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Patruno-fotoFrancesco Patruno

Università di Bari

 

Matrimonio, cittadinanza, domicilio: nuove frontiere della laicità

 

 

SOMMARIO: 1. Premessa. – 2. La novella legislativa del 2009. – 3. La giurisprudenza e la pronuncia di incostituzionalità del 2011. – 4. Aspetti giusromanistici e canonistici. – 5. Considerazioni conclusive.

 

 

1. – Premessa

 

Ringrazio, innanzitutto, gli organizzatori ed il Comitato scientifico del Convegno, che hanno voluto onorarmi incaricandomi di una comunicazione*.

Il tema, che mi è stato proposto, è effettivamente denso di spunti di riflessione, che cercherò di porre in luce.

Il matrimonio, segnatamente tra cittadini italiani e stranieri, la cittadinanza ed il domicilio hanno subito, nel nostro ordinamento, in special modo in questi anni recenti, notevoli scosse nella produzione normativa, che hanno inciso profondamente – o almeno così sembra – sulle relative categorie giuridiche.

Sotto quest’aspetto, non può non segnalarsi la l. 15 luglio 2009 n. 94[1], recante «Disposizioni in materia di sicurezza pubblica», nota al grande pubblico con “pacchetto sicurezza”, che ha disseminato numerosi interventi normativi su terreni diversi. Tale provvedimento legislativo s’inquadra nel più ampio ambito del c.d. diritto degli stranieri, che ha conosciuto nell’ultimo decennio un travolgente sviluppo in Italia, tanto da richiedere l’adozione di un testo unico sull’immigrazione (d’ora innanzi per brevità indicato con T.U.L.I.)[2], più volte emendato e riformato.

Riguardo al tema che ci occupa, il legislatore del 2009 ha operato una riscrittura del comma 1 dell’art. 116 c.c., su cui è venuta ad incidere, nel corso del 2011, una pronuncia della Corte costituzionale italiana, che l’ha riportata alla sua precedente portata precettiva.

In base alla novella del 2009 lo straniero, che avesse desiderato contrarre matrimonio (civile) in Italia, non solo doveva presentare – come già previsto in precedenza – una dichiarazione dell’autorità competente del proprio Paese, da cui fosse risultato, secondo la legge di tale Stato, che nulla ostasse alla celebrazione del matrimonio, ma pure un documento attestante la regolarità del suo soggiorno in Italia.

La norma, espressione di una politica di «draconiano rigore nei confronti dell’immigrazione»[3], non aveva mancato di suscitare dubbi interpretativi sul suo significato precettivo – da leggere all’interno del più generale sistema matrimoniale italiano, e della sua compatibilità con i principi costituzionali sui quali si fonda il nostro ordinamento[4]. L’innovazione normativa, tuttavia, induce a compiere una riflessione di carattere più ampio, che – anticipando per un momento le nostre conclusioni – porterà a ritenere che la novella legislativa abbia implicitamente inciso sulla laicità dello Stato, come tradizionalmente intesa nel nostro ordinamento sin dalla celeberrima definizione della Corte costituzionale dell'anno 1989, di cui fu redattore un illustre giusromanista, il prof. Francesco Paolo Casavola.

 

 

2. – La novella legislativa del 2009

 

Le nostre osservazioni non possono non muovere dalla ricordata novella legislativa.

Nel modificare la norma di cui all’art. 116 c.c. il legislatore, a ben guardare, aveva omesso di operare un necessario coordinamento del sistema. Essa rispondeva all’esigenza, schiettamente politica e sociale, di limitare il fenomeno dei matrimoni c.d. di comodo (celebrati al solo scopo di far conseguire la cittadinanza allo straniero[5]), ma contraeva eccessivamente il fondamentale ius connubii, discriminando lo straniero per il suo status di “non cittadino”, obbligandolo a forzate convivenze di fatto, con una serie di conseguenze pure sulla filiazione. La norma, inoltre, riverberava i suoi effetti, almeno in via riflessa, anche sul cittadino italiano che avesse voluto contrarre matrimonio con lo straniero, restringendo così pure la sua libertà matrimoniale e creando, in tal modo, una disparità di trattamento rispetto agli altri cittadini. Sotto ulteriore profilo si era posto in luce come la novella legislativa, riferendosi genericamente allo “straniero”, intendesse non soltanto il cittadino extracomunitario (come qualificato dall’art. 1 T.U.L.I.), bensì chiunque fosse privo della cittadinanza italiana e, quindi, a rigore, anche il cittadino di altro Stato membro dell’Unione Europea[6]. Proprio con riguardo a quest’ultima tipologia di soggetti – vale a dire il cittadino di Stato membro dell’U.E. – la disposizione in parola pareva prestarsi ad una serie di difficoltà applicative. Invero, dal sistema giuridico italiano emergeva che sullo straniero comunitario (almeno nei primi tre mesi di soggiorno) non incombeva un obbligo di dichiarazione di soggiorno in Italia presso le competenti autorità di polizia e, comunque, pur ammettendosi che quest’adempimento – richiesto come onere allorché il soggiorno si fosse protratto oltre i tre mesi – fosse un obbligo, non vi era alcuna specifica sanzione per la mancata osservanza di questa “formalità”[7]. Per cui, stante questo stato di non obbligo, il cittadino comunitario si trovava, in base alla citata novella, in difficoltà nel provare, documentalmente, la propria condizione di regolare soggiorno in Italia. Tuttavia, la circolare “interpretativa” del Dipartimento per gli Affari Interni e Territoriali del competente Ministero del 7 agosto 2009 n. 19 [8] (che, in ogni caso, non rivestiva valenza erga omnes, ma soltanto all’interno dell’amministrazione da cui promanava) pareva aver risolto almeno questo dubbio, riferendo la disposizione codiciale soltanto ai cittadini extracomunitari.

La nuova disciplina, inoltre, sebbene non ostacolasse ex se la celebrazione di matrimoni solo religiosi, nondimeno impediva che questi vincoli potessero assumere rilevanza civile mediante la trascrizione. Deve darsi conto, a tal proposito, che tale convinzione era stata respinta da alcuni autorevoli commentatori della legge del 2009, i quali, riferendosi alla disciplina del matrimonio c.d. concordatario, avevano avanzato l’idea che, almeno in linea teorica, fosse possibile per l’ufficiale di stato civile trascrivere «il matrimonio, pur validamente celebrato» secondo il diritto canonico (quale lex substantiae) e, dunque, «sfuggente all’ambito di applicazione dell’art. 116 c.c., nuovo testo, il quale non p[oteva] certo valere come modifica unilaterale (e perciò illegittima)» dei Patti tra Stato e Chiesa cattolica[9]. Diversamente opinando – sempre secondo quest’autorevole dottrina – la nuova formulazione dell’art. 116, comma 1, c.c., violava, oltre che l’art. 29 Cost., anche il precedente art. 7 [10].

 

 

3. – La giurisprudenza e la pronuncia di incostituzionalità del 2011

 

La giurisprudenza (almeno quella edita) ha avuto modo di pronunciarsi in due modi: da un lato, sforzandosi di offrire una lettura costituzionalmente orientata della novella legislativa; dall’altro, sollevando eccezione di costituzionalità della norma in parola.

Con riguardo al primo gruppo, la nuova formulazione dell’art. 116 era stata oggetto di due provvedimenti, rispettivamente del Tribunale di Bologna[11] e del Tribunale di Ragusa[12], in cui i giudici di merito offrivano una lettura costituzionalmente conforme del disposto normativo de quo, affermando – stante l’analogia fra le due fattispecie – che non potesse considerarsi irregolarmente soggiornante in Italia il cittadino straniero, entrato in Italia per motivi di studio ed ancora in attesa di permesso di soggiorno ovvero, parimenti, quello che, pur titolare del permesso di soggiorno, nondimeno si trovasse in situazione di irregolarità allorché questo fosse scaduto ed avesse presentato tardivamente istanza di rinnovo del medesimo.

Con riguardo al secondo gruppo di pronunce, si segnala una questione di legittimità costituzionale sollevata dal Giudice di pace di Trento, il quale, con ordinanza del 16 giugno 2010, rimetteva alla Corte costituzionale italiana il dubbio di legittimità, tra l’altro, del novellato art. 116 c.c. «nella parte in cui subordina[va] il diritto a contrarre matrimonio all’esibizione del nulla osta e del titolo di soggiorno per violazione degli artt. 2, 3, 29, 117, comma 1, Cost., e 8 e 12 della Convenzione europea dei diritti dell’uomo».

La fattispecie, sottoposta al giudice di pace trentino, concerneva il caso di una cittadina extracomunitaria – nella specie cilena – la quale, entrata in Italia nel febbraio 2009 con regolare visto attraverso la frontiera spagnola, era compagna di un cittadino italiano residente in Trentino, con il quale aveva intenzione di contrarre matrimonio. Tale volontà era frustrata dall’ufficiale di stato civile del comune di Campodenno, il quale rilevava la mancata prova, non già del regolare ingresso in Italia della cittadina cilena, bensì del suo stato libero (non avendo la donna fornito alcuna documentazione riguardo al proprio divorzio nel suo paese d’origine). L’ufficiale di stato civile, dunque, non aveva contestato la regolarità del soggiorno della donna, bensì il suo stato libero. La questione, pertanto, si appalesava, così come prospettata, irrilevante per quel giudizio, non presentandosi un rapporto di strumentalità necessaria fra la risoluzione della questione costituzionale e la decisione del giudizio dinanzi al giudice di pace. A ciò si aggiunga che lo stesso provvedimento di rimessione al Giudice delle leggi era carente da un punto di vista motivazionale, non essendo state indicate né le ragioni della ricorrente avverso il decreto di espulsione né il contenuto del decreto medesimo. In effetti il Giudice delle leggi, con ordinanza del 20-27 luglio 2011 n. 252 (red. Quaranta), dichiarava la manifesta inammissibilità della questione sollevata.

Più significativa era altra ordinanza, questa volta del Tribunale di Catania del 13 novembre 2009, con cui il collegio sollevava questione di legittimità costituzionale, sempre dell’art. 116 c.c., in relazione ai medesimi parametri di costituzionalità. Nella fattispecie, una cittadina italiana ed un cittadino marocchino adivano l’autorità giudiziaria per il rifiuto opposto dall’Ufficiale di stato civile del comune di Adrano (CT) di dar corso alla celebrazione delle nozze – per le quali vi erano già state regolari pubblicazioni – stante, a norma della novella codiciale, l’irregolarità del soggiorno del cittadino marocchino, che peraltro era stato attinto da un provvedimento di espulsione dal suolo italiano. Nell’ordinanza di rimessione degli atti al Giudice delle leggi, si osservava, tra l’altro, che «la previsione per gli stranieri che intend[evano] contrarre matrimonio in Italia, - sia con altro straniero sia con un cittadino italiano, - del nuovo requisito relativo alla regolarità del soggiorno appar[iva] limitativa della libertà matrimoniale, sia per lo straniero che per i cittadini italiani, e sembra[va] determinare una discriminazione nell’esercizio di un diritto fondamentale dell’uomo legata ad una mera condizione personale, che non appar[iva] ragionevole, in quanto non appar[iva] sussistente alcuna esigenza di salvaguardia di altri valori costituzionalmente rilevanti di pari grado, i quali soltanto po[tevano] giustificare un limite al diritto fondamentale in esame o un eventuale giudizio di bilanciamento tra contrapposti valori». Si osservava, inoltre, che la limitazione introdotta dal legislatore nel 2009 pareva, perciò, tradursi «in una limitazione all’esercizio del diritto fondamentale di contrarre matrimonio, sia dei cittadini stranieri che di quelli italiani … priva di ragionevole giustificazione, in quanto la richiesta di un elemento attestante una circostanza del tutto estranea ai tradizionali impedimenti matrimoniali, qual [era] la regolarità del soggiorno, sembra[va] porsi [tra l’altro, ndr.] in contrasto con il favor verso il matrimonio».

La Corte costituzionale, ritenendo fondata la questione come prospettata, con sentenza n. 245 del 20-25 luglio 2011 (red. Quaranta), dichiarava l’illegittimità dell’art. 116, comma 1, c.c., come modificato dalla legge del 2009, ovvero «limitatamente alle parole “nonché un documento attestante la regolarità del soggiorno nel territorio italiano”». Per il giudice delle leggi, ferma la prerogativa del legislatore di dettare norme onde regolare l’ingresso e la permanenza degli stranieri extracomunitari in Italia, detta prerogativa deve rispondere a criteri di ragionevolezza e proporzionalità dei sacrifici imposti con gli obiettivi perseguiti. Nel caso di cui alla novella legislativa, tuttavia, la limitazione della libertà di contrarre matrimonio degli stranieri, ma anche dei cittadini italiani che intendono coniugarsi con i primi, non appare congrua rispetto alla necessità dello Stato di garantire il presidio e la tutela delle frontiere ed il controllo dei flussi migratori e, quindi, adeguata nel contrastare il fenomeno dei c.d. matrimoni di comodo, tanto più che esso era già sufficientemente ostacolato dalla disciplina di cui all’art. 30, comma 1 bis, T.U.L.I.

 

 

4. – Aspetti giusromanistici e canonistici

 

La modifica legislativa testé indicata pareva rompere quel filo conduttore di continuità giuridica che, sin dagli albori del nostro diritto, costituiva la direttiva lungo la quale si era mosso tanto il legislatore dell’Italia unita quanto quello della codificazione del 1942. Se, infatti, risaliamo all’antica tradizione romana, a cui il nostro ordinamento si ispira e che è in grado ancor oggi di offrire utili mezzi tecnici e fondamentali categorie al pensiero giuridico onde rileggere quasi in filigrana le moderne sfide poste da un mondo globalizzato e globalizzante, ci si potrà avvedere che furono raggiunti, in quei tempi lontani, risultati impensabili dagli odierni ordinamenti sovranazionali.

Per questo e non a caso, costatata l’insufficienza del diritto statuale ad affrontare e risolvere i conflitti posti dal moderno multiculturalismo e multietnicismo, da più parti s'insiste sull'idea di una “societas iuris civium[13], di una “società del diritto”, cioè, che costituisce e fonda la civitas, così com’era intesa nel diritto romano. Soltanto attraverso il diritto (dettando iura), il mitico fondatore di Roma, Romolo, riuscì a «coalescere in populi unius corpus»[14], fondendo in unità una moltitudine di individui tumultuosa, informe e variopinta per cultura, costumi e religione.

Proprio a tal proposito, può porsi in luce come il sistema giusromanistico, con la sua concezione di cittadinanza, costituisca un elemento di originalità rispetto a quelli attuali, facendone un sistema avanzato, giacché seppe aprirsi a popoli diversi, formando – come scrisse il Lobrano – un «populus di populi» ed una «civitas di civitates»[15], senza trasformarsi, tuttavia, in un agglomerato informe di culture, religioni e popoli, ma sempre mantenendo fermi alcuni valori qualificanti e caratterizzanti.

Un “popolo di popoli”, dunque, che, con la soppressione di ogni distinzione, tra cittadini e stranieri nel diritto giustinianeo (a cui non era estranea l’influenza della religione cristiana), mediante l’eliminazione del concetto di peregrinus, portò a compimento quel processo di apertura del diritto nei riguardi dello straniero, le cui origini risalivano all’asylum fondato da Romolo, sul Campidoglio, per accogliere nella cittadinanza stranieri, liberi e schiavi[16]. Queste origini risalivano anche, dal punto di vista religioso, all’accoglienza ed all’ospitalità nel Pantheon romano degli dèi dei popoli vinti, evocati e venerati come le divinità originarie romane. Tale processo trovò una sua emblematica espressione nell’editto di Caracalla, noto come Constitutio Antoniniana, risalente all’anno 212 (o 213) d.C., che estese a tutti gli abitanti dell’Orbe, o meglio a tutte le popolazioni del Mediterraneo soggette a Roma, la cittadinanza e, dunque, la piena soggettività giuridica[17]. Il provvedimento ben si accordava, come notato da un autore, con l’idea di «un impero universale sovranazionale», che annullava l’altra idea di «una supremazia di Roma come città-stato»[18]. Il menzionato profilo lo si poteva cogliere proprio dall’estensione del diritto privato romano, che così diveniva davvero universale, da cittadino che era nelle origini e nella struttura[19], trasformando insieme la produzione del giurista, che così tendeva ad assumere carattere di universalità[20].

I ricordati passaggi, sebbene possano essere stati dettati da circostanze contingenti, sono comprensibili solo tenendo a mente il concetto, intorno cui ruotavano la giurisprudenza e la legislazione romane, dell’“ampliamento”, dell’“aumento” della civitas (civitas augescens). Esso è stato più volte analizzato ed approfondito da autorevoli studiosi, i quali non hanno mancato di rimarcare come «l’aumento della res Romana è connesso alla politica della cittadinanza nei confronti dei popoli vinti»[21], che si realizzava soprattutto attraverso lo strumento del foedus tra Roma e tali genti, rendendo questi ultimi soci dell’Impero, per fonderli, poi, in un unico popolo[22] e che, sotto gli imperatori cristiani, si presentò in termini di espansione evangelizzatrice. Una politica, che, secondo le espressioni di Seneca, aveva saputo trasformare l’odio dei vinti in amicizia e che, con «salutare lungimiranza», aveva saputo «mescolare» vincitori e vinti[23]. Tale aumento, peraltro, implicava anche un concetto di mobilità di Roma, che non si espandeva semplicemente in senso geografico, ma si trasferiva – se così può dirsi – ogni dove abitassero i suoi cives: anche agli estremi confini dell’Impero (traslatio Imperii)! In questa prospettiva, Roma non si divideva, ma si rafforzava con la fondazione di Costantinopoli, che ne era sorella (Roma soror), almeno all’inizio. E la Terza Roma, con la conversione al Cristianesimo del principe di Kiev, manifestò l’idea di “salvare” Roma (ed al contempo custodire l’ortodossia), col suo transire in «un nuovo, immenso spazio, la sua inesausta capacità di espandersi e rinnovarsi»[24].

Da questi dati emerge come il mondo romano, pur ignorando la nozione di laicità dello Stato, ne avesse vissuto lo spirito, perché il suo diritto era volto a riunire, come si è cercato sinteticamente di illustrare, contro ogni esclusivismo, etnico o religioso, uomini tra loro diversi per origine, cultura e religione, con un’unica lingua[25] ed in un’unica communis patria, che era Roma, che era per tutti comune Asylum.

Un individuo, in altre parole, pur avendo un proprio domicilium[26] ed una diversa origo[27], rispetto ad un altro, tuttavia godeva – quasi per una sorta di processo di reductio ad unum – di quella patria comune, in quanto condivideva uno spatium comune; uno spazio che, in ultima analisi, coincideva con Roma stessa[28].

A tal proposito, può notarsi come una tale convergenza sia possibile rinvenire pure nelle fonti cristiane. Tra le tante testimonianze che si potrebbero richiamare, allo scrivente pare altamente evocativa un’epigrafe, contenente un elogium Apostolorum, attribuito a papa Damaso. In questo testo, il cui originale marmoreo è smarrito ma di cui ci è stato tramandato il contenuto in un codice del IX-X sec. d.C. (che, a sua volta, riporta copia di una raccolta di epigrafi redatta nel VII sec.), il grande Papa, elogiando i due Apostoli, Pietro e Paolo, affermava che essi, giunti dall’Oriente a Roma, offrirono la loro estrema testimonianza, versando il loro sangue, ed in ragione di ciò, la Città poteva legittimamente rivendicarli come suoi cittadini (Roma suos potius meruit defendere cives)[29]. I due Apostoli, quindi, pur di diversa origine – l’uno galileo e l’altro, originario di Tarso, in Cilicia, cittadino romano – a causa della loro suprema testimonianza del martirio, potevano di diritto, nella concezione di papa Damaso, qualificarsi come cittadini romani, veicolandosi, in tal modo, l’immagine della loro indissolubile ed indiscussa romanità.

Nell’Urbe romana tutti coloro che vivevano nell’Orbe erano legati giuridicamente ed ad essa convergevano. L’intero mondo, in un certo senso, era entrato nella città di Roma, caput orbis terrarum, ma senza che ciò implicasse – nel campo della formazione e coesistenza dei diritti – il governo di un principio centralistico così com’è oggi inteso. La centralità di Roma, inscritta fin dal suo principium, vale a dire nel prodigium della sua fondazione e che svelava la sua vocazione di essere nerbo e capo di un vasto impero, non impediva che il suo diritto venisse a coesistere con altri iura, che si formavano localmente pure per via consuetudinaria: l’eventuale conflitto tra consuetudines di diverse civitates era superato dal ricorso alla consuetudo Romae. In quest’ottica, Roma (ed il suo diritto) garantiva l’unità del sistema, in quanto caput, vertice del sistema[30], giacché in essa si fondeva quella «multitudo diversa atque vaga» di individui. Ed è singolare che quest’idea perdurerà per secoli, anche dopo che Roma cadde per mano barbarica nel 476 d.C., con la deposizione dell’ultimo imperatore d’Occidente. Non a caso, i musulmani designeranno con Rum (Roma) quelle terre, un tempo appartenenti all’Impero romano, poi facenti parte di quello ottomano; terre un tempo abitate, appunto, dai cives romani[31].

Quel diritto, peraltro, pur sorretto da valori etici la cui origine era chiaramente religiosa, può, ancor oggi, ben suggerire al nostro ordinamento – laico – utili strumenti al fine di superare i conflitti che il mondo contemporaneo pone quotidianamente alla nostra attenzione.

La suddetta concezione, condizionata anche, tra l’altro, dal Cristianesimo, influì sul diritto canonico, quale diritto universale della Chiesa, quale diritto cioè di quella moltitudine di fedeli, radunata nel popolo di Dio, che, utilizzando la suggestiva visione dell’autore dell’Apocalisse, «nessuno p[uò] contare, di ogni nazione, tribù, popolo e lingua»[32].

Non è un caso che quel diritto romano, filtrato dal Cristianesimo, e strettamente correlato al diritto canonico, non abbia conosciuto, durante l’epoca intermedia, una vera e propria difficoltà a considerare estesi agli stranieri, in quanto appartenenti tutti alla comune civitas christiana, gli stessi diritti dei cittadini. Anzi, la condizione che extra Ecclesiam non est imperium fece sì che la sola qualità di fidelis Christi comportasse pure quella di civis, ovvero di suddito dell’Impero[33].

È innegabile che, nell’ambito di questo diritto, in talune materie e segnatamente quella matrimoniale, vi furono, nel corso del tempo, incomprensioni e tentazioni volte negare ai “non cives” del popolo di Dio (cioè agli infedeli ed ai pagani), l’esistenza di un “vero matrimonio”[34]. Il dubbio suddetto era sorto in analogia al diritto romano, che consentiva il iustum matrimonium ai soli cives, mentre tra i non liberi o tra non cittadini l’unione para- o simil-matrimoniale denominata contubernium[35].

Tuttavia sia la codificazione di Graziano[36] sia la legislazione dei Pontefici (in special modo Innocenzo III)[37] respinsero sempre e decisamente tale convincimento, affermando, per contro, come, pure tra i detti soggetti, sussistesse – salvo la contrarietà al diritto divino naturale (come ad es. nel caso della poligamia) – un autentico matrimonio, non negando ad essi quello ius connubii, quale diritto spettante ad ogni persona[38], libera o schiava o infedele.

 

 

5. – Considerazioni conclusive

 

Da questi brevi cenni emerge come la nuova disciplina del 2009, incidendo sull’istituto matrimoniale e sulla cittadinanza, avesse seriamente posto pure un problema di laicità.

In altre parole, il quadro generale, appena tratteggiato e che traspare dalle modifiche legislative introdotte nel 2009, mostra come le categorie della cittadinanza – e dei diritti connessi, tra i quali vi è il matrimonio – e le politiche delle famiglie degli immigrati fossero state utilizzate (e piegate) allo scopo di definire le relazioni tra il soggetto e la comunità politica dello Stato, cui non erano estranee percezioni simboliche, sempre in bilico tra il riconoscimento della cittadinanza, del matrimonio e dei diritti della famiglia dello straniero, ed il loro diniego; tra assimilazione, inclusione, accoglienza ed integrazione dell’altro.

Nell’intreccio, di difficile risoluzione, tra salvaguardia – legittima – della propria identità nazionale e culturale ed apertura – doverosa – della comunità politica all’accoglienza dello straniero, che caratterizza questo nostro tempo, i temi legati alla cittadinanza, che abbiamo posto in luce, investono, in senso ampio, un discorso sulla base e sulle forme di convivenza tra individui di diversa estrazione etnica, culturale e religiosa. Per questo non si può prescindere dal tema della laicità, così com’è stata intesa, coniugata all’interno del nostro ordinamento ed applicata in senso senso “relativo” e “proporzionale[39]. Del resto, come è stato acutamente osservato, laicità e cittadinanza sono voci nomiche, vale a dire «legate indissolubilmente nelle loro forme politiche a determinati spazi storici», che «non possono avere alcun senso al di fuori dei loro ambiti»[40].

La laicità, invero, si pone, a nostro convincimento, come tòpos nel quale, secondo la “metafora romana” (mutuando un’espressione del filosofo contemporaneo[41]), estraniando ogni giudizio e pre-giudizio etnico-razziale e culturale, si possa fondare quella concordia politica, ovvero pervenire a quella societas iuris civium”, da tanti auspicata.

Il nostro discorso deve risalire, pertanto, alla nozione di laicità, almeno com’è percepita all’interno del nostro ordinamento.

La Corte costituzionale italiana, nella famosa sentenza n. 203 del 1989 [42], aveva inteso questo principio supremo come «garanzia dello Stato per la salvaguardia della libertà di religione, in regime di pluralismo confessionale e culturale», affermando inoltre che lo Stato-comunità non si pone «postulati ideologizzati ed astratti di estraneità, ostilità o confessione dello Stato-persona o dei suoi gruppi dirigenti, rispetto alla religione o ad un particolare credo, ma si pone a servizio di concrete istanze della coscienza civile e religiosa dei cittadini».

La successiva evoluzione della giurisprudenza dell’Alta Corte ha portato a sviluppare questa linea di non indifferenza e non estraneità dello Stato nei riguardi del fenomeno religioso (e diremmo, in ragione di una lettura estensiva, del fenomeno multiculturale e multietnico) in tutte le sue manifestazioni, individuali e/o comunitarie, in un quadro di pluralismo[43].

Nel tradurre le affermazioni del Giudice delle leggi e riportandole al nostro discorso, è opinione dello scrivente che il legislatore, proprio in virtù del principio di uguaglianza-proporzionale, non avrebbe potuto in alcun modo stabilire discipline differenziate in base all’elemento distintivo dell’appartenenza etnico-culturale, laddove era coinvolta la libertà individuale nel suo profilo tanto di libertà religiosa quanto di quella matrimoniale e domiciliare (essendo il domicilio, a differenza della residenza, fondata sull’elemento della volontarietà del soggetto e, dunque, espressione della sua libertà). In quest’ottica, perciò, la recente sentenza n. 245/2011 della Corte costituzionale correttamente ha dichiarato l’illegittimità della previsione del divieto generale di celebrazione delle nozze per lo straniero privo di permesso di soggiorno, tanto più che non era prevista dalla norma, nei casi specifici, alcun’indagine riguardo alla genuinità del matrimonio.

Quella nozione di laicità, dunque, cui abbiamo fatto cenno, elaborata propriamente per il fenomeno religioso, e che si sostanzia «in un’attitudine culturale, [in] un rapporto con valori storici che devono essere propri, in egual misura, di credenti e non credenti»[44], può ritenersi non confliggente, oggi, con le tendenze, prevalenti nel milieu italiano ed europeo, che mirano ad estendere quel principio pure ad ambiti che vanno di là di quello meramente religioso e della libertà di coscienza. In altre parole, la laicità, calibrata e “vissuta” in maniera “relativa”, avendo riguardo cioè al modo in cui essa è intesa dalla tradizione storico-culturale di ciascuno Stato[45], potrà creare il terreno comune ed accogliente nel quale instaurare un autentico processo d’integrazione delle popolazioni immigrate presenti nel tessuto sociale dello Stato ospitante. In tale prospettiva, coerentemente con la metafora romana sopra evocata, questo principio, libero da “rigidismi” ed “assolutismi” ideologici – che portano ad escludere o ad attenuare il contributo positivo recato da talune tradizioni storico-culturali - potrà aiutare a cogliere le specificità, il quid proprium del patrimonio di ognuna delle diverse componenti sociali, ponendo le premesse indispensabili di una pacifica convivenza tra popoli e culture.

Non a caso, una delle proposte avanzate (a mio parere condivisibile) nel quadro comune di un’integrazione a livello europeo, riguardo la definizione di un principio di “Cittadinanza Civica” (civic citizenship). Con questa locuzione ci si riferisce al riconoscimento di un certo numero di diritti fondamentali da garantire a quei cittadini di Paesi terzi, che da lungo tempo risiedono nell’Unione Europea, che vanno, per quanto interessa ai nostri fini, dal diritto alla residenza alla protezione dall’espulsione; dall’accesso all’occupazione ed al lavoro autonomo all’accesso alla riunificazione familiare. Si tratta, al momento, solo di un’ipotesi di lavoro, di una suggestione, ma che contribuirà a costruire – è l’auspicio di molti – un’Europa non più ridotta alla sua dimensione puramente tecnico-economico-finanziaria, ma dove la sovranità possa essere esercitata su scala continentale, liberandosi nationes, civitates, gentes europee dalla “prigionia” degli Stati nazionali[46], al fine di «equilibrare le tendenze fisiologiche della politica “imperiale” americane, il suo secolare indirizzo “monologante”»[47].

 

 



[I contributi della sezione “Memorie” sono stati oggetto di valutazione da parte dei promotori e del Comitato scientifico del Colloquio internazionale, d’intesa con la direzione di Diritto @ Storia].

 

* [Colloquio internazionale La laicità nella costruzione dell’Europa. Dualità del potere e neutralità religiosa, svoltosi in Bari il 4-5 novembre 2010 per iniziativa della Facoltà di Giurisprudenza dell’Università di Bari “Aldo Moro”, del Centre d’études internationales sur la romanité Université de La Rochelle e dell’Unità di ricerca “Giorgio La Pira” CNR – Università di Roma “La Sapienza”]

Il testo della comunicazione, a seguito della sentenza n. 245/2011 della Corte costituzionale italiana, è stato necessariamente aggiornato ed adattato a questa pronuncia.

 

[1] Il provvedimento legislativo è stato pubblicato in Gazz. Uff. 24 luglio 2009 n. 170, Suppl. Ord. n. 128.

 

[2] Si tratta del D. Lgs. 25 luglio 1998 n. 286.

 

[3] Così A. Renda, Art. 116, in L. Balestra (a cura di), Della famiglia, Artt. 74-176, in Commentario del Codice civile, diretto da E. Gabrielli, Utet, Torino, 2010, 228.

 

[4] Su questi profili, ibidem. Per alcune osservazioni critiche su questa legge, v. pure G. Ferrando, Matrimonio e filiazione nella l. n. 94/2009 (c.d. “Pacchetto sicurezza”), in Fam. pers. succ., 2009, 957 ss.; P. Morozzo della Rocca, I limiti alla libertà matrimoniale secondo il nuovo testo dell’art. 116 cod. civ., in Fam. dir., 2009, 945 ss.; Id., Sul matrimonio dello straniero privo di autorizzazione al soggiorno, ivi, 2008, 205 ss., che esaminava le proposte di riforma che circolavano.

 

[5] Sui matrimoni c.d. di comodo, cfr., tra i tanti, Id., Simulazione, matrimonio di comodo e cittadinanza, ivi, 2007, 955 ss.

 

[6] Id., I limiti, cit., 946.

 

[7] Ibidem, 947-948.

 

[8] La circolare è reperibile in Diritto, immigrazione e cittadinanza, 2009, fasc. n. 4, 274 ss.

 

[9] P. Morozzo della Rocca, I limiti, cit., 950. Va aggiunto, in ogni caso, che secondo l’opinione di altro autore, le norme relative al matrimonio c.d. concordatario (artt. 13 legge 27 maggio 1929, n. 847 e 8, n. 1, comma 2, legge 25 marzo 1985 n. 121) erano «sufficientemente chiare da consentire di “aggirare” l’art. 116 c.c., prevedendosi il divieto di trascrizione solo in presenza di impedimenti inderogabili» (così S. Rossi, Il matrimonio «clandestino» e la Corte costituzionale, in Forum dei Quaderni Costituzionali, 2010, all’url www.forumcostituzionale.it, 9).

 

[10] P. Morozzo della Rocca, I limiti, cit., 950.

 

[11] Trib. Bologna decr. 24 giugno 2010, in Fam., pers. e successioni, 2010, 632 ss.

 

[12] Trib. Ragusa decr. 6 aprile 2010, in Fam. dir., 2010, 1153 ss., con commento di P. Palermo, Diritto al matrimonio e “clandestinità”: tra diritti fondamentali e discrezionalità del legislatore.

 

[13] Cfr. M.P. Baccari, Alcuni principi del diritto romano per la difesa dell’uomo nella globalizzazione, in Teoria del dir. e dello Stato, 2005, 1 ss., partic. 22 ss.

 

[14] Tito Livio, Ab urbe condita: «Rebus divinis rite perpetratis (Romulus) vocataque ad concilium multitudine, quae coalescere in populi unius corpus nulla re praeterquam legibus poterat, iura dedit» (I,8,1).

 

[15] G. Lobrano, La Respublica romana, municipale-federativa e tribunizia: modello costituzionale attuale, comunicazione al Colloquio internazionale Organizzare l'ordinamento. Federalismo e statalismo: forme di Stato e forme di governo, Sassari 6-8 novembre 1997, in Diritto @ storia, Rivista internazionale di Scienze Giuridiche e Tradizione Romanistica, maggio 2004, n. 3, sez. Memorie, all’url http://www.dirittoestoria.it.

 

[16] Così ricorda M.P. Baccari, Imperium e sacerdotium: a proposito di universalismo e diritto romano, in G. Dalla Torre - C. Mirabelli (a cura di), Le sfide del diritto. Scritti in onore del cardinale Agostino Vallini, Rubbettino editore, Soveria Mannelli 2009, 267.

 

[17] Cfr. S. Tafaro, Persona: origini e prospettive oltre l’antropocentrismo, in R. Coppola (a cura di), Incontro fra canoni d’Oriente e d’Occidente, Atti del Congresso internazionale, Cacucci editore, Bari 1994, vol. II, 588.

 

[18] M. Bretone, Storia del diritto romano, Laterza, Bari-Roma 1995, IV ed., 459.

 

[19] Così V. Arangio-Ruiz, Storia del diritto romano, Jovene, Napoli 1984, VII ed., 338-341, ripreso da M. Bretone, op. cit., 460.

 

[20] Così S. Tafaro, Regula e ius antiquum in D. 50, 17, 23. Ricerche sulla responsabilità contrattuale, I, Appendice. Traduzione delle fonti, Cacucci editore, Bari 1989, 3 ss., nt. 3.

 

[21] M.P. Baccari, Il concetto giuridico di civitas augescens: origine e continuità, in Studia et Documenta Historiae et Iuris, LXI, 1995, 759 ss., partic. 761.

 

[22] Così G. Lobrano, op. ult. cit.

 

[23] Seneca, De ira, 2,34.

 

[24] Così ricorda M. Cacciari, L’epoca della globalizzazione, in G. Torresetti (a cura di), Diritto, politica e realtà sociale nell’epoca della globalizzazione, Atti del XXIII Congresso nazionale della Società italiana di Filosofia giuridica e politica, Macerata, 2-5 ottobre 2002, Eum – edizioni università di Macerata, Macerata 2008, 27-29.

 

[25] La conoscenza della lingua ufficiale dell’Impero era condizione necessaria per fruire dei diritti civili e politici e per l’ottenimento della cittadinanza. Ne abbiamo testimonianza in un frammento delle Vite dei Cesari, in cui lo storico romano Svetonio rammentava che, quando l’imperatore Claudio era censore, un personaggio ragguardevole, proveniente dalla Grecia, poiché non conosceva la lingua latina, fu radiato dalla lista dei giudici e privato della cittadinanza romana: «Splendidum virum Graeciaeque provinciae principem, verum Latini sermonis ignarum, non modo albo iudicum erasit, sed in peregrinitatem redegit» (Svetonio, Divus Claudius, XVI,2).

 

[26] Il domicilium era inteso come il luogo nel quale l’individuo viveva stabilmente ed era individuato dalla laris constitutio, vale a dire della collocazione – all’interno della casa – delle effigi dei numi tutelari della famiglia (i Lari, appunto). Ed è singolare – è stato notato – come l’espressione si fosse mantenuta anche sotto imperatori cristiani quali Teodosio e Giustiniano. Cfr. M. Cellurale, Lar nelle fonti giuridiche romane dell’età imperiale: l’unità di concezione dei luoghi, in Arch. giur., 2002, 383 ss. Sulle origini del domicilio, v. di recente O. Licandro, «Domicilium»: emersione di un istituto, in Riv. dir. rom., 2003, III, 187 ss.

 

[27] L’origo era il luogo in cui traeva origine l’avo ed in base ad essa era individuata la cittadinanza. Non era determinata dal luogo di nascita, non attenendo alla nazionalità, bensì al territorio; al luogo di origine dell’individuo. Ne abbiamo una singolare applicazione nel famoso censimento romano narrato dal Vangelo di Luca (Lc 2,1-5): «In quei giorni un decreto di Cesare Augusto ordinò che si facesse il censimento di tutta la terra. Questo primo censimento fu fatto quando era governatore della Siria Quirinio. Andavano tutti a farsi registrare, ciascuno nella sua città. Anche Giuseppe, che era della casa e della famiglia di Davide, dalla città di Nazaret e dalla Galilea salì in Giudea alla città di Davide, chiamata Betlemme, per farsi registrare insieme con Maria sua sposa, che era incinta». Giuseppe – che non necessariamente può desumersi fosse nato a Betlemme – essendo della casata di Davide, dovette recarsi, con la moglie, nel luogo di origine della sua famiglia, a Betlemme.

 

[28] Così M. Cellurale, Domicilium nel sistema giuridico romano (la codificazione di Giustiniano), Giappichelli editore, Torino 2005, 212 ss.

 

[29] Cfr. sul punto, C. Carletti, Le due stelle di papa Damaso. Le più antiche testimonianze archeologiche del culto comune dei santi Pietro e Paolo, in L’Osservatore Romano, 27 giugno 2009, 4.

 

[30] Per queste riflessioni, M. Cellurale, Domicilium, cit., 216 ss. e 256-257.

 

[31] Così ricorda M. Cacciari, op. cit., 25-26.

 

[32] Cfr. Ap 7,9. Cfr. recentemente, R. Coppola-C. Ventrella Mancini, “Consensus” e “utilitas” come elementi d'identificazione del Popolo di Dio in Agostino, in Dir. eccl., 2007, I, 45 ss.

 

[33] E. Cortese, Cittadinanza (dir. intermedio), in Enciclopedia del diritto, VII, Giuffré editore, Milano 1960, 132 ss., partic. 135.

 

[34] Sulla condizione degli infedeli, cfr. G. Dalla Torre, Infedeli, ivi, XXI, Giuffrè editore, Milano 1971, 416 ss. In relazione al loro matrimonio, v. ivi, 417-420.

 

[35] Cfr. Paul., Sent. 2,19,6: «Inter servos et liberos matrimonium contrahi non potest, contubernium potest». Tuttavia, in via di fatto, il contubernium venne ad assimilarsi in tutto al matrimonio, tanto da adoperarsi anche per i non liberi termini come uxor, maritus, coniuges, ecc. Ad es., Plauto, nella sua commedia Casina, racconta che il servo Olimpione, credendo di sposare la schiava Casina, convola a nozze con un altro schiavo travestito da donna. Terminata la cerimonia nuziale, Olimpione, credendo di parlare a sua moglie, la chiama «mea uxorcula», cioè «mia piccola moglie» (Plaut., Cas., 844).

 

[36] Graziano, nella causa 28, interrogandosi se tra gli infedeli vi fosse un matrimonio autentico, affermò che questo era ritenuto legittimo quando legali institutione vel provinciae morbus contrahitur e che l’autorità ecclesiastica in alcun modo aveva mai negato il diritto di contrarre un legittimo matrimonio da parte degli infedeli, salvo le unioni che andassero contro i decreti divini (come, ad es., nel caso della poligamia): cfr. C. 28, q. 1 c. 14.

 

[37] Cfr. Innocenzo III, Epist. Quanto te magis al vescovo di Ferrara, Uguccione da Pisa, 1° maggio 1199 (in H. Denzinger, Enchiridion Symbolorum definitionum et declarationum de rebus fidei et morum, in P. Hünermann (a cura di), Edizioni Dehoniane, Bologna 1996, II ed., nn. 768 ss., 424 ss.); Id., Epist. Gaudemus in Domino al vescovo di Tiberiade, inizi del 1201 (ivi, nn. 777 ss., 434 ss.). Il papa Gregorio IX inserì entrambe le lettere nel liber Extra nel 1234, facendole così entrare a pieno titolo nella legislazione canonica della Chiesa. Il Concilio di Trento, riferendosi al testo di Gen 2,23-24, dichiarò che pure il matrimonio non sacramentale (in quanto celebrato tra non battezzati) era da considerarsi intrinsecamente indissolubile per diritto divino naturale (Conc. Tridentinum, sess. XXIV, 11 novembre 1563, ivi, nn. 1797 ss., 736 ss.) e, quindi, vero ed autentico matrimonio. Sul punto, cfr. H. Franceschi, Riconoscimento e tutela dello «ius connubii» nel sistema matrimoniale canonico, Giuffrè editore, Milano 2004, 75 ss., 225 ss.

 

[38] Sotto questo profilo può rimarcarsi la differenza, ad es., con lo stesso diritto ebraico, il quale considera pienamente valido solo il matrimonio contratto tra ebrei, reputando, per contro, nullo ed illegittimo il matrimonio c.d. misto, contratto tra un ebreo ed un non ebreo. Così ricorda A.M. Rabello, Introduzione al diritto ebraico. Fonti, matrimonio e divorzio, bioetica, Giappichelli editore, Torino 2002, 110 ss. e 120 ss.; S. Ferrari, Lo spirito dei diritti religiosi, il Mulino, Bologna 2002, 224 s. Non rivestendo alcun valore legale, l’unione fra un ebreo ed un non ebreo può considerarsi mera unione di fatto, che non muta lo status giuridico degli individui (A.M. Rabello, op. ult. cit., 124). Nell’Islam, invece, mentre alla donna musulmana è vietato il matrimonio con un non musulmano, l’uomo può sposare una donna ebrea, cristiana o zoroastriana, ma non appartenente ad altre fedi. Così S. Ferrari, op. ult. cit., 225. Nel diritto canonico, invece, il divieto dei matrimoni misti è dispensabile dall’autorità ecclesiastica (can. 1125) (ibidem, 226).

 

[39] Sulla nozione di laicità relativa e proporzionale, cfr. R. Coppola, Simbolismo religioso e nuove prospettive per lo studio del diritto ecclesiastico dello Stato, relazione alla Giornata di studio Simboli religiosi e istituzioni pubbliche. L’esposizione del Crocifisso dopo l’ordinanza n. 389/2004 della Corte costituzionale, Bari, 17 maggio 2005, in Giornate canonistiche baresi, Adriatica editrice, Bari 2008, V, 25; Id., Libertà delle confessioni e simboli religiosi, in R. Botta (a cura di), Diritto ecclesiastico e Corte costituzionale, ESI - Edizioni scientifiche italiane, Napoli 2006, 86. Cfr. ancora Id., Laicità relativa, in Stato, Chiese e pluralismo confessionale, in Stato, Chiese e pluralismo confessionale – Rivista telematica, 2007, all’url www.statoechiese.it, passim.

 

[40] P.G. Monateri, Cittadinanza e laicità fra emancipazione e messianesimo politico, ivi, 2009, 16.

 

[41] L’espressione è di M. Cacciari, op. cit., 50.

 

[42] Corte cost. 12 aprile 1989, n. 203, in Foro it., 1989, I, 1333 ss., con nota di N. Colaianni, Il principio supremo di laicità dello Stato e l’insegnamento della religione cattolica; in Dir. eccl., 1989, II, 293 ss.; in Dir. fam., 1989, 443 ss., con nota di S. Bordonali, Sulla «laicità» dell’ora di religione; in Quad. dir. pol. eccl., 1990, fasc. n. 1, 193 ss.; in Giur. cost., 1989, 903 ss., con commento di A. Saccomanno, Osservazione a Corte cost. sent. n. 203 del 1989.

 

[43] Tra le molte pronunce della Corte costituzionale sul tema, possono segnalarsi Corte cost. 18 ottobre 1995 n. 440 (in Dir. eccl., 1996, II, 281 ss., con nota di N. Recchia, Spunti problematici in tema di bestemmia e reati contro la religione; in Foro it., 1996, I, 30 ss., con nota di N. Colaianni, La bestemmia ridotta a diritto penale laico), in base a cui la laicità dello Stato italiano, che definisce «uno dei profili della forma di Stato» come delineata dalla Costituzione italiana, fa sì che in esso abbiano a convivere «in uguaglianza di libertà, fedi, culture e tradizioni diverse», senza che assuma rilevanza - si precisa in successive decisioni – «il dato quantitativo dell’adesione più o meno diffusa a questa o a quella confessione religiosa» (così Corte cost., 20 novembre 2000 n. 508, in Dir. eccl., 2001, II, 45 ss., con nota di M.C. Ivaldi, Ancora un intervento della Corte Costituzionale sulla discussa normativa codiciale in tema di tutela penale del sentimento religioso; in Foro it., 2002, I, 585 ss. V. anche Corte cost. 28 luglio 1988 n. 925, in Dir. eccl., 1988, II, 302 ss.; Corte cost. 14 novembre 1997 n. 329, ivi, 1998, II, 3 ss., con nota di V. Palombo, Cenni sulla tutela penale del sentimento religioso alla luce della sentenza della Corte Costituzionale n. 329/1997: problemi e prospettive; in Foro it., 1998, I, 26 ss., con nota di G. Fiandaca, Altro passo avanti della Consulta nella rabberciatura dei reati contro la religione). Allo Stato, in quest’ottica, escluse «valutazioni ed apprezzamenti legislativi differenziati e differenziatori» tra le varie fedi e culture (cfr. Corte cost. n. 329/1997, cit.), spetta solo il compito di garantire le condizioni che favoriscano l’espansione della libertà di tutti e, segnatamente, della libertà di religione (così Corte cost. 8 ottobre 1996 n. 334, in Dir. eccl., 1997, II, 101 ss., con nota di L. Lacroce, Libertà religiosa, giuramento e giurisprudenza costituzionale; in Foro it., 1997, I, 25 ss., con nota di G. Verde, Il giuramento della parte e la Consulta (motivazione o pseudomotivazione?)).

Per una ricostruzione, v. sul punto, tra i molti contributi sul tema, S. Sicardi, Il principio di laicità nella giurisprudenza della Corte Costituzionale (e rispetto alle posizioni dei giudici comuni), in Dir. pubbl., 2007, 501 ss.; Id., Alcuni problemi della laicità in versione italiana, in Stato, Chiese e pluralismo confessionale – Rivista telematica, 2010, all’url www.statoechiese.it.

 

[44] Così D. Trabucco, Concordato: ancora un privilegio per la Chiesa dopo la revisione del 1984? Premesse per una laicità “relativa” e “funzionale, in Stato, Chiese e pluralismo confessionale – Rivista telematica, 2007, all’url www.statoechiese.it, 6.

 

[45] La nozione di laicità laicità “relativa”, elaborata da attenta dottrina (v. supra nota 39) e che ha trovato riconoscimenti sia nella giurisprudenza italiana, segnatamente quella amministrativa (il riferimento è alla celebre decisione di Cons. Stato, sez. VI, 13 febbraio 2006 n. 556, in Foro it., 2006, III, 181 ss., con nota di A. Travi, Simboli religiosi e giudice amministrativo; Dir. fam., 2006, 1031 ss.; in Corr. giur., 2006, 843 ss., con nota di R. Botta, Paradossi semiologici ovvero della “laicità” del crocifisso), sia, da ultimo, a livello europeo, nella sentenza della Grande Chambre della Corte europea dei diritti dell’uomo 18 marzo 2011, ric. n. 30814/06, Affaire Lautsi v. Italia (in Foro it., 2011, IV, 181 ss.), ruota intorno all’idea di una possibile estensione, mutatis mutandis, della teoria della relatività al campo del diritto, sul dato presupposto che anche in campo giuridico lo spazio geografico ed il tempo storico possono costituire un sistema di riferimento in rapporto ai valori. In quest’ottica, la laicità è relativa e, per ciò stesso, storica e ponderata non tanto nei suoi profili generali e nella definizione – ammesso che esista una nozione astratta ed universale di laicità – bensì nella sua concreta applicazione; pertanto essa, depurata da qualsiasi incrostazione storica o tentazione giurisdizionalista, «varia in rapporto alla tradizione culturale ed ai costumi di vita di ciascun popolo, come si sono riversati nei rispettivi ordinamenti giuridici» (R. Coppola, Simbolismo religioso cit., 25). In altre parole, la laicità è “vissuta” all’interno di ciascuno Stato con riferimento alla propria tradizione storico-culturale ed è ciò l’elemento differenziante rispetto al modo in cui essa possa essere “vissuta” in un altro.

 

[46] Cfr. M. Cacciari, op. cit., 58.

 

[47] Ibidem.