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Lobrano-1Giovanni Lobrano

Università di Sassari

 

Qualche idea, dal punto di vista del Diritto romano, su origine e prospettive del principio di laicità

 

 

 

 

Sommario: Premessa. La ‘laicità degli antichi’ comparata alla ‘laicità dei moderni’. – 1. La ‘laicità degli antichi’. – 1a. L’avvento della repubblica (romana) come estrapolazione del potere di “governo” dei magistrati dalla competenza indifferenziata del re magistrato-sacerdote. – 1b. Il fondamento del (nuovo) potere magistratuale di governo nel popolo “concreto” dei Quirites/cives. – 1c. La interazione (che diventa “sinfonia” nella repubblica dell’impero) tra il potere di governo e la funzione religiosa. – 1d. La ratio della ‘laicità’ repubblicana romana nella natura societaria del popolo. – 2. La ‘laicità dei moderni’. – 2a. La laicità e la repubblica: un binomio apparentemente comune alla ‘laicità degli antichi’ e alla ‘laicità dei moderni’. – 2b. La condizione necessaria della ‘laicità dei moderni’ nella separazione tra lo “Stato” persona giuridica e la cosiddetta “civil society” degli uomini. – 2c. Un inciso a proposito della teoria ‘moderna’ della “moderazione”. – 2d. Il paradosso (non) apparente della ‘laicità dei moderni’: lo Stato si vuole “laico” perché si crede Dio. – Una prima conclusione. Dall’incontro tra laicità e religiosità degli antichi, nella democrazia della società repubblicana, allo scontro tra laicità e religiosità dei moderni, nel dispotismo dello “Stato” e nella anarchia conflittuale della “civil society”. La utilità dello studio del “modello” antico, risorgente.

 

 

Premessa. – La ‘laicità degli antichi’ comparata alla ‘laicità dei moderni’

 

Intendo proporre non una trattazione delle origini storiche del principio di laicità ma – soltanto – qualche idea per il dibattito attuale sulla laicità, dal punto di vista del Diritto romano.

La osservazione preliminare è negativa. Il sostantivo ‘laicità’ compare in epoca contemporanea, nella seconda metà del secolo diciannovesimo (sembra nel 1871)[1] per indicare una caratteristica (considerata dirimente) della organizzazione pubblica. Il ricorso alla astrazione è proprio della cultura contemporanea: il pensiero contemporaneo è intessuto di astrazioni e il lessico contemporaneo lo sostiene, dotandosi di neologismi astratti; ‘laicità’ è uno di questi. Pertanto, la parola ‘laicità’ non si trova né ha un corrispettivo diretto nelle fonti giuridiche romane né, più in generale, nel lessico latino e/o greco; anche se, nella saggistica contemporanea di Diritto romano, è ricorrente il luogo comune della «laicizzazione della giurisprudenza»[2] (con la connessa – fortunata quanto discutibile – nozione di “Isolierung” del Diritto romano rispetto alla religione; nozione formulata da Fritz Schulz nel famoso corso sui Prinzipien des römischen Rechts, tenuto alla Universität Berlin nel 1933 e pubblicato a München, da Duncker & Humblot, nel 1934).

Tuttavia, l’aggettivo odierno ‘laico’ viene (attraverso l’aggettivo del latino ecclesiastico ‘laicus’) dall’aggettivo del greco antico ‘laïkós’, il quale si forma dal sostantivo ‘laós’ cioè ‘popolo’ e vi è, oggi, la tendenza a (ri)cercare il nesso concettuale sotteso al nesso linguistico tra ‘laicità’ e laós/popolo. Proprio in questa linea, sul fronte degli studi romanistici, è stata già autorevolmente aperta la riflessione critica sul tema della ‘laicità’: così, esemplarmente, nel XIV Seminario Da Roma alla Terza Roma (Campidoglio, 21 aprile 1994) dedicato al tema Laicità tra diritto e religione da Roma a Costantinopoli a Mosca, e i cui “rendiconti” (Sassari 2006) si inseriscono nella “Collezione Documenti e studi Da Roma alla Terza Roma”, diretta da Pierangelo Catalano e Paolo Siniscalco[3].

Dunque, operando un anacronismo cosciente e dichiarato, controllato e non ingannevole, possiamo impiegare la parola moderna ‘laicità’ (con la problematica che essa evoca) a proposito della epoca e del contesto ‘antichi’ (dei quali, più usualmente, si interessano gli studi di Diritto romano) senza operare sovrapposizioni falsificanti. Per fare ciò, dobbiamo individuare – preliminarmente – un significato ‘minimo comune’ di laicità, il quale consenta tali impieghi e credo che questa individuazione possa operarsi – in prima approssimazione – nella ‘reciproca autonomia teorica e pratica tra governo e religione’[4].

Una volta deciso/accettato di gettare (in questo modo, su questo argomento) un ponte tra la epoca e la cultura – anche giuridica – antiche e la epoca e la cultura – anche giuridica – contemporanee, possiamo tentare una migliore comprensione della ‘questione della laicità’, applicandole il noto schema interpretativo della distinzione e del confronto tra “antichi e moderni”[5]. Lo schema del confronto tra entità omologhe/diverse è uno strumento conoscitivo potente ed efficace di individuazione delle specificità di ciascuna delle entità confrontate, attraverso la individuazione di ‘ciò che fa la differenza’ tra di esse. La contrapposizione e il confronto tra antichi e moderni è schema interpretativo della realtà, proprio di una dialettica storico-sistematica che possiamo definire ‘europea’. Esso viene da lontano, segna fortemente tutto il pensiero settecentesco, si colloca alla base della formazione non soltanto – generalmente – della cultura contemporanea ma anche – specificamente – delle Costituzioni contemporanee (contrapponendo tra loro le ‘costituzioni di modello antico’ partecipative e le ‘costituzioni di modello moderno’ rappresentative). Tale schema continua ad essere impiegato correntemente ancora oggi; ad esempio: a proposito, della democrazia[6], della dittatura[7], della cittadinanza[8] etc., in- e a proposito di una intera serie di campi concettuali.

Normalmente, però, quando si ricorre a- o ci si imbatte in tale schema, si pensa all’uso particolare fattone nel famoso “Discorso” ‘progressista’ di Benjamin Constant: De la liberté des modernes comparée à celle des anciens (1819).

Occorre allora, dopo la osservazione preliminare, una avvertenza preliminare: la contrapposizione “antichi moderni” non è il frutto inevitabile del “progresso” dall’antico al moderno, così come occorre nella accezione particolare e tendenziosa attribuitagli da Constant. La alternativa ‘antica’ e la alternativa ‘moderna’, in tutti i vari campi concettuali (ivi compreso quello evocato con il neologismo ‘laicità’), sono, in qualche modo, sempre compresenti – almeno potenzialmente – e tali restano anche durante la contemporaneità. Anche la nostra cultura e, più specificamente, la nostra Costituzione (la quale, pure, non evoca espressamente la “laicità”) ha compresenti le due alternative e, tra di esse, vi è una tensione costante, la quale ci interpella continuamente, obbligandoci ad una opzione per l’una o per l’altra (sia che ce ne rendiamo conto sia che non ce ne rendiamo conto).

 

 

1. – La ‘laicità degli antichi’

 

1a. – L’avvento della repubblica (romana) come estrapolazione del potere di “governo” dei magistrati dalla competenza indifferenziata del re magistrato-sacerdote

 

Il primo elemento che caratterizza la laicità degli antichi è (sempre dal punto di vista del Diritto romano) la coincidenza tra laicità e repubblica. La esperienza e la scienza giuridiche romane hanno prodotto e registrato (tra l’altro) una ‘rivoluzione’: non quella ‘golpista’, vista dagli occhiali di Ronald Syme nel ’39 (The Roman Revolution), ma una rivoluzione giuridica, i cui termini ancora ci sfuggono sostanzialmente (essi sfuggono non soltanto a chi non studia il Diritto romano ma anche a chi lo studia). E’ la ‘rivoluzione’ repubblicana. E’ con essa che si realizza – tra l’altro – la autonomia teorica e pratica tra potere di governo e funzione religiosa, ovverosia la manifestazione specifica di quel generale fenomeno che ho ritenuto di potere individuare come minimo comune della ‘laicità’.

La ‘rivoluzione’ repubblicana romana ha come elemento di prima evidenza il passaggio dal re ai consoli. Questo passaggio comporta una serie di implicazioni; la prima di esse è che la competenza indifferenziata, posta nell’istituto e nella persona del rex, viene scomposta con l’avvento del magistratus repubblicano e del suo potere specifico.

Non si tratta, dunque, soltanto del passaggio dal potere monocratico e vitalizio al potere collegiale e annuale. Il rex è “magistrato” ma anche “sacerdote”. Anzi, se volessimo limitarci ad analizzare il potere del rex, avremmo difficoltà a distinguere le due componenti dell’istituto regio perché la distinzione ‘prende forma’ precisamente con l’avvento della repubblica.

L’avvento della repubblica e la distinzione tra potere di governo magistratuale e funzione religiosa sacerdotale sono dunque, in qualche modo, un tutt’uno. L’avvento della repubblica è la (conquista della) reciproca autonomia teorica e pratica tra potere di “governo” e funzione religiosa[9]. Nel sistema repubblicano romano, il rex continua ad esistere: dopo la “cacciata dei re” c’è ancora il re; ma è un rex ‘soltanto’ sacerdote, perché la parte di ‘governo’ della sua competenza è stata estrapolata ed assegnata autonomamente ad altri: ai nuovi magistrati repubblicani.

Con l’avvento della repubblica, in luogo della unicità del potere regio, si costituisce o quanto meno si perfeziona la dialettica le magistrature e tra i sacerdozi (vedi Cicerone leg. 2.19-22 e Ulpiano/Giustiniano D. 1.1.1.2)[10]; magistrature e sacerdozi sono – a questo punto – due complessi istituzionali chiaramente distinti, che trovano i propri vertici, rispettivamente, nel consolato e nel pontificato massimo.

Possiamo, dunque, definire ‘laico’ il potere di governo dei magistrati repubblicani perché corrisponde alla definizione minima comune di laicità che abbiamo proposto. Oltre la corrispondenza vi è, però, la specificità. La ‘laicità’ repubblicana romana ha almeno altre tre caratteristiche essenziali e proprie, che si prestano ad una lettura sistemica: il fondamento nel popolo concretamente inteso del potere magistratuale di governo, la interazione tra potere magistratuale di governo e funzione sacerdotale religiosa, la natura societaria della organizzazione (anche) pubblica.

 

1b. – Il fondamento del (nuovo) potere magistratuale di governo nel popolo “concreto” dei Quirites/cives

 

La prima delle tre caratteristiche ulteriori/specifiche della ‘laicità’ repubblicana romana è che, per la nuova magistratura e per il suo nuovo potere ‘di governo’, viene individuato il necessario fondamento nel popolo con il suo potere.

Altro elemento innovativo, generale e talmente evidente, da risultare spesso – proprio per questo – sfuggente) della res publica è, infatti, di essere fondata necessariamente sul popolo, dominus eponimo del proprio “sistema”[11].

‘Cosa’ dunque è il “popolo” della “repubblica” romana? Cicerone dirà magistralmente cosa è la res publica quando si troverà in una fase storica drammatica, di crisi della stessa repubblica (crisi tale che egli medesimo perderà la vita); quando, per salvare la repubblica, bisogna assolutamente prima sapere cosa essenzialmente la repubblica è: per decidere quindi cosa se ne deve ad ogni costo salvare e cosa se ne può – invece – lasciare cadere. Ebbene, in questo contesto di lucidità e di sintesi estreme, Cicerone (rep. 1.39) definisce la repubblica “la cosa del popolo” (res publica id est res populi) per fornire quindi – immediatamente di seguito – la grande, insuperata definizione del popolo come “società” (populus autem non omnis coetus quoquo modo congregatus, sed coetus multitudinis iuris consensu et utilitatis communione sociatus). Sulla natura societaria del popolo dovremo tornare in un paragrafo successivo[12] ma va detto subito che a monte di tale dottrina sta la dottrina della natura “concreta” del popolo[13] come insieme dei Quirites/cives, esplicitata solennemente nella “formula giuridico-religiosa” populus Romanus Quirites[14] e nelle Istituzioni di Gaio e di Giustiniano: populi appellatione universi cives significantur [Gai. 1.3 e Just. inst. 1.2.4].

I magistrati repubblicani sono mandatari in potestate (non, cioè, sulla base di un rapporto contrattuale inter-potestativo) di questo popolo concreto[15], del quale devono eseguire la volontà (dichiarata dagli universi cives per mezzo del voto: D. 1.3.32.[Iul.]1 … suffragio populus voluntatem suam declaret). Non sono, invece, mandatari del popolo i sacerdoti: populus per religionem sacerdotia mandare non poterat (Cic. leg. agr. 2.18)[16].

Possiamo chiederci se la idea del potere popolare come il potere che “sta da sé” e della dipendenza del potere dei magistrati dal potere del popolo (come suoi mandatari/esecutori)[17] è una conseguenza della estrapolazione del potere di governo dalla competenza indifferenziata del re magistrato-sacerdote ovvero se la idea del potere popolare come (il solo) potere umano capace di dialogare con il potere divino[18] è ‘a monte’ della rivoluzione repubblicana della “cacciata dei re” e di quella estrapolazione. La manifestazione fenomenica è, comunque, unica: la nuova magistratura repubblicana con il proprio potere, nata per distinzione dal sacerdozio con la propria funzione, trova il proprio nuovo ubi consistam nel popolo con il proprio potere. Certamente, la ‘laicità’ repubblicana romana è ‘democratica’. Questa ultima affermazione è – in definitiva – una sequenza di tautologie ma è anche la espressione della legittimità profonda della applicazione/attribuzione della ‘laicità’ alla esperienza e alla dottrina repubblicane antiche. La res publica è il contesto della articolazione sia tra potere di governo dei magistrati e funzione religiosa dei sacerdoti sia tra potere del popolo e potere di governo dei magistrati (vedi, infra, § d).

 

1c. – La interazione (che diventa “sinfonia” nella repubblica dell’impero) tra il potere di governo e la funzione religiosa

 

E’, inoltre, caratteristica della ‘laicità’ repubblicana romana la necessaria interazione tra magistrati (con il proprio potere di governo [‘laico’]) e sacerdoti (con la loro funzione religiosa). Le due istituzioni e le competenze rispettive sono tutt’altro che collocate in ambienti separati e non-comunicanti.

Nel sistema repubblicano, il potere di “governo” ‘laico’ non soltanto non può essere inteso (come in ogni sistema semantico-concettuale) se non in riferimento al suo ‘altro’; esso ha anche bisogno fattivamente della interazione istituzionale con la funzione religiosa. Ciò spiega la rilevanza sia delle funzioni dei sacerdoti in materia di governo della res publica sia dei poteri dei magistrati in materia di religio[19]. Le due parti, nelle quali è stata scissa la unità della competenza regia, sono necessarie entrambe in termini assoluti ed hanno bisogno l’una dell’altra in termini di relazione[20]. Il “sistema” repubblicano romano è perfettamente “giuridico-religioso”.

Il popolo ‘mandante dei magistrati di governo’ è (come abbiamo già visto) l’interlocutore degli Dei (o del Dio): vos, Quirites, quorum potestas proxime ad deorum immortalium numen accedit (Cic. pro Rab. 2.5)[21]. Ed è nella auto-organizzazione del popolo (consistente nel costituire e nel mantenere la civitas quae est constitutio populi [Cic. rep. 1.41][22]) che il rapporto tra popolo e Dio si sublima nella tensione alla imitazione/sequela pubblica dell’operare divino: neque enim est ulla res in qua propius ad deorum numen virtus accedat humana, quam civitatis aut condere novas aut conservare iam conditas (Cic. rep. 1.12). Il “comando del popolo è legge e diritto” (lex est generale iussum populi aut plebis rogante magistratu [At. Cap. apud Aul. Gell. n. Act. 10.20]; quodcumque postremum populus iussisset, id ius ratumque esto [XII Tab. 12.5]). Il popolo, però, deve ‘fare i conti’ (“clausole di autolimitazione”)[23] con l’ordine di un sistema più ampio (sovrannazionale e naturale) garantito dal comando divino[24].

Questa linea laica/repubblicana giunge sino all’impero, il quale è non la fine della repubblica ma uno stadio più avanzato della intrinsecamente necessaria “crescita” della istituzione repubblicana. La repubblica è anti-regia ma non anti-imperiale; vi è – cioè – una contrapposizione fondamentale tra la repubblica e il regno (la repubblica è ‘laica’ mentre il regno non lo è) ma non vi è una contrapposizione equivalente tra repubblica e impero. La relazione repubblicana tra magistratura e sacerdozio, tra potere di governo e funzione religiosa, tra diritto e religione, trova – anzi – la propria elaborazione matura in un testo giuridico imperiale, la novella sesta dell’Imperatore Giustiniano, dove quella relazione viene stabilita – significativamente – tra “sacerdotium” e “imperium” e definita con la parola greca “sinfonía” (e latina “consonantia”)[25].

Questa definizione (con la dottrina da essa evocata) appare manifestazione indubitabile della continuità imperiale del diritto repubblicano, pure nella novità del dialogo (con influenze reciproche) tra giuristi repubblicani-imperiali e teologi cristiani. Specularmente, nel contesto del pensiero cristiano, l’allontanamento dal sistema giuridico-religioso repubblicano-imperiale romano, appare produrre teorie altre del rapporto tra potere di governo e potere religioso: ad esempio la teoria cosiddetta “delle due spade” (omologa della teoria della “sinfonia” ma ovviamente diversa) oppure la teoria della “territorialità della religione”, secondo la formula “cuius regio illius religio” (che può ricordare la espressione ciceroniana [pro Flacco, 69] sua cuique civitati religio[26] ma che è ancora più diversa). Delle due teorie, la prima (che si fa risalire alla dottrina agostiniana delle “due città” nonché alla epistola di papa Gelasio I, Ad imperatorem Anastasium [494] e che troverebbe corrispondenza testuale in Lc 22.38) appare di matrice cattolica e la seconda (che risale alla pace di Westfalia [1648]) appare di matrice protestante[27].

 

1d. – La ratio della ‘laicità’ repubblicana romana nella natura societaria del popolo

 

La specificità della ‘laicità degli antichi’ (con, lo ricordo: α) la estrapolazione del potere magistratuale di governo dal continuum della competenza del re magistrato-sacerdote, β) il fondamento del potere magistratuale di governo nel potere popolare e γ) la interazione “sinfonica” del potere di governo con la funzione religiosa) trova, infine, la propria ratio nella concezione societaria del popolo; non cioè (occorre ricordarlo) nel ‘superamento’ della ‘confusione primitiva’ fra diritto e religione, spiegazione – questa – erronea perché in luogo di dar conto della interazione sinfonica attestata dalle fonti tra magistrati di governo e sacerdoti cancella questi ultimi dall’ordinamento pubblico (così esemplarmente Mommsen) ciò che è invece proprio della concezione della laicità ‘moderna’[28].

Il contratto di società è sia l’elemento essenziale di qualificazione della nozione “concreta” di popolo come “totalità dei cittadini” (vedi, supra, § 1.b) e – quindi – della nozione di repubblica (cfr., infatti: Cic. rep. 1.49 ut ait Ennius, ‘nulla [regni] sancta societas nec fides est’) sia il loro ‘trait d’union’ profondo con la concezione religiosa del mondo.

Il contratto di società è una vera e propria ‘macchina’ istituzionale, perché, come le macchine fisiche, consente il potenziamento delle capacità naturali degli uomini. Esso segna in modo indelebile la storia e il sistema delle istituzioni giuridiche anche pubbliche. Lo specificamente articolato processo di formazione della volontà pubblica tra potere sovrano/legislativo e potere esecutivo/di governo (cui ci riferiamo – sia pure confusamente – oggi, quando operiamo la distinzione tra ‘forma di Stato’ e ‘forma di governo’) passa esclusivamente e necessariamente attraverso la invenzione giuridica romana del contratto di società.

Ma questa articolazione, pure assai importante[29] è soltanto la ‘punta dell’iceberg’. Il contratto di società è l’unico strumento mediante il quale è possibile conseguire l’obiettivo di trasformare i privati/sudditi (in lotta tra di loro e subordinati ad un potere alieno) in cittadini (solidali e autonomi), realizzando la combinazione della democrazia formale e della democrazia sostanziale. Ciò perché i soci possono/devono partecipare alle decisioni comuni in quanto sono reciprocamente “obbligati” proprio a definire e perseguire l’obiettivo del bene comune (la communio utilitatis)[30] attraverso il quale ottenere anche un maggiore bene individuale (la singulorum utilitas)[31].

Dal punto di vista tecnico, il contratto di società (ferma restando la distinzione sistematica tra diritti reali e diritti di obbligazione) procede dal consortium fraterno[32], innovato nei processi di costituzione (resa puramente volontaria e totalmente aperta) e nei processi di gestione. Da questo secondo punto di vista, si tratta del passaggio (cui hanno contribuito fortemente i giuristi del secondo e del primo secolo a.C.) dalla titolarità e disponibilità di tutto il patrimonio comune da parte di ciascun membro del consortium (salvo il veto di ciascun altro) alla titolarità e alla disponibilità per quote del patrimonio comune da parte di ciascun membro della società e alla articolazione di questa nella assemblea dei soci (mandanti che iubent a maggioranza [D. 50.1.19 <Scaev.>; D. 50.17.160 <Ulp.> pr.-1]) e nei loro magistri (mandatari in potestate che eseguono)[33]. Tale ‘articolazione’ è perfezionata dalla inter-posizione in essa di un collegio di defensores[34].

Questo paradigma complesso della societas è, nell’ambito del diritto pubblico, il paradigma altrettanto complesso della res publica[35].

Il contratto di società e la nozione di società assumono, nel pensiero romano, il rango di paradigma generale della relazione ottimale tra gli uomini, in quanto corrispondente alla natura umana[36] e, addirittura, alla natura stessa degli esseri animati[37]. Gli uomini, tutti gli uomini sono o – comunque – devono essere ordinati nella grande serie di società[38], che, in modo concentrico, vanno dal coniugium (la societas coniugalis)[39] alla societas hominum (la societas che integra lo ius gentium)[40] e in questa serie societaria, il ruolo principe spetta a quella forma di società che è il populus - societas civium o civilis societas[41] con la sua repubblica[42].

Il contratto di società (al di là della funzione economica, nella cui prospettiva è normalmente visto) si rivela, dunque, la traduzione (elaborata e raffinata) da parte dei giuristi romani (“chiamati sacerdoti” perché “coltivano la giustizia” e “professano il buono e l’equo” sulla base della “conoscenza delle cose divine e umane”[43]) di un principio, che chiamerei comunitario/solidaristico, fondamentale della koiné mediterranea antica[44].

Tale principio si manifesta nella cultura filosofica greca, con la categoria della politiké koinonía, per mezzo della quale Aristotele (riprendendo tesi di Socrate e di Platone) apre e fonda il proprio discorso sulla Politica[45].

La espressione scientifica più risalente e più completa di questo principio è, però, il precetto-base della teologia giudaica (e poi cristiana) dell’amore a Dio e al prossimo. Quando il dottore della legge interroga Gesù Cristo, per verificarne la ortodossia giudaica, chiedendogli quale è il “primo” e “più grande” di tutti i comandamenti (Mc 12.28 e Mt 22.36), Gesù Cristo risponde, fondendo due passi vetero-testamentari: «Amerai il Signore Dio tuo con tutto il cuore, con tutta la tua anima e con tutta la tua mente. Questo è il più grande e il primo dei comandamenti. E il secondo è simile al primo: Amerai il prossimo tuo come te stesso. Da questi due comandamenti dipendono tutta la Legge e i Profeti» (Mt 22.37-40; cfr. Mc 12.29-31). Il dottore delle legge consente e conferma «Hai detto bene, Maestro, e secondo verità» (Mc 12.32).

Il contratto di società è, precisamente, la “fonte” della “obbligazione” di ciascun socio a desiderare per l’altro socio ciò che desidera per se stesso, ovverosia – possiamo dire – ad ‘amare’ il proprio socio come se stesso. Cicerone, sempre nel suo discorso sulla societas hominum, esprime il concetto biblico con una coincidenza terminologica persino sorprendente: in iis fit, ut aeque quisque altero delectetur ac se ipso (Cic. off. 1.56).

Cicerone menziona nel de officiis soltanto il “secondo comandamento” ma la ‘compattazione’ dell’intero precetto nel “secondo comandamento” si troverà anche in San Paolo (Gal. 5.14) «Omnis enim lex in uno sermone impletur, in hoc: Diliges proximum tuum sicut te ipsum»[46]. Ancora in San Paolo troviamo la affermazione di sapore giuridico del dovere della partecipazione di ciascuno al perseguimento del “bene comune” (l Cor. 12.4 ss. [in part. 7]) Unicuique autem datur manifestatio Spiritus ad utilitatem (il grassetto è mio)[47] mentre Cicerone (di cui è nota la forte religiosità professata proprio in materia di governo della repubblica[48]) esplicita il fondamento divino della relazione societaria umana in leg. 1.23, ove afferma essere prima homini cum deo rationis societas e uniuersus hic mundus una ciuitas communis deorum atque hominum existimanda.

Tale fondamento è un postulato logico. Nel quaderno 2 dell’anno 2000 della rivista MicroMega. Almanacco di filosofia, dedicato interamente al confronto tra credenti e non credenti, il direttore della rivista, Paolo Flores d’Arcais, conclude il proprio intervento (“Dio esiste?”), in difesa delle ragioni dei non credenti, riconoscendone il limite fondamentale: il non-credente risulta intrappolato nel «circolo vizioso per cui praticare la solidarietà effettiva e il primato del tu implica un dovere di sacrificarsi (perché l’uguale dignità non resti retorica) che riesce in genere solo se si ha fede in un Altro (inteso proprio come Dio padre) [...] La pietra d’inciampo per l’ateo è l’incapacità della carità». La affermazione del filosofo Flores d’Arcais (senza l’idea di un Dio Padre comune non è possibile “effettivamente” il sacrificio dell’interesse particolare per giungere a quello generale) significa la impossibilità stessa di concepire un sistema laico/repubblicano (almeno quale è concepito nel Diritto romano) che non comprenda la religione[49] (vedi, infra, § 2.b).

 

 

2. – La ‘laicità dei moderni’

 

2a. – La laicità e la repubblica: un binomio apparentemente comune alla ‘laicità degli antichi’ e alla ‘laicità dei moderni’

 

All’interno della ‘laicità dei moderni’ viene rilevata correntemente e correttamente una serie di differenze di concezione: dalla Costituzione federale degli Stati uniti d’America[50], alla legge francese del 9 dicembre 1905 (nota come legge di «separazione delle Chiese [cattolica, protestante luterana e protestante calvinista, israelita] dallo Stato» e che pone fine al regime concordatario, instaurato da Napoleone nel 1801) sino agli esiti normativi più recenti. Tuttavia, al di là di tutte le differenze connesse, gli specialisti della laicità dei moderni hanno ravvisato due elementi caratterizzanti comuni.

Ovviamente, tali specialisti non parlano espressamente della laicità ‘dei moderni’ ma parlano di laicità ‘tout court’, perché conoscono soltanto questa. La distinzione e la specificazione tra laicità degli antichi e laicità dei moderni sono interne alla tesi qui formulata.

Il primo dei due elementi è il rapporto con la “repubblica”.

La laicità dei moderni si reclama “repubblicana”, cioè la idea di repubblica e la idea di laicità (soprattutto laddove questa ultima è esplicitata costituzionalmente) vengono fatte coincidere anche nel pensiero contemporaneo[51]. La prima formulazione costituzionale della ‘laicità’ è individuata nell’Emendamento I (1789/91: «Il Congresso non potrà fare alcuna legge che stabilisca una religione di Stato o che proibisca il libero esercizio di una religione») della Costituzione federale nordamericana: la prima ‘grande’ costituzione “repubblicana”, contemporanea (1787; come noto, la prima ‘grande’ costituzione repubblicana francese è ‘soltanto’ quella ‘giacobina’ del 1793).

Il rapporto laicità/repubblica della laicità dei moderni è, però, soltanto apparentemente comune al rapporto laicità/repubblica della laicità degli antichi. Anche in materia di ‘repubblica’ vale lo schema della distinzione/contrapposizione tra antichi e moderni. La distinzione/contrapposizione tra la repubblica degli antichi e la repubblica dei moderni è stata operata realmente ed esplicitamente in particolare da Immanuel Kant (Zum ewigen Frieden, 1795, «Erster Definitivartikel zum ewigen Frieden. Die bürgerliche Verfassung in jedem Staate soll republikanisch sein. [...]»). Egli (riprendendo e sviluppando la nozione “rappresentativa” [cioè fondata sulla persona giuridica] della “repubblica” moderna, introdotta dal ‘padre costituente’ nord-americano James Madison in The Federalist [1787/88] esplicitamente contro la nozione “democratica” [cioè societaria] della repubblica antica, la quale è invece fatta propria dalla costituzione francese del ’93) definisce sprezzantemente “sogennante” la repubblica antica (ibidem).

 

2b. – La condizione necessaria della ‘laicità dei moderni’ nella separazione tra lo “Stato” persona giuridica e la cosiddetta “civil society” degli uomini

 

Il secondo elemento caratterizzante la laicità ‘dei moderni’ è il principio/postulato della ‘separazione tra Stato e società civile’; ovverosia separazione tra il “soggetto” interprete esclusivo della utilità pubblica (essenzialmente ridotta all’ordine) e il complesso degli individui perseguenti esclusivamente le proprie utilità private; separazione, dunque, tra una sfera pubblica e una sfera privata, nella quale ultima viene confinata la religione[52].

Anche questo elemento è, evidentemente, nuovo e, anzi, opposto rispetto agli elementi integranti la laicità degli antichi[53]. Qui si evidenziano, con la radice e la natura della contrapposizione della laicità dei moderni alla laicità degli antichi, la radice e la natura stesse della laicità dei moderni.

La categoria di “società civile” è diffusa e ricorrente e su di essa vi è una bibliografia corrispondentemente ampia[54]. La impostazione di questo mio contributo resta, però, circoscritta alla proposizione di qualche idea dal punto di vista del Diritto romano e, ancora una volta, torna utile lo schema della contrapposizione dialettica ‘antichi/moderni’, che consente di confrontare la “civil society” di Adam Ferguson (An Essay on the History of Civil Society, 1767) con la “civilis societas” di Cicerone[55]. Come abbiamo visto[56], il popolo romano, dominus eponimo e necessario della respublica, è la “concreta” societas civium; lo Stato moderno/contemporaneo è, invece, “persona astratta”, altra dall’insieme delle persone soggette al di lui potere e definite con somma improntitudine “civil society”, quando sono meri sudditi e individui.

Ferguson è un esponente dell’Illuminismo e, in effetti, è affermazione corrente sia che «la séparation de l'Etat et de la société n’est vraiment achevée qu’avec la séparation de l’Etat et de la religion» (Barbier, La laïcité: vedi, supra, nt. 52) sia che la separazione di Stato e di società è caratteristica della cultura dell’Illuminismo. Ciò vale, però, soltanto per una parte dell’Illuminismo, quella che prevarrà grazie ai girondini e che sopravvive alla (o grazie alla) Restaurazione ottocentesca. Anche presso gli illuministi, anzi particolarmente presso gli illuministi troviamo sia la dialettica generale e di fondo tra antichi e moderni (ovverosia tra illuministi che assumono a “modello” il “popolo romano” [principalmente il Cittadino Rousseau, Du contrat social, 1762] e illuministi che assumono a “modello” la “costituzione [del regno] inglese” [principalmente il Barone di Montesquieu, De l’esprit des lois, 1748]) sia (in tale quadro) la dialettica specifica in materia di rapporto tra governo e religione.

Robespierre elogia l’illuminista Rousseau (il teorico e propositore massimo della repubblica antica e, con essa della “virtù” e della “religione civile”) come fautore della “rivoluzione politica”, contrapponendolo agli altri illuministi, che invece critica, come fautori della “rivoluzione etico-religiosa”, sul presupposto della antinomia tra le due “rivoluzioni”. Tale antinomia è confermata da Kant, con – però – un opposto giudizio di valore[57].

Questi altri illuministi, i quali predicano la dottrina della separazione dello Stato dalla “società civile” (questa sì “sogennante”) sono dunque ‘soltanto’ gli illuministi seguaci del modello costituzionale inglese, nella cui elaborazione ha svolto una funzione determinante, durante il secolo diciassettesimo, Thomas Hobbes con la dottrina della personificazione dello Stato (il Leviathan, 1651). E’ proprio su questa dottrina che si innesta la serie di dottrine tra loro complementari, le quali senza la base hobbesiana non avrebbero senso: dalla dottrina della separazione tra Stato e Chiesa di John Locke (Essay Concerning Toleration, 1667; A Letter Concerning Toleration, 1689) alla dottrina della separazione tra persona giuridica Stato con il suo apparato rappresentativo e “società civile” di Ferguson, transitando attraverso la dottrina della separazione tra gli uomini in forza del vizio/egoismo privato (ma fonte del bene/benessere collettivo grazie alla sintesi salvifica della “mano invisibile del mercato”: dottrina iniziata da Bernard de Mandeville [Fable of the Bees: or, Private Vices, Public Benefits, 1714] e sistematizzata da Adam Smith [An Inquiry into the Nature and Causes of the Wealth of Nations, 1776] in contrapposizione esplicita alla dottrina della virtù[/carità] civile, elaborata dagli illuministi di modello romano e comunque ‘antico’)[58].

 

2c. – Un inciso a proposito della teoria ‘moderna’ della “moderazione”

 

Devo qui introdurre un inciso tanto piccolo quanto necessario. La nozione di “moderazione”, al centro della costruzione costituzionale montesquieuiana[59] e con la quale – oggi – si auto-qualificano (tanto e tanto fastidiosamente) soprattutto i cattolici impegnati in politica, nasce precisamente in funzione della teoria moderna del vizio/egoismo, contro la virtù/carità della società antica. E’ il vizio, che – per funzionare come principio ispiratore del modo di essere e di operare collettivi – ha bisogno della moderazione. La virtù/carità non ha bisogno di venire moderata sia perché a ciò già provvede la nostra intrinseca finitezza e imperfezione sia perché essa richiede, invece, di essere portata alle conseguenze logiche ultime (Mt 5.48 Estote ergo vos perfecti, sicut Pater vester caelestis perfectus est). La teoria politica e costituzionale della moderazione nasce all’insegna della opzione “moderna” per il vizio/egoismo contro la opzione “antica” per la virtù/carità.

 

2d. – Il paradosso (non) apparente della ‘laicità dei moderni’: lo Stato si vuole laico perché si crede Dio

 

L’avere individuato nel Leviatano di Hobbes il punto di partenza teorico della ‘moderna’ “laicità dello Stato” (come espulsione del fenomeno religioso dall’ambito ‘pubblico’ e della sua circoscrizione all’ambito privato della “civil society”) ci consente di riconoscerne una terza caratteristica, soltanto apparentemente paradossale: che emerge dalla ricostruzione qui brevemente prospettatane, che considero assolutamente importante ma che (pure essendo ben nota) è regolarmente – e, forse, non stranamente – taciuta a proposito della laicità. E’ la caratteristica della natura divina dello Stato moderno.

La “persona”, “uomo artificiale”[60] Leviatano è, secondo Hobbes, un Dio: “mortale”[61] ma certamente ed espressamente Dio.

Anche secondo Hegel (il quale, non per caso, è un assertore della separazione della “società civile” [“bürgerliche Gesellschaft”] dallo Stato) lo Stato è un Dio[62].

Le posizioni dei due filosofi non sono perfettamente uguali, ma – in definitiva – coincidono. Il Leviatano di Hobbes è un idolo, è – con ogni evidenza – il vitello d’oro del Vecchio Testamento, il Dio che gli uomini ‘si fanno’ per ovviare alla invisibilità e al silenzio di Dio[63], proprio mentre Dio (“Colui che è”[64]) vieta, consegnando a Mosé le prime leggi del Decalogo, di “farsi” un altro Dio[65]. Lo Stato di Hegel è il Dio in terra, che gli uomini ‘postulano’ utilizzando gli stessi argomenti filosofici/teologici già di Sant’Anselmo o di San Tommaso (e di Aristotele e Avicenna)[66].

Per entrambi i padri dello Stato-persona moderno, Hobbes ed Hegel, lo Stato è comunque un Dio, un Dio ‘monoteista’ e “geloso” (Es 34.14; cfr. Lc 14.26), il quale, pertanto, non vuole e, anzi, non può tollerare altro Dio all’infuori di sé.

Lo Stato che si crede Dio si vuole – altrettanto abusivamente – laós/popolo (vedi, supra, nota 13). E’ il fenomeno che ho altrove definito la anfibologia del linguaggio giuridico contemporaneo e che, con molte più autorità e durezza Lenin denunziava come caratteristica subdola del linguaggio e del pensiero contro-rivoluzionario (Che fare? 1902, "Conclusione" «Gli eroi di questo periodo sviliscono le “grandi parole”, più che negarle»).

Il paradosso moderno è evidenziato dall’Act of Supremacy di Enrico VIII re d’Inghilterra sulla Chiesa d’Inghilterra, nel 1534.

 

 

Una prima conclusione. – Dall’incontro tra laicità e religiosità degli antichi, nella democrazia della società repubblicana, allo scontro tra laicità e religiosità dei moderni, nel dispotismo dello “Stato” e nella anarchia conflittuale della “civil society”. La utilità dello studio del “modello” antico, risorgente

 

Da questo primo tentativo di applicare lo schema del confronto antichi–moderni al tema della laicità, emerge una possibilità di orientamento tra quei problemi, nel dibattito, che – su di essi – è alimentato da esponenti della cultura, della politica e del diritto e che occupa spazio ampio sui mezzi di comunicazione collettiva.

La ‘laicità degli antichi’ è elemento costitutivo del sistema della res publica, la quale è la “cosa” del popolo, il quale è la società dei cittadini dotati del potere/dovere di determinare la propria utilità comune (la cui attuazione esecutiva è affidata ai loro magistrati/servi) ma all’interno di sistemi più ampi (sovrannazionale e naturale) e in confronto inter-attivo con il potere del Dio, con il quale essi si tengono in contatto mediante le forme peculiari della religio e la – connessa – competenza dei sacerdoti.

La ‘laicità dei moderni’ è elemento costitutivo dell’ordinamento dello Stato (chiamato impropriamente e abusivamente ‘repubblica’) il quale è un persona/Dio artificiale, titolare esclusiva del potere ‘pubblico’ (il cui esercizio è affidato interamente ai rappresentanti di quella persona/Dio) in una relazione ambigua (di servizio mediante – però – il comando dispotico) con l’insieme degli uomini (chiamati “società civile”) esclusivamente capaci di- e impegnati al perseguimento (in maniera anarchica e conflittuale[67]) di interessi individuali/privati, tra i quali si annoverano gli interessi religiosi.

Il confronto tra la laicità degli antichi e la laicità dei moderni ci consente di- e ci obbliga a riconoscere che la laicità dei moderni (la laicità oggi dominante, così da essere considerata l’unica) postula e comporta la riduzione (dal punto di vista politico/giuridico) dei rapporti umani alla competizione inter-individuale, con esclusione della interferenza correttrice da parte non soltanto di ogni potere religioso ma anche di ogni potere realmente democratico. È stato osservato che la cacciata di Dio (annunziata [nel mercato!] come “morte di Dio”: Nietzsche, Die fröhliche Wissenschaft, 1882, Aphorismus 125 “Der tolle Mensch”) produce il fenomeno del cosiddetto “nichilismo giuridico”, le cui caratteristiche sono la perdita, da parte del diritto, di ogni consistenza fondazionale e la sua riduzione a meri forma e procedimento, i cui esiti sono funzionali alle finalità pervasive della economia capitalista[68].

Tale confronto ci obbliga, inoltre, a sapere: sia che la critica della laicità dominate (‘dei moderni’) è possibile in nome non della anti-laicità ma della laicità storicamente altra (‘degli antichi’), fondata sul potere di un popolo di cittadini organizzati per la determinazione e il perseguimento collettivi del bene comune; sia, quindi, che occorre diffidare profondamente di chi critica la laicità dominante e chiede il riconoscimento del ruolo pubblico della religione o delle religioni, però dimenticandosi delle- e/o sganciandosi dalle esigenze, di democrazia e di solidarietà, intimamente connesse tra loro e con quel riconoscimento.

Da questo confronto non vengono direttamente soluzioni ai problemi quotidiani della relazione tra governo della cosa pubblica e religione o religioni. Però, se la premessa e lo sviluppo della riflessione sono corrette, il sistema repubblicano romano antico continua dunque a costituire il “modello”, il cui studio può/deve produrre le necessarie indicazioni dirette.

La “situazione culturale attuale” (caratterizzata dalla “crisi dello Stato” e della “risorgenza” connessa del Diritto romano e delle sue soluzioni[69]) appare matura anche per questo ‘studio’ così esplicitamente orientato. Anche nella materia della laicità, si può e si deve registrare una crisi della concezione dominante (‘moderna’) come esclusione della religione dall’ambito pubblico/statuale e (da parte di voci più o meno autorevoli ma, comunque, ‘insospettabili’) si parla di situazione “post-secolare” e si levano richieste di “deprivatizzazione della religione” e di “dialogo” tra “Stato e religione”[70]. A ciò si deve aggiungere la riscoperta della territorialità del diritto, venuta meno con la affermazione del “nichilismo giuridico”[71].

 

 



 

[I contributi della sezione “Memorie” sono stati oggetto di valutazione da parte dei promotori e del Comitato scientifico del Colloquio internazionale, d’intesa con la direzione di Diritto @ Storia].

 

[Colloquio internazionale La laicità nella costruzione dell’Europa. Dualità del potere e neutralità religiosa, svoltosi in Bari il 4-5 novembre 2010 per iniziativa della Facoltà di Giurisprudenza dell’Università di Bari “Aldo Moro”, del Centre d’études internationales sur la romanité Université de La Rochelle e dell’Unità di ricerca “Giorgio La Pira” CNR – Università di Roma “La Sapienza”]

 

[1] Almeno nella lingua francese; così secondo il dizionario Robert, sempre secondo il quale, la comparsa della parola ‘laïcité’ è preceduta, nel 1870, dalla parola ‘laïcisation’.

 

[2] A proposito del venire meno del monopolio pontificale della elaborazione del ius civile, con il publice profiteri nel 254/3 a.C. ad opera del primo pontifex maximus plebeo Tiberio Coruncanio.

 

[3] Ivi, in particolare, P. Catalano, “Elementi romani della cosiddetta laicità”; vedi anche P. Catalano, P. Siniscalco, “Laicità tra diritto e religione. Documento introduttivo del XIV Seminario ‘Da Roma alla Terza Roma’” in Index, 23, 1995, 461 ss. Cfr. G. Lombardi, “L’editto di Milano del 313 e la laicità dello Stato” in Studia et Documenta Historiae et Iuris, 1984; vedi anche Id., Persecuzioni laicità libertà religiosa. Dall’Editto di Milano alla “dignitatis humanae, Roma 1991.

 

[4] La nota definizione della ‘laicità’, data nel 1936 dal giurista e ministro della educazione nazionale nel governo postbellico di De Gaulle, René Capitant, «Conception politique impliquant la séparation de la société civile et de la société religieuse, l’Ėtat n’exerçant aucun pouvoir religieux et les Ėglises aucun pouvoir politique» si adatta soltanto a quella che qui individuo – vedi, infra, § 2.b come ‘laicità dei moderni’.

 

[5] Per i riferimenti di fonti e di dottrina sul tema della attualità del Diritto romano, nel contesto del confronto tra “antichi” e “Moderni”, vedi G. Lobrano, Res publica res populi. La legge e la limitazione del potere, Torino 1996; Id., “Dell’homo artificialis deus mortalis dei Moderni comparato alla societas degli Antichi” in A. Loiodice - M. Vari, a cura di, Giovanni Paolo II. Le vie della giustizia. Itinerari per il terzo millennio, Roma 2003, 161–166; Id., “Città, municipi, cabildos” in Roma e America. Diritto romano comune [rivista] n. 18, anno 2004 [ma pubblicata nel 2005] 169-191 e in S. Schipani, a cura di, Mundus novus. America. Sistema giuridico latinoamericano [Atti Congresso internazionale, Roma 26–29 novembre 2003] Roma 2005, 169-191; Id., “Dottrine della ‘inesistenza’ della costituzione e “modello” del diritto pubblico romano” in L. Labruna, diretto da, e Maria Pia Baccari - C. Cascione, a cura di, Tradizione romanistica e Costituzione, tomo primo [= «Cinquanta anni della Corte costituzionale della Repubblica italiana»] Napoli 2006, 321-363; Id., “‘Modello romano’ e ‘costituzionalismo latino’” in Teoria del diritto e dello Stato. Rivista europea di cultura e scienza giuridica, 2007 N. 2, Potere negativo e Costituzioni bolivariane, 222-277; Id., “Guerra Pace e ‘forme di Stato’ con un riferimento alla prospettiva di Giorgio La Pira, Professore di Diritto romano” in J.L. Cuevas Gayosso, compilador, Estudios en Homenaje a Mercedes Gayosso y Navarrete, Xalapa 2009, 331-352.; Id., “Del Defensor del Pueblo al Tribuno de la Plebe: regreso al futuro. Un primer bosquejo de interpretación histórico-sistemática. Con atención particular al enfoque bolivariano” in P.P. Onida - E. VALDÉS Lobán, a cura di, II Seminario en el Caribe Derecho Romano y Latinidad: Identidad e Integración Latinoamericana y Caribeña – Memorias – “Patria es humanidad”, José Martí [atti del convegno La Habana, 12 al 14 de febrero de 2004 - edición por Facoltà di Giurisprudenza della Università di Sassari, Italia – Universidad Michoacana de San Nicolás de Hidalgo, México – Universidad de Pinar del Río, Cuba] Napoli 2011, 253-303.

 

[6] Vedi M. Finley, Democracy Ancient and Modern, 1972, trad. it. La democrazia degli antichi e dei moderni, Milano 1992.

 

[7] Vedi F. Hinard, édités par, Dictatures (actes de la Table Ronde réunie à Paris les 27 et 28 février 1984) Paris 1988; cfr. G. Meloni, Note in tema di dittatura (degli ‘antichi’ e dei ‘moderni’), Sassari 1981.

 

[8] Vedi G. Crifò, Civis. La cittadinanza tra antico e moderno, Roma-Bari 2000.

 

[9] Sulla comparsa, nel lessico romano, dell’uso giuspubblicistico del verbo marinaresco gubernare, vedi C.M. Moschetti, Gubernare navem. Gubernare rem publicam. Contributo alla storia del diritto marittimo e del diritto pubblico romani, Milano 1967.

Per i sacerdoti uso la espressione ‘funzione’ perché nutro perplessità circa la legittimità dell’uso della parola ‘potere’ a proposito delle competenze sacerdotali romane, in assenza di una riflessione – nella dottrina – sulla specificità – appunto – del loro potere o poteri (cfr., infra, nt. 25 circa la terminologia imperiale). Credo invece sicuramente utilizzabile la parola ‘potere’ per indicare la facoltà auspicale comune ai singoli cittadini, ai magistrati e agli stessi sacerdoti (vedi F. Vallocchia, Collegi sacerdotali ed assemblee popolari nella Repubblica romana, Torino 2008, 6, che riprende e sviluppa tesi di Catalano).

 

[10] Vedi P. Catalano, “La divisione del potere in Roma repubblicana” in P. Catalano - G. Lobrano, Il problema del potere in Roma repubblicana, Sassari 1974, 12 e, quindi, in Studi in Onore di Giuseppe Grosso, VI, Torino 1974. Il passo di Ulpiano nel Digesto di Giustiniano è citato, infra, alla nt. 31.

 

[11] Occorre precisare “sul popolo o sulla plebe” (vedi, ad esempio, la definizione della ‘legge’ fornita dal giurista Ateio Capitone, citata infra nel § 1.d). Non è, però, qui la sede per entrare nel merito e rinvio ancora a P. Catalano, “La divisione del potere in Roma repubblicana”, cit., prgf. 5 «Dualismi tra il “tutto” e le “parti” nelle formule giuridico-religiose: populus plebesque» e al mio Il potere dei tribuni della plebe, Milano 1983.

 

[12] Vedi, infra, § 1.d.

 

[13] Vedi P. Catalano, Populus Romanus Quirites, Torino 1974, 41 ss., il quale critica Theodor Mommsen (il precursore della “Staatslehre” contemporanea) che insegnava: “Populus ist der Staat attribuendo erroneamente ai Romani (e alla loro scienza giuridica) la invenzione e la utilizzazione della categoria di Stato = persona giuridica.” (Th. Mommsen, Römisches Staatsrecht III 13, Graz 1952; r.a. 3a ed. Leipzig 1887; cf. F. Nietzsche, Also sprach Zarathustra, Die Reden Zarathustra, Vom neuen Götzen (1883) «Irgendwo gibt es noch Völker und Herden, doch nicht bei uns, meine Brüder: da gibt es Staaten. Staat? Was ist das? Wohlan! Jetzt tut mir die Ohren auf, denn jetzt sage ich euch mein Wort vom Tode der Völker. Staat heißt das kälteste aller kalten Ungeheuer. Kalt lügt es auch; und diese Lüge kriecht aus seinem Munde: »“Ich, der Staat, bin das Volk”» [Id., Werke in drei Bänden. Band 2, Herausgegeben von Karl Schlechta. München: Hanser, 1954, 313]). Si noti che lo stesso Mommsen, sempre nel suo Römisches Staatsrecht, esclude la trattazione dei sacerdozi, salvo il pontificato massimo, il quale, però, è inserito nella sezione dedicata alla magistrature, in un paragrafo intitolato “I poteri magistratuali del pontificato massimo”.

 

[14] Vedi ancora P. Catalano, “La divisione del potere in Roma repubblicana” cit., 21. ss., in particolare 26 e Id., Populus Romanus Quirites, cit., 97 ss..

 

[15] Sul rapporto tra popolo in sua potestate e magistrati in potestate populi, vedi Liv. 9.9.4; Varr. ling. 9.1.6; Cic. orat. 2.167; Cic. Planc. 62; Cic. off. 1.124; D. 50.16.215 [Paul.]; cfr. Gai.  2.86 ss.; Just. inst. 2.9; Paul. D. 45.1.126.2; C. 4.27.1 sulla possibilità di acquistare per eos, quos in potestate manu mancipiove habemus.

Sulla natura “concreta” del popolo, vedi ancora P. Catalano, “La divisione del potere in Roma repubblicana”, cit., 19 s.

 

[16] In proposito, vedi ora F. Vallocchia, Collegi sacerdotali ed assemblee popolari nella Repubblica romana, cit., passim.

 

[17] Si noti che Pietro Ellero attribuisce ai «germani antichi e moderni» la concezione del «governo come ente, che sta da sé», come «creazione estranea [al popolo] od una podestà, che sopraggiunge di proprio moto, e che ottiene l'adesione volontaria o involontaria de' sudditi»; rivendica, invece, agli «italo-greci» la concezione del popolo come «naturale compagnia», «signore di sé stesso da cui emana [...] il governo, che gli deve ognora restare ligio» [P. Ellero, La tirannide borghese, 2a ed., Bologna 1879, 116 s., 148 s. e 241 ss.], precisando, inoltre, che «nella elezione de’ principi e nella deliberazione delle leggi ebbe sempre parte il popolo, almeno ne’ comizi curiati: poiché, secondo la ragione italica, sino da' più vetusti tempi non è le­gittimo altro impero, se non questo» [P. Ellero, La sovranità popolare, Bologna 1886, 34].

 

[18] Vedi, infra, nt. 21.

 

[19] Per indicazioni recenti su dottrina e fonti, vedi F. Sini, “Religione e sistema giuridico in Roma repubblicana” in Diritto @ Storia. Rivista internazionale di Scienze Giuridiche e Tradizione Romana, n. 3 – maggio 2004 = http://www.dirittoestoria.it/3/Memorie/Organizzare-ordinamento/Sini-Religione-e-sistema-giuridico.htm .

 

[20] Si veda, ad es., Cic. Catil. 3.21 hanc urbem deorum immortalium nutu ac potestate administrari; Phil. 5.7 Iove enim tonante cum populo agi non esse fas quis ignorat?; 5.10 omnes censeo per vim et contra auspicia latas iisque legibus populum non teneri; nat. deor. 2.8: … intellegi potest eorum imperiis rem publicam amplificatam qui religionibus paruissent. Et si conferre volumus nostra cum externis, ceteris rebus aut pares aut etiam inferiores reperiemur, religione, id est cultu deorum, multo superiores; etc.

 

[21] Vedi P. Catalano, “Una civitas communis deorum atque hominum: Cicerone tra temperatio reipublicae e rivoluzioni” in Studia et Documentae Historiae et Iuris, LXI – 1995, 723 ss.

 

[22] Luigi Labruna ha sviluppato una serie di ragionamenti a partire da questo passo ciceroniano: L. Labruna, Civitas quae est constitutio populi e altri studi di storia costituzionale romana, Napoli 1999.

 

[23] Su cui, vedi G. Grosso, Premesse generali al corso di Diritto romano, 4a ed., Torino 1960, 91 s.

 

[24] Su cui, vedi P. Catalano, Contributi allo studio del diritto augurale, Torino 1960, e Id., Linee del sistema sovrannazionale romano, Torino 1965.

 

[25] Nov. 6.praef. Maxima quidem in hominibus sunt dona dei a superna collata clementia sacerdotium et imperium [nel testo greco “ierosýne te kaì basileía”, il grassetto è mio], illud quidem divinis ministrans, hoc autem humanis praesidens ac diligentiam exhibens; ex uno eodemque principio utraque procedentia humana exornant vitam. Ideoque nihil sic erit studiosum imperatoribus, sicut sacerdotum honestas, cum utique et pro illis ipsis inculpabile sit undique et apud deum fiducia plenum. imperium autem recte et competenter exornet traditam sibi rempublicam, erit consonantia [nel testo greco = “sinfonía”, il grassetto è mio] quaedam bona, omne quicquid utile est humano conferens generi. Nos igitur maximam habemus sollicitudinem circa vera dei dogmata et circa sacerdotum honestatem, quam illis obtinentibus credimus quia per eam maxima nobis dona dabuntur a deo, et ea, quae sunt, firma habebimus, et quae nondum hactenus venerunt, adquirimus. Per approfondimenti, rinvio agli atti del “XIV Seminario da Roma alla Terza Roma”, già citato supra, nella “Premessa”.

 

[26] Vedi la raccolta di scritti di F. Sini, Sua cuique civitati religio. Religione e diritto pubblico in Roma antica, Torino 2001.

 

[27] Mi pare degno di nota la proposta recente di tornare allo schema agostiniano/gelasiano, avanzata da Benjamin Barber (“Se l'islam sceglie la democrazia” in La Repubblica, 12 giugno 2008, 29); Barber è l’autore del noto saggio Jihad vs. McWorld, 1995, tr. it. di D. Montaldo, Guerra santa contro McMondo, ultima edizione Milano 2002.

Circa le implicazioni del trattato di Westfalia sul rapporto diritto-religione, vedi E.-W. Böckenförde, “Die Entstehung des Staates als Vorgang der Säkularisation” in Säkularisation und Utopie, Ebracher Studien. Festschrift für Ernst Forsthoff zum 65. Geburtstag, Stuttgart 1967, 75 ss.

 

[28] Sulla tesi della laicità romana come superamento della confusione primitiva tra religione e diritto, vedi supra, nella “Premessa”, la citazione di Fritz Schulz; sulla obliterazione dei sacerdozi nel “römisches Staatsrecht” di Mommsen, vedi, supra, la nt. 13.

 

[29] Sarebbe, addirittura, la unica “invenzione” vera del costituzionalismo democratico contemporaneo: J.-J. Chevallier, “Le mot et la notion de gouvernement chez Rousseau” in Aa.Vv., Études sur le Contrat social, cit., 311: «Que Rousseau ait tout enflammé mais rien "inventé" selon un mot de Mme de Staël, est faux, tout au moins en matière de politique [...] La distinction du souverain et du gouvernement [...] constitue une invention de première grandeur».

 

[30] Cic. rep. 1.39; citato supra, nel § 1.b.

 

[31] D. 1.1.1.[Ulp.]2. Huius studii duae sunt positiones, publicum et privatum. Publicum ius est quod ad statum rei Romanae spectat, privatum quod ad singulorum utilitatem: sunt enim quaedam publice utilia, quaedam privatim. Publicum ius in sacris, in sacerdotibus, in magistratibus constitit. Privatum ius tripertitum est: collectum etenim est ex naturalibus praeceptis aut gentium aut civilibus.

 

[32] Gai. 3.154a. Est autem aliud genus societatis proprium ciuium Romanorum. olim enim mortuo patre familias inter suos heredes quaedam erat legitima simul et naturalis societas quae appellabatur ercto non cito, id est dominio non diuiso: erctum enim dominium est, unde erus dominus dicitur: ciere autem diuidere est: unde caedere et secare [et diuidere] dicimus. 154b. Alii quoque qui uolebant eandem habere societatem, poterant id consequi apud praetorem certa legis actione. in hac autem societate fratrum ceterorumue, qui ad exemplum fratrum suorum societatem coierint, illud proprium erat, [unus] quod uel unus ex sociis communem seruum manumittendo liberum faciebat et omnibus libertum adquirebat: item unus rem communem mancipando eius faciebat, qui mancipio accipiebat; vedi, da ultimo, P.P. Onida, “La causa della societas fra Diritto romano e Diritto europeo” in Diritto @ Storia, N. 5 – 2006 – Memorie = http://www.dirittoestoria.it/5/Memorie/Onida-Causa-societas-diritto-romano-diritto-europeo.htm ; Id., Fraternitas e societas: i termini di un connubio” in Diritto @ Storia N. 6 – 2007 – Tradizione Romana = http://www.dirittoestoria.it/6/Tradizione-romana/Onida-Fraternitas-e-societas.htm (ivi indicazioni ulteriori sulla molta dottrina).

 

[33] Vedi Giovanna Coppola Bisazza, Dallo iussum domini alla contemplatio domini. Contributo allo studio della storia della rappresentanza. Corso di diritto romano, Milano 2008, 60 ss. § IV.4 “L'uso sinonimico di iussum e mandatum”; cfr.: Margherita Penta, “Il diritto societario nel diritto romano e nel diritto intermedio” in Rivista online. Scuola superiore dell’economia e delle finanza, anno I, n. 11, nov. 2004, 8 s. «I soci si riunivano in assemblea […] Ai magistri spettava l’amministrazione della società, ma non erano necessariamente soci»; Maria Salazar Revuelta, Evolución histórica-jurídica del condominio en el derecho romano, Jaén 2003, la quale, nella parte seconda della monografia (parte dedicata al “derecho clásico”) tratta gli atti di “disposición jurídica pro parte”, di “disposición jurídica in solidum” e di “disposición material” del bene comune.

 

[34] D. 50.4.18.[Aur. Arc. Char.]13 Defensores quoque, quos Graeci syndicos appellant, et qui ad certam causam agendam vel defendendam eliguntur, laborem personalis muneris adgrediuntur.

 

[35] D. 3.4.1.[Gai.]1 Quibus autem permissum est corpus habere collegii societatis sive cuiusque alterius eorum nomine, proprium est ad exemplum rei publicae habere res communes, arcam communem et actorem sive syndicum, per quem tamquam in re publica, quod communiter agi fierique oporteat, agatur fiat. Circa la straordinaria omologia, su base societaria, tra collegia privati, municipia e res publica Romana, vedi già Ch. Daremberg – Edm. Saglio, sous la direction de, Dictionnaire des antiquités grecques et romaines, Paris 1877‑1919 (ora consultabile integralmente su ‘internet’) III.2, s.v. “Lex collegii” 1110 ss.

Circa la continuità di ius privatum e ius publicum nella materia consortile, vedi inoltre C. Fadda, “Consortium, collegia magistratuum, communio” in Studi Brugi, Palermo 1910, 139 ss.; S. Perozzi, “Un paragone in materia di comproprietà” in Mélanges Girard, Paris 1912, II, 331 ss.; P. Frezza, “L’istituzione della collegialità in diritto romano” in Studi Solazzi, Napoli 1949, 507 ss; cfr. B. Biondi, “Comunione. Diritto romano” in NNDI, III, 3° ed., Torino 1957 [rist. 1959] s.v.

 

[36] Occorre qui leggere almeno tutto de officiis, 1.17, interamente dedicato ai diversi gradi della società umana; io mi limiterò a riportarne, di seguito, qualche brano.

 

[37] Vedi, in particolare, Cic. off. 1.54 (riportato nella nota seguente).

 

[38] Cic. off. 1.53 Gradus autem plures sunt societatis hominum. Ut enim ab illa infinita discedatur, proprior est eiusdem gentis, nationis, linguae, qua maxime homines coniunguntur. Interius etiam est eiusdem esse civitatis; multa enim sunt civibus inter se communia, forum, fana, porticus, viae, leges, iura, iudicia, suffragia, consuetudines praeterea et familiaritates multisque cum multis res rationesque contractae. Artior vero colligatio est societatis propinquorum; ab illa enim inmensa societate humani generis in exiguum angustumque concluditur. 54. Nam cum sit hoc natura commune animantium, ut habeant libidinem procreandi, prima societas in ipso coniugio est, proxima in liberis, deinde una domus, communia omnia; id autem est principium urbis et quasi seminarium rei publicae. Sequuntur fratrum coniunctiones, post consobrinorum sobrinorumque, qui cum una domo iam capi non possint, in alias domos tamquam in colonias exeunt. Sequuntur conubia et affinitates ex quibus etiam plures propinqui; quae propagatio et suboles origo est rerum publicarum. Sanguinis autem coniunctio et benivolentia devincit homines [et] caritate.

 

[39] Quint. decl. 19.7 coniugali societate cuncta miscentur ; vedi G. Lobrano, Uxor quodammodo domina: riflessioni su Paul. D. 25,2,1, Sassari 1989, Cap. II “Fonti sulla natura ‘comunitaria’ del matrimonio romano”, in part. 62.

 

[40] Nel senso che quella e questo abbracciano tutti gli uomini mentre la societas civium e il ius civile abbracciano tutti i membri di una medesima civitas: Cic. off. 3.69 Hoc quamquam video propter depravationem consuetudinis neque more turpe haberi neque aut lege sanciri aut iure civili, tamen naturae lege sanctum est. Societas est enim (quod etsi saepe dictum est, dicendum est tamen saepius), latissime quidem quae pateat, omnium inter omnes, interior eorum, qui eiusdem gentis sint, propior eorum, qui eiusdem civitatis. Itaque maiores aliud ius gentium, aliud ius civile esse voluerunt, quod civile, non idem continuo gentium, quod autem gentium, idem civile esse debet. Sed nos veri iuris germanaeque iustitiae solidam et expressam effigiem nullam tenemus, umbra et imaginibus utimur. Eas ipsas utinam sequeremur! feruntur enim ex optimis naturae et veritatis exemplis.

 

[41] Cic. rep. 1.49 cum lex sit civilis societatis vinculum, ius autem legis aequale, quo iure societas civium teneri potest, cum par non sit condicio civium? si enim pecunias aequari non placet, si ingenia omnium paria esse non possunt, iura certe paria debent esse eorum inter se qui sunt cives in eadem re publica. quid est enim civitas nisi iuris societas civium?

 

[42] Cic. off. 1.57 omnium societatum nulla est gravior, nulla carior quam ea, quae cum re publica est uni cuique nostrum.

 

[43] D. 1.1.1.[Ulp.]1. Cuius merito quis nos sacerdotes appellet: iustitiam namque colimus et boni et aequi notitiam profitemur, aequum ab iniquo separantes, licitum ab illicito discernentes, bonos non solum metu poenarum, verum etiam praemiorum quoque exhortatione efficere cupientes, veram nisi fallor philosophiam, non simulatam affectantes; D. 1.1.10.[Ulp]2. Iuris prudentia est divinarum atque humanarum rerum notitia, iusti atque iniusti scientia.

 

[44] P.P. Onida, “Il divieto dei sacrifici di animali nella legislazione di Costantino. Una interpretazione sistematica” in F. Sini - P.P. Onida, a cura di, Poteri religiosi e istituzioni: il culto di San Costantino Imperatore tra Oriente e Occidente, Torino 2003, osserva nelle “Conclusioni”: «Il rifiuto personale di Costantino dei sacrifici di animali ed il loro divieto nella legislazione costantiniana non sono soltanto il prodotto della adesione alla religione cristiana, ma sono piuttosto il frutto, a sua volta fecondo, dell’incontro e della combinazione ‘mediterranei’ di culture distinte, non opposte: la cultura filosofico-giuridica greco-romana e quella teologica giudaico-cristiana». Seppure in prospettive diverse, è utile vedere le raccolte di scritti su La filosofia greca e il diritto romano (Colloquio italo-francese, Roma 14-17 aprile 1973) Accademia Nazionale dei Lincei, 2 vol., Roma 1976-77, e su Diritto romano e identità cristiana. Definizioni storico-religiose e confronti interdisciplinari (a cura di A. Saggioro) Roma 2005.

 

[45] Aristotele, Politica, I.1252a §1 Ἐπειδὴ πᾶσαν πόλιν ὁρῶμεν κοινωνίαν τινὰ οὖσαν καὶ πᾶσαν κοινωνίαν ἀγαθοῦ τινος ἕνεκεν συνεστηκυῖαν (τοῦ γὰρ εἶναι δοκοῦντος ἀγαθοῦ χάριν πάντα πράττουσι πάντες), δῆλον ὡς πᾶσαι μὲν ἀγαθοῦ τινος στοχάζονται, μάλιστα δὲ καὶ τοῦ κυριωτάτου πάντων ἡ πασῶν κυριωτάτη καὶ πάσας περιέχουσα τὰς ἄλλας. Αὕτη δ' ἐστὶν ἡ καλουμένη πόλις καὶ ἡ κοινωνία ἡ πολιτική. [Ogni pólis è evidentemente una koinonía ; e ogni koinonía non si forma che in vista di qualche bene, perché gli uomini, chiunque essi siano, non fanno mai niente se non in vista di ciò che appare loro essere buono. Evidentemente tutte le koinoníai mirano ad un bene particolare, e il più importante di tutti i beni deve essere l’oggetto della più importante <delle koinoníai>, di quella che racchiude tutte le altre; ed essa la si chiama precisamente pólis e koinonía politiké.]; cfr. VII. 1328a 8. In proposito: E. Berti, Società civile – Società politica, Roma 1993; Id., Aristotele nel novecento, Bari 1992. Aristotele appare seguire la dottrina di Socrate e di Platone: Platone, Politeia (= Repubblica) 4.420a «...noi pensiamo di plasmare la pólis felice non prendendo pochi [individui] separatamente e rendendoli tali [lett. “ponendoli come tali”], ma considerandola tutta intera».

 

[46] Cfr. anche A.M. Scalabrin, “Essenza dell’Islam. Il significato di Islam. Amare il prossimo tuo come te stesso per la causa di Allah. 10 versetti e 2 hadith”, nel sito “Islam Italia” (www.islamitalia.it) 31 ottobre 2001.

 

[47] 4 Divisiones vero gratiarum sunt, idem autem Spiritus; 5 et divisiones ministrationum sunt, idem autem Dominus; 6 et divisiones operationum sunt, idem vero Deus, qui operatur omnia in omnibus. 7 Unicuique autem datur manifestatio Spiritus ad utilitatem. Cfr., supra, le ntt. 30 e 31 (e, ivi, il rinvio ulteriore) circa l’uso della parola utilitas da parte di Cicerone.

 

[48] Cic. dom. 1: Cum multa divinitus, pontifices, a maioribus nostris inventa atque instituta sunt, tum nihil praeclarius quam quod eosdem et religionibus deorum immortalium et summae reipublicae praeesse voluerunt, ut amplissimi et clarissimi cives rem publicam bene gerendo religiones, religionibus sapienter interpretando rem publicam conservarent; Id. nat. deor. 2.8: C. Flaminium Coelius religione neglecta cecidisse apud Transumenum scribit cum magno rei publicae vulnere. Quorum exitio intellegi potest eorum imperiis rem publicam amplificatam qui religionibus paruissent. Et si conferre volumus nostra cum externis, ceteris rebus aut pares aut etiam inferiores reperiemur, religione, id est cultu deorum, multo superiores. In proposito, vedi più ampiamente F. Sini, “Religione e sistema giuridico in Roma repubblicana”, cit., passim.

 

[49] Si noti che il Catechismo della Chiesa Cattolica rinvia a Cicerone a proposito dello ius naturale: parte III, sez. I, cap. III, art. 1 “La legge morale” prgf. 1956: Presente nel cuore di ogni uomo e stabilita dalla ragione, la legge naturale è universale nei suoi precetti e la sua autorità si estende a tutti gli uomini. Esprime la dignità della persona e pone la base dei suoi diritti e dei suoi doveri fondamentali: « Certamente esiste una vera legge: è la retta ragione; essa è conforme alla natura, la si trova in tutti gli uomini; è immutabile ed eterna; i suoi precetti chiamano al dovere, i suoi divieti trattengono dall'errore. [...] È un delitto sostituirla con una legge contraria; è proibito non praticarne una sola disposizione; nessuno poi può abrogarla completamente ». [(186) Marco Tullio Cicerone, De re publica, 3, 22, 33: Scripta quae manserunt omnia, Bibliotheca Teubneriana fasc. 39, ed. K. Ziegler, (Leipzig 1969) p. 96.]

 

[50] Vedi, infra, in questo stesso paragrafo.

 
[51] Si vedano, in proposito, la monografia di G. Coq, Laïcité et République. Le lien nécessaire, Paris 1995 e, più recentemente, il rapporto unanime di una commissione di 19 membri “de réflexion du principe de laïcité”, installata dal Presidente della Repubblica francese e coordinata dal ‘Médiateur de la République’, Bernard Stasi, Laïcité et République, pubblicato a Parigi nel 2004.

 

[52] Cito, a tale proposito, due autori Maurice Barbier ed Emile Poulat, i quali hanno dedicato saggi vari e monografie a questo tema (M. Barbier, La laicité, Paris 1996; Id., La modernité politique [“Préface” de M. Gauchet], Paris 2000; E. Poulat, La solution laïque et ses problèmes. Faits et interpretations, Paris 1997; Id., Notre laïcité publique, Paris 2003) acquistandovi un ruolo di autori di riferimento. Per un aggiornamento della dottrina in materia di laicità, vedi anche, da ultimo, F. Fede – S. Testa Bappenheim, Dalla laïcité di Parigi alla nominatio Dei di Berlino, passando per Roma, Milano 2007.

 

[53] Vedi, supra, § 1.d.

 

[54] Vedi, ad esempio, R. Otayek, coordination, Démocratie et société civile. Une vue du Sud, Louvain-La-Neuve 2002 [= numero di Revue internationale de politique comparée, Volume 9, n. 2]; F. Lerin - P. Sané, éditorial, Société civile mondiale. La montée en puissance, Montpellier 2001 [= numero di Courrier de la planète, n. 63]; P. Donati, a cura di, Il welfare della società civile, Milano 2000 [= numero di Sociologia e politiche sociali, vol. 3,1]; R. Markner,  “‘Civil society’ o ‘bürgerliche Gesellschaft’. Hegel, Marx e la sinistra” (tr. di Tristana Dini) in Filosofia politica, Bologna, 13, 1999, 379-95; Anette Emtmann, Die Zivilgesellschaft zwischen Revolution und Demokratie: die "samtene Revolution" im Licht von Antonio Gramscis Kategorien der "società civile", Berlin-Hamburg 1998; Th. Janoski, Citizenship and civil society: a framework of rights and obligations in liberal, traditional, and social democratic regimes, Cambridge 1998; J.C. Alexander - S. Giner, I paradossi della societa civile. Altruismo sociale e politeia democratica [“Introduzione” di M. Diani] Roma 1996; J.L. Cohen - A. Arato, Civil Society and Political Theory, Cambridge - Massachussettes 1992; R. Botta, Manuale di diritto ecclesiastico. Valori religiosi e società civile, Torino 1998; D. Barillaro, Società civile e società religiosa, Milano 1981; G. Marini, Struttura e significati della società civile hegeliana” in C. Cesa, a cura di, Il pensiero politico di Hegel, Bari 1979, 59-82.

 

[55] Vedi, supra, nt. 41.

 

[56] Supra, §§ 1.b-d.

 

[57] I. Kant, Beantwortung der Frage: Was ist Aufklärung? (1783) «Durch eine Revolution wird vielleicht wohl ein Abfall von persönlichem Despotism und gewinnsüchtiger oder herrschsüchtiger Bedrückung, aber niemals wahre Reform der Denkungsart zu Stande kommen»; vedi ancora Anna Maria Battista, Robespierre giudica Rousseau e l’illuminismo ” in Storia e politica, XVII, 1976, fasc. 1. Sul tema, più recentemente, vedi J.-M. Gros, “Bayle et Rousseau: société d’athées et/ou religion civile” in G. Paganini, E. Tortarolo, a cura di, Pluralismo e religione civile. Una prospettiva filosofica (Atti del convegno di Vercelli, 24-25 giugno 2001) Milano 2004.

 

[58] E tutt’ora in auge; vedi, recentemente, Ayn Rand [= Alyssa Rosenbaum], The Virtue of Selfishness, 1964, tr. it. a cura di N. Iannello, La virtù dell’egoismo, Macerata 1999: raccolta di articoli sui diritti individuali ed il ruolo dello Stato in una “società libera”. Queste idee sono coltivate dall’“Ayn Rand Institute” e riprese dagli economisti ‘al potere’ come Alan Greenspan.

 

[59] Su cui, da ultimo: D. Fisichella, Montesquieu e il governo moderato, Roma 2009, con un giudizio di valore positivo che non condivido.

 

[60] Th. Hobbes, Leviatano, 1651, trad. it., Roma-Bari 1974, “Introduzione” «gran Leviatano, chiamato uno Stato (civitas), il quale non è che un uomo artificiale».

 

[61] Th. Hobbes, Leviatano, cit., parte II cap. XVII: «grande Leviatano, o piuttosto […] dio mortale, al quale dobbiamo, sotto il Dio immortale, la nostra pace e la nostra difesa».

 

[62] G.W.F. Hegel, Grundlinien der Philosophie des Rechts (Naturrecht und Staatswissenschaft im Grundrisse) 1821 (Id., Werke, Band 7, Frankfurt a. M. 1979) Dritter Teil “Die Sittlichkeit” Dritter Abschnitt “Der Staat” § 258 Zusatz «Es ist der Gang Gottes in der Welt, daß der Staat ist; sein Grund ist die Gewalt der sich als Wille verwirklichenden Vernunft. Bei der Idee des Staates muß man nicht besondere Staaten vor Augen haben, nicht besondere Institutionen, man muß vielmehr die Idee, diesen wirklichen Gott, für sich betrachten». Cfr., ibidem, Dritter Teil “Die Sittlichkeit” Zweiter Abschnitt “Die bürgerliche Gesellschaft” (per la bibliografia: R. Markner, “«Civil society» o «bürgerliche Gesellschaft»: Hegel, Marx e la sinistra” in Filosofia politica, a. XIII n. 3, dicembre 1999, 379 ss.).

La dottrina hobbesiana, secondo cui lo Stato è Dio, si perfeziona in Hegel. Secondo Hegel, la sovranità dello Stato deriva dallo Stato stesso, che ha in sé la propria ragione d’essere. Vedi A. Ruge, “Die hegelsche Rechtsphilosophie und die Politik unserer Zeit” in Deutsche Jahrbücher für Wissenschaft und Kunst (Aug. 1842) 755 ss.; cfr. F. Rosenzweig, Hegel und der Staat I (1770-1806), München - Berlin 1920, trad. it., ed. Il Mulino 1976; N. Bobbio, “Hegel e il diritto” in F. Tessitore, a cura di, Incidenza di Hegel, Napoli 1970, 217 ss.; Id., Studi hegeliani. Diritto, società civile, stato, Torino 1981; L. Weiss, Religion und Staat in der Philosophie G. W. F. Hegels, Wien 2004 (sul ‘sito internet’ “www.sammelpunkt.philo.at”) nt. 475.

La dottrina della divinità dello Stato si trasferisce, quindi, da Hegel ai vari ‘hegeliani’. E’ famosa la frase del fervente hegeliano socialista tedesco, Ferdinand Lassalle (Breslavia 1825 - Ginevra 1864, partecipe della rivoluzione del 1848, autore del Programma operaio [1862], fondatore della Associazione generale dei lavoratori tedeschi nel 1863, primo nucleo del Partito socialdemocratico): «Staat ist Gott» (vedi G. Mayer, Lassalle und die Monarchie, Berlin 1927, 43).

 

[64] Es 3.14 Dio disse a Mosè: “Io sono colui che sono!”.

 

[65] Es 20.3-5 Non avrai altri dèi di fronte a me. Non ti farai idolo né immagine alcuna. Non ti prostrerai davanti a loro e non li servirai.

 

[66] Per una rapida ricostruzione delle ‘prove della esistenza di Dio’, vedi G. Samek Lodovici, L’esistenza di Dio, Milano 2000; cfr. J.-M. Rouvière, Brèves méditations sur la création du monde, Parigi 2006.

Come è noto, secondo Carl Schmitt (Politische Theologie. Vier Kapitel zur Lehre von der Souveränität, 1922) i principali concetti politici contemporanei sono in realtà categorie teologiche secolarizzate.

 

[67] Sulla natura della societas come strumento giuridico per la costruzione di rapporti di pace, in luogo della semplice moderazione (cfr., supra, § 1.c) del conflitto, vedi G. Lobrano, “Guerra, pace e ‘forme di Stato’, con un riferimento alla prospettiva di Giorgio La Pira, professore di Diritto romano”, cit.

 

[68] M. Barcellona, Critica del nichilismo giuridico, Torino 2006; G. Bianco, “Nichilismo giuridico e territorio” in UTET Giuridica, 2010, s.v.

 

[69] Vedi, supra, nt. 1, in particolare G. Lobrano, “Dottrine della ‘inesistenza’ della costituzione e “modello” del diritto pubblico romano”, cit. e Id., “‘Modello romano’ e ‘costituzionalismo latino’”, cit.

 

[70] Su questo argomento, vedi, da ultimo, F. Mazzuccato, “Ragione e religione nell’ultimo Habermas: una sfida al nichilismo” apparso nel ‘sito’ informatico della Società Italiana di Filosofia (04/04/2007) per concessione della rivista Fenomenologia e società, sulla quale è in pubblicazione nel n. II, 2007. Cfr. (con una posizione, però, conservativa rispetto alle tesi habermasiane) G. Marramao, “Religione e politica tra il «non più» e il «non ancora»” in Argomenti umani, 6, 2007, 67 ss. La espressione “deprivatizzazione della religione” è di J. Casanova, Public Religions in the Modern World, 1994, pubblicato in lingua italiana con il titolo Oltre la secolarizzazione. Le religioni alla riconquista della sfera pubblica, Bologna 2000.

 

[71] Vedi, supra, nt. 67.