giurisprudenza dell’Università di Bari, dal Centre d’études internationales sur la romanité dell’Université de La Rochelle e dall’Unità di ricerca ‘Giorgio La Pira’ del Consiglio Nazionale delle Ricerche e della Sapienza-Università di Roma.

 

[1] TH. MOMMSEN, Römisches Staatsrecht II-1, Leipzig 1887-1888, 18 (= Le droit public romain III, Paris 1893, 19). La terza edizione del volume II dell’opera di Mommsen è stata pubblicata nel 1887-1888.

 

[2] E. PAIS, Le relazioni fra i sacerdoti e le magistrature civili nella repubblica romana, in E. PAIS, Ricerche sulla storia e sul diritto pubblico di Roma, I, Roma 1915, 271; 297 e 300.  Pais utilizzava il termine “incrocio” per indicare la confusione tra le funzioni dei magistrati e quelle dei sacerdoti.  Già nel 1864, N.D. FUSTEL DE COULANGES, La cité antique, Paris 1864, 293, aveva affermato che per l’età repubblicana sacerdozi e magistrature sarebbero stati “confondus” insieme.

 

[3] Cfr. R. MUTH, Einführung in die griechische und römische Religion, Darmstadt 1988, 293, il quale perviene alla conclusione che «war der pontifex maximus den Magistraten gleichgestellt»; J. SCHEID, Il sacerdote, in A. GIARDINA (a cura di), L’uomo romano, Bari 1989, 57, che arriva a definire i sacerdoti quasi-magistrati e G. DE LAS HERAS, Magistratum aut sacerdotium, in Estudios jurídicos in memoriam del profesor Alfredo Calonge I, Salamanca 2002, 299, il quale afferma che «la separación entre magistraturas y sacerdocios no pudo sentirse nunca como radical» e che «no debe olvidarse que la propia categorización de ‘magistratura’ o de ‘sacerdocio’ fue fruto igualmente de un largo proceso, puesto que en principio la Roma republicana no sintió la necesitad de establecer tales categorías y mucho menos de establecer entre ellas radicales distinciones».

 

[4] Per una critica dell’utilità del termine “laicità” per studiare, dal punto di vista dei giuristi, la relazione tra religione e diritto, si veda G. DALLA TORRE, Il primato della coscienza. Laicità e libertà nell’esperienza giuridica contemporanea, Roma 1992, 35 ss.

 

[5] M.WEBER, Economia e società, III (trad. ital. di G. Giordano), Torino 2000, 130, (Wirtschaft und Gesellschaft, II, Tübingen 1925).

 

[6] F. SCHULZ, Prinzipien des römischen Rechts, München und Leipzig 1934, 18; F. SCHULZ, History of Roman Legal Science, Oxford 1946, 8.

 

Esemplarmente, cito due recenti testi nei quali è dato leggere: «... laicità dello Stato: quella stessa laicità che auspicavano i Gracchi quando toglievano la giurisdizione ai pontefici» (V. MATHIEU, Il fondamento romano e cristiano della laicità, in L’identità in conflitto dell’Europa. Cristianesimo, laicità, laicismo [a cura di L. PAOLETTI], Bologna 2005, 157 ss.); «il sapere giuridico si laicizzò ... nel III secolo a.C. ... Questa evoluzione del diritto romano fu tutt’altro che endogena, ma direttamente conseguente alla penetrazione in Roma della cultura greca» (M. BERTOLISSI-U. VINCENTI, Laicità e diritto, in AA.VV., Laicità. Una geografia delle nostre radici [a cura di G. BONIOLO], Torino 2006, 76).

 

[8] Aul. Gell., Noctes Atticae 1.12.17: M. Cato de Lusitanis, cum Servium Galbam accusavit: "(...) Ego me nunc volo ius pontificium optime scire; iamne ea causa pontifex capiar? si volo augurium optime tenere, ecquis me ob eam rem augurem capiat?".

 

[9] F. SCHULZ, History of Roman Legal Science, cit., 40 s. (Storia della giurisprudenza romana, cit., 78 ss.), interpretava il passo nel senso che gli scrittori di diritto sacro sarebbero stati, al tempo di Catone, solo i membri dei collegi sacerdotali.  A me sembra, invece, che il discorso di Catone debba essere interpretato in modo del tutto diverso: egli vuole semplicemente dire che chi studia il diritto pontificio o il diritto augurale, non per questo è scelto quale pontefice o augure.

 

[10] Ulpiano in D. 1.1.10.2: iurisprudentia est divinarum atque humanarum rerum notitia, iusti atque iniusti scientia. F.P. CASAVOLA, Laicità tra religione e diritto nell’esperienza del mondo antico, in P. CATALANO, P. SINISCALCO (a cura di), Laicità tra diritto e religione da Roma a Costantinopoli a Mosca (Da Roma alla Terza Roma. Documenti e studi), Roma 2009, 29 ss., ha affermato che la letteratura di diritto sacro sarebbe scomparsa. Tuttavia, questo tipo di studi giuridici è ben presente anche in età imperiale, come dimostrano i numerosi frammenti riportati in P.E. HUSCHKE, Iurisprudentiae anteiustinianae quae supersunt, Lipsiae 1874, e in F.P. BREMER, Iurisprudentiae antehadrianae quae supersunt II,1, Lipsiae 1898. Piuttosto, una cosa è certa: i frammenti delle opere dei giuristi dedicate allo ius sacrum non sono stati raccolti da Lenel nella sua Palingenesia (v. F. SINI, A quibus iura civibus praescribebantur. Ricerche sui giuristi del III secolo a.C., Torino 1995, 54 ss.).

 

[11] D. 1.2.2.6: interpretandi scientia et actiones apud collegium pontificum erant. Cfr. anche Pomponio in D. 1.2.2.35 (iuris civilis scientiam plurimi et maximi viri professi sunt. ... Et quidem ex omnibus, qui scientiam nancti sunt ...); in D. 1.2.2.36 (Appius Claudius eiusdem generis maximam scientiam habuit); in D. 1.2.2.37 (fuit post eos maximae scientiae Sempronius).

 

[12] Liv. 37.51.1-4.

 

[13] La gran parte della dottrina degli ultimi cento anni si mostra contraria a ravvisare nel pontefice massimo la titolarità di imperium.  Esemplarmente, v. P. CATALANO, Contributi allo studio del diritto augurale I, Torino 1960, 363.

 

[14] Cic., De domo 1.1.

 

[15] Cic., De lege agraria 2.7.17.

 

[16] Cic., De republica 1.25.39.

 

[17] P. CATALANO, Populus Romanus Quirites, Torino 1974, 133.

 

[18] Aul. Gell., Noctes Atticae 13.15.4.

 

[19] Cic., De lege agraria 2.12.31.

 

[20] Liv. 25.5.2-4.

 

[21] Prima del plebiscito di Domizio, il tribuno della plebe Licinio nel 145 a.C. aveva avanzato una proposta di plebiscito che se fosse stata approvata avrebbe molto probabilmente prodotto l’abrogazione della cooptatio e l’introduzione della elezione dei sacerdoti organizzati in collegi.  V. Cic., Laelius. De amicitia, 25.96.

 

[22] Cic., De lege agraria 2.7.17-18.

 

[23] Cic., De lege agraria 2.7.18.

 

[24] Si vedano, a tal proposito, le fonti citate in Thesaurus linguae Latinae, X, 2, s.v. Possum, 127 ss., ed in particolare sub 132. Per limitarmi solo ad alcuni esempi, segnalo Liv. 2.56.12 (nec illum ipsum magistratum submovere pro imperio posse more maiorum) e 3.31.6 (plebem et tribunos legem ferre non posse), Pomponio in D. 40.9.22 (curator furiosi servum eius manumittere non potest).

 

[25] Per la ricerca sulle fonti giuridiche, ho utilizzato il programma Bibliotheca Iuris Antiqui.

 

[26] Giavoleno, dal decimo libro ex Cassio, in D. 43.11.2: viam publicam populus non utendo amittere non potest.

 

[27] D. 1.14.3: cum etiam potuit populus Romanus servo decernere hanc potestatem.

 

[28] Ho effettuato la ricerca tramite il programma Aureae Latinitatis Bibliotheca e sulle versioni elettroniche delle opere ivi non comprese (in particolare Festo e Valerio Massimo).

 

[29] Cic., Pro Cecina 33.95. Gli altri tre passi sono i seguenti: Cic., In Verr. 2.1.8 (non enim potest sperare populus Romanus); Cic., In Verr. 2.2.31 (hoc populus Romanus recusat, hoc ferre non potest); Liv. 9.18 (ne maiestatem nominis Alexandri ... sustinere non potuerit populus Romanus). È evidente che nessuno di questi tre casi sintetizza una questione di appartenenza ed esercizio di poteri. Comunque, è interessante notare che l’espressione ‘populus non posse’ non appare usata prima di Cicerone.

 

[30] Cicerone, nel proseguimento del passo riportato supra nel testo, indica il caso del populus che dispone la riduzione in schiavitù di una persona libera, quale esempio di iussum populi ‘illegittimo’: sed quaero de te, putesne, si populus iusserit me tuum aut te meum servum esse, id iussum ratum atque firmum futurum. Perspicis hoc nihil esse et fateris; qua in re primum illud concedis, non quicquid populus iusserit, ratum esse oportere.  È evidente che quelli prodotti dall’Arpinate (libertas e civitas) non sono i soli casi di materie sulle quali il popolo non può deliberare, ma fungono esclusivamente da esempio, in quanto servono all’oratore per dimostrare la tesi difensiva del suo amico Cecina, come spiegato dalle successive parole dell’oratore: deinde nihil rationis adfers quam ob rem, si libertas adimi nullo modo possit, civitas possit. 

 

[31] Cic., De dom. 79.

 

[32] In Liv. 7.17.7, sono attestate discussioni sulla portata di questa norma, prova evidente che non era affatto pacifica e condivisa l’interpretazione della legge improntata alla illimitatezza delle potestà del popolo. G. NOCERA, Il potere dei comizi ed i suoi limiti, Roma 1940, 35 ss., affermava che «probabilmente la massima enunciata nelle dodici tavole non deve essere interpretata nel senso che il populus possa modificare illimitatamente l’assetto costituzionale dello stato»; essa, infatti, regola «semplicemente i rapporti di successione tra le singole deliberazioni comiziali».  Analoghe conclusioni, sulla interpretazione della norma delle XII Tavole, sono raggiunte da P. CATALANO, Il principio democratico in Roma, in SDHI, XXVIII, cit., 324, il quale sostiene che questo precetto decemvirale non abbia stabilito affatto la libertà di modificare lo ius da parte del popolo al di là di ogni limite posto dal sistema giuridico; l’autore ritiene che la religione fosse uno di questi limiti oltre il quale il populus non si spingeva: «da questi principi dipende l’esistenza del populus stesso: perché lo stesso potere del populus è posto dalle norme divine e ‘naturali’ della costituzione, onde distruggere queste norme sarebbe per il populus distruggere se stesso».  Si vedano anche P. CATALANO, Derecho publico romano y principios constitucionales bolivarianos, in Constitución y constitucionalismo hoy (cincuentenario del Derecho Constitucional Comparado de Manuel García-Pelayo), Caracas 2000, 713, e ID., Sovranità della multitudo e potere negativo: un aggiornamento, in Studi in onore di Gianni Ferrara, I, Torino 2005, 641 ss. (in particolare, 642 nt. 9), in cui l’autore pone alcune riflessioni sulle costituzioni moderne e sull’antico concetto repubblicano di legge.  In particolare nel primo studio, esaminando alcuni «principios constitucionales bolivarianos», Catalano afferma che «el principio fundamental de la verdadera democracia está perfectamente formulado ya en las Doce Tablas: lo que el pueblo ha decidido por último, es Derecho».

 

[33] Molti studiosi, pur riconoscendo l’esistenza di limiti all’attività legislativa del populus, li riconducono ad un’autolimitazione che il popolo imporrebbe a se stesso, oppure ad un sistema di conflitti risolvibili secondo il principio di effettività.  Esemplarmente v. F. SERRAO, Ius e lex nella dialettica costituzionale della prima repubblica. Nuove riflessioni su un vecchio problema, in Nozione formazione e interpretazione del diritto dall’età romana alle esperienze moderne. Ricerche dedicate al professor Filippo Gallo, II, Napoli 1997, 301 nt. 58, pur sostenendo che la citata norma delle XII Tavole attribuisce al popolo la potestà di legiferare su ogni materia, ammette che questo potere non è senza confini, in quanto vi sono limiti di natura costituzionale e politica, il cui eventuale superamento egli rimette al principio di effettività.

 

[34] Sul testo di Cicerone dall’orazione pro Cecina, si vedano F. SERRAO, Classi partiti e legge nella repubblica romana, Pisa 1982, 89 ss., in particolare, per la bibliografia precedente, 91 nntt. 232 e 233; ID., Cicerone e la lex publica, in Legge e società nella repubblica romana, I, Napoli 1981, 401 ss.; L. FASCIONE, Per lo studio della sigla “S.S.S.E.Q.N.I.S.R.E.H.L.N.R.”, in Studi in onore di A. Biscardi, VI, Milano 1987, 51 ss. Secondo Serrao, seguito da Fascione, Cicerone avrebbe interpretato l’ideologia aristocratica dell’ultimo secolo della repubblica, individuando nella clausola posta da Silla nella lex de civitate Volaterranis adimenda uno dei «mezzi ... per limitare la sovranità popolare, la forza della lex, la legislazione riformatrice»; aggiunge Serrao: «non è senza significato che l’unica attestazione precisa dell’esistenza della clausola sia fatta da Cicerone con riferimento ad una legge di Silla, nella cui impostazione ideologica e nel cui disegno di restaurazione oligarchica la riserva in favore del ius perfettamente si inseriva». Senza entrare nel merito della discussione circa le lotte politiche dell’ultimo secolo della Repubblica, mi sembra, però, quantomeno singolare che una clausola ispirata ad una restaurazione oligarchica e diretta a limitare la legislazione riformatrice sia stata inserita da Silla proprio in una legge che toglie la cittadinanza agli abitanti di alcune città; ed ancor più singolare mi sembra che Cicerone, ricordando che clausole siffatte difendevano la libertà e la cittadinanza, le abbia citate per «settarismo ideologico» (sono ancora parole di Serrao). Se tematiche come cittadinanza e libertà fanno parte, come afferma lo stesso Serrao (Classi partiti e legge nella repubblica romana, cit., 183 ss.), «dei programmi dei movimenti democratici», è ben strano che una legge di ispirazione aristocratica, quale la lex de civitate Volaterranis adimenda, contenga un monito sulla necessità di non oltrepassare i limiti dello ius, tra i quali Cicerone pone appunto libertas e civitas. Ritengo, allora, che clausole di questo tipo fossero presenti in modo diffuso nelle leggi, indipendentemente dalla loro ispirazione politica, «con riferimento a un generico limite preesistente ... fondato sul ius, che, essendo presupposto nella sua naturalità, poteva essere integrato, ma non direttamente modificato dalle leges» (le parole tra virgolette sono di G. GROSSO, Lezioni di storia del diritto romano, Torino 1965, 129).

 

[35] Cic., De lege agraria 2.7.17-18.

 

[36] Cic., Pro Murena 23.47.  Il passo non rivela molto di questa proposta, ma tanto basta per intuire in essa uno stravolgimento delle regole che disciplinano il voto nelle assemblee popolari.  Ritengo che l’Arpinate abbia voluto evidenziarne la drasticità, tanto da descriverne gli effetti con il ricorso ad una espressione molto forte quale ‘aequatio suffragiorum’ che sintetizza un contenuto più ‘rivoluzionario’ rispetto a quello della ‘suffragiorum confusio’ prevista in una rogatio di Caio Gracco, la quale prevedeva la ‘confusio’ delle classi del comizio centuriato.  Secondo la proposta di Gracco le centurie avrebbero dovuto votare seguendo un ordine fissato dalla sorte e non sulla base della gerarchia delle classi; la riforma di Servio avrebbe invece comportato una conseguenza ben più importante, producendo una aequatio suffragiorum. Servio Sulpicio Rufo riprende la tradizione politica ‘de suffragiorum confusione’ inaugurata da Caio Gracco, superandola.  La sua proposta, infatti, avrebbe come contenuto la sostituzione della votazione tributim o centuriatim con quella viritim. Dalla proposta del giurista Servio Sulpicio emerge una riflessione di natura costituzionale sulla composizione dei comitia e, quindi, sulle partes che compongono il populus, con una soluzione diretta a sottrarre ad alcune di quelle partes, tribù o centurie, che indicano le suddivisioni istituzionalizzate del populus stesso, le funzioni svolte nelle assemblee popolari.

 

[37] D. 5.1.76: proponebatur ex his iudicibus, qui in eandem rem dati essent, nonnullos causa audita excusatos esse inque eorum locum alios esse sumptos, et quaerebatur, singulorum iudicum mutatio eandem rem an aliud iudicium fecisset. respondi, non modo si unus aut alter, sed et si omnes iudices mutati essent, tamen et rem eandem et iudicium idem quod antea fuisset permanere: neque in hoc solum evenire, ut partibus commutatis eadem res esse existimaretur, sed et in multis ceteris rebus: nam et legionem eandem haberi, ex qua multi decessissent, quorum in locum alii subiecti essent: et populum eundem hoc tempore putari qui abhinc centum annis fuissent, cum ex illis nemo nunc viveret.  Il iudicium non muta con il variare delle partes-giudici, come non cambia la legione con la sostituzione delle partes-milites venuti meno; allo stesso modo il popolo è sempre lo stesso, anche se tutte le partes-esseri umani che lo compongono non sono più gli stessi. Il giurista, nel descrivere la relazione tra populus e partes, prende espressamente in considerazione solo gli homines-cives e la variabile ‘tempo’, apparentemente trascurando altre partes populi e la variabile ‘quantità’. Pertanto, ritengo che egli non abbia voluto negare l’esistenza della variabile ‘quantità’ e delle partes populi diverse dagli homines-cives; piuttosto, quel che mi sembra di poter desumere è che l’allievo di Servio Sulpicio, tacendo sulle suddivisioni istituzionalizzate del populus Romanus, abbia voluto seguire l’impostazione politica e costituzionale del maestro, espressa qualche anno prima nella proposta ‘de suffragiorum confusione’.

 

[38] Aul. Gell., Noctes Atticae 10.20.5: “plebem” autem Capito in eadem definitione seorsum a populo divisit, quoniam in populo omnis pars civitatis omnesque eius ordines contineantur, “plebes” vero ea dicatur, in qua gentes civium patriciae non insunt.  Il populus è presentato secondo una accezione positiva, mentre la plebs è descritta evidenziando chi non ne fa parte: il populus è, quindi, la somma delle partes e degli ordines che lo compongono; la plebs non comprende le ‘gentes civium patriciae’.  La plebe, in quanto ordo, è parte del popolo e, come tale, contribuisce alla sua composizione, ma non lo esaurisce, perché il populus assomma in sé la plebe stessa, le ‘gentes civium patriciae’ e ancora ‘omnis pars omnesque ordines’.  Nella definizione di Capitone il populus è sicuramente l’insieme dei cives (gentes civium), ma anche la somma delle partes in cui essi sono riuniti (omnis pars ... omnes ordines), secondo diversi presupposti.  In altre parole, nella definizione di Ateio Capitone emergono quelle partes che in Servio ed in Alfeno erano lasciate in secondo piano.

 

[39] D. 41.3.30.pr.  Nel passo di Pomponio-Sabino, come aveva insegnato Ateio Capitone, il maestro di quest’ultimo, le partes-corpora che compongono il populus sono molteplici e costituiscono ulteriori livelli di aggregazione dei cives.

 

[40] D. 50.16.25.1: Quintus Mucius ait partis appellatione rem pro indiviso significari: nam quod pro diviso nostrum sit, id non partem, sed totum esse. La definizione di ‘pars’, in relazione a ‘totum’, risale a Quinto Mucio Scevola; ad essa si contrappone un’altra definizione, proveniente da Servio Sulpicio Rufo, prova evidente della necessità di puntualizzare i concetti collegati a ‘pars-partes’ tra II e I secolo a.C. In questa definizione il rapporto tra pars e totum appare fondato sulla comprensione dell’una nell’altro: la parte ha una sua autonomia concettuale solo se ed in quanto contenuta nel tutto (rem pro indiviso), perché una volta che si sia provveduto al distacco dal tutto della parte (quod pro diviso), essa perde quell’autonomia concettuale per acquisire una identità propria rispetto al tutto di cui era parte. In altre parole, la pars esiste solo quale componente del totum. Nell’altra definizione di pars, quella di Servio Sulpicio Rufo (Servius non ineleganter partis appellatione utrumque significari), a differenza della precedente, il rapporto tra pars e totum appare elastico, tanto da non dissolversi neppure a seguito della divisione, del distacco dal tutto della parte: essa continua a godere di autonomia concettuale anche quando il tutto perde la propria entità. La separazione definitiva delle partes dal totum non dà origine ad altrettanti tota (secondo la definizione muciana), ma conserva una relazione ideale tra il tutto non più realmente esistente e le parti che lo componevano. Ritengo che soprattutto la definizione più antica non sia stata ispirata esclusivamente da tematiche proprie dello ius civile, ma anche dalla necessità di mettere a fuoco concetti quali ‘pars-partes populi’ emergenti dal plebiscitum de sacerdotiis rogato da Domizio Enobarbo nel 103 a.C.

 

[41] A questo proposito, mi permetto di rinviare a F. VALLOCCHIA, Collegi sacerdotali ed assemblee popolari nella repubblica romana, Torino 2008, 163-176.

 

[42] Cic., De lege agraria 2.7.17.

 

[43] Cic., De lege agraria 2.7.18: ab ea parte qui esset factus, is a conlegio cooptaretur.

 

[44] In questo senso credo debba essere inteso il riferimento al valore “formale” della cooptatio in voce Cooptatio, in NNDI, IV, Torino 1959, 841 s. («la successiva cooptatio ... aveva soltanto più un valore formale») ed in J. LINDERSKI, Religious Aspects of the Conflict of the Orders: The Case of confarreatio, in ID., Roman Questions, Stuttgart 1995, 555 nt. 44 (già in K.A. RAAFLAUB, Social Struggles in Archaic Rome. New Perspectives on the Conflict of the Orders, Berkeley 1986, 244 ss.): «after the lex Domitia the priests were creati by popular election, the cooptatio remaining as a purely formal element».

 

[45] Dalla combinazione delle iscrizioni contenute in C.I.L. VI 1976 [(L) Cornelio L f Sulla (cos) post R(omam) c(onditam) an(no) DC(LXV)] ed in C.I.L. VI 32318 [(Q Cornelius Scip)io Asiagene(s cooptatus L Cornelio L f S)ulla Q Pom(peio Q f Rufo cos post Romam conditam anno) DCLX(V)], le quali si riferiscono al medesimo collegio sacerdotale (quello degli auguri, secondo C.I.L. e I.L.S. 9338.3-4; quello dei pontefici, secondo T.R.S. BROUGHTON, The Magistrates of the Roman Republic, II, rist. Atlanta 1986, 44, G.J. SZEMLER, The Priests of the Roman Republic, Bruxelles 1972, 126 s., e J. RÜPKE-A. GLOCK, Fasti sacerdotum: die Mitglieder der Priesterschaften und das sakrale Funktionspersonal römischer, griechischer, orientalischer und jüdisch-christlicher Kulte in der Stadt Rom von 300 v. Chr. bis 499 n. Chr., II, Stuttgart 2005, 922 s.), si ricava esclusivamente la menzione della cooptatio di Scipio Asiagenus nell’anno 88 a.C., senza alcun cenno alla elezione assembleare che, sicuramente ancora vigente il plebiscitum rogato da Domizio, vi deve essere stata. Nelle stesse epigrafi, sono altresì riportate cooptazioni avvenute negli anni 462, 439, 390, 123, 40 a.C. Già R. PARIBENI, Cooptatio, in Dizionario Epigrafico di Antichità Romane, II, 2, rist. Roma 1961, 1200 ss., aveva notato questa caratteristica, affrettandosi però a concludere che comunque la scelta dei candidati era sicuramente rimessa ai comitia.

 

[46] Cic., Brut. 1.1: qua in cogitatione et cooptatum me ab eo in conlegium recordabar, in quo iuratus iudicium dignitatis meae fecerat, et inauguratum ab eodem. L’oratore si riferisce alla sua cooptazione nel collegio degli auguri, dopo che il plebiscito rogato da Labieno aveva ripristinato il sistema introdotto dal plebiscito rogato da Domizio.

 

[47] Rhetorica ad Herennium 1.11.

 

[48] Cic., Philippicae 2.2.4.

 

[49] Cfr. Cic., Pro Murena 2; Liv. 8.9.6; Sen., De beneficiis 4.8.3; Suet., Caesar 6.

 

[50] Ulpiano in D. 1.1.1.2.

 

[51] Nov. 6 praef. (nella versione latina dell’Authenticum): maxima quidem in hominibus sunt dona dei a superna collata clementia sacerdotium et imperium, illud quidem divinis ministrans, hoc autem humanis praesidens ac diligentiam exhibens; ex uno eodemque principio utraque procedentia humanam exornant vitam. Ideoque nihil sic erit studiosum imperatoribus, sicut sacerdotum honestas, cum utique et pro illis ipsis semper deo supplicent. Nam si hoc quidem inculpabile sit undique et apud deum fiducia plenum, imperium autem recte et competenter exornet traditam sibi rempublicam, erit consonantia quaedam bona, omne quicquid utile est humano conferens generi. A proposito del rapporto tra la partizione del diritto pubblico romano e la politica di Giustiniano in relazione a imperium e sacerdotium, mi permetto di rimandare a F. VALLOCCHIA, Alcune considerazioni sul concetto giuridico di ‘consonantia’ (in N. 6, praef.), in BIDR, 105, 2011, 307 ss.