Università di Bari
SOMMARIO: 1. Premessa. – 2. Appartenenza
religiosa e organizzazione cultuale nei concilî del IV secolo. – 3. La dimensione sociale delle festività nelle fonti
sinodali (secoli V e VI). – 4. L’edificazione universalistica del ‘tempo’ nella
legislazione concordata (secoli VII-VIII). – 5. Conclusioni. – Abstract.
Il
presente studio si propone di evidenziare come, nella valutazione dei fattori
costitutivi dell’identità del Popolo di Dio, un elemento essenziale sia rappresentato
dal ‘tempo’ festivo; nella puntuale organizzazione in strutture rituali e
simboliche dell’autentico modello religioso, il delinearsi dell’appartenenza
del singolo alla comunità cristiana appare strettamente connesso alla
disciplina delle ricorrenze sacre, da celebrarsi in definiti segmenti
temporali. In merito, la lettura delle norme sinodali, nella diversificazione
dei vari contesti territoriali, rileva non solo da un punto di vista
sociologico, consentendo d’individuare il comportamento collettivo sotto il
profilo cultuale, ma anche in una prospettiva tesa alla rintracciabilità,
attraverso la festività, di uno schema unitario valido per la costruzione della
qualificazione religiosa[1]. Tali disposizioni introducono la nozione di ‘Popolo’,
elaborando una sorta di relazione di significazione tra l’uomo e Dio, in un
processo d’interazione tra i membri nella condivisione di un sistema di valori
universali.
Le
pratiche cultuali, quali articolazioni visibili del credo, manifestano, in
tutti gli aspetti, la originale concezione del ‘tempo’. Le festività esprimono,
infatti, lo sviluppo autentico e coerente della dottrina cristiana in quanto
evocative della concretezza storica dell’incarnazione del Figlio di Dio.
Particolarmente, i due principali cicli liturgici - Natale e Pasqua –
ripercorrono, nel peculiare contenuto teologico, la vita del suo Fondatore.
L’ ‘idea’
diversa del tempo, nella fedeltà all’osservanza delle norme, contraddistingue
l’evoluzione della festività verso un processo di graduale definizione e
specificazione dell’identità cristiana. In antitesi con l’impostazione pagana,
l’intransigenza inconsueta delle leggi verso l’aspetto ludico dell’evento
religioso viene ad interpretare e a tradurre la visione propria dell’intervallo
di riposo, che rifugge da inattività o inoperosità per lo spirito, connotandosi
invece per l’impiego in opere utili alla redenzione personale e comunitaria. Il
significato del momento liturgico determina, quindi, una modificazione sociale
nell’uso del tempo libero in linea con una differente fisionomia del concetto
di otium. Le eccezioni stesse alla
sospensione lavorativa nel giorno feriale, tradizionalmente giustificate dalla
necessità di improrogabili interventi come i lavori agricoli, per i quali le
leggi divine e le leggi umane consentono di operare[2], si arricchiscono in realtà di insolite espressioni di
benevolenza, di nuove categorie di atti di liberalità.
La
visione escatologica della passione di Cristo segna, altresì, il prevalere
della dimensione antropologica del culto sulle prescrizioni sacrificali della
prassi consolidata. I percorsi differenziati si delineano nella singolarità
degli atteggiamenti caratterizzanti il gruppo religioso in tempi e spazi
propri, già a partire dal momento commemorativo. Significativa è la
controversia intorno alla data di celebrazione della Pasqua, sulla quale
numerosi sono stati gli interventi conciliari. Il cambiamento radicale si
esprime, infatti, nell’eterogeneità delle impostazioni e delle risoluzioni
legate alle diverse questioni; attraverso l’autorevolezza della legislazione
sinodale nell’affermazione dei princìpi innovatori, le regole cerimoniali diventano
espressione dell’ortodossia e dell’unità di fede in opposizione agli schemi
religiosi tradizionali.
In una
prospettiva più ampia, è sintomatico come nella Tradizione, anche con il
ricorso alla scienza dei numeri, le festività occupino un ruolo fondamentale
nel percorso identitario. Nella linearità simbolica della salvazione, le
ricorrenze cristiane sono rappresentate da forme numeriche, immutabili nella
prospettiva di un tempo eterno nella superiore pianificazione della redenzione.
Il
carattere dell’autenticità si esteriorizza, in primo luogo, nel sacramento del
battesimo quale segno visibile della grazia[3], emblematicamente collocato in convenuti spazi sacri in
una dimensione non istituzionale ma fattiva dell’unione. Da qui la fondazione
di un’appartenenza elettiva ma rigidamente concepita nella realizzazione
costante del progetto di perfezione spirituale, che si esplica nell’imposizione
di norme comportamentali, idonee ad essere percepite secondo il significato
proprio nella individuazione e distinzione dei singoli elementi. Dal complesso
apparato conciliare appare, invero, il profilarsi di un concetto di
qualificazione religiosa intorno al presupposto della perpetuità dell’intima
adesione all’atto d’iniziazione, che si esteriorizza poi concretamente, in una
valutazione anche quantitativa[4], nella coincidenza dell’esclusività temporale
rievocativa del mistero divino; costante, nelle disposizioni, l’obbligo di
collocare il battesimo nei tempi liturgici solenni, quali occasioni propizie di
conversione.
Nel quadro
interpretativo tracciato, ulteriori segnali distintivi del ‘tempo’ festivo
contribuiscono a definire la fisionomia del cristiano: la ritualità simbolica
della genuflessione, la professione di fede, l’obbedienza ai sacri Pastori, il
rispetto gerarchico, la regolamentazione territoriale degli spostamenti dei
fedeli, il digiuno, le regole alimentari, i comportamenti sessuali,
l’abbigliamento, gli atti di carità, le sospensioni lavorative si pongono quali
‘tipi’ d’identificazione anche sociale. Sotto tale profilo, il valore delle
norme sinodali sull’organizzazione cultuale appare determinante per una
ricostruzione dei presupposti attraverso i quali si configura e, al contempo,
si distingue il popolo di Dio[5].
Nelle
fonti, i primi cristiani s’identificavano in quegli uomini la cui colpa (o
errore) consisteva nel fatto che erano soliti riunirsi prima dell’alba in un
giorno stabilito quando intonavano a cori alterni un inno a Cristo «come se
fosse un dio»[6]. In realtà, proprio le testimonianze in ordine al giorno
cultuale, in un contesto di persecuzione, consentono di abbozzare il profilo
del coetus fidelium; le preghiere, la
lettura della Santa Scrittura, la contribuzione volontaria per aiutare i
bisognosi, gli atti di amore fraterno, i pasti in comune costituiscono
«l’attività della fazione cristiana», opere cioè caratterizzanti quella
«corporazione» che si autorappresenta nella sfera pubblica: Corpus sumus de conscientia religionis et
disciplinae unitate et spei foedere[7]. Significativamente, il primo atto con cui si realizza
il riconoscimento nell’impero della religione cattolica è il rilievo come festa
pubblica della domenica (C.I. 3.12.2), costituendo la prima tappa verso
l’accoglimento giuridico di ulteriori istanze religiose[8].
I riti
evidenziano, quindi, il vincolo di appartenenza ad un gruppo, nella
considerazione di stati o ordini, in un legame solidaristico per il
raggiungimento dell’interesse supremo.
Gli atti
esterni di devozione riproducono la concezione trascendentale della Divinità,
secondo la regolamentazione dettata dalla volontà comune delle assemblee
deliberative della Ecclesia. In
questa prospettiva, la centralità del ‘tempo’ nella dimensione salvifica
dell’uomo esalta il ruolo rappresentativo dei concilî[9].
Nel
dislocamento di nuovi valori identificativi, attraverso coercitive
prescrizioni, la costruzione rigida dell’appartenenza s’impone nel graduale
incidere su uno spazio temporale cadenzato da ritmi differenti. Costante, nelle
norme sinodali, è la condanna di ogni forma di commistione o di convivenza cultuali, facendo della totale
estraneità del cristiano alle feste pagane e giudaiche un evidente segno di
adesione alla novella secta[10].
L’apparato
di norme governa e condiziona le azioni umane nel complesso processo di
adattamento al divenire del ‘tempo’. Nelle collezioni, proprio il riferimento
costante e particolareggiato al culto e ai tempi liturgici consente di cogliere
l’esigenza di disciplinare peculiari aspetti della vita spirituale, con
particolare riferimento agli àmbiti in cui maggiore è l’impatto sociale delle
norme religiose. Sotto tale profilo, nel rivendicato collegamento fra obblighi
della coscienza e bisogni materiali, i canoni conciliari, da ordinatori del
‘tempo’ sacro diventeranno, nel corso dei secoli, ‘regolatori’ della convivenza
civile, traducendosi in paradigmi esistenziali orientati a condizionare
prospettive concrete dell’itinerario terreno dell’uomo.
In una
visione totalizzante dell’esistenza, i diversi aspetti del momento cultuale
vengono ad interagire con le varie sfere della vita pubblica, risultando un
importante fattore d’influenza su di esse. Tecnicamente, ciò si manifesta
nell’istituto della ratifica delle deliberazioni sinodali da parte del potere
secolare, secondo quella tendenza che, per i concilî più rappresentativi, verrà
via via a consolidarsi[11]; l’articolazione del tempo inizierà ad adattarsi al
ritmo religioso delineato dalle norme e, in una sorta di sinergia fra autorità
e mezzi, l’osservanza cultuale della domenica e delle altre solennità si
risolverà nel dovere di rispettare gli autentici contenuti negativi
dell’astensione dal lavoro e da altre attività.
La
stigmatizzazione della deviazione dalla retta dottrina nella frattura che,
nelle pratiche cultuali, le posizioni ereticali attuano con la formula originaria
del cristianesimo costituirà in seguito la ratio
della configurazione di fattispecie delittuose, inedite nella prospettiva della
vera religio[12].
L’articolato
cammino verso il più ampio e progressivo riconoscimento del ‘tempo’ festivo
permette, inoltre, di tracciare quel raccordo ininterrotto di confronto tra
potere secolare e potere religioso rappresentato dall’istituto conciliare che,
in alcune epoche e per alcune realtà territoriali, incarna il simbolo della
logica della sintonia alla base di una concezione dualistica, le cui linee
evolutive sono rinvenibili nell’intero percorso storico, religioso e giuridico
delle singole aree della cristianità.
Quanto
ai concilî del primo periodo in esame, numerose sono le norme tese
all’affermazione del giorno cultuale dei credenti. Ampio spazio è, in realtà,
riservato alla organizzazione e alle modalità di celebrazione della domenica.
La prospettiva commemorativa dell’opera di redenzione rende unica la ricorrenza
primordiale nella coincidenza con la prospettiva escatologica della rinascita
dell’uomo. Il fondamento conoscitivo di questa istituzione propriamente
cristiana, che si rinviene nella Resurrezione (Pasqua della settimana), impone
la dimensione divina e sacra della solennità.
L’anno
liturgico registra, infatti, la celebrazione delle feste più antiche, come la
Pentecoste, nel dies dominica. È
stato osservato a tal proposito che, ai primordi della vita della Chiesa, il
mistero pasquale si traduce nel dominio del criterio mistico della concentrazione e che, solo
successivamente, il metodo cronologico della distribuzione determinerà un allargamento del tempo religioso[13]. A partire dal IV secolo, in verità, nel calendario si
registrano altre festività, le quali vanno ad affiancarsi alla domenica in
un’ottica prevalentemente storicizzante,
che impone il rispetto dell’esatto ripetersi dell’anniversario degli eventi
terreni, letti sempre in chiave teologica[14]. Sotto tale profilo le feste di evento sono,
parimenti, feste di idee[15].
Nel
più ampio orizzonte dei giorni festivi dell’impero, la domenica pone il primo
punto fermo nell’edificazione di un tempo festivo da contrapporre alla
precarietà della fluttuazione del cosmo, a cui erano in parte ispirate le
impostazioni tradizionali[16].
La
caratterizzazione cultuale di tale giorno conferisce un significato religioso
esclusivo alla pausa lavorativa, secondo una visione intimistica della stessa
nella strumentalità alla cura dell’anima e dello spirito, in sintonia con il favor iuris verso il conseguimento di
atti, che predispongono l’uomo al soddisfacimento dei doveri e delle esigenze
del culto[17].
In merito al profilo evidenziato, valore
paradigmatico assume il concilio di Elvira, probabilmente celebrato nel 305
dopo una violenta persecuzione dei cristiani[18], le cui disposizioni, nello spirito di estremo rigore
finalizzato a contenere ed affrontare il grave problema dei lapsi, rilevano anche sotto il profilo
identitario. Le norme conciliari prospettano un apparato sacramentale singolare
che, attraverso il linguaggio simbolico dei mezzi di grazia, costruisce la
fisionomia del cristiano in uno scenario di esteriorizzazione di atti di
pentimento, in spazi liturgici predeterminati.
L’assimilazione della domenica passa
attraverso lo strumento intimidatorio della punizione:
Si quis in civitate positus tres dominicas ad ecclesiam
non accesserit, pauco tempore abstineat, ut correptus esse videatur[19].
Il senso di questo canone non è molto
chiaro.
Si è comunemente ritenuto che l’espressione
«ad ecclesiam non accesserit» vada
interpretata nel senso di frequentazione delle funzioni religiose, e non di
mera visita ad un luogo di culto. La mancata partecipazione alla sinassi
liturgica per tre domeniche successive comporta l’esclusione temporanea
dall’ufficio divino e la privazione dei diritti ecclesiastici propri della
comunità[20]. Il carattere manifesto e pubblico dell’allontanamento
temporaneo di un membro dal gruppo funge da monito per tutti, come ben sottolinea
l’inciso ut correptus esse videatur.
Tale disposizione sarà in parte ripresa nel
concilio Sardicense del 347 [21] per volontà di Osio, il quale proporrà una norma intorno
alla celebrazione della domenica che, come osserva il vescovo, era stata già introdotta
in un concilio precedente (superiore
concilio); il canone potrebbe alludere, quindi, alla disposizione
eliberitana e, in questo senso, risultare decisivo in ordine alla portata
chiarificatrice della stessa[22]. Il can. XIV, infatti, pur confermando la precedente
statuizione nel suo nucleo essenziale, ne arricchisce il contenuto
contribuendo, così, ad eliminare quei dubbi sorti intorno alla primitiva
formulazione sia in relazione ai destinatari sia alla pena da applicare ai
trasgressori. Si legge:
… Memini autem superiore concilio fratres nostros
constituisse, ut si quis laicus in ea qua commoratur civitate, tres dominicas,
id est, per tres septimanas non celebrasset conventum, communione privaretur.
Si ergo haec circa laicos constituta sunt; tanto magis nec licet, nec decet ut
episcopus, si nullam tam gravem habet necessitatem, nec tam difficilem
rationem, tamdiu desit ab ecclesia, ne populum contristet …[23].
Nel testo, innanzitutto, si conferma che la
sanzione prevista consiste nella esclusione temporanea dalla communio. La novità è, invece,
rappresentata dalla considerazione anche del laico quale soggetto su cui grava
l’obbligo di non mancare al servizio divino nella propria città consentendo, in
questo modo, di superare l’interpretazione che considerava i chierici gli unici
destinatari del canone di Elvira[24]. Nella parte finale della norma si chiarisce, invero,
che quanto previsto per i laici inadempienti deve applicarsi con maggior rigore
al vescovo: la dignità dello status
impone una valutazione negativa, sotto i profili della opportunità e della
convenienza, dell’assenza del chierico dalla Chiesa di appartenenza, per un
periodo superiore a quello sopra indicato. A favore del ministro sacro
interviene, però, una categoria ‘aperta’ di scriminanti, individuate dal detto
canone nella «grave necessità» e nella «difficile ragione» per specificarsi,
poi, nelle circostanze della disposizione seguente.
A proposito della considerazione nella norma
degli status, come meglio emergerà
dalla legislazione sinodale successiva, la festività riproduce la
stratificazione sociale del Popolo, ingenerando nella collettività la
consapevolezza dei ruoli distinti e delle relative conseguenze; la
determinazione del tipo di pena, anche in ordine alla sua consistenza, è legata
alla valutazione della condizione soggettiva del trasgressore, all’interno
della quale incidono, in termini di responsabilità e punibilità, le differenze
di grado o di potere, la posizione inerente alla qualità di uomo libero o di
schiavo, di professionista o contadino, non trascurando altresì l’elemento
volitivo e le cause che hanno determinato il fedele a violare i precetti.
La prescrizione esaminata s’incardina,
invero, nella portata generale della norma con riferimento alla doverosa
presenza del ministro sacro nella città di residenza durante le solennità e,
più in generale, all’esigenza che lo stesso non si allontani da essa per un
lungo periodo. Le ragioni sono individuabili nell’utilità del mantenimento
della pace tra i membri della comunità attraverso un’opera preventiva di
rimozione di azioni lesive dell’immagine e della dignità altrui. Interessante
la prima parte del can. XIV:
Osius episcopus dixit: Et hoc quoque statuere debetis; ut
episcopus, si ex alia civitate convenerit ad aliam civitatem, vel ex provincia
sua ad aliam provinciam, et ambitioni magis quam devotioni serviens, voluerit
in aliena civitate multo tempore residere: forte enim evenit episcopum loci non
esse tam instructum, neque tam doctum; is vero qui advenit, incipiat contemnere
eum, et frequenter facere sermonem, ut dehonestet et infirmet illius personam;
ita ut ex hac occasione non dubitet relinquere assignatam sibi ecclesiam, et
transeat ad alienam: definite ergo tempus; quia et non recipi episcopum,
inhumanum est; et si diutius resideat, perniciosum est. Hoc ne fiat,
providendum est …[25].
È il caso (datato e specchio dei tempi) di
un vescovo che dalla propria città passi ad un’altra con l’intenzione di
rimanervi per molto tempo, più per «ambizione che per devozione»; può accadere,
in realtà, che il vescovo del luogo non sia né istruito né dotto e che
atteggiamenti irriverenti dell’ospite lo inducano a trasferirsi in un’altra
Chiesa. Per ovviare a questi inconvenienti, la norma impone di definire il
tempo del soggiorno in una città straniera perché è «inumano» che un vescovo
non sia accettato e «pernicioso» che un altro risieda più a lungo altrove.
Eccezioni sono stabilite in alcuni casi, come si precisa nel canone successivo:
… Quia nihil praetermitti oportet; sunt quidam fratres et
coepiscopi nostri, qui non in ea civitate resident, in qua videntur episcopi
esse constituti, vel quod parvam rem iliic habeant, alibi autem idonea praedia
habere cognoscuntur; vel certe affectione proximorum, quibus indulgeant:
hactenus permitti eis oportet, ut accedant ad possessiones suas, et disponant,
vel ordinent fructum laboris sui; ut post tres dominicas, id est, post tres
hebdomadas, si morari necesse est, in suis potius fundis morentur. Aut si est
proxima civitas, in qua est presbyter, ne sine ecclesia videatur facere diem
dominicum, illuc accedat: ut neque res domesticae per absentiam ejus
detrimentum substineant, et non frequenter veniendo ad civitatem, in qua
episcopus moratur, suspicionem jactantiae et ambitionis evadat …[26].
La norma prende in esame il caso dei vescovi
e dei coadiutori che non risiedono nella città in cui sono stati incardinati
come titolari; forse in quel luogo hanno pochi beni, mentre altrove è noto che
ci siano interessi prevalenti, tra cui possedimenti ‘idonei’. In queste
situazioni è opportuno consentire a costoro di accedervi, di disporre e di
ordinare il frutto del proprio lavoro; dopo tre domeniche, quando si renderà
necessario, gli stessi potranno dimorare nei propri poderi. Se è vicina una
città nella quale è presente un presbitero, affinché non si trascorra la
domenica senza gli adempimenti liturgici prescritti, il vescovo deve assistere
al servizio divino. In questo modo né il patrimonio familiare subirà danno a
causa della sua assenza né si incorrerà nel sospetto di ambizione e di
ostentazione, particolarmente per il fatto che il vescovo eviterà di recarsi
frequentemente in un’altra città, nella quale c’è già un vescovo.
Il riferimento, nello specifico, a criteri
di condotta legati al modus vivendi
la festività, evidenzia come, in un primordiale ordine dispositivo del culto,
le esigenze economiche e quelle spirituali si fondano nel singolare quadro
identificativo alla base delle norme sinodali[27].
Oltre al profilo liturgico, nei testi
conciliari speciale attenzione è dedicata anche alla pratica del digiuno come
aspetto peculiare di preparazione alla ricorrenza sacra e importante segnale di
affermazione di un autentico modello religioso[28]. Nel concilio di Elvira, il canone XXIII recita:
Jejuniorum superpositiones per singulos menses placuit
celebrari, exceptis diebus duorum mensium Julii, et Augusti, ob quorundam
infirmitatem[29].
Questa norma propone di osservare il digiuno
di «superposizione» in tutti i mesi dell’anno, con la sola eccezione di luglio
e agosto[30].
Il senso di questa norma risulta poco
comprensibile. Il digiuno in via ordinaria consisteva nell’astensione di alcuni
alimenti dal mattino fino alla sera. C’erano però digiuni straordinari – o
perché più lunghi o perché si praticavano in tempi sacri particolari come
quello quaresimale –, che venivano indicati con espressioni quali, ad esempio, superpositio, procrastinatio[31]. Anche nel can. XXVI si fa riferimento a questa forma di
digiuno:
Ut omni sabbato jejunetur.
Errorem placuit corrigi, ut omni sabbati die
superpositiones celebremus[32].
Inequivocabilmente, l’invito è a digiunare
ogni sabato. La disposizione allude alla decisione di porre fine ad un ‘errore’
affinché si osservi la superpositio
ogni sabato. Come ben sottolineato tramite il ricorso all’ut, la pratica da correggere consiste nella inosservanza del
digiuno nel giorno di sabato, in perfetta sintonia con l’intitolazione della
norma e con le prescrizioni ebraiche[33].
Nel senso del valore consecutivo-modale o
finale dell’ut, si consideri ancora
il can. XLIII, che recita:
De celebratione Pentecostes.
Pravam institutionem emendari placuit, juxta auctoritatem
Scripturarum, ut cuncti diem Pentecostes post Pascha celebremus, non
quadragesimam, nisi quinquagesimam. Qui non fecerit, novam haeresim induxisse
notetur[34].
In questa disposizione si stabilisce di
correggere una «prava istituzione» secondo l’autorità delle Scritture: tutti
celebrino il giorno di Pentecoste non quaranta ma cinquanta giorni dopo la Pasqua;
chi non ottempera a ciò è come se introducesse una nuova eresia[35]. Si è ritenuto che, con questa norma, il concilio
volesse sopprimere una pratica considerata eretica, la quale consisteva nel
fissare la Pentecoste al quarantesimo giorno, quando la Chiesa ricordava
l’ascensione di Cristo, ed imporne, invece, la celebrazione al cinquantesimo
giorno. Secondo questa linea interpretativa, ut verrebbe quindi ad indicare ciò che da quel momento in poi
doveva essere osservato.
In Occidente, dopo il IV secolo, Ascensione
e Pentecoste sono due feste formalmente distinte. Fondamentale è la
testimonianza offerta al riguardo dai sermoni pronunciati da Agostino sui tempi
liturgici e sul sistema simbolico in cui l’entità matematica viene ad esprimere
un concetto legato ad un evento divino, che si ripete ogni anno nella e con la
solennità religiosa[36]. Nella mutata visione del ‘tempo’ e dello scandire del
passaggio terreno dell’uomo, anche i numeri collegati alle festività diventano
i segni dell’attuazione misteriosa del piano divino della salvezza.
Le norme conciliari evidenziano, inoltre, le
difficoltà di espressione del culto cristiano nella misura in cui vengono a
predisporre strategie volte a prevenire atti d’intolleranza. L’esigenza di
contenere forme devozionali particolarmente identificative dell’affiliazione
alla nuova religione, nel clima di ostilità dilagante nell’impero, si traduce
nella proibizione di dipingere, sulle pareti dei locali riservati al servizio
divino, sacre immagini per evitare che le stesse possano essere oggetto di
adorazione e venerazione[37]. Interessante l’opinione secondo la quale s’intendeva
scongiurare una reazione dei pagani attraverso la proibizione dell’uso di segni
di riconoscimento quando gli ambienti destinati alla preghiera non erano
sotterranei ma a cielo aperto[38].
Il concilio, inoltre, nella considerazione
dell’elemento sessuale, vieta alle donne di trascorrere la notte nei cimiteri
perché, come si legge, accadeva spesso che, con il pretesto di pregare, si
commettevano dei delitti[39]. Tali pratiche notturne erano ricorrenti e
particolarmente frequentate risultavano quelle effettuate presso i sepolcri dei
martiri.
Nella pianificazione di riduzione del
‘tempo’ ad un sistema unitario, nel 314 il Concilio Arelatense I ordina che la
Pasqua sia celebrata in un solo giorno in tutto il mondo e che, secondo le
consuetudini, precise informazioni sulla data certa siano divulgate per via
epistolare[40]. In verità, con questo canone si voleva imporre il
computo romano relativo alla Pasqua e abolire quello alessandrino; l’unità
liturgica, sotto la direzione del vescovo di Roma, costituisce, infatti, uno
dei princìpi guida della legislazione conciliare gallica nel quadro della
riforma dell’organizzazione ecclesiastica[41]. Il complesso ed articolato tentativo di risoluzione
della questione intorno alla festività cristiana sul finire del II secolo, al
di là delle esigenze di pace e di concordia fra le Chiese, in realtà
rappresenta il primo importante segnale di affermazione di una visione
originale degli eventi[42]. La data di celebrazione viene energicamente e
simbolicamente fissata in un giorno diverso dalla Pasqua ebraica: la
trasformazione in festività mobile, determinata dal superamento del calendario
lunare e dall’uso dell’anno solare, segna l’affrancamento dalla tradizione
sacra[43]. L’arduo tentativo di eliminazione delle difformità
rituali e cultuali legate alla Pasqua iniziato ad Arles culminerà, infatti, a
Nicea nel 325, quando il primo concilio ecumenico decreterà formalmente il
valore giuridico dell’uniformità[44].
Quanto alla ricostruzione della storia della
domenica, notevole interesse assume il concilio di Laodicea (a. 320), che
contiene il divieto di «giudaizzare»: i seguaci di Cristo non devono osservare il
sabato come festa ma come giorno normale da un punto di vista lavorativo. La
punizione per i contravventori è l’anatema:
Quod non oportet Christianos judaizare, et
in sabbato otiari, sed ipsos eo die operari: diem autem dominicum praeferentes
otiari, si modo possint, ut Christianos. Quod si inventi fuerint judaizantes,
sint anathema apud Christum[45].
La preferenza che i cristiani, in quanto
tali (ut Christiani) devono accordare
alla domenica, nel rispetto dell’obbligo del riposo secondo la visione propria
(si modo possint) e contro la pratica
formalistica del sabato[46], consente di cogliere i tratti caratterizzanti il giorno
cultuale nel più esteso progetto verso l’affermazione dell’identità religiosa
della comunità dei credenti[47].
In questa prospettiva il tentativo dei Padri
conciliari di eliminare le tendenze giudaizzanti, persistenti in modo
particolare in alcune realtà, affiora pure dal can. XVI che, emblematicamente,
impone nel giorno di sabato – nel quale la Chiesa autorizzava, comunque, la
celebrazione di un servizio divino – la lettura del Vangelo, oltre a quella di
brani dell’Antico Testamento[48]. Ai cristiani, inoltre, è proibito ricevere doni festivi
dai Giudei o dagli eretici e celebrare feste insieme con loro o anche con i
pagani[49].
Una grave sanzione colpisce i fedeli che
abbandonano il culto dei veri martiri per passare a quello degli eretici[50].
Disposizioni specifiche riguardano, poi, la
quaresima. Così, in relazione al battesimo, si stabilisce che tale sacramento
non può essere amministrato dopo due settimane dall’inizio di questo periodo
sacro[51] e che coloro i quali devono rigenerarsi in Cristo sono
tenuti a recitare, il giovedì, il Simbolo della fede dinanzi al vescovo o ai
sacerdoti[52]. Per di più, non si può offrire pane benedetto (cioè
celebrare l’Eucarestia) se non nei giorni di sabato e di domenica[53], non si deve interrompere il digiuno nel quinto giorno
dell’ultima settimana e disonorare, in questo modo, l’intera quaresima[54]. Il carattere di austerità di questo periodo impone la
sospensione di qualsiasi festività o ricorrenza[55].
Il primo concilio ecumenico, svoltosi a Nicea nel 325, al can. XX
stabilisce il divieto, nei giorni di domenica e di Pasqua fino alla Pentecoste,
di pregare in ginocchio:
Quoniam sunt quidam, qui in die dominico genu flectant, et ipsis
diebus pentecostes, ut omnia similiter in omni parochia serventur, visum est
sanctae synodo, ut stantes Deo orationes effundant[56].
La norma probabilmente allude ai quartodecimani che in questo
giorno, non diversamente da quelli feriali, flettevano le ginocchia in
dispregio della resurrezione del Cristo avvenuta di domenica. Il medesimo
atteggiamento di ostilità, tenuto dagli eustaziani con riguardo al significato
del digiuno cattolico, è punito nel concilio di Gangra (a. 324)[57].
Il canone XVIII recita:
Si quis propter eam, quae existimatur, exercitationem in dominico
jejunet, fit anathema[58].
Incorre nell’anatema, inoltre, chi, senza una necessità corporale
ma solo per orgoglio, non osserva i tradizionali atti di mortificazione[59].
Anche l’istituzione delle festività in onore dei martiri diventa
espressione tangibile dell’appartenenza religiosa. Il valore esemplare della
conservazione memoriale degli atti sacrificali risiede nella forza emulativa
della perfezione a cui deve tendere il fedele per l’edificazione dell’unico
Regno. Queste ricorrenze si fondano sulle Sacre Scritture: nella visione
storica e profetica del passaggio dall’antica stirpe giudaica, le vicende di
alcuni martiri svelano, infatti, il mistero divino nascosto nel Vecchio Testamento[60].
Gli atteggiamenti devozionali devono, quindi, riflettere la gioia dello spirito
e del corpo[61].
Il culto in loro onore è nuovamente oggetto di regolamentazione
nel concilio di Cartagine (a. 348), convocato per ringraziare Dio della fine
dello scisma e consacrare la pacificazione religiosa attraverso l’adozione di
misure strumentali a garantire l’unità della Chiesa, in conformità ai precetti
divini[62].
Nel processo di rappresentazione dell’identità collettiva,
dall’apparato conciliare sembra emergere l’idea di una gradualità di giudizio
che, nella valutazione delle condotte sovversive dei precetti, tiene conto
altresì della intensità della percezione esterna della violazione, anche in
considerazione della solennità di alcuni tempi liturgici; rileva, a tal
proposito, la maggiore gravità della pena a motivo della pervicacia
dell’intenzione trasgressiva legata, come si è sopra evidenziato, a dottrine
eretiche di negazione del significato teologico delle ricorrenze cristiane.
Così, quanto al divieto di digiunare di domenica o durante il Natale, i canoni
puniscono severamente tutti coloro che, come i Priscillanisti, contravvenivano
a tale regola perché, ostinatamente, rifiutavano l’evento della resurrezione e
la natura umana del Cristo[63],
giungendo a decretare il disconoscimento dell’appartenenza religiosa (non credatur catholicus) di chi
scientemente (studiose) si asteneva
dal cibo nel giorno del Signore[64].
Allo stesso modo, sono colpiti con la scomunica quanti si allontanano dalla
Chiesa durante i periodi sacri come la quaresima o il tempo natalizio, allo
scopo di fugare qualsiasi dubbio, nella collettività, circa la frequentazione,
da parte del cristiano, di pratiche pagane[65].
Ancora, il richiamo all’uniformità risponde
alla necessità di consolidare i percorsi identitari attraverso i ritmi e le
modalità del rito, secondo una codificazione memoriale del mistero divino nei
tempi celebrativi. In questa prospettiva si colloca il concilio d’Ippona (a.
393)[66], che stabilisce l’obbligo di tutte le province africane
di rispettare l’osservanza della Pasqua nel giorno stabilito dalla Chiesa di
Cartagine[67]; si vieta, durante i santi giorni di detta festività, di
amministrare ai catecumeni il sacramento (ai quali, simbolicamente, è possibile
offrire solo il sale)[68] e si dispone che i mezzi di grazia siano
amministrati dall’altare esclusivamente da uomini a digiuno, con esclusione del
giovedì santo a ricordo dell’ultima cena[69].
Oltre a ciò, si ribadiscono le proibizioni
di pregare in ginocchio, tranne per i penitenti[70], di assistere agli spettacoli, trascurando il servizio
divino[71] e di partecipare a pratiche e riti estranei[72]. Con riguardo a quest’ultimo aspetto, i duri interventi
delle norme conciliari dimostrano, in realtà, il perseverare della ‘scandalosa’
condotta dei cristiani, duramente stigmatizzata anche per la percezione
oggettivamente rilevabile e fortemente lesiva della comunità sotto il profilo
identitario. La scomunica è, infatti, applicata a chi prende parte alle feste
dei pagani, a volte concomitanti con quelle cristiane. Interessante, in merito,
un concilio convocato a Cartagine, probabilmente il V [73], che coinvolge il giudizio dell’imperatore su una
questione inerente proprio alla noncuranza dei precetti divini in materia di
‘tempo’ divino. In una norma si legge che, poiché in molti luoghi si svolgevano
dei banchetti, nati da una falsa credenza pagana e ai quali i cristiani erano
costretti a partecipare, si chiedeva che, fissata una pena, gli stessi
venissero proibiti nei centri urbani e nei poderi; questi convivi si ripetevano
specie in occasione degli anniversari dei martiri, giorni che, al contrario,
dovevano essere di continenza e nei quali invece si svolgevano danze
«scelleratissime» per vie e piazze, tanto che l’onore e il pudore di tantissime
donne, che giungevano devotamente alla celebrazione del giorno «santissimo»,
erano minacciati da ingiurie lascive, con la conseguenza che quasi si rifuggiva
dall’accedere ai luoghi della santa religione (ut etiam ipsius sanctae
religionis pene fugiatur accessus)[74].
Il canone successivo, in una rivendicazione
dell’appartenenza delle «gloriosissime ricorrenze» alla «religione cristiana»,
nel loro significato peculiare, vieta la partecipazione dei fedeli alle
rappresentazioni teatrali e ai giochi[75].
Nella immutata prospettiva teologica e in
continuità con il cristianesimo delle origini, i concilî del V secolo esaltano
la via sacramentale, in peculiari tempi liturgici, per l’affermazione
dell’autenticità del credente[76].
Si rinnovano le prescrizioni legate alla
preparazione e celebrazione delle ricorrenze liturgiche, con particolare
riferimento al digiuno e alle regole comportamentali all’interno del coetus fidelium[77].
Nell’istituzionalizzazione del ‘tempo’
sacro, interessante è, invece, il profilarsi della dimensione ‘sociale’ della
festività[78]; rileva, a tal proposito, l’obbligo del ministro sacro,
nel giorno cultuale della domenica, di annunciare a tutta la comunità il ritrovamento
di un infante, secondo le modalità stabilite dal canone[79].
Nel VI secolo sia il dovere di uniformità
imposto nelle pratiche rituali sia la necessità di esteriorizzare l’adesione al
credo rispondono all’esigenza di difendere l’ortodossia contro il ‘male’
rappresentato dalle altre religioni e dalle sopravvivenze del passato.
L’identità cristiana si manifesta principalmente attraverso condotte cultuali
originali, in tempi determinati e con modalità proprie che scongiurano il
pericolo di sovrapposizioni di credenze.
Importante, sotto il profilo in questione,
il primo concilio della Chiesa visigotica, tenutosi ad Agde nel 506.
La festività, nella condivisione dei mezzi
di grazia, continua a rappresentare il principale segno dell’appartenenza
religiosa: i laici (saeculares), che
a Natale, Pasqua e Pentecoste non fanno la comunione, catholici non credantur[80].
L’assemblea voleva, inoltre, porre ordine in
materia di digiuno e parificare il sabato agli altri giorni della settimana
contro una consuetudine, consolidata sia in Oriente sia in Occidente, che
vedeva questo giorno privilegiato quanto agli atti di contrizione. Il canone
XII prescrive infatti che, nel periodo di quaresima, i membri della Chiesa
devono digiunare tutti i giorni della settimana, fatta eccezione la domenica[81].
A tutela della unità della Chiesa il Simbolo
della fede va recitato in tutte le comunità in un peculiare spazio liturgico[82].
I sinodi continuano ad imporre rigide norme
comportamentali quanto al modo di vivere il ‘tempo’ divino solenne nella
evidenziata prospettiva di riproduzione, nel contesto sociale, del sistema di
credenze attraverso l’esteriorità rituale: gli oratori (o chiese rurali) devono
cedere il posto alla Chiesa principale perché accolga tutti i fedeli della
regione; segue la scomunica per il sacerdote che, senza il permesso del
superiore, celebri il servizio divino nei luoghi sacri secondari[83]. La medesima pena si applica, per un triennio, a quei
cittadini che non si recano nella città durante le solennità[84] ed ai chierici che, nei summenzionati tempi liturgici,
con l’estensione anche all’Epifania, si allontanano dalla Chiesa di
appartenenza, anteponendo l’interesse economico all’esigenza del culto[85].
In un rinvigorimento dei contenuti, in
considerazione altresì della generalizzata astensione dal lavoro, la festività
manifesta la forza dell’aggregazione popolare. In una fase di consolidamento
del legame fra sacerdotium e imperium, il sistema cultuale si apre a
nuove prospettive anche in considerazione dell’ampliamento del riconoscimento
civile di altri tempi sacri[86].
Con riferimento alla domenica, la dimensione
spirituale comporta la sospensione di ogni azione giudiziaria[87] e il compimento di atti di pietà[88].
Si conferma l’amministrazione del battesimo
ai catecumeni solo durante le festività di Pasqua e di Natale, quanto majoris celebritatis major celebritas
est, tranne i casi di necessità, per i quali il sacramento non va mai
negato, quocumque tempore[89], e si invitano tutte le province ad uniformarsi alla
Chiesa metropolitana quanto alla liturgia[90].
Interessante il riferimento, nelle norme
conciliari, alle classi sociali proprio in relazione ai tempi sacri: i
cittadini più nobili (nobiliores cives),
nel giorno di Pasqua e di Natale, durante la Pentecoste e nelle altre solenni
ricorrenze devono ricevere la benedizione dal vescovo, in qualunque città
questi si trovi. La pena è l’esclusione dalla comunione[91].
Tra i concilî di questo periodo, speciale
considerazione merita il III concilio d’Orléans (a. 538): la dura lotta contro
ogni espressione di ‘giudaizzazione’ si traduce nel divieto di atteggiamenti
emulativi dei costumi ebraici in ordine alle prescrizioni del sabato. È
significativo, a tal proposito, il can. XXVIII che, nella divaricazione delle
prospettive, sottolinea la liceità di alcune condotte nel giorno del Signore –
viaggiare, cucinare o adoperarsi per la pulizia della casa o del corpo, «usanze
queste che riguardano più l’osservanza giudaica che quella cristiana, com’è
riconosciuto» (quae res ad Judaicam magis
quam ad Christianam observantiam pertinere probatur) –, rimarcando invece
la necessità dell’astensione solo da quelle attività totalizzanti per
consentire al fedele di osservare più facilmente gli obblighi del culto[92].
Nella stessa ottica chi partecipa alle
cerimonie pagane non può essere considerato un vero cristiano (non potest integer Christianus dici)[93].
Il ‘tempo’ divino favorisce, inoltre, la
generale aspirazione alla realizzazione di un regno prospero e coeso anche
sotto il profilo politico[94]. A tal fine, nelle domeniche o nelle altre festività, è
opportuno (oportet) che i presbiteri
esortino il popolo (plebs) a
rivolgere in commune delle preghiere
a Dio, in primo luogo pro rege et
episcoporum, oltre che pro diversis
necessitatibus come la pace, l’incolumità, la salute, etc.[95]. Oltre a ciò, nella prospettiva d’immedesimazione degli
interessi tra i due Poteri, «per il fatto di vivere per il favore di Dio sotto
la dominazione di re cattolici» (Quia
Deo propitio sub catholicorum regum
dominatione consistimus), durante la settimana santa si proibisce ogni
contaminazione fra cristiani ed ebrei; questi ultimi, dal giorno della cena del
Signore fino alla II feria di Pasqua, cioè per quattro giorni, non devono
camminare tra i cattolici, né possono unirsi al populus catholicus, in
alcun luogo o per alcun motivo[96].
Alcune convocazioni conciliari hanno ad
oggetto sia la questione pasquale, ancora irrisolta alla metà del VI secolo[97], sia la condanna dei movimenti ereticali, che rifiutano
di osservare la disciplina ecclesiastica nell’esecrazione del significato
autentico delle sacre ricorrenze[98].
Significative, poi, alcune norme che
riguardano il tempo festivo e il sesso femminile: la donna deve comunicarsi con
il proprio domenicale, pena la privazione del sacramento fino alla domenica
successiva[99], non può inoltre ricevere l’eucaristia con la nuda mano[100] e toccare il corporale[101].
Degna di nota è, poi, una disposizione in
materia di digiuno liturgico anche per le implicazioni in tema di ignorantia iuris. Nel caso specifico si fa riferimento alla festa di San
Martino, dalla quale comincia l’astinenza nei giorni di lunedì, mercoledì e
venerdì fino al Natale e durante i quali si celebra il sacrificio secondo il
rito quaresimale[102]. La disposizione conciliare stabilisce, speciali definitione, l’obbligo della
cognizione dei canoni (canones legendi
esse) affinché nessuna azione delittuosa venga scusata:
… in quibus diebus canones legendos esse speciali
definitione sancimus, ut nullus se fateatur per ignorantiam deliquisse.
L’incisività del contenuto e la peculiarità
della formulazione della disposizione evidenziano la preminenza di alcuni tempi
sacri anche nella funzione pedagogica d’indottrinamento del Popolo.
Si riporta, infine, il I canone del concilio
Matisconense II (a. 585), che tratta della santificazione della domenica. Si
tratta di un’articolata disposizione dall’importante contenuto teologico, quasi
una sintesi degli elementi caratterizzanti l’appartenenza religiosa, fondati
particolarmente su un sistema comportamentale collegato alla visione del tempo
divino in una concettualizzazione, che acquista rilevanza anche nella società
civile[103]. In una riflessione più ampia, che non esclude una
comparazione con i tratti di una fisionomia diversa che connoterà la Chiesa nell’evoluzione
dei tempi, in linea con la tradizione, si legge che «tutti i cristiani, che non
vogliano inutilmente essere chiamati tali» (Omnes
… Christiani, qui non incassum hoc
nomine fruimini), hanno il dovere di custodire la domenica. Nessuno può, in
detto giorno, lavorare, fomentare le liti, intentare azioni giudiziarie, in
quanto il corpo e l’anima del cristiano devono essere intenti a lodare Dio e a
pentirsi. La domenica è, infatti, il giorno del riposo eterno, che la Legge dei
profeti ha fatto preconoscere nella figura del settimo giorno. È giusto,
dunque, che tutti celebrino questo giorno per il quale da servi del peccato si
è diventati figli della giustizia. Pene divine e umane colpiranno quanti non si
uniformeranno a tali prescrizioni: l’avvocato perderà il lavoro, il contadino o
lo schiavo saranno colpiti con più abbondanti frustate, il chierico o il
monaco, per sei mesi, saranno allontanati dagli altri fratelli[104]. In conclusione, la norma sottolinea come l’osservanza
di queste prescrizioni restituisca la serenità dell’animo e allontani le piaghe
delle malattie e della sterilità. In quella stessa notte che dona all’umanità
favori insperati, bisogna infatti essere sentinelle spirituali, compiere opere
sacre affinché nel regno si abbiano degli eredi del Salvatore:
… Noctem quoque ipsam, quae nos inspiratae luci
inaccessibili reddit, spiritualibus exigamus excubiis; nec dormiamus in ea,
quem admodum dormitant qui nomine tenus Christiani esse noscuntur, sed oremus
et vigilemus operibus sacris, ut digni habeamur in regno heredes fieri
salvatoris[105].
Altri sinodi continueranno a vietare,
durante le ricorrenze religiose, ogni sorta di contaminazione tra sacro e
profano, riprovando la «irreligiosa consuetudine» (irreligiosa consuetudo) del popolo di privilegiare gli aspetti
ludici, disattendendo così gli improrogabili uffici divini[106].
Ancora nel VII secolo l’imposizione del
rispetto per l’osservanza delle festività, nella caratterizzazione spirituale
tracciata dai Padri, avviene attraverso le numerose misure legislative dei
concilî, che diventano ora anche legge civile mediante la lex in confirmatione concilii[107].
In realtà, nel periodo in esame, nel quale
attraverso il concilio si realizza la massima convergenza di ideali ed
obiettivi tra sacerdotium e imperium, associati nel governo del
popolo di Dio sotto un’unica corona, le norme concordate dal comune volere di
prìncipi e sacerdoti iniziano ad affrontare aspetti non più solamente liturgici
delle ricorrenze, venendo infatti ad imporre l’organizzazione del Tempo
cristiano nel calendario civile. In un significativo allineamento
nell’aspirazione al raggiungimento di un’univoca norma vivendi, singolare è il coinvolgimento del potere secolare in
materia di prevenzione e repressione di condotte sovversive dei contenuti
tipici delle ricorrenze religiose: le sanzioni penali, accessorie ai rimedi
spirituali, costituiscono un efficace supporto ad ingenerare negli adepti la necessaria
adesione ai precetti.
La congiunzione d’intenti per il
ristabilimento dell’unificazione spirituale comporta la necessità
dell’uniformità liturgica; quanto alla Pasqua, vengono fornite precise
indicazioni per evitare qualsiasi divergenza intorno alla data di celebrazione:
i metropoliti devono ricorrere a opportune e doverose consultazioni, per mezzo
di lettere, in un tempo ben preciso (tre mesi prima dell’Epifania), per
riferire successivamente ai loro comprovinciali, communi scientia edocti diem resurrectionis Christi, il giorno
esatto della ricorrenza[108]. Nella stessa prospettiva, in tutti i luoghi si esige,
nella vigilia di Pasqua, la benedizione della lucerna e del cereo e, nella
illustrazione del senso allegorico del rito della luce, si estende la sua
osservanza alle Chiese di Gallia propter
unitatem pacis[109].
Da questo angolo visuale, nel coinvolgimento
di forze eterogenee, l’assimilazione delle verità di fede si realizza altresì
con la spiegazione offerta dai canoni circa l’istituzione del culto, in un
significativo legame tra l’origine divina dei precetti e l’imposizione
dell’osservanza terrena delle pratiche rituali. Nel rinnovato quadro conciliare
grava in particolare sui presbiteri l’obbligo di far conoscere, in dette
circostanze, il significato simbolico dei momenti cultuali e dei segni della
realtà salvifica. Paradigmatico il contenuto di una disposizione che, con
riferimento ad un comportamento diffuso in alcune comunità durante il venerdì
santo - le porte delle Chiese restano chiuse, né si celebra l’ufficio né si
proclama l’evento memoriale -, ordina ai Sacri Pastori di predicare, nello
stesso giorno, il mistero della croce, in ossequio all’insegnamento di Cristo,
che morendo disse ai suoi apostoli di annunciare a tutti la passione, la morte
e la resurrezione, richiamando i peccatori a chiedere l’indulgenza dei crimini
davanti a tutto il Popolo, affinché, purificati dalla penitenza, siano degni di
vivere il giorno della domenica accostandosi al sacramento della riconciliazione[110].
In una strenua difesa del contenuto
autentico delle festività cristiane, s’impone di celebrare, con il debito
onore, la ricorrenza del 1° gennaio[111].
La visione provvidenziale del regno (in cuncto regno a Deo sibi concesso)
comporta, per la salvezza dell’intero popolo, la costituzione delle Rogazioni,
da tenersi ogni anno, per tre giorni, in una determinata circostanza temporale[112]. Interessante il testo del decreto reale di approvazione
del concilio nel quale si sottolinea come tale «triduo» sia stato voluto dal
sovrano e imposto agli uomini, di qualsiasi età, sesso o condizione, affinché
con la sospensione di ogni attività (otium),
sotto il controllo dei soggetti preposti alla vigilanza (optimates, comites, judices), ciascuno possa rendere il
culto a Dio e ottenere, così, la sua misericordia (ut otio sancto mancipati aptiores erga Deum reddi possint, caelestem
implorando misericordiam consequi)[113].
Tale sorveglianza ‘secolare’ si estende alla
domenica e agli altri giorni di festa perché tutti (omnes) possano assistere ai vespri e alla messa e rispettino
l’astensione dal lavoro servile[114]. In caso d’inosservanza, seguirà la correzione del
trasgressore[115].
Quanto alle celebrazioni in onore dei
martiri, o anche della consacrazione delle basiliche, è proibito, pena la
scomunica, cantare canzoni sconvenienti, accompagnate da cori femminili: è
necessario invece pregare o ascoltare i chierici che salmodiano[116].
Nello spirito delle norme, il ‘tempo’
festivo diventa circostanza proficua per rappresentare alla comunità gli esiti
di una doverosa opera propagandistica della fede. Il can. XVII del concilio
Toletano IX (a. 655) obbliga gli ebrei battezzati ad assistere, nei giorni
delle principali feste cristiane, significativamente definite festae praecipuae novi testamenti, al
servizio divino celebrato dal vescovo, in modo che risulti evidente la reale
volontà d’incorporazione al popolo cristiano: chi si rifiuterà di fare ciò
sarà, secondo l’età, frustato o condannato al digiuno[117].
L’anno successivo il Concilio Toletano X al
can. I afferma la necessità di una pratica uniforme non solo per la data della
Pasqua[118], sulla scorta della legislazione conciliare precedente,
ma anche per quella delle altre festività come il Natale e la Pentecoste. Non
c’è unità in Spagna anche per la festa di Maria, la cui venerazione, nel
significato proprio del rapporto inscindibile con l’opera di salvezza del
Figlio, costituisce un elemento caratterizzante l’identità cattolica. Nella
disposizione si legge che, poiché il giorno nel quale l’angelo porta a Maria il
messaggio dell’incarnazione del Verbo divino, tradizionalmente coincidente con
il 25 marzo (la c.d. festa dell’Annunciazione), a volte non può essere
osservato sia a causa della quaresima sia della Pasqua, essendo momenti
destinati alla penitenza, si dispone che ovunque nel Paese, secondo ciò che si
pratica anche altrove, tale festa sia fissata il 18 dicembre e celebrata con la
stessa solennità del Natale[119].
Oltre a ciò, le questioni conciliari
concernenti l’organizzazione del ‘tempo’ festivo toccano alcuni aspetti
concernenti il comportamento degli ordinati in
sacris[120] e dei laici; questi ultimi, nel tradizionale tratto
spirituale del Popolo cristiano, inter
catholicos non habitent nel caso in cui non si accostino al sacramento
della riconciliazione a Natale, Pasqua e Pentecoste[121].
Quanto alla valutazione dell’inosservanza
del riposo domenicale, particolarmente interessante è la rilevanza che viene ad
assumere la volontarietà delle condotte. Così lo schiavo, nel caso in cui
lavori nel giorno del Signore per eseguire un ordine, sarà libero e il padrone pro poena pagherà 30 solidi;
diversamente, lo schiavo sarà frustato o riscatterà la sua vita con un’ammenda[122].
Nell’VIII secolo, notevole è la portata dei
concilî nel processo ricostruttivo dell’identità cristiana, particolarmente in
quei territori, come la Sassonia, da poco strappati al paganesimo. A tal
proposito una svolta è segnata dal primo concilio germanico, convocato nel 742
da Carlo Magno con l’obiettivo di migliorare, con il «consiglio dei servi di
Dio» (consilio servorum Dei), la
situazione religiosa dell’impero e del «popolo cristiano» (populus Christianus) nella realizzazione precipua della salvezza
delle anime e del necessario allontanamento di «falsi» sacerdoti[123]. Nell’approvazione formale dei canoni attraverso lo
strumento della ratifica imperiale emerge significativamente nella prefazione
del concilio il valore del riconoscimento, sotto il profilo politico-sociale,
dell’esistenza di un populus, che
fonda la creazione di un ius proprium
nell’esclusiva finalità di redenzione secondo il disegno del suo Fondatore. Da
qui la necessità, quale si delinea nel canone, che il comportamento dei
soggetti preposti alla guida della Ecclesia,
perché la stessa sopravviva, sia conforme alla sua dottrina autentica. Sotto
tale profilo la festività viene a rilevare anche come spazio liturgico idoneo
ad una costruttiva opera di autovalutazione del proprio operato. Il can. III,
infatti, stabilisce che ogni anno, durante la quaresima, ciascun sacerdote deve
rendere conto del modo di esercizio del suo ministero e, nel giorno della Coena Domini, deve chiedere un nuovo
crisma al vescovo; questi ha il dovere di vegliare sulla purezza dei suoi
sacerdoti e sull’integrità della loro fede[124]. In una sinergia di forze, il vescovo deve poi, con
l’aiuto del conte, protettore della sua Chiesa, fare in modo che, nella sua
diocesi, il populus Dei non svolga
riti e sacrifici pagani (can. V)[125]. Quindici solidi è la
multa per chi osserva tali pratiche, secondo il concilio Liptnense
convocato, l’anno successivo, dallo stesso imperatore[126]. Con riferimento a questo sinodo è da evidenziare come i
più antichi manoscritti facciano seguire ai quattro canoni, comunemente riconosciuti,
alcune parti che risalgono all’epoca del concilio e che saranno riprese nelle
collezioni successive. Si tratta, più precisamente, di una formula di abiura e
di fede, di un Indiculus superstitionum
et paganiarum, di tre allocutiones
inviate dal clero al popolo[127]. Tra queste, l’ultima cita l’autorità del concilio di
Laodicea per condannare i cristiani che ‘sabatizzano’, in un’accorata
esortazione a rispettare, invece, la domenica e a lavorare quindi nel giorno di
sabato, così come dispone la Legge divina[128]. Sotto tale aspetto, coloro i quali sono stati
battezzati e rigenerati in Cristo, divenendone sue membra (qui baptizati et regenerati … in Christo, ecce facti estis membra
Christi), si distinguono non solo dai pagani e dagli eretici ma anche dai giudei,
per aver i cristiani compreso l’autentico significato dell’osservanza del
sabato. Si legge, singolarmente:
… nos qui Christiani sumus, secundum literam sabbatum
observare non ebemus. Christiani enim sabbatum observare ita debemus, abstinere
nos a rapinis, a fraudibus, a perjuriis, a blasphemiis, ab inlicitis rebus, a
munere accipiendo super innocentes, a jurgiis[129].
Tra i rimedi prospettati dalle norme per
contenere il paganesimo, importante è il ruolo dei ministri sacri in ordine ad
un’universalistica ed efficace opera catechetica; s’impone, infatti, a tutti i
vescovi il dovere di istruire il clero e i fedeli tutti ut populus christianus paganus non fiant[130], punendo, con
l’ausilio anche del potere secolare (lo stesso principe e i conti)[131], i predicatori delle dottrine eretiche, tra i quali si
ricorda Adalberto[132]. Questi fu condannato come eretico dal concilio Romano
II (a. 745), per aver, tra le altre cose, utilizzato, per accrescere la sua
popolarità, una lettera che sosteneva essere stata scritta da Gesù Cristo e
inviata agli uomini[133]. Si tratta di una epistola, nota come ‘Lettera della
domenica’, consistente nell’ammonizione ad osservare il riposo cultuale[134]. Al di là della leggenda, peraltro molto diffusa
nell’Europa centrale e meridionale, in Terra Santa e in Spagna, secondo quel
filone della religiosità popolare fondato sulla trasmissione di messaggi divini
autografi, ciò che qui rileva è la centralità, nella vita del cristiano, della
domenica e delle altre festività[135]. Nel minacciare terribili punizioni ed assicurare
gratificanti premi in ordine all’obbligo della santificazione di questo giorno,
altri precetti, morali e disciplinari, vengono ad aggiungersi al principio
cardine dell’astensione dal lavoro non indispensabile, nella visione intimistica
dell’ozio, che risponde ad un bisogno di affermazione e di tutela della
individualità della comunità cristiana. Attraverso l’epistola sacra, Cristo
avrebbe comunicato agli uomini un chiaro messaggio: la salvezza dell’uomo è
inscindibilmente legata al rispetto della domenica. Al riguardo, risulta
significativo l’intento divulgativo dell’opera, quale emerge nella sua parte
conclusiva, nella quale si obbligano i chierici a leggere il documento in
pubblico e a tutti, in modo che ciascun buon cristiano lo possa intendere
correttamente secondo la Santa Scrittura e i comandamenti della Legge[136].
Circa la situazione insulare, i concilî
tenderanno a contrastare le sopravvivenze del paganesimo anche attraverso la
realizzazione dell’unità nella liturgia. Così, il concilio di Cloveshoe (a.
747) prescrive la conformità al modello della Chiesa di Roma delle ricorrenze e
dei relativi riti[137]. In relazione alla domenica, questa deve essere
celebrata dappertutto secondo le prescrizioni; in particolare, abati e
sacerdoti devono in questo giorno restare nei loro monasteri e nelle chiese di
appartenenza, celebrare la messa, astenersi da tutti gli affari temporali, non
viaggiare senza necessità e offrire ai fedeli, nei loro sermoni, una sana
dottrina. Il popolo deve, invece, assicurare la propria partecipazione alla
sinassi domenicale (can. XIV)[138]. Anche le litanie o rogazioni devono essere vissute dai
fedeli con il rispetto e il timore dovuti, evitando inopportune attività
profane, chiedendo in ginocchio il perdono dei propri peccati ed esponendo,
insieme con le reliquie dei santi, la croce, quale simbolo dell’identità e
dell’appartenenza: signum passionis
Christi, nostraequae aeternae redemptionis[139].
S’introducono, inoltre, le feste in onore
dei grandi uomini di Dio, tra i quali Gregorio e Agostino e, ovunque, si
osserverà il digiuno secondo il costume della Chiesa romana[140].
La violazione del riposo domenicale è
severamente punita anche dalla legge civile, oltre che dai canoni, come
espressamente sancito nel concilio di Baviera (a. 772)[141]. Esemplare, sotto tale aspetto, il concilio di Paderbona
(a. 785), nei cui atti, al pari dei colpevoli dei reati più gravi, vengono
addirittura puniti con la morte, oltre a quanti rifiutino il battesimo o
continuino a praticare riti pagani, anche coloro che non osservino il digiuno
quadragesimale[142].
Di domenica non si devono svolgere né conventus né placita publica, se non in caso di necessità; tutti devono andare
in chiesa per ascoltare la parola di Dio e dedicarsi alle opere giuste.
Similmente, nelle altre festività «care a Dio», bisogna abbandonare i piaceri
mondani[143].
Ancora, il Capitulare Ecclesiasticum di Carlo Magno del 789 richiama la
tradizione sinodale per stabilire la dottrina immutata della Chiesa quanto al
contenuto autentico delle festività cristiane; si ribadiscono rigorosamente il
momento temporale di celebrazione della domenica (a vespera ad vesperam)[144], l’osservanza,
sine necessitate rationabili, dei digiuni prescritti nei periodi sacri[145] e, in un passaggio che sottolinea la continuità con il
proprio genitore (bonae memoriae genitor
meus in suis synodalibus edictis), l’enumerazione tassativa delle opere
servili proibite nel giorno di domenica, in considerazione anche
dell’appartenenza sessuale del fedele (viri
et feminae). In ogni caso il riposo è doveroso per recarsi in chiesa,
pregare e ringraziare Dio per tutte le cose che ha donato all’umanità[146].
Nelle norme si rimarcano, oltre agli aspetti
‘negativi’ dell’astensione dal lavoro e dell’astinenza sessuale, anche i
profili di una doverosità ‘positiva’ quanto alla necessità del compimento delle
opere di pietà, inizialmente solo con riferimento alla domenica[147] e, successivamente, ad altri tempi sacri. Così, pro remedio animarum, il Popolo
cristiano, secondo la legge del Vangelo, nelle vigilie delle festività (Palme,
Pentecoste, Natale) e nel terzo sabato di settembre, pro aeterna retributione, deve fare pubblicamente delle elemosine
secondo le proprie possibilità, evitando al contempo ogni pensiero di
vanagloria[148].
Il mercoledì e il venerdì, giorni liturgici
particolari, tutti i chierici, oltre che privarsi della carne e del vino,
devono seguire la liturgia e celebrare la messa sia per la salvezza della
Chiesa e del Popolo cristiano sia per la stabilità dell’impero.
Quanto alla quaresima, si prevede l’uso
moderato dei cibi consentiti (cibi
quadragesimales) perché quanto più grande è il sacrificio maggiore sarà la
gratificazione: Qui vero plus
abstinuerit, plus se mercedem habere sciat[149].
Il comportamento specifico di sospendere la pratica
rituale della genuflessione, prevista nel mercoledì santo, solo durante l’oratio pro Judaeis costituisce,
nell’interpretazione storica degli eventi del Cristo, un forte segno
qualificativo dell’appartenenza religiosa[150].
Alla luce dei dati esposti riteniamo che
l’indagine, condotta secondo l’ordine cronologico dei concilî generali e
provinciali in un’analisi dettagliata dei contenuti intorno al tempo festivo,
possa indurre a sostenere che le festività rappresentino il modello omnicomprensivo
dei ‘tipi’ dell’identità cristiana, risultando gli stessi contenuti fondativi
del nucleo originario. L’esame dei vari aspetti connessi all’organizzazione
cultuale s’inserisce nella più estesa ricostruzione del concetto di Popolo,
che, così come delineato nella Tradizione, implica una molteplicità di
elementi: l’unità, la natura sacramentale del consenso, la spontaneità
dell’atto di adesione, la necessità della perdita della cittadinanza, la
normazione ispirata da Dio, il perseguimento della pace e della giustizia,
l’appello alla coscienza e all’interiorità nel rispetto delle leggi civili.
Nella congerie dei sistemi religiosi
tradizionali e delle sette ereticali, il termine populus ricorre frequentemente nelle norme sul ‘tempo’ divino, in
un collegamento fra sistemazione delle esigenze rituali e affermazione di un
dogmatismo autentico. Sotto tale profilo, attraverso la conferma costante dei
princìpi che regolano lo scandire del tempo, si è evidenziato come la festività
sia espressione di una dottrina immutata ed immodificabile negli aspetti
sostanziali. In realtà la legislazione sinodale sulle ricorrenze sacre viene ad
esprimere un paradigma normativo d’identificazione di quella moltitudine di
uomini che, secondo la propria condizione e sotto la guida dei Sacri Pastori,
in virtù del battesimo costruisce una società fondata sulla persistenza del
consenso intorno ad un diritto ispirato a norme divine e sul perseguimento di
un’utilitas ultraterrena.
The present office aims to point out how,
in evaluating the features concurring to the identity of the People of God, a
central element is represented by the “festive time”; in the strict
organization of the true religious model into ritual and symbolic structures,
the belonging of the individual to the Christian community emerges as closely
related to the features according to which sacred feasts are disciplined.
In this context, synodal legislation
embodies a normative identification paradigm for all the individuals who, according
to their own condition and under the guidance of Sacred Pastors, having been
christened concur to build a society based on the persistence of consent to a
law inspired by divine rules and the achievement of utilitas in the afterlife.
[Per la
pubblicazione degli articoli della sezione “Contributi” si è applicato, in
maniera rigorosa, il procedimento di peer
review. Ogni articolo è stato
valutato positivamente da due referees,
che hanno operato con il sistema del double-blind].
[1] Sui
concilî come ‘custodi’ e ‘strumenti’ del dogmatismo della Chiesa cfr. J.H.
NEWMAN, Lo sviluppo della dottrina
cristiana, a cura di L. Obertello,
Milano 2003, 347.
[2] Virgilio, Georg. 1.268-272: Quippe etiam festis quaedam exercere diebus/
fas et iura sinunt: rivos deducere nulla/ religio vetuit, segeti praetendere
saepem,/ insidias avibus moliri, incendere vepres/ balantumque gregem fluvio
mersare salubri. In argomento,
cfr. F. SINI, Uomini e Dèi nel sistema
giuridico romano: Pax deorum, tempo degli Dèi, sacrifici, § 3, in Diritto @ Storia, 1 (maggio 2002) = http://www.dirittoestoria.it/tradizione/F.%20Sini%20-%20Uomini%20e%20D%E8i%
20%20nel%20sistema%20giuridico-religioso%20roman.htm.
[3]
Ambrogio, De sacramentis, 1.4, in PL 16, col. 439, afferma che il cristiano si distingue dall’ebreo
per i «sacramenti che sono ben più divini e più antichi di quelli dei Giudei»:
… diviniora et priora sacramenta sunt
Christianorum quam Judaeorum; sulla derivazione sacramentale del Popolo
cristiano cfr., altresì, Hexaemeron, 3.1.6, in PL 14, col.
170.
[5] Sui
concilî come «agenzia primaria della tradizione cristiana» cfr. F.G. LARDONE, Il diritto romano e i concilî, in Acta congressus iuridici internationalis
(Roma 12-17 novembris 1934), 2, Roma 1935, 103 ss.
[6] Adfirmabant autem hanc fuisse summam vel culpae suae vel
erroris, quod essent soliti stato die ante lucem convenire, carmenque Christo
quasi deo dicere secum invicem seque sacramento non in scelus aliquod
obstringere, sed ne furta ne latrocinia ne adulteria committerent, ne fidem
fallerent, ne depositum adpellati abnegarent (Plinius
Minor, Ep. 10.96.7, ed. R.A.B.
Mynors, Oxford 1963, 339). La dottrina prevalente ritiene che il giorno
deputato all’incontro (stato die) sia
la domenica. Cfr., tra gli altri, L.C. MOHLBERG, Carmen Christo quasi Deo (Plinius, Epist. lib. X, 96), in Rivista di archeologia cristiana, 14 (1937), 100 ss.; C.S. MOSNA, Storia della domenica dalle origini fino
agli inizi del V secolo. Problema delle origini e sviluppo. Culto e riposo. Aspetti
pastorali e liturgici, Roma 1969,
98 ss. Sul sacramentum, in detta epistola, nel senso di confessione pubblica dei peccati nel giorno di
domenica cfr. L.C. MOHLBERG, op. cit.,
108 s.
Nel testo in esame si fa inoltre riferimento
all’ulteriore consuetudine dei cristiani, dopo aver terminato gli atti di culto
di cui sopra, di ritirarsi e di riunirsi di nuovo per consumare un cibo, ad
ogni modo comune ed innocente: Quibus
peractis morem sibi discedendi fuisse rursusque coeundi ad capiendum cibum,
promiscuum tamen et innoxium … (Ep.
10.96.7). Sulle agapi cfr. Tertulliano, Apologeticus
adversus gentes pro christianis, 39, in
PL 1, col. 536 ss. Nell’Octavius
di Minucio Felice, 9, in PL 3, col.
271 s., tra le caratteristiche dell’empia congrega (impia coitio) c’è quella di radunarsi a banchetto in un giorno di
festa con tutti i figli, le sorelle, le madri, senza distinzione di sesso e di
età: … ad epulas solemni die coeunt, cum
omnibus liberis, sororibus, matribus, sexus omnis hominis et omnis aetatis …
Sulla nota e controversa questione della priorità dell’Ottavio rispetto
all’Apologetico, scritto nel 197 d.C., cfr. E. PARATORE, Introduzione, in Minucio
Felice. Ottavio, Bari 1971, VII ss.
[7] Edam jam nunc ego ipsa negotia Christianae
factionis … Corpus sumus de conscientia religionis et disciplinae
divinitate et spei foedere. Coimus in coetum et congregationem, ut ad Deum,
quasi manu facta, precationibus ambiamus … Oramus etiam pro imperatoribus, pro ministeriis eorum ac potestatibus,
pro statu saeculi, pro rerum quiete, pro mora finis. Cogimur ad Litterarum
divinarum commemorationem … Praesident probati quique seniores, honorem istum
non pretio sed testimonio adepti: neque enim pretio ulla res Dei constat. Etiam
si quod arcae genus est, non de honoraria summa quasi redemptae religionis
congregatur; modicam unusquisque stipem menstrua die, vel quum velit, et si
modo velit et si modo possit, apponit: nam nemo compellitur, sed sponte
confert. Haec quasi deposita pietatis sunt. Nam inde non epulis, nec potaculis,
nec ingratis voratrinis dispensatur, sed egenis alendis humandisque, et pueris
ac puellis re ac parentibus destitutis jamque domesticis senibus, item
naufragis, et si qui in metallis, et si qui in insulis, vel in custodiis
duntavat ex causa Dei sectae alumni confussionis suae fiunt … Omnia indiscreta
sunt apud nos, praeter uxores … Coena nostra de nomine rationem sui ostendit;
id vocatur, quod dilectio penes Graecos est …; non prius discumbitur, quam
oratio ad Deum praegustetur … Aeque oratio convivium dirimit … In cujus
perniciem aliquando convenimus? Hoc sumus congregati, quod et dispersi; hoc
universi, quod et singuli; neminem laedentes, neminem contristantes. Cum probi,
cum boni coeunt, cum pii, cum casti congregantur, non est factio dicenda, sed
curia (Apologeticus, 39, in PL 1, col. 531 ss.).
[8] Cfr.
A. DI BERARDINO, La cristianizzazione del
tempo nei secoli IV-V: la domenica, in Augustinianum,
42 (2002), 97 ss.
[9] Sui
concilî come repraesentatio totius
nominis christiani cfr. Tertulliano,
De jejuniis, 13, in PL 2, col. 972. Cfr., in argomento, H. HOFMANN,
Rappresentanza-Rappresentazione, Parola e concetto dall’antichità all’Ottocento
(= Repräsentation. Studien
zur Wort-und Begriffsgeschichte von der Antike bis ins 19. Jahrhundert,
Berlin 2003), Milano 2007, 46 ss.
[11] Con
riferimento al concilio di Nicea, Eusebio racconta che Costantino riconobbe
valore giuridico al testo dei canoni sinodali e che ai governatori delle
province non era consentito trasgredire le decisioni dei vescovi; riteneva,
infatti, che gli uomini di Dio meritassero più stima di qualsiasi altro
giudice: Jam vero episcoporum sententias
quae in conciliis promulgatae essent, auctoritate sua confirmavit; adeo ut
provinciarum rectoribus non liceret episcoporum decreta rescindere: cuivis enim
judici praeferendos esse sacerdotes Dei (De Vita Constantini, 4.27, trad. lat. PG 20, col. 1175). L’imperatore, inoltre, esiliò quanti non vollero
sottoscrivere le decisioni del concilio. In argomento cfr. A. PIGANIOL, L’empire chrétien (325-395), Paris 1972, 34 ss. Sui concilî dopo Nicea come
«parlamenti ecclesiastici dell’impero» cfr. S. PRICOCO, Da Costantino a Gregorio Magno, in Storia del cristianesimo. L’antichità, a cura di G. Filoramo e D. Menozzi, Bari 1997, 282. Fra le fonti del Decretum di Graziano, come noto, un
posto di rilievo è occupato dalle fonti conciliari. Interessante, a tal
proposito, D. IX, c. 8 nel quale, con riferimento ad un passo del De baptismo contra Donatistas di
Agostino, nel caso di deviazioni dalla verità si stabilisce la prevalenza dei
concilî sulle decisioni dei vescovi.
[12]
L’espressione è contenuta nel dispositivo di una legge (CTh. 16.5.15), emanata nel
388 e contenente il divieto per gli eretici di ogni setta di tenere riunioni,
adunanze segrete, cerimonie. Sulla ratio
di tale disposizione cfr. L. DE GIOVANNI, Chiesa
e Stato nel codice Teodosiano. Alle origini della codificazione in tèma di
rapporti Chiesa-Stato, V. ed., Napoli 2000, 39.
[13] Cfr.
R. CANTALAMESSA, La Pasqua della nostra
salvezza. Le tradizioni pasquali della Bibbia e della primitiva Chiesa,
Torino 1971, 139 s.
[14] Tante
sono le feste per commemorare ciascuno dei misteri divini, anche se unica è la
finalità: quella di raggiungere la perfezione spirituale dell’uomo e di tornare
all’autenticità del messaggio di salvezza, «al primo Adamo». Osserva Gregorio
di Nazianzo, Oratio, 38.16, trad. lat. PG 36, col.
330: … quot mihi festos dies, haec
singula Christi mysteria suppediant! Quorum omnium unum hoc caput est, atque
unus hic scopus, nimirum mea perfectio et instauratio, atque ad primum illum
Adamum reditus.
[15] Per
feste di idee la dottrina intende far riferimento a quelle ricorrenze sganciate
dalla memoria di un evento, quali ad esempio le festività della Santissima
Trinità, di San Giuseppe lavoratore, etc. Alcuni ritengono che le più
importanti feste cristiane non possano configurarsi come celebrazioni memoriali
di eventi ma piuttosto come feste che esprimono «le grandi idee religiose». Al
contrario, altri sostengono che le tre grandi ricorrenze, vale a dire Pasqua,
Epifania e Natale, non siano affatto ‘feste di idee’, cioè di verità eterne
bensì di fatti della storia sacra. Le due interpretazioni in realtà non sono in
contrasto: si osserva, infatti, che le grandi feste sono in funzione degli
eventi fondamentali non considerati in sé stessi ma della salvezza che essi
fondano e trasmettono. Sulla questione cfr. M. KUNZLER, La liturgia della Chiesa (= Die
Liturgie der Kirche, Paderbon 1995), Milano 2003, 518 s.
[16] Sulle
feste mobili, quasi tutte agrarie e dipendenti dall’andamento del ciclo
vegetativo, cfr. J. CHAMPEAUX, La
religione dei romani (= La religion
romaine, Paris 1988), Milano 2002, 79 ss.
[17] La
domenica è, infatti, il giorno della celebrazione eucaristica.
Sull’organizzazione del culto in Occidente e in Oriente cfr. V. MONACHINO, La cura pastorale a Milano Cartagine e Roma
nel IV secolo, Analecta Gregoriana, XLI, Series Facultatis Historiae
Ecclesiasticae, Romae 1947, 50 ss.
[18] Sulla
datazione e sulla storia del concilio di Elvira cfr. C.J. HEFELE, Histoire des conciles d’après les documents originaux. Nouvelle
traduction française corrigée et argumentée par H. Leclercq, 1.1, Paris 1973, 212 ss.
[20] Cfr. H. LECLERCQ,
Elvire (Concile d’), in Dictionnaire
d’archéologie chrétienne et de liturgie,
4. 2 (1921), 2690. G. ALBASPINEO, in Mansi, 2, col. 41, circoscrive, invece, la punizione alla sola esclusione
dall’eucaristia: … qui levi hac poena
perstringebantur sola eucharistiae communione privabantur, non autem precum,
aut corporis Christi mystici societate: nam sacris interesse poterant, quo qui
jure fruerentur, nec excommunicati, nec poenitentes censebantur.
[21] È
questa la data indicata da Socrate, Historia
Ecclesiastica, 2.20, in PG 67,
col. 233 ss. e Sozomene, Historia
Ecclesiastica, 3.12, ibidem, col.
1064.
[27] Il
sinodo sardicense non è considerato un vero concilio ecumenico a causa
dell’assenza dei vescovi orientali. Le decisioni conciliari ebbero tuttavia
un’importante implicazione universale specialmente per le innovazioni nel campo
della disciplina ecclesiastica; in particolare, si inasprirono le pene per il
passaggio di un vescovo da una diocesi ad un’altra (già vietato dal can. XV del
concilio di Nicea), ritenuta una cattiva consuetudine da estirpare per
l’avarizia e l’ambizione alla base di questi trasferimenti, si vietò anche il
trasferimento da una provincia ad un’altra senza l’invito del proprio fratello
(cann. I-II), oltre alle prescrizioni esaminate relative al divieto di
assentarsi dalla propria diocesi per più di tre settimane (ibidem, col. 31 s.).
[28] I
giorni solenni e i digiuni costituiscono un elemento differenziale fondamentale
tra la religione cristiana e quella giudaica. Cfr. Tertulliano, Apologeticus, 21, in PL 1, col. 450.
[30] È
stato sostenuto che il divieto di osservare la superpositio a luglio e agosto sia da collegare non all’infermità
degli uomini, come deriverebbe dalla lettura del testo (ob quorundam infirmitatem), ma al caldo eccessivo di quei mesi
estivi. Alcuni codici, infatti, più efficacemente recano l’espressione hoc ob eorundem infirmitatem (Mansi, 2, col. 211).
[31] Cfr. F. CABROL, Jeunes,
in Dictionnaire d’archéologie chrétienne
et de liturgie, 7.2 (1927), col. 2498 ss.
[33] Quanto alla pratica del digiuno nel giorno di sabato vi
erano delle differenze fra la Chiesa d’Oriente e quella d’Occidente, così come
evidenziano alcune epistole di Agostino. In una lettera scritta al presbitero
Casulano, probabilmente nel 396 o all’inizio del 397, il vescovo confuta la
dissertazione di un tale, il quale sosteneva l’obbligo di digiunare in giorno
di sabato (Ep. 36, in PL 33, coll. 136-151). Agostino, 11.25, ibidem, col. 147 s., asserisce, a tal
proposito, che nessuna legge divina stabilisce con un precetto i giorni del
digiuno e che in merito sia più conveniente essere più larghi che stretti in
fatto di digiuno perché lo stesso esprime simbolicamente il riposo eterno in
cui consiste il vero sabato: … Quibus
autem diebus non oporteat jejunare, et quibus oporteat, praecepto Domini vel
apostolorum non invenio definitum. Ac per hoc sentio, non quidem ad obtinendam,
quam fides obtinet atque justitia in qua est pulchritudo filiae regis intrinsecus,
sed tamen ad significandam requiem sempiternam ubi est verum sabbatum,
relaxationem quam constrictionem jejunii aptius convenire. In modo
particolare, Agostino sottolinea la facoltatività di tale osservanza anche nel
confronto con l’inderogabile legge del riposo contenuto nell’Antico Testamento;
spiega, infatti, che mentre si legge che Dio comandò di lapidare l’uomo che
aveva raccolto legna di sabato, è altresì indubbio che in nessun luogo della
Sacra Scrittura si rinviene che alcuno sia stato lapidato o giudicato degno di
qualsiasi supplizio per il fatto di aver digiunato o mangiato in questo giorno.
Riferisce, inoltre, che il popolo Romano era solito praticare il digiuno il
mercoledì, il venerdì e il sabato, mai il giovedì (4.8, 5.9, ibidem, 139-140), facendone risalire
l’origine alla memoria del tradimento e della passione del Signore (13.30, ibidem, col. 150). La varietà dei
comportamenti a proposito del digiuno nel giorno di sabato è, invece, legata
alle diverse interpretazioni: in Oriente si preferisce interrompere il digiuno
per indicare il riposo del Signore nel sepolcro, in Occidente invece si digiuna
per indicare l’umiliazione della morte del Cristo. Solo il sabato di Pasqua
unisce le Chiese nel rievocare il ricordo dei discepoli che si rattristano per
la morte del Signore. La gioia della refezione ricorda la risurrezione, nella
quale si realizza la perfetta felicità dell’uomo nella sua integrità, vale a
dire nel corpo e nello spirito (13.31, ibidem,
col. 150 s.). È questa la ragione per cui non si digiuna mai nei giorni festivi
e nei cinquanta giorni da Pasqua a Pentecoste (8.18, ibidem, col. 144). Il divieto di digiunare di domenica diventa
segno d’identità della comunità cristiana. Mentre, infatti, è possibile
digiunare nel giorno di sabato come, al pari degli ebrei, fanno non solo la
Chiesa di Roma ma anche altre comunità, sebbene in piccolo numero, digiunare
invece di domenica, al di là di qualsivoglia necessità, costituisce un grave
scandalo. Si pensi ai Manichei, i quali stabilirono la domenica come giorno
legittimamente prescritto per il digiuno, e ai Priscillianisti (12.27-29, ibidem, coll. 148-150). Un’unica
eccezione al divieto di astenersi dal cibo nel giorno del Signore si ha quando
il fedele, per voto, decide di digiunare per un lungo periodo come avvenne,
infatti, ai tempi degli antichi Patriarchi, Mosè ed Elia, che non commisero
alcuna trasgressione allorché digiunarono per quaranta giorni di seguito.
Tuttavia, auspica Agostino, se un digiuno anche continuato deve interrompersi
per qualsiasi motivo durante la settimana, non c’è nulla di più conveniente che
ciò avvenga di domenica (12.27, ibidem,
col. 148). Ricorda, inoltre, che sua madre, che lo aveva seguito a Milano,
aveva notato che quella Chiesa non digiunava il sabato; era turbata non sapendo
come comportarsi. Allora Agostino, ancora catecumeno, consultò Ambrogio, il
quale al quesito proposto rispose nel senso della libertà nel seguire le
proprie tradizioni o quelle dei luoghi e delle regioni in cui il cristiano si
trovava in atto, per non subire o provocare uno scandalo: Quando hic sum, non jejuno sabbato; quando Romae sum, jejuno sabbato:
et ad quamcumque Ecclesiam veneritis, inquit, ejus morem servatae, si pati scandalum non vultis aut facere
(14.32, ibidem, col. 151).
Interessante, sotto i profili evidenziati, anche l’Ep. 44, 3.3, ibidem, col.
200 s.
[35] È
stato sostenuto che l’eresia delineata sia quella dei montanisti, i quali
ritenevano che lo Spirito Santo fosse disceso sulla terra soltanto su Montano.
Sulle interpretazioni del canone in questione cfr. C.J. HEFELE, op. cit., 246.
[36] I
sermoni pronunciati In die ascensionis Domini (261-265) e
quelli In die Pentecostes (266-272),
nei diversi anni a partire dal 393 (probabile data del sermone 266), consentono
di cogliere il carattere autonomo e separato delle due festività sul piano
liturgico e cultuale. Agostino spiega come il termine solemnitas prende il nome dal fatto che un evento deve essere
ricordato ogni anno per evitare che venga cancellato dalla memoria: … Ideo enim solemnitas celebratur, ne
quod semel factum est, de memoria deleatur. Solemnitas enim ab eo quod solet in
anno, nomen accepit: quomodo perennitas fluminis dicitur, quia non siccatur
aestate, sed per totum annum fluit: ideo perenne, id est, per annum; sic et
solemne, quod solet in anno celebrari. Tale festività è sacra perché in essa si
rievoca il compimento del miracolo, del rinnovamento degli individui: utres novi erant, vinum novum de coelo
exspectabatur, et venit. Jam enim fuerat magnus botrus ille calcatus et
glorificatus (Sermo
272, 1, in PL 38, col. 1229 s.). La
Pentecoste rappresenta la sacralizzazione della figura del Maestro, la presa
d’atto della sua identità divina e, quindi, il cambiamento stesso del rapporto
tra l’uomo e Dio. A proposito del significato di Giov. XVI, 7: Non potest ille
venire, nisi ego abiero? Expedit enim … vobis ut ego eam. Nam si non iero,
Paracletus non veniet ad vos, Agostino afferma: Videtur mihi, quod discipuli circa formam humanam Domini Christi
fuerant occupati, et tanquam homines in homine humano tenebantur affectu.
Volebat autem eos affectum potius habere divinum, atque ita de carnalibus
facere spirituales: quod non fit homo nisi dono Spiritus sancti … (Sermo 270, 2, ibidem, col. 1238). Con riferimento a tale profilo, Gregorio di
Nazianzo afferma: Corporea Christi finem
habent, vel, ut rectius dicam, ea, quae ad corporeum ipsius adventum spectabant
… Spiritus autem actiones initium sumunt … (Oratio
41, 5, trad. lat. PG 36, col. 435). Più
volte Agostino ricorda come tale ricorrenza annuale debba essere celebrata «con
una solenne assemblea, con una solenne lettura, con una solenne omelia» (Huic solemnis congregatio, solemnis lectio,
solemnis sermo debetur) e si compiace della grande partecipazione dei
fedeli: Adventum Spiritus sancti
anniversaria festivitate celebramus ... Illa duo persoluta sunt, quia et
frequentissimi convenistis, et cum legeretur, audistis. Reddamus et tertium:
non desit obsequium linguae nostrae ei qui et linguas omnes indoctis donavit,
et linguas doctorum in omnibus gentibus subjiugavit, et diversas linguas
gentium ad unitatem fidei congregavit … (Sermo 269, 1, in PL 38, col. 1234). È evidente il riferimento
alla Pentecoste giudaica; mentre questa commemorava la promulgazione della
Legge fatta in settanta lingue diverse, la Pentecoste cristiana diventa il
simbolo dell’universalità del messaggio evangelico. Agostino collega la nascita
del culto cristiano alla Pentecoste, alla circostanza in cui tremila uomini
credettero agli Apostoli: Resurrexit
tertia die … Deinde post quadraginta dies ascendit in coelum: post decem dies,
id est quinquagesimo post suam resurrectionem die, misit Spiritum sanctum. Tunc
tria millia hominum Apostolis eum praedicantibus crediderunt. Tunc itaque
nominis illius cultus exorsus est, sicut nos credimus, et veritas habet,
efficacia Spiritus sancti … (De
civitate Dei contra paganos, 8,
54.1, ibidem, 41, col. 619). Tale
evento segna l’inizio della predicazione, in tutta la Giudea e la Samaria fino
agli estremi confini della terra, da parte degli apostoli, ‘fiaccole’ che il
Signore aveva acceso con lo Spirito Santo, le persecuzioni e il martirio,
attraverso il superamento delle dottrine immorali ed erronee. La Pentecoste
cristiana rappresenta la Nuova Alleanza, la continuità nel rinnovamento. In
questa prospettiva, il dono delle lingue preannunciava l’unità della Chiesa. È
importante sottolineare, a tal proposito, come il vescovo d’Ippona evidenzi il
compimento della Legge attraverso l’armonia, anche ‘numerica’, delle ricorrenze
unite dalla origine comune e ricostruisca i percorsi rituali secondo gli
insegnamenti della Tradizione.
[37] Placuit, picturas in ecclesia esse non
debere; ne quod colitur; et adoratur, in parietibus depingatur (can. XXXVI,
in Mansi, 2, col. 11).
[39] Placuit prohiberi, ne foeminae in coemeterio
pervigilent; eo quod saepe sub obtentu latenter scelera committant (can.
XXXV, ibidem, col. 11).
[40] Primo loco de observatione paschae dominici,
ut uno die et uno tempore per omnem orbem a nobis observetur, et juxta
consuetudinem literas ad omnes tu dirigas (can. I, ibidem, col. 471).
[41] Tra le
esigenze impellenti che devono essere risolte dalle norme conciliari vi è in
primo luogo la questione pasquale. Nella lettera sinodale a Silvestro si legge:
… id primo in loco de vita nostra atque
utilitate tractandum fuit, ut quia unus pro multis mortuus est et resurrexit,
ab ominibus tempus ipsum ita religiosa mente observetur, ne divisiones vel
dissensiones in tanto obsequio devotionis possint exurgere. Censemus ergo
pascha domini per orbem totum una die observari (ibidem, col. 469 s.). Cfr. J.
GAUDEMET, Conciles gaulois du IV siècle,
in Sources chrétienne, 241 (1977), 11
ss.
[42] Un notevole
contributo alla ricostruzione della intricata questione è offerto dall’opera di
Eusebio di Cesarea. Attraverso la lettura degli scambi epistolari dei
rappresentanti delle Chiese d’Oriente e d’Occidente, lo storico ricostruisce il
nodo complesso rappresentato dal dissenso in Asia intorno alla data di
celebrazione della Pasqua e alle modalità del digiuno. Su questa questione,
riferisce Eusebio, si svolsero numerosi sinodi e i vescovi tutti, uno consensu, formularono per lettera
una norma ecclesiastica valida per i fedeli di ogni Paese: ne videlicet ullo alio quam Dominico die mysterium Resurrectionis
Domini unquam celebretur. Solo in
quel giorno si sarebbe potuto porre fine ai digiuni pasquali: utque eo duntaxat die Paschalium jejuniorum
terminum observemus (Historia
Ecclesiastica, 5.13, trad. lat. PG 20, col. 491).
[43] La legislazione romana si ergerà a difesa
dell’ortodossia all’interno della Chiesa condannando coloro i quali divergono
sul giorno in cui celebrare la Pasqua. Nel 423 una legge generale emanata a
Costantinopoli decreterà come «follia» (amentia)
l’atteggiamento di coloro i quali dissentono dall’opinione comune per quel che
riguarda il venerabile giorno di Pasqua: costoro sono eretici, anzi «i peggiori
per questa sola convinzione» (hac una
persuasione peiores). La conseguenza della proscrizione dei beni e
dell’esilio li accomuna nel trattamento punitivo ai manichei e agli eretici
chiamati ‘pepuzisti’. Si tratta di una setta montanista che prende il nome
dalla città di Pepuza, centro della predicazione di Priscilla, una delle
profetesse seguaci di Montano. La previsione normativa della sanzione come
reazione dell’ordinamento alla detta eresia induce a sostenere la
configurazione del dissenso religioso come delitto, collocabile tra quelli ratione temporis. L’impostazione
cristiana del ‘tempo’ è alla base dell’individuazione della specificata
categoria, nella quale, secondo la linea interpretativa proposta, rientrerebbe
anche la trasgressione della formalizzata costituzione del momento temporale
pasquale. Significativa, dunque, l’importanza attribuita all’uniformità
liturgica in quanto espressione della dottrina autentica della Chiesa, anche
alla luce del successivo passaggio normativo in cui vi è, sia pur
indirettamente, il riconoscimento sociale di un Popolo che si caratterizza per
la natura sacramentale del consenso. La legge generale, subito dopo
l’enunciazione del principio esposto (CTh. 16.10.24.pr.: … manichaeos illosque, quos pepyzitas vocant, nec non et eos, qui omnibus
haereticis hac una sunt persuasione peiores, quod in venerabili die paschae ad
omnibus dissentiunt, si in eadem amentia perseverant, eadem poena multamus,
bonorum proscriptione atque exilio), con riferimento ad altre fattispecie
penalmente rilevanti - ingiustificata violenza contro Giudei e pagani che non
facciano alcunché contro la legge o appropriazione indebita dei loro beni-,
riconosce come destinatari, in modo speciale (specialiter), i cristiani, elevando l’identità religiosa,
formalmente assunta (non si fa alcuna distinzione, ai fini della pena, tra i
«cristiani che lo sono veramente e quelli che si dice che lo siano») ad
elemento costitutivo della qualificazione giuridica quanto al soggetto attivo
del delitto. Lo stesso «abuso dell’autorità della religione» viene a configurarsi
quale ‘circostanza aggravante’ del delitto, come è sottolineato dalla gravità
delle sanzioni previste: sed hoc
Christiani, qui vel vere sunt vel esse dicuntur, specialiter demandamus, ut
Iudaeis ac paganis in quiete degentibus nihilque temptantibus turbulentum
legibusque contrarium non audeant manus inferre religionis auctoritate abusi … Sulla
«crisi d’identità» della comunità cristiana nei secoli IV e V cfr. J.M.
SALAMITO, Les virtuoses et la multitude.
Aspects
sociaux de la controverse entre Augustin et les pélagiens, Grenoble 2005, 170 ss.
[44]
Eusebio racconta che Costantino, informato del «gravissimo morbo» (morbus
gravissimus), che da molto tempo infestava la Chiesa, vale a dire la
controversia de salutari festo, per il
fatto che non vi era alcun uomo in grado di trovare un rimedio a questo male,
convocò un concilio ecumenico (generalis
synodum), e con lettere piene di cortesia e di rispetto invitò i vescovi a
convenire al più presto da ogni parte della terra (undique). L’ordine non era facile da eseguire ma per volontà
dell’imperatore si provvide ad agevolarne l’attuazione, offrendo ad alcuni la
possibilità di servirsi della posta pubblica, mentre ad altri furono messe a
disposizione bestie da soma in grande quantità. Uomini tra loro divisi da
enormi differenze non solo di idee ma anche di razza, di Paesi, di luoghi e di
regioni, si radunarono in un’unica città. Le decisioni prese in comune furono
anche ratificate per iscritto e controfirmate da ognuno. Ciò fatto, l’imperatore
celebrò una solenne festività per ringraziare il Signore, in quanto era la
seconda vittoria che egli conseguiva contro il nemico della Chiesa. Come luogo
dove riunire i vescovi dell’Oriente e dell’Occidente fu scelta una città che
ben si addiceva al concilio, derivando il suo nome dalla vittoria, Nicea di
Bitinia (De vita Constant., 3.5-16, trad. lat. PG 20, col. 1058 ss.). Sulla questione pasquale cfr. G. FRITZ, Pâques. Les controverses pascales, in Dictionnaire
de théologie catholique, 11, 1 (1931), col. 1948 ss.
[45] Can.
XXIX, in Mansi, 2, col. 569.
Nell’àmbito di una riorganizzazione del ‘tempo’ sacro, il concilio introduce il
divieto dell’agape, probabilmente per scongiurare i disordini che si
verificavano durante lo svolgimento delle stesse. Il can. XXVIII, ibidem, col. 569, recita: Quod non oportet in locis dominicis, vel in
ecclesiis, eas quae dicuntur agapas facere, et in domo Dei comedere, et
accubitus sternere. A proposito della terminologia usata in questa norma, è
da segnalare che diversi erano i nomi attribuiti al luogo divino nel quale i
fedeli erano soliti convenire per celebrare i sacri convivi: dominicus (Domini ecclesia), ecclesia, domus
oratoria, basilica, memoria, martyrium, concilium sanctorum. Il canone
precedente vieta ai chierici e ai laici convocati a tal convivio di portar via
resti dell’agape perché ciò potrebbe arrecare offesa all’ordine sacerdotale: Quod non oportet eos qui sacrati sunt
ordinis, vel clericos vel laicos, ad agapas vocatos, partes tollere, eo quod
ignominia inuratur ordini sacerdotali. Sull’agape, in particolare nelle
norme del concilio di Laodicea, cfr. F.X. FUNK, La question de l’agape, in
Revue d’histoire ecclésiastique, 7
(1906), 5 ss.; H. LECLERCQ, Agape, in
Dictionnaire d’archéologie chrétienne et
de liturgie, 1.1 (1924), col. 775 ss.; V. MONACHINO, La cura pastorale a Milano Cartagine e Roma nel IV secolo, cit., 70
ss.
[46] Le
norme sinodali dei diversi Paesi non sono univoche sotto il profilo
dell’astensione dalle attività nel giorno dedicato al Signore. Generalmente
vengono vietate quelle opere servili che possono costituire un impedimento al
culto esteriore della festa.
[47]
Nell’antitesi tra lettera e figura, tra schiavitù della legge e libertà, tra
tempo del timore e tempo dell’amore, il giorno cultuale ha cessato di essere
osservato nel significato carnale ed è stato recepito dai credenti in senso
spirituale. Così, a proposito della legge sull’osservanza del sabato e delle
festività solenni, Agostino, Contra
Adimantum Manichaei discipulum, 16.3, in PL 42, col. 156 s., afferma: Sed
quia intelligimus quo pertineant, non
tempora observamus, sed quae illis significantur temporibus … Repudiamus itaque temporum observationem …
et temporalium signorum intelligentiam tenemus … Agostino, Ep. 55, 12.22, in PL 33, col. 214, sostiene che, tra i dieci comandamenti, solo
quello relativo all’osservanza del sabato sia da intendere in senso allegorico;
tale norma simboleggia il riposo spirituale e non il riposo dall’attività
fisica, come lo intendono i Giudei: Ideoque
inter omnia illa decem praecepta solum ibi quod de sabbato positum est,
figurate observandum praecipitur; quam figuram nos intelligendam, non etiam per
otium corporale celebrandam suscepimus. Cum enim sabbato significetur
spiritualis requies …; caetera tamen ibi praecepta proprie sicut praecepta
sunt, sine ulla figurata significatione observamus … Observare tamen diem
sabbati non ad litteram jubemur, secundum otium ab opere corporali, sicut
observant Judaei: et ipsa eorum observatio quae ita praecepta est, nisi aliam
quamdam spiritualem requiem significet, ridenda judicatur …
[48] Ut evangelium cum aliis scripturis sabbato
legatur (Mansi, 2, col. 568). Sul
quadro interpretativo con riferimento al canone in esame cfr. C.J. HEFELE, op. cit., 1.2, 1008. I canoni LIX e LX, ibidem, col. 573, dispongono che in
Chiesa vadano letti solo i libri canonici del Vecchio e Nuovo Testamento, con
l’esclusione quindi di tutti i salmi composti da privati. Che il sabato fosse
rilevante dal punto di vista cultuale è confermato poi da alcuni canoni sul
periodo quaresimale (XLIX e LI, ibidem,
col. 572).
[49] Quod non oportet quae a Judaeis vel
haereticis mittuntur festiva accipere, neque una cum eis festum agere (can.
XXXVII, ibidem, col. 569); inoltre, Quod non oportet cum gentibus festum agere,
et eorum impietati communicare (can. XXXIX, ibidem, col. 572). Il can. XXXVIII vieta ai cristiani di ricevere
pane azzimo e di prender parte ai sacrifici dei giudei: Quod non oportet a Judaeis azyma accipere, vel eorum impietatibus
communicare (ibidem, col. 572).
[50] Quod non oportet omnem Christianum Christi
martyres relinquere, et ad falsos martyres, hoc est, haereticos abire, vel eos
qui prius haeretici fuere. Hi enim sunt a Deo alieni. Sint ergo anathema, qui
ad eos abeunt (can. XXXIV, ibidem,
col. 569). Il can. IX proibisce ai membri della Chiesa di recarsi presso i
cimiteri o in quei posti che si chiamano martyria,
non importa di quale eretico, per pregare o per rendere il culto. I cattolici
che non osservano questa regola saranno scomunicati per qualche tempo e
riammessi ove scontino una penitenza, dopo aver riconosciuto i propri errori (ibidem, col. 565). Sui martiri eretici,
precisamente dei catafrigi, cfr. Eusebio, Historia
Ecclesiastica, 5.18, in PG 20,
col. 476 s. È considerato idolatra e va punito con l’anatema anche il cristiano
che introduce il culto superstizioso degli angeli (can. XXXV, in Mansi, 2, col. 588). Sulla complessa
questione si rinvia alle note di S. BINIO, ibidem,
col. 598. Sul culto degli angeli nella liturgia cfr. M. RIGHETTI, L’anno liturgico nella storia, nella messa,
nell’ufficio. Manuale di storia
liturgica, 2, Milano 1969, 434 ss.; M. GALLINA, Ortodossia ed eterodossia, in Storia
del cristianesimo, cit., Il medioevo, 177 ss.
[51] Quod non oporteat ad baptisma quemquam post
duas quadragesimae hebdomadas admitti (can. XLV, in Mansi, 2, col. 581).
[52] Quod oporteat eos qui ad baptisma veniunt,
fidem discere, et quinta feria septimae majoris episcopo aut presbyteris
reddere (can. XLVI, ibidem, col. 581). La dottrina prevalente
ritiene che il riferimento sia solo all’ultimo giovedì di quaresima, quello
cioè della settimana santa. Cfr. C.J. HEFELE, op. cit., 1.2, 1021.
[53] Quod non oporteat in quadragesima panem benedictum
offerri, nisi in sabbato et dominica (can. XLIX, in Mansi, 2, col. 581).
[54] Quod non oporteat in quadragesima, in
ultimae septimae quinta feria jejunium solvere, totamque quadragesimam sine
veneratione transire; magisque conveniat omnem quadragesimam districto venerari
jejunio (can. L, ibidem, col. 581 s.).
[55] È il caso degli anniversari dei martiri, per i quali è
concesso ricordarne la santa memoria solo di sabato e domenica, unici giorni
liturgici: Quod non oporteat in quadragesima
martyrum natalitia celebrari, sed eorum sancta commemoratio in diebus
sabbatorum et dominicarum fieri conveniat (can. LI, ibidem, col. 582); lo
stesso vale per le nozze o le nascite: Quod
non oporteat in quadragesima aut nuptias aut natalitia celebrari (can. LII,
ibidem, col. 582).
[56] Cfr. Mansi, 2, col. 678. Il concilio di Nicea
contiene uno dei più antichi riferimenti, in Oriente, alla quadragesima paschae: si tratta di un periodo di preparazione alla
festa come si evince dal can. V nel quale si prescrive di celebrare, in tale
periodo, un concilio «perché, superato ogni dissenso, possa essere offerto a
Dio un dono purissimo»: ut omni
dissensione sublata, munus offeratur Deo purissimum (ibidem, col. 679).
[57] Quoniam conveniens sancta synodus episcoporum
in ecclesia Gangrensi, propter quasdam ecclesiasticas et necessarias causas
inquirendas, et ea quae secundum Eustathium gesta sunt, dignoscenda, invenit
multa fieri indecenter ab his qui eumdem Eustathium secuti sunt, necessario
statuit, palam omnibus actis, amputare universa, quae ab eodem male commissa
sunt … jejunia quae in ecclesia praedicantur, contemnenda afferuisse … (ibidem, col. 1095 ss.). Si tratta di
Eustazio, vescovo di Sebaste, descritto come un asceta severo e fautore di
regole molto rigorose quanto all’alimentazione e all’abbigliamento. Cfr.
Socrate, Historia Ecclesiastica,
2.43, in PG 67, col. 352; Sozomene, Historia Ecclesiastica, 3.14, ibidem, col. 1068.
[59] Si quis eorum qui exercentur absque
corporali necessitate se insolenter gerat, et tradita jejunia, quae communiter
servantur ab ecclesia, dissolvat, perfecta in eo residente ratione, fit
anathema (can. XIX, ibidem, col.
1103). L’espressione perfecta in eo
residente ratione, secondo alcune interpretazioni, dovrebbe alludere
all’intelligenza superiore di cui gli Eustaziani pensavano di essere dotati e
che li portava a non rispettare le norme ecclesiastiche circa i digiuni.
Espressioni equivalenti sono contenute in altre versioni del canone, quale
quella di Isidoro Mercator: perfectam in
sua scientia vindicans rationem (ibidem,
col. 1112). Tale interpretazione è in sintonia con il pensiero dei Padri del
sinodo, che stigmatizzano i sentimenti di disprezzo degli eustaziani verso i
cristiani. L’epilogo del concilio, che è una sorta di sintesi dei venti canoni,
chiarisce che s’intende allontanare questi individui non perché, nella Chiesa
di Dio, vogliono praticare l’ascetismo conformemente alle Sacre Scritture ma
perché essi trasformano quel proposito di continenza in superbia, volendosi
elevare al di sopra dei più semplici e introdurre nuovi precetti contro le
Scritture e le regole ecclesiastiche. Si legge: Haec autem scripsimus, non, qui in ecclesia Dei secundum scripturas
sanctum propositum continentiae eligunt, vituperantes, sed eos qui abutuntur
proposito in superbiam, et extolluntur adversus simpliciores, abscindimus, et
damnamus eos qui adversum scripturas et ecclesiasticas regulas nova introducunt
praecepta (ibidem, col. 1108).
[60] È il
caso dei Maccabei, martyres, non
appellatione, sed reipsa christiani, come afferma Agostino in un sermone
pronunciato nella solennità a loro dedicata. Questi martiri anticiparono il
nome di cristiani, diffuso più tardi, con le loro opere: Christiani fuerunt: sed nomen Christianorum postea divulgatum factis
antecesserunt … (Sermo 300, 1.1,
2.2, in PL 38, col. 1377). Ai Giudei
che si chiedono il perché della celebrazione dei Maccabei come martiri
cristiani, Agostino risponde che sono tali perché confessarono Cristo nascosto
nella Legge mentre gli altri martiri confessarono Cristo rivelato nel Vangelo: Christum alii martyres in Evangelio
revelatum, Machabaei in Lege velatum confessi sunt (ibidem, 3.3, 5.5, col.
1381 ss.).
[61] Sempre
l’anatema è la pena prevista per chi, per superbia, trascura la liturgia dei
martiri: Si quis superbiae usus affectu,
conventus abominatur, qui ad consessiones martyrum celebrantur, et ministeria
quae in eis fiunt simul cum eorum memoriis execratur, anathema fit (can.
XX, in Mansi, 2, col. 1108). Tra gli
illeciti di cui erano responsabili gli Eustaziani, la lettera sinodale
includeva anche il mancato rispetto per i luoghi dei santi martiri, delle
basiliche e di tutti coloro che vi convenivano: … Loca sanctorum martyrum vel basilicas
contemnere, et omnes qui illuc conveniunt, reprehendere … (ibidem, col. 1099).
Anche nell’epilogo citato, nel ribadire con forza i princìpi ortodossi del
cristianesimo, che i seguaci di Eustazio intendono soppiantare alla luce di
interpretazioni eretiche, vi è anche quello dell’onore che si deve a tutti i
luoghi costruiti in nome di Dio, come i martyria
(ibidem, col. 1108).
[62] … Gratus episcopus dixit: Gratias Deo
omnipotenti et Christo Jesu, qui dedit malis schismatibus finem et respexit
ecclesiam suam, ut in ejus gremium erigeret universa membra dispersa; qui
imperavit religiosissimo Constantio imperatori, ut votum gereret unitatis et
mitteret ministros operis sancti, famulos Dei Paulum et Macarium. Ex Dei ergo
nutu congregati … ad unitatem ut per diversas provincias concilia celebraremus
et universas provincias Africae hodierno die concilî gratia ad Carthaginem
veniretur ... necesse est nos memores praeceptorum divinorum et magisterii
scripturarum sanctarum, contemplantes unitatis tempus, id est de singulis
definire quod nec Carthago vigorem legis infringat nec tamen tempore unitatis
aliquid durissimum statuamus (Exordium,
in Mansi, 3, col. 144). Cfr. il
commento di S. BINIO, ibidem, col.
150 ss. Il can. II, ibidem, col. 145
s., revoca il titolo di martire a coloro i quali si sono dati la morte: … Martyrum dignitatem nemo profanus infamet,
neque passiva corpora quae sepulturae tantum propter misericordiam
ecclesiasticam commendari mandatum est redigant, ut aut insania praecipitatos
aut alia ratione peccati discretos, non ratione vel tempore competenti, quo
martyria celebrantur, martyrum nomen appellent, at si quis in iniuriam martyrum
claritati eorum adiungat insanos; placeat eos, si laici sunt, ad paenitentiam
redigi, si autem sunt clerici, post commonitionem et post cognitionem honore
privari. La norma intendeva
colpire i donatisti, che veneravano come martiri i c.d. circoncellioni, accesi
sostenitori delle posizioni più oltranziste della chiesa scismatica africana,
che si davano la morte buttandosi dalle alture o facendosi bruciare vivi nei
roghi. Il termine circumcelliones deriva da circum cellas e indica coloro che si
aggirano intorno alle dispense. I circoncellioni erano così chiamati per
disprezzo in quanto si ribellavano, anche con ruberie e atti di violenza, ai
proprietari terrieri. Cfr. M. CRAVERI, L’eresia.
Dagli gnostici a Lefebvre, il lato oscuro del cristianesimo, Milano 1996,
57. Agostino combatté con energia tale setta denunciando le loro violenze e
l’inaudita crudeltà della persecuzione messa in atto contro i cristiani. A
proposito dei loro suicidi, cfr., in particolare, Ep. 88.8, in PL 33, col.
307. Nel 412 Onorio emana leggi contro i donatisti. In argomento cfr. L. DE
GIOVANNI, op. cit., 82 ss. Sul ruolo
fondamentale dei concilî nella Chiesa d’Africa cfr. G. BARDY, Afrique, in Dictionnaire d’archéologie chrétienne et de liturgie, 1 (1935),
col. 300 ss.
[63] Ne quis jejunet die dominica, causa temporis, aut
persuasionis, aut superstitionis … ut de quadragesimarum diebus, ab ecclesiis non
desint, nec habitent latibula cubiculorum, ac montium, qui in his suspicionibus
perseverant, sed exemplum et praeceptum custodiant sacerdotum, et ad alienas
villas agendorum conventuum causa non conveniant. Ab universis episcopis dictum
est. Anathema fit, qui hoc commiserit (concilium Caesaraugustanum a. 380, can. II, in Mansi, 3, col. 634). Leone I include il digiuno nel giorno di
domenica e nel Natale del Signore tra gli errori di questi eretici: Quarto autem capitulo continetur, quod
Natalem Christi, quem secundum susceptionem veri hominis catholica Ecclesia
veneratur, quia Verbum caro factum est et habitavit in nobis (Joan. I, 14),
non vere isti honorent, sed honorare se simulent, jejunantes eodem die, sicut
et die Dominico qui est dies resurrectionis Christi. Quod utique ideo
faciunt quia Christum Dominum in vera hominis natura natum esse non credunt,
sed per quamdam illusionem ostentata videri volunt quae vera non fuerint … Qui,
sicut in nostro examine detecti atque convicti sunt, Dominicum diem, quem nobis
Salvatoris, nostri resurrectio consecravit, exigunt in moerore jejunii … (Ep. 15.4, in PL 54, col. 682). Anche i Manichei
digiunavano la domenica. Cfr. Ep.
133.5, ibidem, col. 1090; Sermo 42.5, ibidem, col. 279.
[64] Qui dominico die studiose jejunat, non
credatur catholicus (concilium
Carthaginense IV, a. 398, can. LXIV, in Mansi,
3, col. 956).
[65] Il
canone IV del concilium Caesaraugustanum,
a. 381, ibidem, col. 634 s. afferma: Viginti et uno die, quo a 16. Kalendas
Januarii usque in diem Epiphaniae, quae est 8. Idus Januarii, continuis diebus,
nulli liceat de ecclesia se absentare, nec latere in domibus, nec secedere ad
villam, nec montes petere, nec nudis pedibus incedere, sed concurrere ad
ecclesiam. Quod qui non observaverit, his decretis anathema sit in perpetuum.
Ab universis episcopis dictum est: Anathema sit. Il Natale e l’Epifania
sono giorni che commemorano, con la stessa importanza, avvenimenti differenti
come quelli della nascita umana e della manifestazione del Cristo. I sermoni
pronunciati da Agostino in occasione delle dette ricorrenze evidenziano che si
tratta di giorni che commemorano, con la stessa importanza, avvenimenti
differenti come quelli della nascita umana e della manifestazione del Cristo: Ante paucissimos dies Natalem Domini
celebravimus: odierno autem die manifestationem, qua manifestari Gentibus
coepit, solemnitate non minus debita celebramus … (Sermo 201, in PL 38, col. 1031). Si deve riconoscere nel
tempo Colui per mezzo del quale sono stati creati i tempi e, celebrando le sue
feste nel tempo, l’uomo deve aspirare ai premi eterni: Agnoscamus itaque in tempore, per quem facta sunt tempora: et
celebrantes ejus festa temporalia, praemia desideremus aeterna (Sermo 383, 5, in PL 39, col. 1666). Dominus
Christus in aeternum sine initio apud Patrem, habet et Natalem, osserva
Agostino. Colui che da sempre era Dio presso il Padre è nato come uomo da una
madre; se Cristo non avesse avuto la nascita umana, l’uomo non sarebbe potuto
arrivare alla rinascita divina: «è nato perché noi potessimo rinascere» (natus est, ut renasceremur). Generatio Christi duplex, precisa
Agostino, e ambedue le nascite di Cristo sono mirabili: la nascita dal Padre
senza madre e quella dalla madre senza padre. La prima nascita è eterna, la
seconda è temporale (Sermo 189, 3-4,
in PL 38, col. 1006). Cristo si è
manifestato nella carne e in quel giorno, che si chiama Natale del Signore,
andarono a vederlo i pastori del popolo dei Giudei. Nel giorno, che è chiamato
propriamente Epifania, vennero ad adorarlo i magi, provenienti dal mondo pagano
(Sermo 204, 1, ibidem, col. 1037). Il piano di salvezza dell’intera umanità è
svelato anche dal dodici, che è il numero di giorni che separa le due festività.
I magi, si legge in Agostino, non provengono da una parte soltanto della terra
ma, come dice il Vangelo di Luca (13.29), dall’Oriente, dall’Occidente, dal
Settentrione e dal Meridione, per sedersi alla mensa con Abramo, Isacco e
Giacobbe nel regno dei cieli. Così tutto il mondo, dalle quattro parti, è
chiamato alla fede per grazia della Trinità. In base a questo numero – quattro
per tre – è fissato il numero dodici degli Apostoli, che prefigura la
redenzione dell’intera umanità. Per questo, forse dodici giorni dopo la nascita
del Signore i magi, primitiae Gentium, vennero per vedere e adorare
Cristo e meritarono non solo di ricevere la propria salvezza ma anche di
simboleggiare quella di tutti gli uomini (Sermo
203, 3, ibidem, col. 1036).
[66] Questo
concilio è il primo dei tanti presieduti da Aurelio, che dal 391 è vescovo di
Cartagine. La sua importanza è testimoniata dall’alta partecipazione dei
vescovi africani e dalla innovazione della disciplina al punto che Possidio lo
ha definito plenarium totius Africae
concilium (Vita Augustini 7, in PL 32, col. 79). Agostino pronunciò,
davanti all’assemblea, il suo discorso De
fide et symbolo (PL 40, coll.
181-192). Gli Atti di tale concilio sono a noi pervenuti grazie al concilio di
Cartagine del 397, che racchiude un breviarium
dei detti canoni che i vescovi della provincia di Bizacena desideravano
rimettere in vigore. Cfr. Mansi, 3,
col. 875 ss.
[67] Placuit … propter errorem, qui saepe solet
oboriri, ut omnes Africanae provinciae episcopi observationem paschalem ab
ecclesia Carthaginensi curent accipere (can. I, ibidem, col. 880).
[68] Item placuit, ut etiam per solennissimos
paschales dies sacramentum catechumenis non detur, nisi solitum sal: quia si
fideles per illos dies sacramentum non mutant, nec catechumenis oportet mutari (can.
V, ibidem, col. 880 s.).
[69] Ut sacramenta altaris non nisi a jejunis
hominibus celebrentur, excepto uno die anniversario, quo coena Domini
celebratur. Nam si aliquorum, pomeridiano tempore defunctorum, sive episcoporum
seu clericorum, sive ceterorum, commendatio facienda est, solis orationibus
fiat, si illi qui faciunt, jam pransi inveniantur (can. XXIX, ibidem, col. 885). Quanto al giovedì
santo, Agostino, che è tra i quarantatrè firmatari degli Atti del concilio
d’Ippona, ibidem, col. 930,
affermava: Sed nonnullos probabilis
quaedam ratio delectavit, ut uno certo die per annum, quo ipsam coenam Dominus
dedit, tanquam ad insigniorem commemorationem post cibos offerri et accipi
liceat corpus et sanguinem Domini … Quanto all’uso di fare il bagno in
questo giorno, il vescovo ne individua la ragione probabilmente nel fatto che,
dovendo i battezzandi accostarsi al fonte battesimale, si era scelto il giorno
in cui si celebra l’anniversario della cena del Signore per rompere il digiuno
e provvedere alla cura del corpo, trascurata nel periodo quaresimale: Si …quaeris, cur etiam lavandi mos ortus
sit: nihil mihi de hac re cogitanti probabilius occurrit, nisi quia
baptizandorum corpora per observationem Quadragesimae sordidata, cum offensione
sensus ad fontem tractarentur, nisi aliqua die lavarentur. Istum autem diem
potius ad hoc electum, quo coena domenica anniversarie celebratur. Et quia
concessum est hoc Baptismum accepturis, multi cum his lavare voluerunt,
jejuniumque relaxare (Ep. 54.8.9,
in PL 33, col. 204). Il canone
conciliare successivo proibisce ogni forma di convivio nella casa del Signore,
fatta eccezione per il caso in cui sia necessario provvedere ad ospiti di
passaggio: Ut nulli episcopi vel clerici
in ecclesia conviventur, nisi forte transeuntes hospitiorum necessitate illic
reficiantur. Populi etiam ab hujusmodi conviviis, quantum fieri potest,
prohibeantur (can. XXX, in Mansi,
3, col. 885). Il IV Concilio Cartaginese ribadisce che la Pasqua deve essere
celebrata dappertutto nello stesso giorno: Paschae solennitas uno die et tempore celebranda (can. LXV, ibidem, col. 956).
[71] Qui die solenni, praetermisso solenni ecclesiae
conventu, ad spectacula vadit, excommunicetur (can. LXXXVIII, ibidem, col. 958).
[72] Auguriis vel incantationibus servientem, a
conventu ecclesiae separandum. Similiter et superstinionibus Judaicis vel
feriis inhaerentem (can. LXXXIX, ibidem,
col. 958).
[74] Illud etiam petendum, ut quoniam contra
praecepta divina convivia multis in locis exercentur, quae ab errore gentili
attracta sunt, ita ut nunc a paganis Christiani ad haec celebranda cogantur; ex
qua re temporibus Christianorum imperatorum persecutio altera fieri occulte
videatur: vetari talia jubeant, et de civitatibus et de possessionibus imposita
poena prohibere; maxime cum etiam in natalibus beatissimorum martyrum per
nonnullas civitates, et in ipsis locis sacris talia committere non reformident.
Quibus diebus etiam, quod pudoris est dicere, saltationes sceleratissimas per
vicos atque plateas exerceant: ut matronalis honor, et innumerabilium
foeminarum pudor, devote venientium ad sacratissimum diem, injuriis
lascivientibus appetatur; ut etiam ipsius sanctae religionis pene fugiatur
accessus (can. LX, in Mansi, 3,
coll. 766-767). Tale ultima espressione è stata intesa nel senso di impedimento
per le donne di entrare nei luoghi divini nei quali i fedeli esercitavano il
culto religioso. Cfr. E. DOVERE, C.Th.
16.11.1 (iungenda autem ei 16.10.17-18), in Rivista di Diritto romano, VIII (2008), www.ledonline.it/rivistadirittoromano.
[75] Necnon et illud petendum, ut spectacula
theatrorum, ceterorumque ludorum die domenica, vel ceteris religionis
Christianae diebus celeberrimis amoveantur; maxime quia sancti paschae
octavarum die populi ad circum magis quam ad ecclesiam conveniunt, debere
transferri devotionis eorum dies siquando occurrerint, nec oportere etiam
quemquam Christianorum cogi ad haec spectacula: maxime, quia in his exercendis
quae contra praecepta Dei sunt, nulla persecutionis necessitas a quoquam
adhibenda est: sed, uti oportet, homo in libera voluntate subsistat sibi
divinitus concessa. Cooperatorum enim maxime periculum considerandum est, qui
contra praecepta Dei magno terrore coguntur ad spectacula convenire (can.
LXI, in Mansi, 3, col. 767).
[76] Synodus S. Patricii, can. XXII, in Mansi, 6, col. 525: Post examinationem carceris sumenda est: maxime autem in nocte paschae,
in qua qui non communicat fidelis non est …
[77] Così,
con riferimento al digiuno del sabato santo, il concilium Arausicanum I,
a. 441, ibidem, col. 443 dispone: Ut in sabbato sancto, hoc est, in vigilia
paschae, jejunium ante noctis initium, nisi a parvulis et infirmis, non
solvatur, nec in parasceve: quia coena domini, et parasceve, et sabbatum, ad
illos quadraginta dies respiciunt: vel divina mysteria his duobus diebus
celebrantur, canonibus quippe jubentibus, in biduo isto, id est, parasceve et
sabbato, sacramenta penitus non celebrari. Quanto alla Pasqua, vi è l’obbligo per i presbiteri e i diaconi delle
Chiese rurali di procurarsi, prima della ricorrenza, il crisma direttamente dal
proprio vescovo perché si ritiene sconveniente o inopportuno rivolgersi ad
altri Pastori (concilium Vasense II,
can. III, ibidem, col. 453). Si
stabilisce che il vescovo, quando si trova fuori della propria diocesi, di
domenica potrà offrire il sacrificio, ma non potrà fare alcuna ordinazione
senza il permesso del vescovo diocesano (Synodus
S. Patricii, can. XXX, ibidem,
col. 518) e che il tempo per ricevere il battesimo è solo quello solenne di
Pasqua, Pentecoste ed Epifania (can. XIX, ibidem,
col. 525).
[78] Sulla
progressiva affermazione, nel V secolo, della prassi conciliare fino alla
parificazione tra canoni e regole legislative cfr. E. DOVERE, Normazione teodosiana «de fide»: la scelta
conciliare (aa. 435-449), in Vetera
christianorum, 1 (2006), 67 ss.
[79] Concilium Vasense II, can. IX, in Mansi, 6, col. 455. Il canone fa
riferimento ad una costituzione di Onorio e Teodosio in materia di bambini
esposti (CTh. 5.9.2).
[80] Saeculares, qui natale domini, pascha, et
pentecostem non communicaverint, catholici non credantur, nec inter catholicos
habeantur (can. XVIII, in Mansi,
8, col. 327).
[81] Placuit etiam, ut omnes ecclesiae filii,
exceptis diebus dominicis, in quadragesima, etiam die sabbato, sacerdotali
ordinatione, et districtionis comminatione jejunent (ibidem, col. 327).
[82] Symbolum etiam placuit ab omnibus ecclesiis
una die, id est ante octo dies dominicae resurrectionis, publice in ecclesia
competentibus tradi (can. XIII, ibidem,
col. 327).
[83] Il can. XXI, ibidem,
col. 328, individua, fra le altre ricorrenze, quelle di Pasqua, Natale,
Epifania, Ascensione, Pentecoste, natività di San Giovanni Battista: Si quis etiam extra parochias, in quibus
legitimus est ordinariusque conventus, oratorium in agro habere voluerit;
reliquis festivitatibus, ut ibi missas teneat propter fatigationem familiae,
justa ordinatione permittimus: Pascha vero, natale domini, epiphania,
ascensionem domini, pentecostem, et natalem S. Joannis Baptistae, vel si qui
maximi dies in festivitatibus habentur, non nisi in civitatibus aut in
parochiis teneant. Clerici vero, si qui in festivitatibus, quas supra diximus,
in oratoriis, nisi jubente aut permittente episcopio, missas facere aut tenere
voluerint, a communione pellantur.
[84] Ut cives, qui superiorum solennitatum, id
est, paschae, ac natalis domini, vel pentecostes festivitatibus cum episcopis
interesse neglexerint, (cum in civitatibus communionis, vel benedictionis
accipiendae causa positos se nosse debeant) triennio a communione priventur
ecclesiae (can. LXIII, ibidem,
col. 335).
[85] Si quis in clero constitutus ab ecclesia
sua diebus solennibus desuerit, id est, nativitate, ephifania, pascha, vel pentecoste,
dum potius saecularibus lucris studet, quam servitio Deo paret, convenit ut
triennio a communione suspendatur. Similiter diaconus, vel presbyter, si tres
hebdomadas ab ecclesia sua desuerint, huic damnationi succumbant (can.
LXIV, ibidem, col. 336). Quanto ai
laici, il can. XLVII (Mansi, 8, col.
332) impone di assistere, nel giorno del Signore, all’intera messa in modo da
impedire loro di allontanarsi dall’edificio sacro prima della benedizione, pena
il biasimo pubblico del vescovo: Missas
de dominico a saecularibus totas teneri speciali ordinatione praecipimus: ita
ut ante benedictionem sacerdotis egredi populus non praesumat. Qui si fecerint,
ab episcopo publice confundantur. Il concilium
Lugdunense III, a. 583, can. V, in Mansi, 9, col. 943, ribadisce l’obbligo per
ciascun vescovo di celebrare nella propria chiesa le feste di Natale e Pasqua,
salvo in caso di malattia o di un ordine reale: Ut nullus episcoporum natalem domini, aut Pascha, alibi nisi ad
ecclesiam suam, praeter infirmitatis incursum, aut ordinem regium, celebrare
praesumat.
[86] È ciò
che accade per le Rogazioni, durante le quali servi et ancillae ab omni opere relaxentur quo magis plebs universa
conveniat. Nel can. XXVII del concilium
Aurelianense I, a. 511, in Mansi,
8, col. 355, si legge che devono celebrarsi in tutte le chiese le litanie prima
dell’Ascensione, in modo che il digiuno, che dura tre giorni, termini con la
festività della domenica. In questo arco temporale si concede anche agli
schiavi, uomini e donne, di liberarsi da ogni occupazione in modo che il popolo
si riunisca al completo per rendere il culto a Dio. Nello stesso tempo, è
necessario astenersi e utilizzare solo i cibi permessi in quaresima: Rogationes, id est litanias ante ascensionem
domini ab omnibus ecclesiis placuit celebrari; ita ut praemissum triduanum
jejunium in dominicae ascensionis festivitate solvatur: per quod triduum servi
et ancillae ab omni opere relaxentur, quo magis plebs universa conveniat: quo
triduo omnes abstineant, et quadragesimalibus cibis utantur (ibidem, col. 355). Sul piano
strettamente ecclesiastico sono previste pene facoltative per i chierici che
mostrano disprezzo per questa santa cerimonia: Clerici vero qui ad hoc opus sanctum adesse contempserint, secundum
arbitrium episcopi ecclesiae suscipiant disciplinam (can. XXVIII, ibidem, col. 355). Sulle litanie, in
particolare in Gallia, cfr. F. CABROL, Litanies,
in Dictionnaire d’archéologie chrétienne
et de liturgie, 9.2 (1930), col. 1559 s.
[87]
S’interdice al clero, in tutti i gradi, di giudicare alcuna causa, cosa invece
consentita negli altri giorni, eccezion fatta per le cause criminali: Ut nullus episcoporum, aut presbyterorum,
vel clericorum die dominico propositum cujuscumque causae negotium audeat
judicare; nisi ut hoc tantum, ut Deo statuta solennia peragant. Ceteris vero
diebus convenientibus personis, illa quae justa sunt habeant licentiam
judicandi, exceptis criminalibus negotiis (concilium Tarraconense, a. 516, can. IV, ibidem, col. 541 s.). Alcune norme hanno ad oggetto il regolamento
per le parrocchie di campagna. Tra le altre, il can. VII stabilisce che, quando
un sacerdote e un diacono sono stati collocati con altri chierici in una chiesa
rurale, questi devono alternarsi per il servizio. Durante la settimana il
presbitero deve ottemperare al servizio divino, che consiste nella recitazione
quotidiana dei mattutini e dei vespri, mentre la settimana successiva questo
compito spetterà al diacono. Il sabato, però, tutti i chierici devono assistere
ai vespri perché è più facile che nel giorno di domenica la solennità sia
celebrata con la partecipazione di tutti. Talora succede che, per negligenza
dei chierici, non ci sono lampade per uso nelle chiese. Chi non si uniforma a
tale disposizione sarà punito (can. VII, ibidem,
col. 542). Cfr. in argomento M. SOTOMAYOR, Penetración
de la Iglesia en los medios rurales de la España tardorromana y visigota,
in Cristianizzazione ed organizzazione
ecclesiastica delle campagne nell’Alto Medioevo: espansione e resistenze,
2, Settimane di studio del Centro italiano di studi sull’Alto medioevo, XXVIII,
Spoleto 1982, 642.
[88] Si
stabilisce che, intuitu miserationis, tutte le domeniche (singulis diebus dominicis) coloro i
quali sono in carcere per espiare le proprie colpe devono essere visitati
dall’arcidiacono o dal responsabile della chiesa, affinché con misericordia
siano assistiti nei propri bisogni conformemente al precetto divino; il vescovo
deve nominare una persona diligente e fedele, che provveda alle cose
indispensabili, essendo lui stesso competente a fornire i viveri necessari
prelevandoli dalla casa ecclesiale, vale a dire dalla dimora episcopale e dalle
sue risorse: Id etiam miserationis
intuitu aequum duximus custodiri, ut qui pro quibuscumque culpis in carceribus
deputantur, ab archidiacono seu a praeposito ecclesiae singulis diebus
dominicis requirantur, ut necessitas vinctorum secundum praeceptum divinum
misericorditer sublevetur; atque a pontifice, instituta fideli et diligenti
persona, quae necessaria provideat, competens eis victus de domo ecclesiae
tribuatur (concilium Aurelianense
V, a. 549, can. XX, in Mansi, 9, col.
134). Tali provvidenze s’inseriscono in una tendenza più generale, accolta
dalla normativa imperiale, che documenta in costituzioni del V secolo la
recezione di pratiche liturgiche ispirate alla humanitas come l’assistenza e il conforto dei detenuti. Cfr. in
particolare CTh. 9.3.7 = CI. 1.4.9 e Sirm.
13 su cui, per tutti, cfr. A. LOVATO, Il
carcere nel diritto penale romano.
Dai Severi a Giustiniano, Bari 1994, 209-212.
[89] Concilium Gerundense, a. 517, cann.
IV-V, in Mansi, 8, col. 549. Il can.
XVIII del concilium Autisiodorense, ibidem, 9, col. 914, ribadisce l’obbligo
di battezzare solo durante la solennità pasquale, con l’eccezione di coloro che
sono prossimi alla morte, i c.d. ‘grabatarii’. Sono previste conseguenze per i
contravventori: Non licet absque paschae
solennitate ullo tempore baptizare, nisi illos quibus mors vicina est, quos
grabatarios dicunt. Quod si quis in alio pago, contumacia faciente, post
interdictum hoc infantes suos ad baptismum detulerit in ecclesias nostras, non
recipiantur usque ad satisfactionem. Et quicumque presbyter ipsos extra nostrum
permissum recipere praesumpserit, tribus mensibus a communione ecclesiae
sequestratus sit. L’espressione del verbo al plurale (non recipiantur) con il soggetto al singolare (si quis) ha suggerito l’ipotesi che la sanzione prevista in caso di
inosservanza della norma abbia come destinatari tanto i genitori quanto i figli
stessi. Cfr. J. GAUDEMET-B. BASDEVANT, Les canons des conciles mérovingiens (VI-VII
siècles), 2, Paris 1989, 494 nota 2.
[90] Concilium Gerundense, can. I, in Mansi, 8, col. 549: De institutione missarum, ut quomodo in metropolitana ecclesia fuerit,
ita in Dei nomine in omni Tarraconensi provincia, tam ipsius missae ordo, quam
psallendi, vel ministrandi consuetudo servetur. Alcune disposizioni
riguardano le Rogazioni: nella settimana che segue la Pentecoste devono essere
celebrate le litanie per tre giorni, vale a dire dalla V feria fino al sabato,
durante i quali si deve osservare l’astinenza (can. II, ibidem, col. 549). Le seconde litanie devono svolgersi a partire
dal 1° novembre (Kalendis Novembris)
e, se uno di questi tre giorni cade di domenica, le stesse devono essere rinviate
ad un’altra settimana a partire dal giovedì per terminare il sabato dopo la
messa serale. È necessario astenersi dalle carni e dal vino (can. III, ibidem, col. 549).
[91] Il concilium Epaonense, a. 517, can. XXXV, ibidem, col. 563 afferma: Ut
cives superiorum natalium nocte paschae, ac nativitatis domini solennitate,
episcopos, nec interest in quibus civitatibus positos, accipiendae
benedictionis desiderio noverint expetendos. Il concilium Arvernense, a. 535, can. XV, ibidem, col. 862, conferma l’obbligo per i chierici delle chiese
rurali di andare a celebrare accanto al vescovo della città nelle principali
festività, vale a dire a Natale, Pasqua, Pentecoste, oltre che nelle altre
solennità importanti. Negli stessi giorni, tutti i cittadini natu majores devono recarsi in città dai
propri vescovi, pena l’esclusione dalla comunione: Si quis ex presbyteris aut diaconis, qui neque in civitate, neque in
parochiis canonicus esse dignoscitur, sed in villulis habitans, in oratoriis officio
sancto deserviens celebrat divina mysteria, festivitates praecipuas, domini
natale, pascha, pentecosten, et si quae principales sunt reliquae solennitates,
nullatenus alibi, nisi cum episcopo suo in civitate teneat. Quicumque etiam
sunt cives natu majores, pari modo in urbibus ad pontifices suos in praedictis
festivitatibus veniant. Quod si qui improba temeritate contempserint, hisdem
festivitatibus, quibus in civitate adesse despiciunt, communione pellantur.
Sull’impiego e il significato del termine villa
con riferimento al canone in esame cfr. E. MAGNOU-NORTIER, Aux sources de la gestion publique, I, Enquête lexicographique sur fundus, villa, domus, mansus, Lille
1993, 62 ss. Il can. III del concilium
Aurelianense IV, a. 541, in Mansi,
9, col. 113 s. vieta ai laici più insigni (primores)
di festeggiare la Pasqua lontano dalla città episcopale: le feste solenni
devono essere celebrate alla presenza del vescovo là dove deve aver luogo la
santa assemblea. Tuttavia, se qualcuno è impedito da una necessità certa deve
chiedere al vescovo un congedo. Se non lo fa, deve essere scomunicato, durante
detta ricorrenza, nello stesso luogo in cui ha voluto trascorrerla: Quisquis de prioribus civibus pascha extra
civitatem tenere voluerit, sciat sibi a cuncta synodo esse prohibitum: sed
principales festivitates sub praesentia episcopi teneant, ubi sanctum decet
esse conventum. Tamen si aliquis certa necessitate constringatur, ut hoc
implere non possit, ab episcopo postulet commeatum. Quod si hoc postulare
despexerit, in eodem loco, id est in festivitate praesenti, ubi tenere
voluerit, suspendatur.
[92] Quia persuasum est populis die dominico agi
cum caballis, aut bubus, et vehiculis itinera non debere, neque ullam rem ad
victum praeparare, vel ad nitorem domus vel hominis pertinentem ullatenus
exercere, (quae res ad Judaicam magis quam ad Christianam observantiam
pertinere probatur) id statuimus, ut die dominico, quod ante fieri licuit,
liceat. De opere tamen rurali, id est arato, vel vinea, vel sectione, messione,
excussione, exarto, vel sepe, censuimus abstinendum; quo facilius ad ecclesiam
convenientes orationis gratiae vacent. Quod si inventus fuerit quis in operibus
suprascriptis, quae interdica sunt, se exercere, qualiter emendari debeat, non
in laici districtione, sed in sacerdotis castigatione consistat (ibidem, col. 19).
[93] Il
riferimento è alla festa pagana del 1° gennaio. Nel canone si fa riferimento
anche ai credenti che, durante la festa della cattedra di San Pietro, offrono
cibo ai morti e che, rientrando nelle proprie case dopo la messa, ritornano
agli antichi errori, prendendo, dopo il Corpo del Signore, cibo consacrato agli
dèi. Tanto i Pastori quanto i vescovi, per la loro santa autorità, vengono
esortati a vegliare attentamente a che siano allontanati quanti persistano in
detta sciocchezza, o compiano riti incompatibili con lo spirito della chiesa, e
a che non partecipino al santo altare coloro i quali seguono le osservanze
pagane. Si tratta di gravi reati, che devono essere condannati piuttosto che
perdonati (concilium Turonense II, a.
567, can. XXII, ibidem, col. 803).
Sulle disposizioni che condannano la partecipazione dei fedeli alle pratiche
pagane, con particolare riferimento al 1° gennaio, il concilium Autisiodorense, can. I, ibidem, col. 912, dispone che in questo giorno nessuno deve
travestirsi da animale o fare le strenne diaboliche: Non liceat Kalendis Januarii vetula, aut cervolo facere, vel stenas
diabolicas observare: sed in ipsa die sic omnia beneficia tribuantur, sicut et
reliquis diebus. Il can. III vieta di celebrare nelle proprie case le
vigilie delle feste dei santi, così come proibisce di compiere i voti nelle
foreste o ai piedi degli alberi sacri o presso le fonti: ordina a chiunque
abbia fatto un voto di vegliare in chiesa e di compiere questo voto a vantaggio
dei poveri (matricula). Questo
termine appare per la prima volta nel can. XIII del Concilio d’Orléans del 541
(ibidem, col. 115). Sulle matriculae
pauperum cfr. M. ROUCHE, La matricule
des pauvres. évolution d’une
institution de charité du Bas Empire jusqu’à la fin du Haut Moyen Age, in études
sur l’Histoire de la pauvreté (Moyen Age-XVI siècle), a cura di M. Mollat, 1, Paris 1974, 83 ss.; M. DE
WAHA, À propos d’un article récent. Quelques
réflexions sur la matricule des pauvres, in Byzantion, 46 (1976), 354 ss.; C. CORBO, Paupertas. La
legislazione tardoantica, Napoli 2006, 190 ss.
[94]
Interessante, a tal proposito, il concilio svoltosi nel 511 a Orléans, che
inaugura la serie dei concili merovingi. Nella riproposizione del modello,
ispiratore di Costantino, non soltanto è il re a convocare il primo grande
concilio del suo regno come espressamente riferito dalla breve prefazione ai
canoni (Cum auctore Deo ex evocatione
gloriosissimi regis Clothovechi, in Aurelianensi urbe fuisset concilium
summorum antistitum congregatum), ma è lui stesso a delinearne la portata
dei lavori: secundum voluntatis vestrae
consultationem, et titulos, quos dedistis, ea quae nobis visum est definitione
respondimus; secondo uno schema che si ripeterà nella prassi conciliare,
nella stessa lettera sinodale la Chiesa tutta esprime grande riconoscenza al
«proprio figlio e gloriosissimo re», che per la sua grande fede aveva deciso di
consultare i sacerdoti per il riordino di alcune situazioni e per voler dotare
le deliberazioni di quell’efficacia qualificata derivante dell’approvazione
regia: … Tanti consensus regis ac domini
majori auctoritate servandam tantorum firmet sententiam sacerdotum (Mansi, 8, col. 350). Tradizione e
innovazione vengono a caratterizzare la disciplina dei momenti cultuali. Si
riconfermano precedenti norme conciliari, tra cui quelle relative
all’osservanza, prima della festività di Pasqua, della quadragesima e non della
quinquagesima: Id a sacerdotibus omnibus
decretum est, ut anta paschae solennitatem, non quinquagesima, sed quadragesima
teneatur (can. XXIV, ibidem, col.
355), ai divieti di festeggiare in villa
le festività di Pasqua, Natale e Pentecoste, salvo in caso di malattia: Ut nulli civium paschae, natalis domini, vel
quinquagesimae solennitatem in villa liceat celebrare, nisi quem infirmitas
probabitur tenuisse (can. XXV, ibidem,
col. 355), di lasciare la Chiesa prima della fine della messa, ribadendo la
necessità di ricevere la benedizione dal vescovo, ove presente: Cum ad celebrandas missas in Dei nomine
convenitur, populus non ante discedat, quam missae solennitas compleatur, et
ubi episcopus fuerit, benedictionem accipiat sacerdotis (can. XXVI, ibidem, col. 355). Il vescovo, inoltre,
nel giorno del Signore deve recarsi nella Chiesa a lui più vicina, a meno che
sia impedito da malattia: Episcopus si
infirmitate non fuerit impeditus, ecclesiae cui proximus fuerit die dominico
deesse non liceat (can. XXXI, ibidem,
col. 356).
[95] Ibidem, col. 361. A tal proposito, si
legge che quando i popoli della Gallia furono annientati dalla rabbia dei lupi
né si potè trovare un rimedio per questo flagello, tutti insieme i Vescovi
della Gallia andarono a Vienna e stabilirono di comune accordo di fare un
digiuno per tre giorni. Poiché il Signore aveva abolito per pietà la peste, per
consuetudine questi giorni vennero celebrati, nelle province della Gallia,
prima dell’Ascensione del Signore. Questi giorni vanno celebrati con somma
riverenza e con devozione, con astinenza dalla carne, umiltà del cuore, non per
sfuggire alla rabbia dei lupi visibili ma per vincere le tentazioni degli
spiriti immondi. In quei giorni non è concesso ad alcuno vestirsi con abiti
preziosi, ubriacarsi e fare baldoria, cavalcare; in nessun caso, poi, le donne
possono danzare. È necessario, invece, che tutti cantino insieme il Kyrie eleison e, con contrizione,
invochino la misericordia di Dio per i peccati, per la pace, per la peste, per
la conservazione dei raccolti e per ogni necessità. Sono questi, infatti,
giorni di rinunce, non di letizia (ibidem,
col. 366). Oltre a ciò, si stabilisce il tempo divino nel quale è necessario
flettere le ginocchia durante la messa, vale a dire in quaresima e durante il
digiuno delle Quattro tempora, a
differenza delle domeniche o delle altre festività. Inoltre i presbiteri,
quando annunciano le sacre festività, devono ammonire i popoli all’osservanza
anche del digiuno prescritto durante le vigilie (ibidem, col. 368).
[96] Concilium Aurelianense III, can. XXX, in
Mansi, 9, col. 19: Quia Deo propitio sub catholicorum regum
dominatione consistimus, Judaei a die coenae Domini usque in secundam sabbati
in pascha, hoc est ipso quatriduo, procedere inter Christianos, neque
catholicis populis se ullo loco, vel quacumque occasione miscere praesumant.
[97] Il IV concilio d’Orléans, nel 541, al can. I affronta
tale problematica ribadendo che la festa di Pasqua deve essere celebrata da
tutti nello stesso tempo e conformemente al computo di Vittorio. Ogni anno, nel
giorno dell’Epifania, il vescovo deve annunciare al popolo, in Chiesa, la data
della Pasqua; in caso di dubbi sulla stessa, ci si deve attenere alla decisione
della Sede Apostolica, che tutti i vescovi metropolitani devono seguire: Placuit itaque, Deo propitio ut sanctum
pascha secundum laterculum Victorii ab omnibus sacerdotibus uno tempore
celebretur. Quae festivitas annis singulis ab episcopo epiphaniorum die in
ecclesia populis denuncietur. De qua solennitate quoties aliquid dubitatur,
inquisita vel agnita per metropolitanos a sede apostolica sacra constitutio
teneatur (Mansi, 9, col. 113).
Alcune chiese avevano però sostituito al ciclo di Vittorio di Aquitania quello
di provenienza romana, ispirato al computo degli Alessandrini creando così
profonde divergenze, che la norma conciliare cerca di risolvere imponendo
l’antico computo. Il canone successivo riconferma l’uniformità anche con
riferimento al periodo pre-pasquale: in tutte le Chiese deve essere osservata
una quaresima e non una quinquagesima o una sessagesima; in questo spazio religioso non è lecito essere
dispensati dal digiuno nei giorni di sabato se non per infermità ed è possibile
mangiare solo di domenica, come hanno sancito gli statuti dei Padri. Se
qualcuno viola questa regola deve essere considerato dai vescovi come un
trasgressore della disciplina: Hoc etiam
decernimus observandum, ut quadragesima ab omnibus ecclesiis aequaliter
teneatur; neque quinquagesimam aut sexagesimam ante pascha quilibet sacerdos
praesumat indicere. Sed neque per sabbata absque infirmitate quisquam solvat
quadragesimae jejunium, nisi tantum die dominico prandeat; quod sic fieri
specialiter pratrum statuta sanxerunt. Si quis hanc regulam irruperit, tanquam
transgressor disciplinae a sacerdotibus censeatur (can. II, in Mansi, 9, col. 113). Il concilium Bracarense III, nel 572,
ritorna sulla importanza di stabilire una comune data di celebrazione della
Pasqua secondo un particolareggiato rituale che coinvolge l’intera comunità.
Nel can. IX, ibidem, col. 840 s., si
stabilisce che ogni anno il vescovo metropolitano deve annunciare in quale
giorno delle calende o in quale luna cadrà la Pasqua; gli altri vescovi e il
rimanente clero, annotando questa data in un libro nella propria Chiesa, giunto
il Natale, dopo il Vangelo devono annunciarla al popolo affinché nessuno ignori
l’avvio del tempo sacro. All’inizio della quaresima, per tre giorni, devono
svolgersi le litanie; il terzo giorno, dopo le messe all’ora IX o X, al popolo
che si congeda si impone di osservare il digiuno nella quaresima e durante la
stessa gli infanti, prossimi al battesimo, devono offrirsi alla purgazione
dell’esorcismo. Il can. I dispone che al catecumeno, nel periodo pasquale,
s’insegni il simbolo (ibidem, col.
838 s.).
[98]
S’intende colpire con l’anatema quanti non onorano il Natale digiunando in quel
giorno, oltre che nel giorno del Signore, perché ritengono che il Cristo non
sia nato con una vera natura umana, così come insegnano Cerdone, Marcione,
Manicheo e Priscilliano: Si quis natalem
Christi secundum carnem non bene honorat, sed honorare se simulat, jejunans in
eodem die, et in dominico; quia Christum in vera hominis natura natum esse non
credit, sicut Cerdon, Marcion, Manichaeus et Priscillianus, anathema sit (concilium Bracarense II, a. 563, can.
IV, ibidem, col. 775). La stessa pena
è prevista per chi, nella quinta feria di Pasqua, vale a dire il giovedì santo,
non assiste alla messa, a digiuno, a un’ora determinata dopo la nona ma,
secondo l’uso della setta di Priscilliano, celebra, a partire dall’ora terza,
la solennità di questo giorno, interrompendo il digiuno dopo aver assistito
alla messa dei defunti: Si quis quinta
feria paschali, quae est coena domini, hora legitima, post nonam jejunus in
ecclesia missas non tenet, sed secundum sectam Priscilliani, festivitatem
ipsius diei, ab hora tertia, per missas defunctorum, soluto jejunio colit,
anathema sit (can. XVI, ibidem,
col. 776). Il concilio impone, inoltre, l’osservanza di ventidue capitoli
tendenti a stabilire più uniformità nella liturgia (ibidem, col. 777 ss.).
[99] Ut unaquaeque mulier, quando communicat,
dominicalem suum habeat. Quod si qua non habuerit, usque in alium diem
dominicum non communicet (concilium
Autisiodorense, can. XLII, ibidem,
col. 915). Il ‘domenicale’ era un velo che si poneva sulla testa nel giorno del
Signore.
[101] Non licet mulieri manum suam ad pallam
dominicam mittere (can. XXXVII, ibidem,
col. 915). Con una disposizione singolare, il can. XLV, ibidem, col. 916, stabilisce che chiunque non osserverà le
disposizioni conciliari o non segnalerà al vescovo i trasgressori sarà escluso,
per un anno, da tutti i rapporti con i fratelli o con gli altri cristiani: Si quis hanc definitionem, quam ex
auctoritate canonica communi consensu, et convenientia conscripsimus ac
instituimus, tam ad clerum, quam ad populum commonendum, vel ad id quod
constitutum est conservandum, negligens inventus fuerit, et ob hoc observare
distulerit, aut eos qui ipsum audire neglexerint celaverit aut suppresserit, et
in notitiam episcopi non deposuerit, anno a consortio fratrum, vel ab omnium
Christianorum communione habeatur extraneus.
[102] Ut a feria S. Martini usque ad natale domini, secunda,
quarta, et sexta sabbati jejunetur, et sacrificia quadragesimali debeant ordine
celebrari. In quibus diebus canones legendos esse speciali definitione
sancimus, ut nullus se fateatur per ignorantiam deliquisse (concilium
Matisconense, can. IX, ibidem, col. 933). La rilevanza liturgica e
cultuale che, già a partire dal II secolo, si attribuisce alle ferie IV e VI è
espressione dell’esigenza di riproporre nella settimana, scandita dal ritmo del
giorno religioso della domenica, il memoriale del sacrificio pasquale. Nella
dimensione divina del tempo, il mercoledì ricorda il giorno in cui Cristo fu
tradito e il venerdì quello in cui fu crocifisso. La formalizzazione
dell’ampliamento della prospettiva salvifica anche agli altri giorni della
settimana si avrà solo successivamente. Così Onorio di Autun (Gemma animae, 2. 67-68, in PL 172,
coll. 640-642) tradurrà nelle specifiche formule di rito il significato
profetico dei vari giorni della settimana in una simbolica proiezione degli
eventi divini. Ogni giorno della settimana va celebrata in ricordo di Dio: Sicut olim dies a paganis erant idolis
dedicati, ita sunt nunc singuli a Christianis Cristo Deo dicati. La
domenica rappresenta il concepimento (Domenica
quippe ipse conceptus est. Ideo illa die nocturnam Beatus vir … psallimus, quia
ipse in consilio Patris in uterum Virginis abiit, et tamquam sponsus de talamo
suo processit), il lunedì il battesimo (Seconda
die est baptizatus …), il martedì la nascita (tertia die est natus), il mercoledì il tradimento (Quarta die a Juda proditus), il giovedì
l’eucaristia (In feria quinta, corporis
ejus comestio …), il venerdì la Passione (Sexta die est crucifixus …); il sabato la sepoltura (Septima die jacuit sepultus … In octava die
resurrexit …). Sull’associazione delle messe votive con i singoli giorni
della settimana e sui formulari specifici utilizzati cfr. M. KUNZLER, op. cit., 536 s. Sono speciali giorni di
contrizione e di astinenza secondo le testimonianze più antiche (Didachè, 8.1). Clemente d’Alessandria afferma
che lo gnostico, l’idoneus operaius
addestrato ad entrare nel Regno dei cieli, conosce anche il significato
nascosto del digiuno fissato al quarto e sesto giorno: Novit ipse jejunii quoque aenigmata horum dierum, quarti, inquam, et
sexti. Dicitur autem ille quidem Mercurii, hic vero Veneris. Hinc ille jejunat
in vita, et ab avaritia, et a libidine, ex quibus omnia oriuntur vitia … (Strom.,
7.12, trad. lat. PG 9, col. 503 s.).
Dalle testimonianze di Tertulliano emerge che a Cartagine, all’inizio del III
secolo, il sacrificio della messa si celebrava la domenica e, a volte, durante
la settimana, il mercoledì e il venerdì, giorni consacrati al digiuno
stazionale. Basilio, Ep. 93, 4, in PG 32, col. 483 osserva: … quater
singulis hebdomadibus communicamus, Domenica die, quarta die, in parasceve et
Sabbato. Gregorio di Tours parla dell’adorazione della croce non solo di
domenica ma altresì alla quarta e sesta feria (De gloria martyrum, 1.5, in
PL 71, col. 709). Con riferimento a questi giorni anche le norme conciliari
ne esaltano il significato memoriale della passione di Cristo. Sul finire del
IV secolo è documentata la presenza del Triduum
Sacrum (venerdì, sabato e domenica) del Cristo morto, sepolto e risorto (sacratissimum triduum crucifixi, sepulti,
suscitati) e il caput jejunii della
quaresima è proprio il mercoledì (cd. delle ceneri) precedente la prima
domenica. L’antica istituzione dei Quattro
tempora, che si celebrava in quattro periodi dell’anno (prima settimana di
Quaresima, ottava di Pentecoste, terza settimana di settembre e di Avvento),
dedicava tre giorni ciascuno, e precisamente il mercoledì, il venerdì e il
sabato, a preghiere e atti di penitenza.
[103] Il re
Gontrano pubblicò le ordinanze del concilio in un editto del 10 novembre 585,
diretto a tutti i vescovi, sacerdoti e giudici del suo regno e di quello di suo
nipote Clotario II, confermando il can. I del concilio: … Idcirco hujus decreti ac definitionis generalis vigore decernimus, ut
in omnibus diebus dominicis, in quibus sanctae resurrectionis mysterium
veneramur, vel in quibuscumque reliquis solennitatibus, quando ex more ad
veneranda templorum oracula universae plebis coniunctio devotionis congregatur
studio, praeter victum quem praeparari convenit, ab omni corporali opere
suspendantur, nec ulla causarum praecipue jurgia moveantur … (Praeceptio gloriosissimi regis Guntramni,
in Mansi, 9, col. 962).
[104] Il concilium Narbonense, a. 589, in una
dimensione formalistica del riposo domenicale, stabilisce un’uguaglianza tra
gli uomini quanto al precetto negativo dell’inattività e una diversità di
trattamento punitivo quanto all’inosservanza dello stesso. Se da un lato si
richiede che ogni uomo, libero o schiavo, gotico, romano, siriaco, greco o
giudeo die dominico non deve
attendere ad opera alcuna né deve aggiogare i buoi, eccetto il caso di
necessità, dall’altro per l’applicazione della pena rileva lo status del peccatore: sanzione
pecuniaria (sei solidi) per gli uomini liberi e pena corporale per gli schiavi
(cento frustrate): Ut omnis homo, tam
ingenuus, quam servus, Ghotus, Romanus, Syrus, Graecus, vel Judaeus, die
dominico nullam operam faciant, nec boves jungantur, excepto si in mutando
necessitas incubuerit. Quod si quisquam praesumpserit facere, si ingenuus est,
det comiti civitatis solidos sex; si servus, centum flagella suscipiat
(can. IV, ibidem, col. 1015). Il can.
XV vieta di celebrare il giovedì alla maniera dei pagani: Ad nos pervenit quosdam de populis catholicae fidei execrabili ritu
diem quintam feriam, qui et dicitur Jovis, multos excolere, et operationem non
facere. Quam rem pro Dei timore execrantes et blasfemantes, quicumque ab ac
die, praeter festivitates in eo die venientes, ausus vel ausa fuerit vacare, et
operam non facere, si ingenuus est, aut ingenua, de ecclesia repellendus, et
sub poenitentia mittendus anno uno, et eleemosyna et fletu satisfaciat, ut ei
dominus ignoscat: si servus aut ancilla fuerit, flagellis correcti domino
consignentur, et ultra talia eos observare non permittat (ibidem, col. 1017 s.).
Nella Historia Francorum (10.30, in PL 71, col. 562) Gregorio di Tours
riferisce intorno alle punizioni divine legate alla violazione della domenica.
Significativo il racconto di un evento accaduto nei pressi di una città dove
molte persone, per aver eseguito nel giorno del Signore un’opera pubblica,
erano state divorate da un fuoco celeste: Sanctus
enim est hic dies, qui in principio lucem conditam primus vidit, ac dominicae
resurrectionis testis factus emicuit: ideoque omni fide a Christianis observari
debet, ne fiat in eo omne opus publicum …; o ancora, tra le tante storie
miracolose raccontate da Gregorio, l’esaltazione di una guarigione, operata da
San Martino, di un uomo che, non metuens
neque honorans diem sactum dominicae resurrectionis, aveva macinato il
grano al mulino e, per questo, era stato punito da Dio (De miraculis Sancti Martini episcopi, 3, 3, in PL 71, col. 971).
[105] Mansi, 9, col. 949 s. Nei giorni di
domenica si richiede agli uomini e alle donne di presentarsi all’altare con l’offerta
di pane e vino come espiazione dei propri peccati; l’inosservanza di questa
disposizione è punita gravemente: … Omnes
autem qui definitiones nostras per inobedientiam evacuare contendunt,
anathemate percellantur (can. IV, ibidem,
col. 951). L’astensione dai lavori servili è prescritta anche durante la
settimana santa. Il can. II dispone che la solennità di Pasqua, nella quale il
sommo sacerdote e pontefice è stato immolato per i peccati degli uomini, deve
essere celebrata e venerata da tutti con grande festa: durante i sei giorni
così santi non è possibile svolgere un lavoro servile; tutti devono recitare o
cantare gli inni pasquali, partecipare assiduamente ai sacrifici quotidiani,
lodando di sera, al mattino e a mezzogiorno l’autore della creazione e della
rinascita spirituale: Pascha itaque
nostrum, in quo summus sacerdos et pontifex pro nostris delictis nullam habens
obnoxietatem peccati immolatus est, debemus omnes festivissime colere, et
sedulae observationis sinceritate in omnibus venerari: ut illis sanctissimis
sex diebus nullus servile opus audeat facere; sed omnes simul coadunati, himnis
paschalibus indulgentes, perseverationis nostrae praesentiam quotidianis
sacrificiis ostendamus, laudantes creatorem ac regeneratorem nostrum vespere,
mane, et meridie (ibidem, col. 950 s.). La Pasqua è inoltre il legitimus dies per rigerenarsi. Contro
la cattiva usanza, attestata dai rapporti di alcuni cristiani, di ricorrere al
battesimo in altri giorni dell’anno, come ad esempio negli anniversari dei martiri,
il can. III stabilisce che gli infanti vanno battezzati solo a Pasqua, tranne i
casi di necessità, e i genitori devono presentarli alla comunità all’inizio
della quaresima, in modo che, dopo aver ricevuto l’imposizione delle mani e le
unzioni sacre, possano ricevere il battesimo nel giorno della festa e giungere,
se sopravvivano, agli onori del sacerdozio: … censemus, ut ex hoc tempore nullus eorum permittatur talia perpetrare …
Ideoque praesentibus admonitionibus a suis erroribus vel ignorantia revocati,
omnes omnino a die quadragesima cum infantibus suis ad ecclesiam observare
praecipimus, ut impositionem manuum certis diebus adepti, et sacri olei liquore
peruncti, legitimi diei festivitate fruantur, et sacro baptismate regenerentur:
quo possint et honoribus, si vita comes fuerit, sacerdotalibus fungi, et
singularis celebrationis solennitate frui (ibidem, col. 951). Il concilio fa riferimento ad antichi canoni che
stabilivano l’esclusione dal sacerdozio di coloro i quali avevano ricevuto il
battesimo mentre erano malati (c.d. clinici)
e fuori dai giorni solenni. Cfr., in
argomento, C.M. CHARDON, Histoire des
sacrements, ou de la manière dont ils ont été célébrés et administrés dans
l’Église, et de l’usage qu’on en a fait depuis le temps des apôtres jusqu’à
présent, in Migne, Theologiae curcus completus, 20, I,
2.3, col. 85. Il can. VI rinnova la prescrizione del concilio d’Ippona che
esige che le messe siano celebrate a digiuno, tranne nel giorno della cena del
Signore. Nessun presbitero, infatti, dopo aver mangiato o bevuto vino, può
celebrare messe durante le festività: è ingiusto, infatti, che si preferisca il
cibo materiale a quello spirituale; ma se qualcuno attenti a ciò, perde la
dignità dell’onore. Dopo la messa i resti del pane consacrato, inumiditi di
vino, saranno dati il mercoledì e venerdì a giovani ragazzi che devono essere
ugualmente a digiuno (Mansi, 9, col.
952). Un capitolare di Colonia del 29 febbraio 594 impone, per il regno di
Childeberto II, gli stessi divieti e le medesime sanzioni del concilio
Matisconense in ordine al riposo domenicale. Il cap. XIV dispone, infatti,
l’astensione dai lavori servili, escluse le attività del cucinare e del
mangiare: sono previsti il pagamento di quindici solidi ove il trasgressore sia
salicus, vale a dire un uomo libero,
sette e mezzo se romanus, tre solidi
o la fustigazione se schiavo (Childeberti II, Regis Decretio, in MGH,
1, 10).
[106] Concilium Toletanum III, a. 589, can. XXIII,
in Mansi, 9, col. 999. Questo concilio
è confermato dal re Recaredo con una ordinanza speciale, unita ad un processo
verbale, nella quale si ordina che questi decreti siano osservati da chierici e
laici, punendo i trasgressori con pene severe.
[107] Cfr.,
in argomento, C. VENTRELLA MANCINI, La
sinfonia di Sacerdotium e Imperium nei concilî generali e particolari dei
secoli VI e VII, in Diritto e
religioni, (2011), 1, 357 ss.
[108] Solet in Hispaniis de solennitate paschali varietas
existere praedicationis: diversa enim observantia laterculorum paschalis
festivitatis interdum errorem parturit. Proinde placuit, ut ante tres menses
epiphaniorum metropolitani sacerdotes literis invicem se inquirant: ut communi
scientia edocti diem resurrectionis Christi, et comprovincialibus suis
insinuent, et uno tempore celebrandum annuntient (concilium Toletanum IV, can. V, in Mansi, 10, col. 618). Il concilio, convocato da re Sisenando nel
633, dispone l’universalità nella celebrazione dei sacri riti in tutta la
Spagna e nella Gallia Narbonense. Le regole fissate dai Padri ispirarono la
compilazione di un ordo conciliare,
che ebbe una grande influenza su tutti gli Ordines
composti per i concilî, provinciali e nazionali, fino al Vaticano II. Cfr., in
argomento, C. MUNIER, L’Ordo de
celebrando concilio wisigothique.
Ses
remaniements jusqu’au X siècle, in Revue des sciences religieuses, 37
(1963), 1, 250 ss.
[109] Lucerna
et cereus in praevigiliis paschae apud quasquam ecclesias non benedicuntur, et cur
a nobis benedicantur inquirunt. Propter gloriosum enim noctis ipsius
sacramentum solenniter haec benedicimus, ut sacrae resurrectionis Christi
mysterium, quod tempore hujus votivae noctis advenit, in benedictione
sanctificati luminis suscipiamus. Et quia haec observatio per multarum loca
terrarum, regionesque Hispaniae, in ecclesiis commendatur, dignum est, ut
propter unitatem pacis, in Gallicanis ecclesiis conservetur. Nulli autem impune
erit, qui haec statuta contempserit, sed patrum regulis subjacebit (can. IX, in Mansi, 10, col.
620 s.).
[110] Comperimus,
quod per nonnullas ecclesias in die sextae feriae passionis domini, clausis
basilicarum foribus, nec celebratur officium, nec passio domini populis
praedicatur; dum idem salvator noster apostolis suis praeceperit, dicens:
Passionem et mortem et resurrectionem meam omnibus praedicate. Ideo oportet
eodem die mysterium crucis quod ipse dominus cunctis nuntiandum voluit,
praedicari, atque indulgentiam criminum clara voce omnem populum postulare: ut
poenitentiae compunctione mundati, venerabilem diem dominicae resurrectionis,
remissis iniquitatibus suscipere mereamur; corporisque ejus, et sanguinis
sacramentum mundi a peccatis sumamus (can. VII, ibidem, col. 620). Sulla
cerimonia dell’indulgenza in uso nelle chiese spagnole il venerdì santo
cfr. L. DUCHESNE, Origines du culte
chrétien: étude sur la liturgie
latine avant Charlemagne, Paris 1889, 426.
[111] Can. XI, in Mansi,
10, col. 621 s. In particolare, in questo giorno di astinenza, non si canta
l’Alleluia così come in quaresima.
[112] Scilicet ut in cuncto regno a Deo sibi concesso specialis
et propria haec religiosa omni tempore teneatur observantia, ut a die Iduum
Decembrium litaniae triduo usque annua successione peragantur, et indulgentia
delictorum lacrymis impetretur. Quod si dies dominica intercesserit, in
sequenti hebdomada celebrentur; ut quoniam abundante iniquitate, et deficiente
caritate, eo usque protelatur malitia, ut nova exerceantur facinora, nova
quoque haec ipsa surgat consuetudo, quae possit ante omnipotentis oculos vestra
esse purgatio (concilium
Toletanum V, a. 636, can. I, ibidem,
col. 653 s.).
[113] Ibidem, col. 657 s. Due
anni dopo, questa disposizione è confermata dal concilium Toletanum VI, ibidem,
can. II, col. 663: Religiosissimi
principis nostri devotionem, et nostrorum consacerdotum primo anno regni sui
constitutionem cum magna reverentia et veneratione suscipientes, quam constat
jam in omni regno suo annua vice caelebrari, placuit etiam nostra assensione
firmari. Proinde universalis auctoritate censemus concilii, ut hi dies
litaniarum, qui in synodo praemissa sunt instituti, eodem in tempore, quo jussi
sunt excoli, annuo recursu omni observatione habeantur celeberrimi, ut pro
illis quibus nunc usque simul implicati sumus delictis, sit nostra expiatio
ante oculos Dei omnipotentis.
[115] Con
riferimento all’astensione dal lavoro servile nel giorno di domenica, anche il concilium Cabilonense, a. 650, can.
XVIII, ibidem, col. 1192 s., è
conforme alla tradizione.
[116] I
sacerdoti del luogo hanno il compito di allontanare dalle basiliche queste
persone, le quali, in caso di resistenza all’emenda, devono essere scomunicate
o, comunque, provare l’aculeo della disciplina (can. XIX, ibidem, col. 1193).
[117] Baptizati Judaei quocumque loco cetero tempore
conversentur, festis tamen praecipuis novi testamenti serie consecratis, ac
diebus illis, qui olim sanctione veteris legis sibimet censebantur esse
solennes, in civitatibus publicisque conventibus cum summis Dei sacerdotibus
celebrare praecipimus, ut eorum conversationem, ac fidem, et pontifex approbet,
et veritas servetur. Hujus vero temerator edicti, prout aetas permiserit, aut
flagris aut abstinentiae subjacebit. Expletis omnibus, quae ad honestatis
regulam in collationem venere fraternam, grates exolvimus immortali domino
soli, cuius dispositione mirabili ad hunc sanctae congregationis coetum
meruimus adunari, ut et communis visio prosperitatem nostram ostenderet, et par
definitio concordiam assignaret: obsecrantes ejus misericordiam largam, ut
serenissimo domino et amabili Christo Reccesvintho principi glorioso ita
praesentis vitae felicitatem impendat, ut angelicae beatitudinis gloriam post
tempora longaeva concedat: atque ita nos ejusdem felicitate laetos semper
efficiat, ut in terra viventium remuneraturus attollat. Antiquitatis dehinc
ordinem saluberrime retinentes, postquam rationem festi paschalis fraternitas
vestra cognovit, noverit se anno venturo, die Kalendarum Novembrium, causa
peragendi concilii in hac urbe, favente domino, congregari; ut simili
disceptatu, aut quae prospexerimus congrua decernamus, aut solius pacis
conventu laetemur … (Mansi, 11,
col. 30 s.).
[118] Ibidem, col. 33 s. Nel 664 si tenne in
Northumbria il c.d. Sinodus Pharensis
per affrontare l’irrisolta e grande (frequens
et magna) questione religiosa legata al calcolo del giorno di celebrazione
della Pasqua. Beda fornisce un resoconto accurato del dibattito svoltosi intorno
alla controversia che vedeva contrapposti i sistemi dei computi, romano e
bretone, utilizzati entrambi in quella terra e che erano stati motivo di
conflitti reali particolarmente dopo la nomina del nuovo abate di Iona e
vescovo di Lindisfarne, Colomano. Oswiu, aderendo alla dottrina di Pietro,
stabilì che la liturgia ufficiale della Pasqua nel regno di Northumbria fosse
quella romana (ibidem, col. 67 ss.).
Nel settembre del 673 si svolse ad Herford un concilio sotto la presidenza di
Teodoro, arcivescovo di Dorobernia. In esso si confermarono, in maniera
generale, gli antichi canoni e si decretarono dieci nuovi capitoli, di cui
Teodoro raccomanda l’osservanza. Tra questi, il primo stabilisce che tutti
devono celebrare la Pasqua la domenica dopo il 14 del primo mese lunare (ibidem, col. 129).
[119] Can.
I, ibidem, col. 33 s. Cfr. F. CABROL,
Annonciation (fête de l’), in Dictionnaire d’archéologie chrétienne et de
liturgie, 1 (1924), col. 2243 s.; sulla festa della Espettazione del parto della
Beata Vergine cfr. T. STROZZI, Controversia
della concezione della beata Vergine Maria, II ed., Palermo 1703, 110 ss.
[120] Il
can. VI del concilium Emeritense, a.
666, in Mansi, 11, col. 85 ss.
stabilisce, per il presbitero, l’obbligo di rispondere all’invito del vescovo
metropolitano di trascorrere presso di lui le feste di Natale o di Pasqua o di
evidenziare, per lettera, il motivo dell’impedimento. Il chierico non viene
scomunicato, ove la giustificazione sembri ragionevole. Il can. XIV afferma, inoltre,
che ciò che si offre in argento, nei giorni di festa, in una chiesa episcopale,
deve essere diviso in tre parti, di cui una per il vescovo, la seconda per i
sacerdoti e i diaconi, la terza per il resto del clero. Ciò vale anche per le
chiese di campagna (ibidem, col. 83).
Il can. XIX dispone, infine, che il presbitero è tenuto a celebrare, di
domenica, una messa in ognuna delle Chiese affidate alla sua cura (ibidem, col. 85 ss.). Nel 675, il IV
sinodo provinciale di Praga, ibidem,
can. VI, col. 157 s., stigmatizza il comportamento di alcuni vescovi che,
durante le feste dei martiri, attaccano al proprio collo le reliquie e si fanno
trasportare in chiesa da diaconi, vestiti di bianco (albati), in cellulis,
come se fossero loro stessi reliquiari. I sacerdoti devono ritornare all’antica
usanza portando sulle loro spalle le casse delle reliquie, così come,
nell’Antico Testamento, i Leviti portarono l’arca dell’Alleanza. Il concilium Caesaraugustanum III, a. 691,
convocato per ordine di re Egica, confermerà le antiche prescrizioni sia in
ordine alla consacrazione, di domenica, delle chiese e dei chierici sia in
merito all’obbligo per i vescovi di riunirsi a Pasqua intorno al loro primate
(metropolita), celebrando con lui la solennità (cann. I-II, in Mansi, 12, col. 42 s.).
[122] Concilium Anglosaxonicum, a. 692, can. III, ibidem, 12, col. 57. Questa disposizione
sarà, in parte, confermata nel concilium
Berghamstedense, convocato nel 697 dal re Whithred (cann. X-XI, ibidem, col. 112). Il can. XII
stabilisce che se un uomo libero lavora in tempo proibito, sarà punito con la
gogna. La stessa pena si applica al padrone che dà da mangiare al suo schiavo
in un giorno di digiuno (can. XV, ibidem, col. 113).
[123] … et qualiter
populus Christianus ad salutem animae pervenire possit, et per falsos
sacerdotes deceptus non pereat (can. I, in Mansi, 12, col. 365).
[126] Can. IV, ibidem,
col. 371. Il concilium Romanum I (a.
743) vieta di celebrare alla maniera dei pagani le calende di gennaio e i brumalia (can. IX, ibidem, col. 384).
[130] Concilium Suessionense, a. 744, can. VI,
in MGH, cit., 21. Negli statuti
sinodali che si fanno risalire a San Bonifacio, a. 745, in Mansi, 12, col. 385 s., si evidenzia tale opera d’indottrinamento,
da parte dei presbiteri sui fedeli a loro sottoposti, a proposito del simbolo e
dell’orazione domenicale (can. XXV), dei digiuni prescritti nei mesi di marzo,
giugno, settembre e dicembre (can. XXX), del digiuno del sabato prima di
Pentecoste e di Pasqua (can. XXXIV), dei giorni che si devono osservare (can.
XXXVI).
[132] Il can.
VII ordina di distruggere le crucicolae
piantate da Adalberto per parrochia e
che aveva indotto tanta gente in errore (ibidem,
21).
[133] In Dei nomine incipit epistola Domini nostri
Jesu Cristi Filii Dei … (Ep. Bonifacii ad Zachariam papam, in Mansi, 12, col. 384 s.). Cfr. J.
CHELINI, La pratique dominicale des laïcs
dans l’Église franque sous le règne de Pépin, in Revue d’histoire de l’Église
de France, 42 (1956), 167 s.
[134] Cfr. H. DELEHAYE, Note
sur la légende de la lettre du Christ tombée du ciel, in Bulletin de la classe des lettres de
l’Académie de Belgique, 2 (1899), 171 ss.; E. RENOIR, Christ (lettre du) tombée du ciel, in Dictionnaire d’archéologie chrétienne et de liturgie, 3 (1948),
col. 1534 ss.; C. BRUNEL, Versions
espagnole, provençale et française de la lettre du Christ tombée du ciel,
in Analecta Bollandiana, 68 (1950),
2, 383 ss.
[135] Ciò è
sottolineato dalla versione francese della lettera nella quale si afferma che
coloro i quali non vogliono rispettare il santo giorno della domenica né le altre
feste comandate saranno sbranati dai cani e su di loro si abbatterà ogni genere
di disgrazie. Cfr. C. BRUNEL, op. cit.,
394.
[136] Ibidem, 395. Nello spirito di condanna
di testi apocrifi e pseudoepigrafici, nel 789 Carlo Magno definirà questa
lettera pessima et falsissima e
inviterà alla osservanza dei soli libri canonici (MGH, 1.77, 65).
[138] Ibidem, col. 399 s. Quanto
al peculiare processo di cristianizzazione nelle regioni insulari cfr. M.
SIMONETTI, Romani e barbari. Le lettere
latine alle origini dell’Europa (secoli V-VIII), a cura di G.M. Vian,
Roma 2006, 217 ss.; sull’istituzione, invece, del riposo domenicale cfr. N.
STALMANS, Le repos dominical en Irlande
au haut Moyen Âge, in Revue belge de
philologie et d’histoire, 79, 2 (2001), 517 ss.
[139] Can.
XVI, in Mansi, 12, col. 400. Cfr., in
argomento, C. VENTRELLA MANCINI, Symbolum
crucis, in Giornate canonistiche
baresi, Simboli religiosi e
istituzioni pubbliche. L’esposizione del crocifisso dopo l’ordinanza n.
389/2004 della Corte costituzionale, V, a cura di R. Coppola-C. Ventrella Mancini, Bari 2008, 183 ss.
[141] De die dominico ita constitutum est, ut tali
honore habeatur sicut in lege scriptum est, et in decretis canonum. Et si quid
praesumpserit frangere contra legem aut decreta canonum, tali pena subjaceat
sicut ibi scriptum est (can. I, ibidem,
col. 852).
[142] Si quis sanctum quadragensimale ieiunium pro
despectu christianitatis contempserit, et carnem comederit, morte moriatur ...
(can. IV, in MGH, cit., 48).
Interessanti, sotto tale profilo, anche i cann. VI, VII, IX, ibidem, 48 s.
[144] Can.
XV, ibidem, 57; cfr., altresì, il can.
XXI, ibidem, 73, del capitolare di
Francoforte del 794.
[146] Gli
uomini non possono coltivare la vigna, arare i campi, mietere, tagliare il
fieno, seminare, estirpare o tagliare alberi nei boschi, lavorare la pietra,
costruire case, lavorare nell’orto, cacciare, etc. Le donne non possono, fra le
altre attività, tessere, dividere la lana, battere il lino, lavare in pubblico
i vestiti (can. LXXX, ibidem, 66).
Sulla natura religiosa della cd. rinascita carolingia cfr. A. BARBERO, Carlo Magno. Un padre dell’Europa, Bari
2006, 243 ss.
[149] Can.
V, ibidem, 77 s. Nella disposizione,
sono definite praecipuae le festività
di Maria, san Giovanni Battista, l’arcangelo Michele, san Martino, nonché
quelle dei Dodici apostoli e della veneranda festività della parrocchia (festa
patronale). A tal proposito, gli Statuta Salisburgensia (can. X, ibidem, 80) ricordano che durante l’anno
liturgico quattro sono le ricorrenze che ricordano la Madre di Dio: il 2
febbraio (Purificazione), il 25 marzo (Annunciazione), il 15 agosto
(Assunzione), l’8 settembre (Natività).