IL TEMPO FESTIVO COME ‘MODELLO’ DELL’IDENTITÀ CRISTIANA. IL RUOLO RAPPRESENTATIVO DEI CONCILÎ

 

CARMELA VENTRELLA MANCINI

Università di Bari

 

 

 

 

SOMMARIO: 1. Premessa. – 2. Appartenenza religiosa e organizzazione cultuale nei concilî del IV secolo. – 3. La dimensione sociale delle festività nelle fonti sinodali (secoli V e VI). – 4. L’edificazione universalistica del ‘tempo’ nella legislazione concordata (secoli VII-VIII). – 5. Conclusioni. – Abstract.

 

 

1. – Premessa

 

Il presente studio si propone di evidenziare come, nella valutazione dei fattori costitutivi dell’identità del Popolo di Dio, un elemento essenziale sia rappresentato dal ‘tempo’ festivo; nella puntuale organizzazione in strutture rituali e simboliche dell’autentico modello religioso, il delinearsi dell’appartenenza del singolo alla comunità cristiana appare strettamente connesso alla disciplina delle ricorrenze sacre, da celebrarsi in definiti segmenti temporali. In merito, la lettura delle norme sinodali, nella diversificazione dei vari contesti territoriali, rileva non solo da un punto di vista sociologico, consentendo d’individuare il comportamento collettivo sotto il profilo cultuale, ma anche in una prospettiva tesa alla rintracciabilità, attraverso la festività, di uno schema unitario valido per la costruzione della qualificazione religiosa[1]. Tali disposizioni introducono la nozione di ‘Popolo’, elaborando una sorta di relazione di significazione tra l’uomo e Dio, in un processo d’interazione tra i membri nella condivisione di un sistema di valori universali.

Le pratiche cultuali, quali articolazioni visibili del credo, manifestano, in tutti gli aspetti, la originale concezione del ‘tempo’. Le festività esprimono, infatti, lo sviluppo autentico e coerente della dottrina cristiana in quanto evocative della concretezza storica dell’incarnazione del Figlio di Dio. Particolarmente, i due principali cicli liturgici - Natale e Pasqua – ripercorrono, nel peculiare contenuto teologico, la vita del suo Fondatore.

L’ ‘idea’ diversa del tempo, nella fedeltà all’osservanza delle norme, contraddistingue l’evoluzione della festività verso un processo di graduale definizione e specificazione dell’identità cristiana. In antitesi con l’impostazione pagana, l’intransigenza inconsueta delle leggi verso l’aspetto ludico dell’evento religioso viene ad interpretare e a tradurre la visione propria dell’intervallo di riposo, che rifugge da inattività o inoperosità per lo spirito, connotandosi invece per l’impiego in opere utili alla redenzione personale e comunitaria. Il significato del momento liturgico determina, quindi, una modificazione sociale nell’uso del tempo libero in linea con una differente fisionomia del concetto di otium. Le eccezioni stesse alla sospensione lavorativa nel giorno feriale, tradizionalmente giustificate dalla necessità di improrogabili interventi come i lavori agricoli, per i quali le leggi divine e le leggi umane consentono di operare[2], si arricchiscono in realtà di insolite espressioni di benevolenza, di nuove categorie di atti di liberalità.

La visione escatologica della passione di Cristo segna, altresì, il prevalere della dimensione antropologica del culto sulle prescrizioni sacrificali della prassi consolidata. I percorsi differenziati si delineano nella singolarità degli atteggiamenti caratterizzanti il gruppo religioso in tempi e spazi propri, già a partire dal momento commemorativo. Significativa è la controversia intorno alla data di celebrazione della Pasqua, sulla quale numerosi sono stati gli interventi conciliari. Il cambiamento radicale si esprime, infatti, nell’eterogeneità delle impostazioni e delle risoluzioni legate alle diverse questioni; attraverso l’autorevolezza della legislazione sinodale nell’affermazione dei princìpi innovatori, le regole cerimoniali diventano espressione dell’ortodossia e dell’unità di fede in opposizione agli schemi religiosi tradizionali.

In una prospettiva più ampia, è sintomatico come nella Tradizione, anche con il ricorso alla scienza dei numeri, le festività occupino un ruolo fondamentale nel percorso identitario. Nella linearità simbolica della salvazione, le ricorrenze cristiane sono rappresentate da forme numeriche, immutabili nella prospettiva di un tempo eterno nella superiore pianificazione della redenzione.

Il carattere dell’autenticità si esteriorizza, in primo luogo, nel sacramento del battesimo quale segno visibile della grazia[3], emblematicamente collocato in convenuti spazi sacri in una dimensione non istituzionale ma fattiva dell’unione. Da qui la fondazione di un’appartenenza elettiva ma rigidamente concepita nella realizzazione costante del progetto di perfezione spirituale, che si esplica nell’imposizione di norme comportamentali, idonee ad essere percepite secondo il significato proprio nella individuazione e distinzione dei singoli elementi. Dal complesso apparato conciliare appare, invero, il profilarsi di un concetto di qualificazione religiosa intorno al presupposto della perpetuità dell’intima adesione all’atto d’iniziazione, che si esteriorizza poi concretamente, in una valutazione anche quantitativa[4], nella coincidenza dell’esclusività temporale rievocativa del mistero divino; costante, nelle disposizioni, l’obbligo di collocare il battesimo nei tempi liturgici solenni, quali occasioni propizie di conversione.

Nel quadro interpretativo tracciato, ulteriori segnali distintivi del ‘tempo’ festivo contribuiscono a definire la fisionomia del cristiano: la ritualità simbolica della genuflessione, la professione di fede, l’obbedienza ai sacri Pastori, il rispetto gerarchico, la regolamentazione territoriale degli spostamenti dei fedeli, il digiuno, le regole alimentari, i comportamenti sessuali, l’abbigliamento, gli atti di carità, le sospensioni lavorative si pongono quali ‘tipi’ d’identificazione anche sociale. Sotto tale profilo, il valore delle norme sinodali sull’organizzazione cultuale appare determinante per una ricostruzione dei presupposti attraverso i quali si configura e, al contempo, si distingue il popolo di Dio[5].

Nelle fonti, i primi cristiani s’identificavano in quegli uomini la cui colpa (o errore) consisteva nel fatto che erano soliti riunirsi prima dell’alba in un giorno stabilito quando intonavano a cori alterni un inno a Cristo «come se fosse un dio»[6]. In realtà, proprio le testimonianze in ordine al giorno cultuale, in un contesto di persecuzione, consentono di abbozzare il profilo del coetus fidelium; le preghiere, la lettura della Santa Scrittura, la contribuzione volontaria per aiutare i bisognosi, gli atti di amore fraterno, i pasti in comune costituiscono «l’attività della fazione cristiana», opere cioè caratterizzanti quella «corporazione» che si autorappresenta nella sfera pubblica: Corpus sumus de conscientia religionis et disciplinae unitate et spei foedere[7]. Significativamente, il primo atto con cui si realizza il riconoscimento nell’impero della religione cattolica è il rilievo come festa pubblica della domenica (C.I. 3.12.2), costituendo la prima tappa verso l’accoglimento giuridico di ulteriori istanze religiose[8].

I riti evidenziano, quindi, il vincolo di appartenenza ad un gruppo, nella considerazione di stati o ordini, in un legame solidaristico per il raggiungimento dell’interesse supremo.

Gli atti esterni di devozione riproducono la concezione trascendentale della Divinità, secondo la regolamentazione dettata dalla volontà comune delle assemblee deliberative della Ecclesia. In questa prospettiva, la centralità del ‘tempo’ nella dimensione salvifica dell’uomo esalta il ruolo rappresentativo dei concilî[9].

Nel dislocamento di nuovi valori identificativi, attraverso coercitive prescrizioni, la costruzione rigida dell’appartenenza s’impone nel graduale incidere su uno spazio temporale cadenzato da ritmi differenti. Costante, nelle norme sinodali, è la condanna di ogni forma di commistione o di convivenza cultuali, facendo della totale estraneità del cristiano alle feste pagane e giudaiche un evidente segno di adesione alla novella secta[10].

L’apparato di norme governa e condiziona le azioni umane nel complesso processo di adattamento al divenire del ‘tempo’. Nelle collezioni, proprio il riferimento costante e particolareggiato al culto e ai tempi liturgici consente di cogliere l’esigenza di disciplinare peculiari aspetti della vita spirituale, con particolare riferimento agli àmbiti in cui maggiore è l’impatto sociale delle norme religiose. Sotto tale profilo, nel rivendicato collegamento fra obblighi della coscienza e bisogni materiali, i canoni conciliari, da ordinatori del ‘tempo’ sacro diventeranno, nel corso dei secoli, ‘regolatori’ della convivenza civile, traducendosi in paradigmi esistenziali orientati a condizionare prospettive concrete dell’itinerario terreno dell’uomo.

In una visione totalizzante dell’esistenza, i diversi aspetti del momento cultuale vengono ad interagire con le varie sfere della vita pubblica, risultando un importante fattore d’influenza su di esse. Tecnicamente, ciò si manifesta nell’istituto della ratifica delle deliberazioni sinodali da parte del potere secolare, secondo quella tendenza che, per i concilî più rappresentativi, verrà via via a consolidarsi[11]; l’articolazione del tempo inizierà ad adattarsi al ritmo religioso delineato dalle norme e, in una sorta di sinergia fra autorità e mezzi, l’osservanza cultuale della domenica e delle altre solennità si risolverà nel dovere di rispettare gli autentici contenuti negativi dell’astensione dal lavoro e da altre attività.

La stigmatizzazione della deviazione dalla retta dottrina nella frattura che, nelle pratiche cultuali, le posizioni ereticali attuano con la formula originaria del cristianesimo costituirà in seguito la ratio della configurazione di fattispecie delittuose, inedite nella prospettiva della vera religio[12].

L’articolato cammino verso il più ampio e progressivo riconoscimento del ‘tempo’ festivo permette, inoltre, di tracciare quel raccordo ininterrotto di confronto tra potere secolare e potere religioso rappresentato dall’istituto conciliare che, in alcune epoche e per alcune realtà territoriali, incarna il simbolo della logica della sintonia alla base di una concezione dualistica, le cui linee evolutive sono rinvenibili nell’intero percorso storico, religioso e giuridico delle singole aree della cristianità.

 

 

2. – Appartenenza religiosa e organizzazione cultuale nei concilî del IV secolo

 

Quanto ai concilî del primo periodo in esame, numerose sono le norme tese all’affermazione del giorno cultuale dei credenti. Ampio spazio è, in realtà, riservato alla organizzazione e alle modalità di celebrazione della domenica. La prospettiva commemorativa dell’opera di redenzione rende unica la ricorrenza primordiale nella coincidenza con la prospettiva escatologica della rinascita dell’uomo. Il fondamento conoscitivo di questa istituzione propriamente cristiana, che si rinviene nella Resurrezione (Pasqua della settimana), impone la dimensione divina e sacra della solennità.

L’anno liturgico registra, infatti, la celebrazione delle feste più antiche, come la Pentecoste, nel dies dominica. È stato osservato a tal proposito che, ai primordi della vita della Chiesa, il mistero pasquale si traduce nel dominio del criterio mistico della concentrazione e che, solo successivamente, il metodo cronologico della distribuzione determinerà un allargamento del tempo religioso[13]. A partire dal IV secolo, in verità, nel calendario si registrano altre festività, le quali vanno ad affiancarsi alla domenica in un’ottica prevalentemente storicizzante, che impone il rispetto dell’esatto ripetersi dell’anniversario degli eventi terreni, letti sempre in chiave teologica[14]. Sotto tale profilo le feste di evento sono, parimenti, feste di idee[15].

Nel più ampio orizzonte dei giorni festivi dell’impero, la domenica pone il primo punto fermo nell’edificazione di un tempo festivo da contrapporre alla precarietà della fluttuazione del cosmo, a cui erano in parte ispirate le impostazioni tradizionali[16].

La caratterizzazione cultuale di tale giorno conferisce un significato religioso esclusivo alla pausa lavorativa, secondo una visione intimistica della stessa nella strumentalità alla cura dell’anima e dello spirito, in sintonia con il favor iuris verso il conseguimento di atti, che predispongono l’uomo al soddisfacimento dei doveri e delle esigenze del culto[17].

In merito al profilo evidenziato, valore paradigmatico assume il concilio di Elvira, probabilmente celebrato nel 305 dopo una violenta persecuzione dei cristiani[18], le cui disposizioni, nello spirito di estremo rigore finalizzato a contenere ed affrontare il grave problema dei lapsi, rilevano anche sotto il profilo identitario. Le norme conciliari prospettano un apparato sacramentale singolare che, attraverso il linguaggio simbolico dei mezzi di grazia, costruisce la fisionomia del cristiano in uno scenario di esteriorizzazione di atti di pentimento, in spazi liturgici predeterminati.

L’assimilazione della domenica passa attraverso lo strumento intimidatorio della punizione:

 

Si quis in civitate positus tres dominicas ad ecclesiam non accesserit, pauco tempore abstineat, ut correptus esse videatur[19].

 

Il senso di questo canone non è molto chiaro.

Si è comunemente ritenuto che l’espressione «ad ecclesiam non accesserit» vada interpretata nel senso di frequentazione delle funzioni religiose, e non di mera visita ad un luogo di culto. La mancata partecipazione alla sinassi liturgica per tre domeniche successive comporta l’esclusione temporanea dall’ufficio divino e la privazione dei diritti ecclesiastici propri della comunità[20]. Il carattere manifesto e pubblico dell’allontanamento temporaneo di un membro dal gruppo funge da monito per tutti, come ben sottolinea l’inciso ut correptus esse videatur.

Tale disposizione sarà in parte ripresa nel concilio Sardicense del 347 [21] per volontà di Osio, il quale proporrà una norma intorno alla celebrazione della domenica che, come osserva il vescovo, era stata già introdotta in un concilio precedente (superiore concilio); il canone potrebbe alludere, quindi, alla disposizione eliberitana e, in questo senso, risultare decisivo in ordine alla portata chiarificatrice della stessa[22]. Il can. XIV, infatti, pur confermando la precedente statuizione nel suo nucleo essenziale, ne arricchisce il contenuto contribuendo, così, ad eliminare quei dubbi sorti intorno alla primitiva formulazione sia in relazione ai destinatari sia alla pena da applicare ai trasgressori. Si legge:

 

… Memini autem superiore concilio fratres nostros constituisse, ut si quis laicus in ea qua commoratur civitate, tres dominicas, id est, per tres septimanas non celebrasset conventum, communione privaretur. Si ergo haec circa laicos constituta sunt; tanto magis nec licet, nec decet ut episcopus, si nullam tam gravem habet necessitatem, nec tam difficilem rationem, tamdiu desit ab ecclesia, ne populum contristet …[23].

 

Nel testo, innanzitutto, si conferma che la sanzione prevista consiste nella esclusione temporanea dalla communio. La novità è, invece, rappresentata dalla considerazione anche del laico quale soggetto su cui grava l’obbligo di non mancare al servizio divino nella propria città consentendo, in questo modo, di superare l’interpretazione che considerava i chierici gli unici destinatari del canone di Elvira[24]. Nella parte finale della norma si chiarisce, invero, che quanto previsto per i laici inadempienti deve applicarsi con maggior rigore al vescovo: la dignità dello status impone una valutazione negativa, sotto i profili della opportunità e della convenienza, dell’assenza del chierico dalla Chiesa di appartenenza, per un periodo superiore a quello sopra indicato. A favore del ministro sacro interviene, però, una categoria ‘aperta’ di scriminanti, individuate dal detto canone nella «grave necessità» e nella «difficile ragione» per specificarsi, poi, nelle circostanze della disposizione seguente.

A proposito della considerazione nella norma degli status, come meglio emergerà dalla legislazione sinodale successiva, la festività riproduce la stratificazione sociale del Popolo, ingenerando nella collettività la consapevolezza dei ruoli distinti e delle relative conseguenze; la determinazione del tipo di pena, anche in ordine alla sua consistenza, è legata alla valutazione della condizione soggettiva del trasgressore, all’interno della quale incidono, in termini di responsabilità e punibilità, le differenze di grado o di potere, la posizione inerente alla qualità di uomo libero o di schiavo, di professionista o contadino, non trascurando altresì l’elemento volitivo e le cause che hanno determinato il fedele a violare i precetti.

La prescrizione esaminata s’incardina, invero, nella portata generale della norma con riferimento alla doverosa presenza del ministro sacro nella città di residenza durante le solennità e, più in generale, all’esigenza che lo stesso non si allontani da essa per un lungo periodo. Le ragioni sono individuabili nell’utilità del mantenimento della pace tra i membri della comunità attraverso un’opera preventiva di rimozione di azioni lesive dell’immagine e della dignità altrui. Interessante la prima parte del can. XIV:

 

Osius episcopus dixit: Et hoc quoque statuere debetis; ut episcopus, si ex alia civitate convenerit ad aliam civitatem, vel ex provincia sua ad aliam provinciam, et ambitioni magis quam devotioni serviens, voluerit in aliena civitate multo tempore residere: forte enim evenit episcopum loci non esse tam instructum, neque tam doctum; is vero qui advenit, incipiat contemnere eum, et frequenter facere sermonem, ut dehonestet et infirmet illius personam; ita ut ex hac occasione non dubitet relinquere assignatam sibi ecclesiam, et transeat ad alienam: definite ergo tempus; quia et non recipi episcopum, inhumanum est; et si diutius resideat, perniciosum est. Hoc ne fiat, providendum est …[25].

 

È il caso (datato e specchio dei tempi) di un vescovo che dalla propria città passi ad un’altra con l’intenzione di rimanervi per molto tempo, più per «ambizione che per devozione»; può accadere, in realtà, che il vescovo del luogo non sia né istruito né dotto e che atteggiamenti irriverenti dell’ospite lo inducano a trasferirsi in un’altra Chiesa. Per ovviare a questi inconvenienti, la norma impone di definire il tempo del soggiorno in una città straniera perché è «inumano» che un vescovo non sia accettato e «pernicioso» che un altro risieda più a lungo altrove. Eccezioni sono stabilite in alcuni casi, come si precisa nel canone successivo:

 

… Quia nihil praetermitti oportet; sunt quidam fratres et coepiscopi nostri, qui non in ea civitate resident, in qua videntur episcopi esse constituti, vel quod parvam rem iliic habeant, alibi autem idonea praedia habere cognoscuntur; vel certe affectione proximorum, quibus indulgeant: hactenus permitti eis oportet, ut accedant ad possessiones suas, et disponant, vel ordinent fructum laboris sui; ut post tres dominicas, id est, post tres hebdomadas, si morari necesse est, in suis potius fundis morentur. Aut si est proxima civitas, in qua est presbyter, ne sine ecclesia videatur facere diem dominicum, illuc accedat: ut neque res domesticae per absentiam ejus detrimentum substineant, et non frequenter veniendo ad civitatem, in qua episcopus moratur, suspicionem jactantiae et ambitionis evadat …[26].

 

La norma prende in esame il caso dei vescovi e dei coadiutori che non risiedono nella città in cui sono stati incardinati come titolari; forse in quel luogo hanno pochi beni, mentre altrove è noto che ci siano interessi prevalenti, tra cui possedimenti ‘idonei’. In queste situazioni è opportuno consentire a costoro di accedervi, di disporre e di ordinare il frutto del proprio lavoro; dopo tre domeniche, quando si renderà necessario, gli stessi potranno dimorare nei propri poderi. Se è vicina una città nella quale è presente un presbitero, affinché non si trascorra la domenica senza gli adempimenti liturgici prescritti, il vescovo deve assistere al servizio divino. In questo modo né il patrimonio familiare subirà danno a causa della sua assenza né si incorrerà nel sospetto di ambizione e di ostentazione, particolarmente per il fatto che il vescovo eviterà di recarsi frequentemente in un’altra città, nella quale c’è già un vescovo.

Il riferimento, nello specifico, a criteri di condotta legati al modus vivendi la festività, evidenzia come, in un primordiale ordine dispositivo del culto, le esigenze economiche e quelle spirituali si fondano nel singolare quadro identificativo alla base delle norme sinodali[27].

Oltre al profilo liturgico, nei testi conciliari speciale attenzione è dedicata anche alla pratica del digiuno come aspetto peculiare di preparazione alla ricorrenza sacra e importante segnale di affermazione di un autentico modello religioso[28]. Nel concilio di Elvira, il canone XXIII recita:

 

Jejuniorum superpositiones per singulos menses placuit celebrari, exceptis diebus duorum mensium Julii, et Augusti, ob quorundam infirmitatem[29].

 

Questa norma propone di osservare il digiuno di «superposizione» in tutti i mesi dell’anno, con la sola eccezione di luglio e agosto[30].

Il senso di questa norma risulta poco comprensibile. Il digiuno in via ordinaria consisteva nell’astensione di alcuni alimenti dal mattino fino alla sera. C’erano però digiuni straordinari – o perché più lunghi o perché si praticavano in tempi sacri particolari come quello quaresimale –, che venivano indicati con espressioni quali, ad esempio, superpositio, procrastinatio[31]. Anche nel can. XXVI si fa riferimento a questa forma di digiuno:

 

Ut omni sabbato jejunetur.

Errorem placuit corrigi, ut omni sabbati die superpositiones celebremus[32].

 

Inequivocabilmente, l’invito è a digiunare ogni sabato. La disposizione allude alla decisione di porre fine ad un ‘errore’ affinché si osservi la superpositio ogni sabato. Come ben sottolineato tramite il ricorso all’ut, la pratica da correggere consiste nella inosservanza del digiuno nel giorno di sabato, in perfetta sintonia con l’intitolazione della norma e con le prescrizioni ebraiche[33].

Nel senso del valore consecutivo-modale o finale dell’ut, si consideri ancora il can. XLIII, che recita:

 

De celebratione Pentecostes.

Pravam institutionem emendari placuit, juxta auctoritatem Scripturarum, ut cuncti diem Pentecostes post Pascha celebremus, non quadragesimam, nisi quinquagesimam. Qui non fecerit, novam haeresim induxisse notetur[34].

 

In questa disposizione si stabilisce di correggere una «prava istituzione» secondo l’autorità delle Scritture: tutti celebrino il giorno di Pentecoste non quaranta ma cinquanta giorni dopo la Pasqua; chi non ottempera a ciò è come se introducesse una nuova eresia[35]. Si è ritenuto che, con questa norma, il concilio volesse sopprimere una pratica considerata eretica, la quale consisteva nel fissare la Pentecoste al quarantesimo giorno, quando la Chiesa ricordava l’ascensione di Cristo, ed imporne, invece, la celebrazione al cinquantesimo giorno. Secondo questa linea interpretativa, ut verrebbe quindi ad indicare ciò che da quel momento in poi doveva essere osservato.

In Occidente, dopo il IV secolo, Ascensione e Pentecoste sono due feste formalmente distinte. Fondamentale è la testimonianza offerta al riguardo dai sermoni pronunciati da Agostino sui tempi liturgici e sul sistema simbolico in cui l’entità matematica viene ad esprimere un concetto legato ad un evento divino, che si ripete ogni anno nella e con la solennità religiosa[36]. Nella mutata visione del ‘tempo’ e dello scandire del passaggio terreno dell’uomo, anche i numeri collegati alle festività diventano i segni dell’attuazione misteriosa del piano divino della salvezza.

Le norme conciliari evidenziano, inoltre, le difficoltà di espressione del culto cristiano nella misura in cui vengono a predisporre strategie volte a prevenire atti d’intolleranza. L’esigenza di contenere forme devozionali particolarmente identificative dell’affiliazione alla nuova religione, nel clima di ostilità dilagante nell’impero, si traduce nella proibizione di dipingere, sulle pareti dei locali riservati al servizio divino, sacre immagini per evitare che le stesse possano essere oggetto di adorazione e venerazione[37]. Interessante l’opinione secondo la quale s’intendeva scongiurare una reazione dei pagani attraverso la proibizione dell’uso di segni di riconoscimento quando gli ambienti destinati alla preghiera non erano sotterranei ma a cielo aperto[38].

Il concilio, inoltre, nella considerazione dell’elemento sessuale, vieta alle donne di trascorrere la notte nei cimiteri perché, come si legge, accadeva spesso che, con il pretesto di pregare, si commettevano dei delitti[39]. Tali pratiche notturne erano ricorrenti e particolarmente frequentate risultavano quelle effettuate presso i sepolcri dei martiri.

Nella pianificazione di riduzione del ‘tempo’ ad un sistema unitario, nel 314 il Concilio Arelatense I ordina che la Pasqua sia celebrata in un solo giorno in tutto il mondo e che, secondo le consuetudini, precise informazioni sulla data certa siano divulgate per via epistolare[40]. In verità, con questo canone si voleva imporre il computo romano relativo alla Pasqua e abolire quello alessandrino; l’unità liturgica, sotto la direzione del vescovo di Roma, costituisce, infatti, uno dei princìpi guida della legislazione conciliare gallica nel quadro della riforma dell’organizzazione ecclesiastica[41]. Il complesso ed articolato tentativo di risoluzione della questione intorno alla festività cristiana sul finire del II secolo, al di là delle esigenze di pace e di concordia fra le Chiese, in realtà rappresenta il primo importante segnale di affermazione di una visione originale degli eventi[42]. La data di celebrazione viene energicamente e simbolicamente fissata in un giorno diverso dalla Pasqua ebraica: la trasformazione in festività mobile, determinata dal superamento del calendario lunare e dall’uso dell’anno solare, segna l’affrancamento dalla tradizione sacra[43]. L’arduo tentativo di eliminazione delle difformità rituali e cultuali legate alla Pasqua iniziato ad Arles culminerà, infatti, a Nicea nel 325, quando il primo concilio ecumenico decreterà formalmente il valore giuridico dell’uniformità[44].

Quanto alla ricostruzione della storia della domenica, notevole interesse assume il concilio di Laodicea (a. 320), che contiene il divieto di «giudaizzare»: i seguaci di Cristo non devono osservare il sabato come festa ma come giorno normale da un punto di vista lavorativo. La punizione per i contravventori è l’anatema:

 

Quod non oportet Christianos judaizare, et in sabbato otiari, sed ipsos eo die operari: diem autem dominicum praeferentes otiari, si modo possint, ut Christianos. Quod si inventi fuerint judaizantes, sint anathema apud Christum[45].

 

La preferenza che i cristiani, in quanto tali (ut Christiani) devono accordare alla domenica, nel rispetto dell’obbligo del riposo secondo la visione propria (si modo possint) e contro la pratica formalistica del sabato[46], consente di cogliere i tratti caratterizzanti il giorno cultuale nel più esteso progetto verso l’affermazione dell’identità religiosa della comunità dei credenti[47].

In questa prospettiva il tentativo dei Padri conciliari di eliminare le tendenze giudaizzanti, persistenti in modo particolare in alcune realtà, affiora pure dal can. XVI che, emblematicamente, impone nel giorno di sabato – nel quale la Chiesa autorizzava, comunque, la celebrazione di un servizio divino – la lettura del Vangelo, oltre a quella di brani dell’Antico Testamento[48]. Ai cristiani, inoltre, è proibito ricevere doni festivi dai Giudei o dagli eretici e celebrare feste insieme con loro o anche con i pagani[49].

Una grave sanzione colpisce i fedeli che abbandonano il culto dei veri martiri per passare a quello degli eretici[50].

Disposizioni specifiche riguardano, poi, la quaresima. Così, in relazione al battesimo, si stabilisce che tale sacramento non può essere amministrato dopo due settimane dall’inizio di questo periodo sacro[51] e che coloro i quali devono rigenerarsi in Cristo sono tenuti a recitare, il giovedì, il Simbolo della fede dinanzi al vescovo o ai sacerdoti[52]. Per di più, non si può offrire pane benedetto (cioè celebrare l’Eucarestia) se non nei giorni di sabato e di domenica[53], non si deve interrompere il digiuno nel quinto giorno dell’ultima settimana e disonorare, in questo modo, l’intera quaresima[54]. Il carattere di austerità di questo periodo impone la sospensione di qualsiasi festività o ricorrenza[55].

Il primo concilio ecumenico, svoltosi a Nicea nel 325, al can. XX stabilisce il divieto, nei giorni di domenica e di Pasqua fino alla Pentecoste, di pregare in ginocchio:

 

Quoniam sunt quidam, qui in die dominico genu flectant, et ipsis diebus pentecostes, ut omnia similiter in omni parochia serventur, visum est sanctae synodo, ut stantes Deo orationes effundant[56].

 

La norma probabilmente allude ai quartodecimani che in questo giorno, non diversamente da quelli feriali, flettevano le ginocchia in dispregio della resurrezione del Cristo avvenuta di domenica. Il medesimo atteggiamento di ostilità, tenuto dagli eustaziani con riguardo al significato del digiuno cattolico, è punito nel concilio di Gangra (a. 324)[57]. Il canone XVIII recita:

 

Si quis propter eam, quae existimatur, exercitationem in dominico jejunet, fit anathema[58].

 

Incorre nell’anatema, inoltre, chi, senza una necessità corporale ma solo per orgoglio, non osserva i tradizionali atti di mortificazione[59].

Anche l’istituzione delle festività in onore dei martiri diventa espressione tangibile dell’appartenenza religiosa. Il valore esemplare della conservazione memoriale degli atti sacrificali risiede nella forza emulativa della perfezione a cui deve tendere il fedele per l’edificazione dell’unico Regno. Queste ricorrenze si fondano sulle Sacre Scritture: nella visione storica e profetica del passaggio dall’antica stirpe giudaica, le vicende di alcuni martiri svelano, infatti, il mistero divino nascosto nel Vecchio Testamento[60]. Gli atteggiamenti devozionali devono, quindi, riflettere la gioia dello spirito e del corpo[61].

Il culto in loro onore è nuovamente oggetto di regolamentazione nel concilio di Cartagine (a. 348), convocato per ringraziare Dio della fine dello scisma e consacrare la pacificazione religiosa attraverso l’adozione di misure strumentali a garantire l’unità della Chiesa, in conformità ai precetti divini[62].

 

Nel processo di rappresentazione dell’identità collettiva, dall’apparato conciliare sembra emergere l’idea di una gradualità di giudizio che, nella valutazione delle condotte sovversive dei precetti, tiene conto altresì della intensità della percezione esterna della violazione, anche in considerazione della solennità di alcuni tempi liturgici; rileva, a tal proposito, la maggiore gravità della pena a motivo della pervicacia dell’intenzione trasgressiva legata, come si è sopra evidenziato, a dottrine eretiche di negazione del significato teologico delle ricorrenze cristiane. Così, quanto al divieto di digiunare di domenica o durante il Natale, i canoni puniscono severamente tutti coloro che, come i Priscillanisti, contravvenivano a tale regola perché, ostinatamente, rifiutavano l’evento della resurrezione e la natura umana del Cristo[63], giungendo a decretare il disconoscimento dell’appartenenza religiosa (non credatur catholicus) di chi scientemente (studiose) si asteneva dal cibo nel giorno del Signore[64]. Allo stesso modo, sono colpiti con la scomunica quanti si allontanano dalla Chiesa durante i periodi sacri come la quaresima o il tempo natalizio, allo scopo di fugare qualsiasi dubbio, nella collettività, circa la frequentazione, da parte del cristiano, di pratiche pagane[65].

Ancora, il richiamo all’uniformità risponde alla necessità di consolidare i percorsi identitari attraverso i ritmi e le modalità del rito, secondo una codificazione memoriale del mistero divino nei tempi celebrativi. In questa prospettiva si colloca il concilio d’Ippona (a. 393)[66], che stabilisce l’obbligo di tutte le province africane di rispettare l’osservanza della Pasqua nel giorno stabilito dalla Chiesa di Cartagine[67]; si vieta, durante i santi giorni di detta festività, di amministrare ai catecumeni il sacramento (ai quali, simbolicamente, è possibile offrire solo il sale)[68] e si dispone che i mezzi di grazia siano amministrati dall’altare esclusivamente da uomini a digiuno, con esclusione del giovedì santo a ricordo dell’ultima cena[69].

Oltre a ciò, si ribadiscono le proibizioni di pregare in ginocchio, tranne per i penitenti[70], di assistere agli spettacoli, trascurando il servizio divino[71] e di partecipare a pratiche e riti estranei[72]. Con riguardo a quest’ultimo aspetto, i duri interventi delle norme conciliari dimostrano, in realtà, il perseverare della ‘scandalosa’ condotta dei cristiani, duramente stigmatizzata anche per la percezione oggettivamente rilevabile e fortemente lesiva della comunità sotto il profilo identitario. La scomunica è, infatti, applicata a chi prende parte alle feste dei pagani, a volte concomitanti con quelle cristiane. Interessante, in merito, un concilio convocato a Cartagine, probabilmente il V [73], che coinvolge il giudizio dell’imperatore su una questione inerente proprio alla noncuranza dei precetti divini in materia di ‘tempo’ divino. In una norma si legge che, poiché in molti luoghi si svolgevano dei banchetti, nati da una falsa credenza pagana e ai quali i cristiani erano costretti a partecipare, si chiedeva che, fissata una pena, gli stessi venissero proibiti nei centri urbani e nei poderi; questi convivi si ripetevano specie in occasione degli anniversari dei martiri, giorni che, al contrario, dovevano essere di continenza e nei quali invece si svolgevano danze «scelleratissime» per vie e piazze, tanto che l’onore e il pudore di tantissime donne, che giungevano devotamente alla celebrazione del giorno «santissimo», erano minacciati da ingiurie lascive, con la conseguenza che quasi si rifuggiva dall’accedere ai luoghi della santa religione (ut etiam ipsius sanctae religionis pene fugiatur accessus)[74].

Il canone successivo, in una rivendicazione dell’appartenenza delle «gloriosissime ricorrenze» alla «religione cristiana», nel loro significato peculiare, vieta la partecipazione dei fedeli alle rappresentazioni teatrali e ai giochi[75].

 

 

3. – La dimensione sociale delle festività nelle fonti sinodali (secoli V e VI)

 

Nella immutata prospettiva teologica e in continuità con il cristianesimo delle origini, i concilî del V secolo esaltano la via sacramentale, in peculiari tempi liturgici, per l’affermazione dell’autenticità del credente[76].

Si rinnovano le prescrizioni legate alla preparazione e celebrazione delle ricorrenze liturgiche, con particolare riferimento al digiuno e alle regole comportamentali all’interno del coetus fidelium[77].

Nell’istituzionalizzazione del ‘tempo’ sacro, interessante è, invece, il profilarsi della dimensione ‘sociale’ della festività[78]; rileva, a tal proposito, l’obbligo del ministro sacro, nel giorno cultuale della domenica, di annunciare a tutta la comunità il ritrovamento di un infante, secondo le modalità stabilite dal canone[79].

Nel VI secolo sia il dovere di uniformità imposto nelle pratiche rituali sia la necessità di esteriorizzare l’adesione al credo rispondono all’esigenza di difendere l’ortodossia contro il ‘male’ rappresentato dalle altre religioni e dalle sopravvivenze del passato. L’identità cristiana si manifesta principalmente attraverso condotte cultuali originali, in tempi determinati e con modalità proprie che scongiurano il pericolo di sovrapposizioni di credenze.

Importante, sotto il profilo in questione, il primo concilio della Chiesa visigotica, tenutosi ad Agde nel 506.

La festività, nella condivisione dei mezzi di grazia, continua a rappresentare il principale segno dell’appartenenza religiosa: i laici (saeculares), che a Natale, Pasqua e Pentecoste non fanno la comunione, catholici non credantur[80].

L’assemblea voleva, inoltre, porre ordine in materia di digiuno e parificare il sabato agli altri giorni della settimana contro una consuetudine, consolidata sia in Oriente sia in Occidente, che vedeva questo giorno privilegiato quanto agli atti di contrizione. Il canone XII prescrive infatti che, nel periodo di quaresima, i membri della Chiesa devono digiunare tutti i giorni della settimana, fatta eccezione la domenica[81].

A tutela della unità della Chiesa il Simbolo della fede va recitato in tutte le comunità in un peculiare spazio liturgico[82].

I sinodi continuano ad imporre rigide norme comportamentali quanto al modo di vivere il ‘tempo’ divino solenne nella evidenziata prospettiva di riproduzione, nel contesto sociale, del sistema di credenze attraverso l’esteriorità rituale: gli oratori (o chiese rurali) devono cedere il posto alla Chiesa principale perché accolga tutti i fedeli della regione; segue la scomunica per il sacerdote che, senza il permesso del superiore, celebri il servizio divino nei luoghi sacri secondari[83]. La medesima pena si applica, per un triennio, a quei cittadini che non si recano nella città durante le solennità[84] ed ai chierici che, nei summenzionati tempi liturgici, con l’estensione anche all’Epifania, si allontanano dalla Chiesa di appartenenza, anteponendo l’interesse economico all’esigenza del culto[85].

In un rinvigorimento dei contenuti, in considerazione altresì della generalizzata astensione dal lavoro, la festività manifesta la forza dell’aggregazione popolare. In una fase di consolidamento del legame fra sacerdotium e imperium, il sistema cultuale si apre a nuove prospettive anche in considerazione dell’ampliamento del riconoscimento civile di altri tempi sacri[86].

Con riferimento alla domenica, la dimensione spirituale comporta la sospensione di ogni azione giudiziaria[87] e il compimento di atti di pietà[88].

Si conferma l’amministrazione del battesimo ai catecumeni solo durante le festività di Pasqua e di Natale, quanto majoris celebritatis major celebritas est, tranne i casi di necessità, per i quali il sacramento non va mai negato, quocumque tempore[89], e si invitano tutte le province ad uniformarsi alla Chiesa metropolitana quanto alla liturgia[90].

Interessante il riferimento, nelle norme conciliari, alle classi sociali proprio in relazione ai tempi sacri: i cittadini più nobili (nobiliores cives), nel giorno di Pasqua e di Natale, durante la Pentecoste e nelle altre solenni ricorrenze devono ricevere la benedizione dal vescovo, in qualunque città questi si trovi. La pena è l’esclusione dalla comunione[91].

Tra i concilî di questo periodo, speciale considerazione merita il III concilio d’Orléans (a. 538): la dura lotta contro ogni espressione di ‘giudaizzazione’ si traduce nel divieto di atteggiamenti emulativi dei costumi ebraici in ordine alle prescrizioni del sabato. È significativo, a tal proposito, il can. XXVIII che, nella divaricazione delle prospettive, sottolinea la liceità di alcune condotte nel giorno del Signore – viaggiare, cucinare o adoperarsi per la pulizia della casa o del corpo, «usanze queste che riguardano più l’osservanza giudaica che quella cristiana, com’è riconosciuto» (quae res ad Judaicam magis quam ad Christianam observantiam pertinere probatur) –, rimarcando invece la necessità dell’astensione solo da quelle attività totalizzanti per consentire al fedele di osservare più facilmente gli obblighi del culto[92].

Nella stessa ottica chi partecipa alle cerimonie pagane non può essere considerato un vero cristiano (non potest integer Christianus dici)[93].

Il ‘tempo’ divino favorisce, inoltre, la generale aspirazione alla realizzazione di un regno prospero e coeso anche sotto il profilo politico[94]. A tal fine, nelle domeniche o nelle altre festività, è opportuno (oportet) che i presbiteri esortino il popolo (plebs) a rivolgere in commune delle preghiere a Dio, in primo luogo pro rege et episcoporum, oltre che pro diversis necessitatibus come la pace, l’incolumità, la salute, etc.[95]. Oltre a ciò, nella prospettiva d’immedesimazione degli interessi tra i due Poteri, «per il fatto di vivere per il favore di Dio sotto la dominazione di re cattolici» (Quia Deo propitio sub catholicorum regum dominatione consistimus), durante la settimana santa si proibisce ogni contaminazione fra cristiani ed ebrei; questi ultimi, dal giorno della cena del Signore fino alla II feria di Pasqua, cioè per quattro giorni, non devono camminare tra i cattolici, né possono unirsi al populus catholicus, in alcun luogo o per alcun motivo[96].

Alcune convocazioni conciliari hanno ad oggetto sia la questione pasquale, ancora irrisolta alla metà del VI secolo[97], sia la condanna dei movimenti ereticali, che rifiutano di osservare la disciplina ecclesiastica nell’esecrazione del significato autentico delle sacre ricorrenze[98].

Significative, poi, alcune norme che riguardano il tempo festivo e il sesso femminile: la donna deve comunicarsi con il proprio domenicale, pena la privazione del sacramento fino alla domenica successiva[99], non può inoltre ricevere l’eucaristia con la nuda mano[100] e toccare il corporale[101].

Degna di nota è, poi, una disposizione in materia di digiuno liturgico anche per le implicazioni in tema di ignorantia iuris. Nel caso specifico si fa riferimento alla festa di San Martino, dalla quale comincia l’astinenza nei giorni di lunedì, mercoledì e venerdì fino al Natale e durante i quali si celebra il sacrificio secondo il rito quaresimale[102]. La disposizione conciliare stabilisce, speciali definitione, l’obbligo della cognizione dei canoni (canones legendi esse) affinché nessuna azione delittuosa venga scusata:

 

… in quibus diebus canones legendos esse speciali definitione sancimus, ut nullus se fateatur per ignorantiam deliquisse.

 

L’incisività del contenuto e la peculiarità della formulazione della disposizione evidenziano la preminenza di alcuni tempi sacri anche nella funzione pedagogica d’indottrinamento del Popolo.

Si riporta, infine, il I canone del concilio Matisconense II (a. 585), che tratta della santificazione della domenica. Si tratta di un’articolata disposizione dall’importante contenuto teologico, quasi una sintesi degli elementi caratterizzanti l’appartenenza religiosa, fondati particolarmente su un sistema comportamentale collegato alla visione del tempo divino in una concettualizzazione, che acquista rilevanza anche nella società civile[103]. In una riflessione più ampia, che non esclude una comparazione con i tratti di una fisionomia diversa che connoterà la Chiesa nell’evoluzione dei tempi, in linea con la tradizione, si legge che «tutti i cristiani, che non vogliano inutilmente essere chiamati tali» (Omnes … Christiani, qui non incassum hoc nomine fruimini), hanno il dovere di custodire la domenica. Nessuno può, in detto giorno, lavorare, fomentare le liti, intentare azioni giudiziarie, in quanto il corpo e l’anima del cristiano devono essere intenti a lodare Dio e a pentirsi. La domenica è, infatti, il giorno del riposo eterno, che la Legge dei profeti ha fatto preconoscere nella figura del settimo giorno. È giusto, dunque, che tutti celebrino questo giorno per il quale da servi del peccato si è diventati figli della giustizia. Pene divine e umane colpiranno quanti non si uniformeranno a tali prescrizioni: l’avvocato perderà il lavoro, il contadino o lo schiavo saranno colpiti con più abbondanti frustate, il chierico o il monaco, per sei mesi, saranno allontanati dagli altri fratelli[104]. In conclusione, la norma sottolinea come l’osservanza di queste prescrizioni restituisca la serenità dell’animo e allontani le piaghe delle malattie e della sterilità. In quella stessa notte che dona all’umanità favori insperati, bisogna infatti essere sentinelle spirituali, compiere opere sacre affinché nel regno si abbiano degli eredi del Salvatore:

 

… Noctem quoque ipsam, quae nos inspiratae luci inaccessibili reddit, spiritualibus exigamus excubiis; nec dormiamus in ea, quem admodum dormitant qui nomine tenus Christiani esse noscuntur, sed oremus et vigilemus operibus sacris, ut digni habeamur in regno heredes fieri salvatoris[105].

Altri sinodi continueranno a vietare, durante le ricorrenze religiose, ogni sorta di contaminazione tra sacro e profano, riprovando la «irreligiosa consuetudine» (irreligiosa consuetudo) del popolo di privilegiare gli aspetti ludici, disattendendo così gli improrogabili uffici divini[106].

 

 

4. – L’edificazione universalistica del ‘tempo’ nella legislazione concordata (secoli VII-VIII)

 

Ancora nel VII secolo l’imposizione del rispetto per l’osservanza delle festività, nella caratterizzazione spirituale tracciata dai Padri, avviene attraverso le numerose misure legislative dei concilî, che diventano ora anche legge civile mediante la lex in confirmatione concilii[107].

In realtà, nel periodo in esame, nel quale attraverso il concilio si realizza la massima convergenza di ideali ed obiettivi tra sacerdotium e imperium, associati nel governo del popolo di Dio sotto un’unica corona, le norme concordate dal comune volere di prìncipi e sacerdoti iniziano ad affrontare aspetti non più solamente liturgici delle ricorrenze, venendo infatti ad imporre l’organizzazione del Tempo cristiano nel calendario civile. In un significativo allineamento nell’aspirazione al raggiungimento di un’univoca norma vivendi, singolare è il coinvolgimento del potere secolare in materia di prevenzione e repressione di condotte sovversive dei contenuti tipici delle ricorrenze religiose: le sanzioni penali, accessorie ai rimedi spirituali, costituiscono un efficace supporto ad ingenerare negli adepti la necessaria adesione ai precetti.

La congiunzione d’intenti per il ristabilimento dell’unificazione spirituale comporta la necessità dell’uniformità liturgica; quanto alla Pasqua, vengono fornite precise indicazioni per evitare qualsiasi divergenza intorno alla data di celebrazione: i metropoliti devono ricorrere a opportune e doverose consultazioni, per mezzo di lettere, in un tempo ben preciso (tre mesi prima dell’Epifania), per riferire successivamente ai loro comprovinciali, communi scientia edocti diem resurrectionis Christi, il giorno esatto della ricorrenza[108]. Nella stessa prospettiva, in tutti i luoghi si esige, nella vigilia di Pasqua, la benedizione della lucerna e del cereo e, nella illustrazione del senso allegorico del rito della luce, si estende la sua osservanza alle Chiese di Gallia propter unitatem pacis[109].

Da questo angolo visuale, nel coinvolgimento di forze eterogenee, l’assimilazione delle verità di fede si realizza altresì con la spiegazione offerta dai canoni circa l’istituzione del culto, in un significativo legame tra l’origine divina dei precetti e l’imposizione dell’osservanza terrena delle pratiche rituali. Nel rinnovato quadro conciliare grava in particolare sui presbiteri l’obbligo di far conoscere, in dette circostanze, il significato simbolico dei momenti cultuali e dei segni della realtà salvifica. Paradigmatico il contenuto di una disposizione che, con riferimento ad un comportamento diffuso in alcune comunità durante il venerdì santo - le porte delle Chiese restano chiuse, né si celebra l’ufficio né si proclama l’evento memoriale -, ordina ai Sacri Pastori di predicare, nello stesso giorno, il mistero della croce, in ossequio all’insegnamento di Cristo, che morendo disse ai suoi apostoli di annunciare a tutti la passione, la morte e la resurrezione, richiamando i peccatori a chiedere l’indulgenza dei crimini davanti a tutto il Popolo, affinché, purificati dalla penitenza, siano degni di vivere il giorno della domenica accostandosi al sacramento della riconciliazione[110].

In una strenua difesa del contenuto autentico delle festività cristiane, s’impone di celebrare, con il debito onore, la ricorrenza del 1° gennaio[111].

La visione provvidenziale del regno (in cuncto regno a Deo sibi concesso) comporta, per la salvezza dell’intero popolo, la costituzione delle Rogazioni, da tenersi ogni anno, per tre giorni, in una determinata circostanza temporale[112]. Interessante il testo del decreto reale di approvazione del concilio nel quale si sottolinea come tale «triduo» sia stato voluto dal sovrano e imposto agli uomini, di qualsiasi età, sesso o condizione, affinché con la sospensione di ogni attività (otium), sotto il controllo dei soggetti preposti alla vigilanza (optimates, comites, judices), ciascuno possa rendere il culto a Dio e ottenere, così, la sua misericordia (ut otio sancto mancipati aptiores erga Deum reddi possint, caelestem implorando misericordiam consequi)[113].

Tale sorveglianza ‘secolare’ si estende alla domenica e agli altri giorni di festa perché tutti (omnes) possano assistere ai vespri e alla messa e rispettino l’astensione dal lavoro servile[114]. In caso d’inosservanza, seguirà la correzione del trasgressore[115].

Quanto alle celebrazioni in onore dei martiri, o anche della consacrazione delle basiliche, è proibito, pena la scomunica, cantare canzoni sconvenienti, accompagnate da cori femminili: è necessario invece pregare o ascoltare i chierici che salmodiano[116].

Nello spirito delle norme, il ‘tempo’ festivo diventa circostanza proficua per rappresentare alla comunità gli esiti di una doverosa opera propagandistica della fede. Il can. XVII del concilio Toletano IX (a. 655) obbliga gli ebrei battezzati ad assistere, nei giorni delle principali feste cristiane, significativamente definite festae praecipuae novi testamenti, al servizio divino celebrato dal vescovo, in modo che risulti evidente la reale volontà d’incorporazione al popolo cristiano: chi si rifiuterà di fare ciò sarà, secondo l’età, frustato o condannato al digiuno[117].

L’anno successivo il Concilio Toletano X al can. I afferma la necessità di una pratica uniforme non solo per la data della Pasqua[118], sulla scorta della legislazione conciliare precedente, ma anche per quella delle altre festività come il Natale e la Pentecoste. Non c’è unità in Spagna anche per la festa di Maria, la cui venerazione, nel significato proprio del rapporto inscindibile con l’opera di salvezza del Figlio, costituisce un elemento caratterizzante l’identità cattolica. Nella disposizione si legge che, poiché il giorno nel quale l’angelo porta a Maria il messaggio dell’incarnazione del Verbo divino, tradizionalmente coincidente con il 25 marzo (la c.d. festa dell’Annunciazione), a volte non può essere osservato sia a causa della quaresima sia della Pasqua, essendo momenti destinati alla penitenza, si dispone che ovunque nel Paese, secondo ciò che si pratica anche altrove, tale festa sia fissata il 18 dicembre e celebrata con la stessa solennità del Natale[119].

Oltre a ciò, le questioni conciliari concernenti l’organizzazione del ‘tempo’ festivo toccano alcuni aspetti concernenti il comportamento degli ordinati in sacris[120] e dei laici; questi ultimi, nel tradizionale tratto spirituale del Popolo cristiano, inter catholicos non habitent nel caso in cui non si accostino al sacramento della riconciliazione a Natale, Pasqua e Pentecoste[121].

Quanto alla valutazione dell’inosservanza del riposo domenicale, particolarmente interessante è la rilevanza che viene ad assumere la volontarietà delle condotte. Così lo schiavo, nel caso in cui lavori nel giorno del Signore per eseguire un ordine, sarà libero e il padrone pro poena pagherà 30 solidi; diversamente, lo schiavo sarà frustato o riscatterà la sua vita con un’ammenda[122].

Nell’VIII secolo, notevole è la portata dei concilî nel processo ricostruttivo dell’identità cristiana, particolarmente in quei territori, come la Sassonia, da poco strappati al paganesimo. A tal proposito una svolta è segnata dal primo concilio germanico, convocato nel 742 da Carlo Magno con l’obiettivo di migliorare, con il «consiglio dei servi di Dio» (consilio servorum Dei), la situazione religiosa dell’impero e del «popolo cristiano» (populus Christianus) nella realizzazione precipua della salvezza delle anime e del necessario allontanamento di «falsi» sacerdoti[123]. Nell’approvazione formale dei canoni attraverso lo strumento della ratifica imperiale emerge significativamente nella prefazione del concilio il valore del riconoscimento, sotto il profilo politico-sociale, dell’esistenza di un populus, che fonda la creazione di un ius proprium nell’esclusiva finalità di redenzione secondo il disegno del suo Fondatore. Da qui la necessità, quale si delinea nel canone, che il comportamento dei soggetti preposti alla guida della Ecclesia, perché la stessa sopravviva, sia conforme alla sua dottrina autentica. Sotto tale profilo la festività viene a rilevare anche come spazio liturgico idoneo ad una costruttiva opera di autovalutazione del proprio operato. Il can. III, infatti, stabilisce che ogni anno, durante la quaresima, ciascun sacerdote deve rendere conto del modo di esercizio del suo ministero e, nel giorno della Coena Domini, deve chiedere un nuovo crisma al vescovo; questi ha il dovere di vegliare sulla purezza dei suoi sacerdoti e sull’integrità della loro fede[124]. In una sinergia di forze, il vescovo deve poi, con l’aiuto del conte, protettore della sua Chiesa, fare in modo che, nella sua diocesi, il populus Dei non svolga riti e sacrifici pagani (can. V)[125]. Quindici solidi è la multa per chi osserva tali pratiche, secondo il concilio Liptnense convocato, l’anno successivo, dallo stesso imperatore[126]. Con riferimento a questo sinodo è da evidenziare come i più antichi manoscritti facciano seguire ai quattro canoni, comunemente riconosciuti, alcune parti che risalgono all’epoca del concilio e che saranno riprese nelle collezioni successive. Si tratta, più precisamente, di una formula di abiura e di fede, di un Indiculus superstitionum et paganiarum, di tre allocutiones inviate dal clero al popolo[127]. Tra queste, l’ultima cita l’autorità del concilio di Laodicea per condannare i cristiani che ‘sabatizzano’, in un’accorata esortazione a rispettare, invece, la domenica e a lavorare quindi nel giorno di sabato, così come dispone la Legge divina[128]. Sotto tale aspetto, coloro i quali sono stati battezzati e rigenerati in Cristo, divenendone sue membra (qui baptizati et regenerati … in Christo, ecce facti estis membra Christi), si distinguono non solo dai pagani e dagli eretici ma anche dai giudei, per aver i cristiani compreso l’autentico significato dell’osservanza del sabato. Si legge, singolarmente:

 

… nos qui Christiani sumus, secundum literam sabbatum observare non ebemus. Christiani enim sabbatum observare ita debemus, abstinere nos a rapinis, a fraudibus, a perjuriis, a blasphemiis, ab inlicitis rebus, a munere accipiendo super innocentes, a jurgiis[129].

 

Tra i rimedi prospettati dalle norme per contenere il paganesimo, importante è il ruolo dei ministri sacri in ordine ad un’universalistica ed efficace opera catechetica; s’impone, infatti, a tutti i vescovi il dovere di istruire il clero e i fedeli tutti ut populus christianus paganus non fiant[130], punendo, con l’ausilio anche del potere secolare (lo stesso principe e i conti)[131], i predicatori delle dottrine eretiche, tra i quali si ricorda Adalberto[132]. Questi fu condannato come eretico dal concilio Romano II (a. 745), per aver, tra le altre cose, utilizzato, per accrescere la sua popolarità, una lettera che sosteneva essere stata scritta da Gesù Cristo e inviata agli uomini[133]. Si tratta di una epistola, nota come ‘Lettera della domenica’, consistente nell’ammonizione ad osservare il riposo cultuale[134]. Al di là della leggenda, peraltro molto diffusa nell’Europa centrale e meridionale, in Terra Santa e in Spagna, secondo quel filone della religiosità popolare fondato sulla trasmissione di messaggi divini autografi, ciò che qui rileva è la centralità, nella vita del cristiano, della domenica e delle altre festività[135]. Nel minacciare terribili punizioni ed assicurare gratificanti premi in ordine all’obbligo della santificazione di questo giorno, altri precetti, morali e disciplinari, vengono ad aggiungersi al principio cardine dell’astensione dal lavoro non indispensabile, nella visione intimistica dell’ozio, che risponde ad un bisogno di affermazione e di tutela della individualità della comunità cristiana. Attraverso l’epistola sacra, Cristo avrebbe comunicato agli uomini un chiaro messaggio: la salvezza dell’uomo è inscindibilmente legata al rispetto della domenica. Al riguardo, risulta significativo l’intento divulgativo dell’opera, quale emerge nella sua parte conclusiva, nella quale si obbligano i chierici a leggere il documento in pubblico e a tutti, in modo che ciascun buon cristiano lo possa intendere correttamente secondo la Santa Scrittura e i comandamenti della Legge[136].

Circa la situazione insulare, i concilî tenderanno a contrastare le sopravvivenze del paganesimo anche attraverso la realizzazione dell’unità nella liturgia. Così, il concilio di Cloveshoe (a. 747) prescrive la conformità al modello della Chiesa di Roma delle ricorrenze e dei relativi riti[137]. In relazione alla domenica, questa deve essere celebrata dappertutto secondo le prescrizioni; in particolare, abati e sacerdoti devono in questo giorno restare nei loro monasteri e nelle chiese di appartenenza, celebrare la messa, astenersi da tutti gli affari temporali, non viaggiare senza necessità e offrire ai fedeli, nei loro sermoni, una sana dottrina. Il popolo deve, invece, assicurare la propria partecipazione alla sinassi domenicale (can. XIV)[138]. Anche le litanie o rogazioni devono essere vissute dai fedeli con il rispetto e il timore dovuti, evitando inopportune attività profane, chiedendo in ginocchio il perdono dei propri peccati ed esponendo, insieme con le reliquie dei santi, la croce, quale simbolo dell’identità e dell’appartenenza: signum passionis Christi, nostraequae aeternae redemptionis[139].

S’introducono, inoltre, le feste in onore dei grandi uomini di Dio, tra i quali Gregorio e Agostino e, ovunque, si osserverà il digiuno secondo il costume della Chiesa romana[140].

La violazione del riposo domenicale è severamente punita anche dalla legge civile, oltre che dai canoni, come espressamente sancito nel concilio di Baviera (a. 772)[141]. Esemplare, sotto tale aspetto, il concilio di Paderbona (a. 785), nei cui atti, al pari dei colpevoli dei reati più gravi, vengono addirittura puniti con la morte, oltre a quanti rifiutino il battesimo o continuino a praticare riti pagani, anche coloro che non osservino il digiuno quadragesimale[142].

Di domenica non si devono svolgere né conventus né placita publica, se non in caso di necessità; tutti devono andare in chiesa per ascoltare la parola di Dio e dedicarsi alle opere giuste. Similmente, nelle altre festività «care a Dio», bisogna abbandonare i piaceri mondani[143].

Ancora, il Capitulare Ecclesiasticum di Carlo Magno del 789 richiama la tradizione sinodale per stabilire la dottrina immutata della Chiesa quanto al contenuto autentico delle festività cristiane; si ribadiscono rigorosamente il momento temporale di celebrazione della domenica (a vespera ad vesperam)[144], l’osservanza, sine necessitate rationabili, dei digiuni prescritti nei periodi sacri[145] e, in un passaggio che sottolinea la continuità con il proprio genitore (bonae memoriae genitor meus in suis synodalibus edictis), l’enumerazione tassativa delle opere servili proibite nel giorno di domenica, in considerazione anche dell’appartenenza sessuale del fedele (viri et feminae). In ogni caso il riposo è doveroso per recarsi in chiesa, pregare e ringraziare Dio per tutte le cose che ha donato all’umanità[146].

Nelle norme si rimarcano, oltre agli aspetti ‘negativi’ dell’astensione dal lavoro e dell’astinenza sessuale, anche i profili di una doverosità ‘positiva’ quanto alla necessità del compimento delle opere di pietà, inizialmente solo con riferimento alla domenica[147] e, successivamente, ad altri tempi sacri. Così, pro remedio animarum, il Popolo cristiano, secondo la legge del Vangelo, nelle vigilie delle festività (Palme, Pentecoste, Natale) e nel terzo sabato di settembre, pro aeterna retributione, deve fare pubblicamente delle elemosine secondo le proprie possibilità, evitando al contempo ogni pensiero di vanagloria[148].

Il mercoledì e il venerdì, giorni liturgici particolari, tutti i chierici, oltre che privarsi della carne e del vino, devono seguire la liturgia e celebrare la messa sia per la salvezza della Chiesa e del Popolo cristiano sia per la stabilità dell’impero.

Quanto alla quaresima, si prevede l’uso moderato dei cibi consentiti (cibi quadragesimales) perché quanto più grande è il sacrificio maggiore sarà la gratificazione: Qui vero plus abstinuerit, plus se mercedem habere sciat[149].

Il comportamento specifico di sospendere la pratica rituale della genuflessione, prevista nel mercoledì santo, solo durante l’oratio pro Judaeis costituisce, nell’interpretazione storica degli eventi del Cristo, un forte segno qualificativo dell’appartenenza religiosa[150].

 

 

5. – Conclusioni

 

Alla luce dei dati esposti riteniamo che l’indagine, condotta secondo l’ordine cronologico dei concilî generali e provinciali in un’analisi dettagliata dei contenuti intorno al tempo festivo, possa indurre a sostenere che le festività rappresentino il modello omnicomprensivo dei ‘tipi’ dell’identità cristiana, risultando gli stessi contenuti fondativi del nucleo originario. L’esame dei vari aspetti connessi all’organizzazione cultuale s’inserisce nella più estesa ricostruzione del concetto di Popolo, che, così come delineato nella Tradizione, implica una molteplicità di elementi: l’unità, la natura sacramentale del consenso, la spontaneità dell’atto di adesione, la necessità della perdita della cittadinanza, la normazione ispirata da Dio, il perseguimento della pace e della giustizia, l’appello alla coscienza e all’interiorità nel rispetto delle leggi civili.

Nella congerie dei sistemi religiosi tradizionali e delle sette ereticali, il termine populus ricorre frequentemente nelle norme sul ‘tempo’ divino, in un collegamento fra sistemazione delle esigenze rituali e affermazione di un dogmatismo autentico. Sotto tale profilo, attraverso la conferma costante dei princìpi che regolano lo scandire del tempo, si è evidenziato come la festività sia espressione di una dottrina immutata ed immodificabile negli aspetti sostanziali. In realtà la legislazione sinodale sulle ricorrenze sacre viene ad esprimere un paradigma normativo d’identificazione di quella moltitudine di uomini che, secondo la propria condizione e sotto la guida dei Sacri Pastori, in virtù del battesimo costruisce una società fondata sulla persistenza del consenso intorno ad un diritto ispirato a norme divine e sul perseguimento di un’utilitas ultraterrena.

 

 

Abstract

 

The present office aims to point out how, in evaluating the features concurring to the identity of the People of God, a central element is represented by the “festive time”; in the strict organization of the true religious model into ritual and symbolic structures, the belonging of the individual to the Christian community emerges as closely related to the features according to which sacred feasts are disciplined.

In this context, synodal legislation embodies a normative identification paradigm for all the individuals who, according to their own condition and under the guidance of Sacred Pastors, having been christened concur to build a society based on the persistence of consent to a law inspired by divine rules and the achievement of utilitas in the afterlife.

 

 



 

[Per la pubblicazione degli articoli della sezione “Contributi” si è applicato, in maniera rigorosa, il procedimento di peer review. Ogni articolo è stato valutato positivamente da due referees, che hanno operato con il sistema del double-blind].

 

[1] Sui concilî come ‘custodi’ e ‘strumenti’ del dogmatismo della Chiesa cfr. J.H. NEWMAN, Lo sviluppo della dottrina cristiana, a cura di L. Obertello, Milano 2003, 347.

 

[2] Virgilio, Georg. 1.268-272: Quippe etiam festis quaedam exercere diebus/ fas et iura sinunt: rivos deducere nulla/ religio vetuit, segeti praetendere saepem,/ insidias avibus moliri, incendere vepres/ balantumque gregem fluvio mersare salubri. In argomento, cfr. F. SINI, Uomini e Dèi nel sistema giuridico romano: Pax deorum, tempo degli Dèi, sacrifici, § 3, in Diritto @ Storia, 1 (maggio 2002) = http://www.dirittoestoria.it/tradizione/F.%20Sini%20-%20Uomini%20e%20D%E8i% 20%20nel%20sistema%20giuridico-religioso%20roman.htm.

 

[3] Ambrogio, De sacramentis, 1.4, in PL 16, col. 439, afferma che il cristiano si distingue dall’ebreo per i «sacramenti che sono ben più divini e più antichi di quelli dei Giudei»: … diviniora et priora sacramenta sunt Christianorum quam Judaeorum; sulla derivazione sacramentale del Popolo cristiano cfr., altresì, Hexaemeron, 3.1.6, in PL 14, col. 170.

 

[4] Cfr., infra, il can. XXI del concilium Eliberitanum.

 

[5] Sui concilî come «agenzia primaria della tradizione cristiana» cfr. F.G. LARDONE, Il diritto romano e i concilî, in Acta congressus iuridici internationalis (Roma 12-17 novembris 1934), 2, Roma 1935, 103 ss.

 

[6] Adfirmabant autem hanc fuisse summam vel culpae suae vel erroris, quod essent soliti stato die ante lucem convenire, carmenque Christo quasi deo dicere secum invicem seque sacramento non in scelus aliquod obstringere, sed ne furta ne latrocinia ne adulteria committerent, ne fidem fallerent, ne depositum adpellati abnegarent (Plinius Minor, Ep. 10.96.7, ed. R.A.B. Mynors, Oxford 1963, 339). La dottrina prevalente ritiene che il giorno deputato all’incontro (stato die) sia la domenica. Cfr., tra gli altri, L.C. MOHLBERG, Carmen Christo quasi Deo (Plinius, Epist. lib. X, 96), in Rivista di archeologia cristiana, 14 (1937), 100 ss.; C.S. MOSNA, Storia della domenica dalle origini fino agli inizi del V secolo. Problema delle origini e sviluppo. Culto e riposo. Aspetti pastorali e liturgici, Roma 1969, 98 ss. Sul sacramentum, in detta epistola, nel senso di confessione pubblica dei peccati nel giorno di domenica cfr. L.C. MOHLBERG, op. cit., 108 s.

Nel testo in esame si fa inoltre riferimento all’ulteriore consuetudine dei cristiani, dopo aver terminato gli atti di culto di cui sopra, di ritirarsi e di riunirsi di nuovo per consumare un cibo, ad ogni modo comune ed innocente: Quibus peractis morem sibi discedendi fuisse rursusque coeundi ad capiendum cibum, promiscuum tamen et innoxium … (Ep. 10.96.7). Sulle agapi cfr. Tertulliano, Apologeticus adversus gentes pro christianis, 39, in PL 1, col. 536 ss. Nell’Octavius di Minucio Felice, 9, in PL 3, col. 271 s., tra le caratteristiche dell’empia congrega (impia coitio) c’è quella di radunarsi a banchetto in un giorno di festa con tutti i figli, le sorelle, le madri, senza distinzione di sesso e di età: … ad epulas solemni die coeunt, cum omnibus liberis, sororibus, matribus, sexus omnis hominis et omnis aetatis … Sulla nota e controversa questione della priorità dell’Ottavio rispetto all’Apologetico, scritto nel 197 d.C., cfr. E. PARATORE, Introduzione, in Minucio Felice. Ottavio, Bari 1971, VII ss.

 

[7] Edam jam nunc ego ipsa negotia Christianae factionis … Corpus sumus de conscientia religionis et disciplinae divinitate et spei foedere. Coimus in coetum et congregationem, ut ad Deum, quasi manu facta, precationibus ambiamus … Oramus etiam pro imperatoribus, pro ministeriis eorum ac potestatibus, pro statu saeculi, pro rerum quiete, pro mora finis. Cogimur ad Litterarum divinarum commemorationem … Praesident probati quique seniores, honorem istum non pretio sed testimonio adepti: neque enim pretio ulla res Dei constat. Etiam si quod arcae genus est, non de honoraria summa quasi redemptae religionis congregatur; modicam unusquisque stipem menstrua die, vel quum velit, et si modo velit et si modo possit, apponit: nam nemo compellitur, sed sponte confert. Haec quasi deposita pietatis sunt. Nam inde non epulis, nec potaculis, nec ingratis voratrinis dispensatur, sed egenis alendis humandisque, et pueris ac puellis re ac parentibus destitutis jamque domesticis senibus, item naufragis, et si qui in metallis, et si qui in insulis, vel in custodiis duntavat ex causa Dei sectae alumni confussionis suae fiunt … Omnia indiscreta sunt apud nos, praeter uxores … Coena nostra de nomine rationem sui ostendit; id vocatur, quod dilectio penes Graecos est …; non prius discumbitur, quam oratio ad Deum praegustetur … Aeque oratio convivium dirimit … In cujus perniciem aliquando convenimus? Hoc sumus congregati, quod et dispersi; hoc universi, quod et singuli; neminem laedentes, neminem contristantes. Cum probi, cum boni coeunt, cum pii, cum casti congregantur, non est factio dicenda, sed curia (Apologeticus, 39, in PL 1, col. 531 ss.).

 

[8] Cfr. A. DI BERARDINO, La cristianizzazione del tempo nei secoli IV-V: la domenica, in Augustinianum, 42 (2002), 97 ss.

 

[9] Sui concilî come repraesentatio totius nominis christiani cfr. Tertulliano, De jejuniis, 13, in PL 2, col. 972. Cfr., in argomento, H. HOFMANN, Rappresentanza-Rappresentazione, Parola e concetto dall’antichità all’Ottocento (= Repräsentation. Studien zur Wort-und Begriffsgeschichte von der Antike bis ins 19. Jahrhundert, Berlin 2003), Milano 2007, 46 ss.

 

[10] Tertulliano, Apologeticus, 21, in PL 1, col. 450.

 

[11] Con riferimento al concilio di Nicea, Eusebio racconta che Costantino riconobbe valore giuridico al testo dei canoni sinodali e che ai governatori delle province non era consentito trasgredire le decisioni dei vescovi; riteneva, infatti, che gli uomini di Dio meritassero più stima di qualsiasi altro giudice: Jam vero episcoporum sententias quae in conciliis promulgatae essent, auctoritate sua confirmavit; adeo ut provinciarum rectoribus non liceret episcoporum decreta rescindere: cuivis enim judici praeferendos esse sacerdotes Dei (De Vita Constantini, 4.27, trad. lat. PG 20, col. 1175). L’imperatore, inoltre, esiliò quanti non vollero sottoscrivere le decisioni del concilio. In argomento cfr. A. PIGANIOL, L’empire chrétien (325-395), Paris 1972, 34 ss. Sui concilî dopo Nicea come «parlamenti ecclesiastici dell’impero» cfr. S. PRICOCO, Da Costantino a Gregorio Magno, in Storia del cristianesimo. L’antichità, a cura di G. Filoramo e D. Menozzi, Bari 1997, 282. Fra le fonti del Decretum di Graziano, come noto, un posto di rilievo è occupato dalle fonti conciliari. Interessante, a tal proposito, D. IX, c. 8 nel quale, con riferimento ad un passo del De baptismo contra Donatistas di Agostino, nel caso di deviazioni dalla verità si stabilisce la prevalenza dei concilî sulle decisioni dei vescovi.

 

[12] L’espressione è contenuta nel dispositivo di una legge (CTh. 16.5.15), emanata nel 388 e contenente il divieto per gli eretici di ogni setta di tenere riunioni, adunanze segrete, cerimonie. Sulla ratio di tale disposizione cfr. L. DE GIOVANNI, Chiesa e Stato nel codice Teodosiano. Alle origini della codificazione in tèma di rapporti Chiesa-Stato, V. ed., Napoli 2000, 39.

 

[13] Cfr. R. CANTALAMESSA, La Pasqua della nostra salvezza. Le tradizioni pasquali della Bibbia e della primitiva Chiesa, Torino 1971, 139 s.

 

[14] Tante sono le feste per commemorare ciascuno dei misteri divini, anche se unica è la finalità: quella di raggiungere la perfezione spirituale dell’uomo e di tornare all’autenticità del messaggio di salvezza, «al primo Adamo». Osserva Gregorio di Nazianzo, Oratio, 38.16, trad. lat. PG 36, col. 330: … quot mihi festos dies, haec singula Christi mysteria suppediant! Quorum omnium unum hoc caput est, atque unus hic scopus, nimirum mea perfectio et instauratio, atque ad primum illum Adamum reditus.

 

[15] Per feste di idee la dottrina intende far riferimento a quelle ricorrenze sganciate dalla memoria di un evento, quali ad esempio le festività della Santissima Trinità, di San Giuseppe lavoratore, etc. Alcuni ritengono che le più importanti feste cristiane non possano configurarsi come celebrazioni memoriali di eventi ma piuttosto come feste che esprimono «le grandi idee religiose». Al contrario, altri sostengono che le tre grandi ricorrenze, vale a dire Pasqua, Epifania e Natale, non siano affatto ‘feste di idee’, cioè di verità eterne bensì di fatti della storia sacra. Le due interpretazioni in realtà non sono in contrasto: si osserva, infatti, che le grandi feste sono in funzione degli eventi fondamentali non considerati in sé stessi ma della salvezza che essi fondano e trasmettono. Sulla questione cfr. M. KUNZLER, La liturgia della Chiesa (= Die Liturgie der Kirche, Paderbon 1995), Milano 2003, 518 s.

 

[16] Sulle feste mobili, quasi tutte agrarie e dipendenti dall’andamento del ciclo vegetativo, cfr. J. CHAMPEAUX, La religione dei romani (= La religion romaine, Paris 1988), Milano 2002, 79 ss.

 

[17] La domenica è, infatti, il giorno della celebrazione eucaristica. Sull’organizzazione del culto in Occidente e in Oriente cfr. V. MONACHINO, La cura pastorale a Milano Cartagine e Roma nel IV secolo, Analecta Gregoriana, XLI, Series Facultatis Historiae Ecclesiasticae, Romae 1947, 50 ss.

 

[18] Sulla datazione e sulla storia del concilio di Elvira cfr. C.J. HEFELE, Histoire des conciles d’après les documents originaux. Nouvelle traduction française corrigée et argumentée par H. Leclercq, 1.1, Paris 1973, 212 ss.

 

[19] Can. XXI, in Mansi, 2, col. 9.

 

[20] Cfr. H. LECLERCQ, Elvire (Concile d’), in Dictionnaire d’archéologie chrétienne et de liturgie, 4. 2 (1921), 2690. G. ALBASPINEO, in Mansi, 2, col. 41, circoscrive, invece, la punizione alla sola esclusione dall’eucaristia: … qui levi hac poena perstringebantur sola eucharistiae communione privabantur, non autem precum, aut corporis Christi mystici societate: nam sacris interesse poterant, quo qui jure fruerentur, nec excommunicati, nec poenitentes censebantur.

 

[21] È questa la data indicata da Socrate, Historia Ecclesiastica, 2.20, in PG 67, col. 233 ss. e Sozomene, Historia Ecclesiastica, 3.12, ibidem, col. 1064.

 

[22] C.J. HEFELE, op. cit., 218.

 

[23] Mansi, 3, col. 36.

 

[24] Ibidem, 2, col. 27 n. 4.

 

[25] Ibidem, 3, col. 27 s.

 

[26] Ibidem, col. 28.

 

[27] Il sinodo sardicense non è considerato un vero concilio ecumenico a causa dell’assenza dei vescovi orientali. Le decisioni conciliari ebbero tuttavia un’importante implicazione universale specialmente per le innovazioni nel campo della disciplina ecclesiastica; in particolare, si inasprirono le pene per il passaggio di un vescovo da una diocesi ad un’altra (già vietato dal can. XV del concilio di Nicea), ritenuta una cattiva consuetudine da estirpare per l’avarizia e l’ambizione alla base di questi trasferimenti, si vietò anche il trasferimento da una provincia ad un’altra senza l’invito del proprio fratello (cann. I-II), oltre alle prescrizioni esaminate relative al divieto di assentarsi dalla propria diocesi per più di tre settimane (ibidem, col. 31 s.).

 

[28] I giorni solenni e i digiuni costituiscono un elemento differenziale fondamentale tra la religione cristiana e quella giudaica. Cfr. Tertulliano, Apologeticus, 21, in PL 1, col. 450.

 

[29] Mansi, 2, col. 9 s.

 

[30] È stato sostenuto che il divieto di osservare la superpositio a luglio e agosto sia da collegare non all’infermità degli uomini, come deriverebbe dalla lettura del testo (ob quorundam infirmitatem), ma al caldo eccessivo di quei mesi estivi. Alcuni codici, infatti, più efficacemente recano l’espressione hoc ob eorundem infirmitatem (Mansi, 2, col. 211).

 

[31] Cfr. F. CABROL, Jeunes, in Dictionnaire d’archéologie chrétienne et de liturgie, 7.2 (1927), col. 2498 ss.

 

[32] Mansi, 2, col. 10.

 

[33] Quanto alla pratica del digiuno nel giorno di sabato vi erano delle differenze fra la Chiesa d’Oriente e quella d’Occidente, così come evidenziano alcune epistole di Agostino. In una lettera scritta al presbitero Casulano, probabilmente nel 396 o all’inizio del 397, il vescovo confuta la dissertazione di un tale, il quale sosteneva l’obbligo di digiunare in giorno di sabato (Ep. 36, in PL 33, coll. 136-151). Agostino, 11.25, ibidem, col. 147 s., asserisce, a tal proposito, che nessuna legge divina stabilisce con un precetto i giorni del digiuno e che in merito sia più conveniente essere più larghi che stretti in fatto di digiuno perché lo stesso esprime simbolicamente il riposo eterno in cui consiste il vero sabato: … Quibus autem diebus non oporteat jejunare, et quibus oporteat, praecepto Domini vel apostolorum non invenio definitum. Ac per hoc sentio, non quidem ad obtinendam, quam fides obtinet atque justitia in qua est pulchritudo filiae regis intrinsecus, sed tamen ad significandam requiem sempiternam ubi est verum sabbatum, relaxationem quam constrictionem jejunii aptius convenire. In modo particolare, Agostino sottolinea la facoltatività di tale osservanza anche nel confronto con l’inderogabile legge del riposo contenuto nell’Antico Testamento; spiega, infatti, che mentre si legge che Dio comandò di lapidare l’uomo che aveva raccolto legna di sabato, è altresì indubbio che in nessun luogo della Sacra Scrittura si rinviene che alcuno sia stato lapidato o giudicato degno di qualsiasi supplizio per il fatto di aver digiunato o mangiato in questo giorno. Riferisce, inoltre, che il popolo Romano era solito praticare il digiuno il mercoledì, il venerdì e il sabato, mai il giovedì (4.8, 5.9, ibidem, 139-140), facendone risalire l’origine alla memoria del tradimento e della passione del Signore (13.30, ibidem, col. 150). La varietà dei comportamenti a proposito del digiuno nel giorno di sabato è, invece, legata alle diverse interpretazioni: in Oriente si preferisce interrompere il digiuno per indicare il riposo del Signore nel sepolcro, in Occidente invece si digiuna per indicare l’umiliazione della morte del Cristo. Solo il sabato di Pasqua unisce le Chiese nel rievocare il ricordo dei discepoli che si rattristano per la morte del Signore. La gioia della refezione ricorda la risurrezione, nella quale si realizza la perfetta felicità dell’uomo nella sua integrità, vale a dire nel corpo e nello spirito (13.31, ibidem, col. 150 s.). È questa la ragione per cui non si digiuna mai nei giorni festivi e nei cinquanta giorni da Pasqua a Pentecoste (8.18, ibidem, col. 144). Il divieto di digiunare di domenica diventa segno d’identità della comunità cristiana. Mentre, infatti, è possibile digiunare nel giorno di sabato come, al pari degli ebrei, fanno non solo la Chiesa di Roma ma anche altre comunità, sebbene in piccolo numero, digiunare invece di domenica, al di là di qualsivoglia necessità, costituisce un grave scandalo. Si pensi ai Manichei, i quali stabilirono la domenica come giorno legittimamente prescritto per il digiuno, e ai Priscillianisti (12.27-29, ibidem, coll. 148-150). Un’unica eccezione al divieto di astenersi dal cibo nel giorno del Signore si ha quando il fedele, per voto, decide di digiunare per un lungo periodo come avvenne, infatti, ai tempi degli antichi Patriarchi, Mosè ed Elia, che non commisero alcuna trasgressione allorché digiunarono per quaranta giorni di seguito. Tuttavia, auspica Agostino, se un digiuno anche continuato deve interrompersi per qualsiasi motivo durante la settimana, non c’è nulla di più conveniente che ciò avvenga di domenica (12.27, ibidem, col. 148). Ricorda, inoltre, che sua madre, che lo aveva seguito a Milano, aveva notato che quella Chiesa non digiunava il sabato; era turbata non sapendo come comportarsi. Allora Agostino, ancora catecumeno, consultò Ambrogio, il quale al quesito proposto rispose nel senso della libertà nel seguire le proprie tradizioni o quelle dei luoghi e delle regioni in cui il cristiano si trovava in atto, per non subire o provocare uno scandalo: Quando hic sum, non jejuno sabbato; quando Romae sum, jejuno sabbato: et ad quamcumque Ecclesiam veneritis, inquit, ejus morem servatae, si pati scandalum non vultis aut facere (14.32, ibidem, col. 151). Interessante, sotto i profili evidenziati, anche l’Ep. 44, 3.3, ibidem, col. 200 s.

 

[34] Mansi, 2, col. 13.

 

[35] È stato sostenuto che l’eresia delineata sia quella dei montanisti, i quali ritenevano che lo Spirito Santo fosse disceso sulla terra soltanto su Montano. Sulle interpretazioni del canone in questione cfr. C.J. HEFELE, op. cit., 246.

 

[36] I sermoni pronunciati In die ascensionis Domini (261-265) e quelli In die Pentecostes (266-272), nei diversi anni a partire dal 393 (probabile data del sermone 266), consentono di cogliere il carattere autonomo e separato delle due festività sul piano liturgico e cultuale. Agostino spiega come il termine solemnitas prende il nome dal fatto che un evento deve essere ricordato ogni anno per evitare che venga cancellato dalla memoria: Ideo enim solemnitas celebratur, ne quod semel factum est, de memoria deleatur. Solemnitas enim ab eo quod solet in anno, nomen accepit: quomodo perennitas fluminis dicitur, quia non siccatur aestate, sed per totum annum fluit: ideo perenne, id est, per annum; sic et solemne, quod solet in anno celebrari. Tale festività è sacra perché in essa si rievoca il compimento del miracolo, del rinnovamento degli individui: utres novi erant, vinum novum de coelo exspectabatur, et venit. Jam enim fuerat magnus botrus ille calcatus et glorificatus (Sermo 272, 1, in PL 38, col. 1229 s.). La Pentecoste rappresenta la sacralizzazione della figura del Maestro, la presa d’atto della sua identità divina e, quindi, il cambiamento stesso del rapporto tra l’uomo e Dio. A proposito del significato di Giov. XVI, 7: Non potest ille venire, nisi ego abiero? Expedit enim … vobis ut ego eam. Nam si non iero, Paracletus non veniet ad vos, Agostino afferma: Videtur mihi, quod discipuli circa formam humanam Domini Christi fuerant occupati, et tanquam homines in homine humano tenebantur affectu. Volebat autem eos affectum potius habere divinum, atque ita de carnalibus facere spirituales: quod non fit homo nisi dono Spiritus sancti … (Sermo 270, 2, ibidem, col. 1238). Con riferimento a tale profilo, Gregorio di Nazianzo afferma: Corporea Christi finem habent, vel, ut rectius dicam, ea, quae ad corporeum ipsius adventum spectabant Spiritus autem actiones initium sumunt … (Oratio 41, 5, trad. lat. PG 36, col. 435). Più volte Agostino ricorda come tale ricorrenza annuale debba essere celebrata «con una solenne assemblea, con una solenne lettura, con una solenne omelia» (Huic solemnis congregatio, solemnis lectio, solemnis sermo debetur) e si compiace della grande partecipazione dei fedeli: Adventum Spiritus sancti anniversaria festivitate celebramus ... Illa duo persoluta sunt, quia et frequentissimi convenistis, et cum legeretur, audistis. Reddamus et tertium: non desit obsequium linguae nostrae ei qui et linguas omnes indoctis donavit, et linguas doctorum in omnibus gentibus subjiugavit, et diversas linguas gentium ad unitatem fidei congregavit … (Sermo 269, 1, in PL 38, col. 1234). È evidente il riferimento alla Pentecoste giudaica; mentre questa commemorava la promulgazione della Legge fatta in settanta lingue diverse, la Pentecoste cristiana diventa il simbolo dell’universalità del messaggio evangelico. Agostino collega la nascita del culto cristiano alla Pentecoste, alla circostanza in cui tremila uomini credettero agli Apostoli: Resurrexit tertia die … Deinde post quadraginta dies ascendit in coelum: post decem dies, id est quinquagesimo post suam resurrectionem die, misit Spiritum sanctum. Tunc tria millia hominum Apostolis eum praedicantibus crediderunt. Tunc itaque nominis illius cultus exorsus est, sicut nos credimus, et veritas habet, efficacia Spiritus sancti … (De civitate Dei contra paganos, 8, 54.1, ibidem, 41, col. 619). Tale evento segna l’inizio della predicazione, in tutta la Giudea e la Samaria fino agli estremi confini della terra, da parte degli apostoli, ‘fiaccole’ che il Signore aveva acceso con lo Spirito Santo, le persecuzioni e il martirio, attraverso il superamento delle dottrine immorali ed erronee. La Pentecoste cristiana rappresenta la Nuova Alleanza, la continuità nel rinnovamento. In questa prospettiva, il dono delle lingue preannunciava l’unità della Chiesa. È importante sottolineare, a tal proposito, come il vescovo d’Ippona evidenzi il compimento della Legge attraverso l’armonia, anche ‘numerica’, delle ricorrenze unite dalla origine comune e ricostruisca i percorsi rituali secondo gli insegnamenti della Tradizione.

 

[37] Placuit, picturas in ecclesia esse non debere; ne quod colitur; et adoratur, in parietibus depingatur (can. XXXVI, in Mansi, 2, col. 11).

 

[38] Ibidem, col. 46.

 

[39] Placuit prohiberi, ne foeminae in coemeterio pervigilent; eo quod saepe sub obtentu latenter scelera committant (can. XXXV, ibidem, col. 11).

 

[40] Primo loco de observatione paschae dominici, ut uno die et uno tempore per omnem orbem a nobis observetur, et juxta consuetudinem literas ad omnes tu dirigas (can. I, ibidem, col. 471).

 

[41] Tra le esigenze impellenti che devono essere risolte dalle norme conciliari vi è in primo luogo la questione pasquale. Nella lettera sinodale a Silvestro si legge: … id primo in loco de vita nostra atque utilitate tractandum fuit, ut quia unus pro multis mortuus est et resurrexit, ab ominibus tempus ipsum ita religiosa mente observetur, ne divisiones vel dissensiones in tanto obsequio devotionis possint exurgere. Censemus ergo pascha domini per orbem totum una die observari (ibidem, col. 469 s.). Cfr. J. GAUDEMET, Conciles gaulois du IV siècle, in Sources chrétienne, 241 (1977), 11 ss.

 

[42] Un notevole contributo alla ricostruzione della intricata questione è offerto dall’opera di Eusebio di Cesarea. Attraverso la lettura degli scambi epistolari dei rappresentanti delle Chiese d’Oriente e d’Occidente, lo storico ricostruisce il nodo complesso rappresentato dal dissenso in Asia intorno alla data di celebrazione della Pasqua e alle modalità del digiuno. Su questa questione, riferisce Eusebio, si svolsero numerosi sinodi e i vescovi tutti, uno consensu, formularono per lettera una norma ecclesiastica valida per i fedeli di ogni Paese: ne videlicet ullo alio quam Dominico die mysterium Resurrectionis Domini unquam celebretur. Solo in quel giorno si sarebbe potuto porre fine ai digiuni pasquali: utque eo duntaxat die Paschalium jejuniorum terminum observemus (Historia Ecclesiastica, 5.13, trad. lat. PG 20, col. 491).

 

[43] La legislazione romana si ergerà a difesa dell’ortodossia all’interno della Chiesa condannando coloro i quali divergono sul giorno in cui celebrare la Pasqua. Nel 423 una legge generale emanata a Costantinopoli decreterà come «follia» (amentia) l’atteggiamento di coloro i quali dissentono dall’opinione comune per quel che riguarda il venerabile giorno di Pasqua: costoro sono eretici, anzi «i peggiori per questa sola convinzione» (hac una persuasione peiores). La conseguenza della proscrizione dei beni e dell’esilio li accomuna nel trattamento punitivo ai manichei e agli eretici chiamati ‘pepuzisti’. Si tratta di una setta montanista che prende il nome dalla città di Pepuza, centro della predicazione di Priscilla, una delle profetesse seguaci di Montano. La previsione normativa della sanzione come reazione dell’ordinamento alla detta eresia induce a sostenere la configurazione del dissenso religioso come delitto, collocabile tra quelli ratione temporis. L’impostazione cristiana del ‘tempo’ è alla base dell’individuazione della specificata categoria, nella quale, secondo la linea interpretativa proposta, rientrerebbe anche la trasgressione della formalizzata costituzione del momento temporale pasquale. Significativa, dunque, l’importanza attribuita all’uniformità liturgica in quanto espressione della dottrina autentica della Chiesa, anche alla luce del successivo passaggio normativo in cui vi è, sia pur indirettamente, il riconoscimento sociale di un Popolo che si caratterizza per la natura sacramentale del consenso. La legge generale, subito dopo l’enunciazione del principio esposto (CTh. 16.10.24.pr.: … manichaeos illosque, quos pepyzitas vocant, nec non et eos, qui omnibus haereticis hac una sunt persuasione peiores, quod in venerabili die paschae ad omnibus dissentiunt, si in eadem amentia perseverant, eadem poena multamus, bonorum proscriptione atque exilio), con riferimento ad altre fattispecie penalmente rilevanti - ingiustificata violenza contro Giudei e pagani che non facciano alcunché contro la legge o appropriazione indebita dei loro beni-, riconosce come destinatari, in modo speciale (specialiter), i cristiani, elevando l’identità religiosa, formalmente assunta (non si fa alcuna distinzione, ai fini della pena, tra i «cristiani che lo sono veramente e quelli che si dice che lo siano») ad elemento costitutivo della qualificazione giuridica quanto al soggetto attivo del delitto. Lo stesso «abuso dell’autorità della religione» viene a configurarsi quale ‘circostanza aggravante’ del delitto, come è sottolineato dalla gravità delle sanzioni previste: sed hoc Christiani, qui vel vere sunt vel esse dicuntur, specialiter demandamus, ut Iudaeis ac paganis in quiete degentibus nihilque temptantibus turbulentum legibusque contrarium non audeant manus inferre religionis auctoritate abusi … Sulla «crisi d’identità» della comunità cristiana nei secoli IV e V cfr. J.M. SALAMITO, Les virtuoses et la multitude. Aspects sociaux de la controverse entre Augustin et les pélagiens, Grenoble 2005, 170 ss.

 

[44] Eusebio racconta che Costantino, informato del «gravissimo morbo» (morbus gravissimus), che da molto tempo infestava la Chiesa, vale a dire la controversia de salutari festo, per il fatto che non vi era alcun uomo in grado di trovare un rimedio a questo male, convocò un concilio ecumenico (generalis synodum), e con lettere piene di cortesia e di rispetto invitò i vescovi a convenire al più presto da ogni parte della terra (undique). L’ordine non era facile da eseguire ma per volontà dell’imperatore si provvide ad agevolarne l’attuazione, offrendo ad alcuni la possibilità di servirsi della posta pubblica, mentre ad altri furono messe a disposizione bestie da soma in grande quantità. Uomini tra loro divisi da enormi differenze non solo di idee ma anche di razza, di Paesi, di luoghi e di regioni, si radunarono in un’unica città. Le decisioni prese in comune furono anche ratificate per iscritto e controfirmate da ognuno. Ciò fatto, l’imperatore celebrò una solenne festività per ringraziare il Signore, in quanto era la seconda vittoria che egli conseguiva contro il nemico della Chiesa. Come luogo dove riunire i vescovi dell’Oriente e dell’Occidente fu scelta una città che ben si addiceva al concilio, derivando il suo nome dalla vittoria, Nicea di Bitinia (De vita Constant., 3.5-16, trad. lat. PG 20, col. 1058 ss.). Sulla questione pasquale cfr. G. FRITZ, Pâques. Les controverses pascales, in Dictionnaire de théologie catholique, 11, 1 (1931), col. 1948 ss.

 

[45] Can. XXIX, in Mansi, 2, col. 569. Nell’àmbito di una riorganizzazione del ‘tempo’ sacro, il concilio introduce il divieto dell’agape, probabilmente per scongiurare i disordini che si verificavano durante lo svolgimento delle stesse. Il can. XXVIII, ibidem, col. 569, recita: Quod non oportet in locis dominicis, vel in ecclesiis, eas quae dicuntur agapas facere, et in domo Dei comedere, et accubitus sternere. A proposito della terminologia usata in questa norma, è da segnalare che diversi erano i nomi attribuiti al luogo divino nel quale i fedeli erano soliti convenire per celebrare i sacri convivi: dominicus (Domini ecclesia), ecclesia, domus oratoria, basilica, memoria, martyrium, concilium sanctorum. Il canone precedente vieta ai chierici e ai laici convocati a tal convivio di portar via resti dell’agape perché ciò potrebbe arrecare offesa all’ordine sacerdotale: Quod non oportet eos qui sacrati sunt ordinis, vel clericos vel laicos, ad agapas vocatos, partes tollere, eo quod ignominia inuratur ordini sacerdotali. Sull’agape, in particolare nelle norme del concilio di Laodicea, cfr. F.X. FUNK, La question de l’agape, in Revue d’histoire ecclésiastique, 7 (1906), 5 ss.; H. LECLERCQ, Agape, in Dictionnaire d’archéologie chrétienne et de liturgie, 1.1 (1924), col. 775 ss.; V. MONACHINO, La cura pastorale a Milano Cartagine e Roma nel IV secolo, cit., 70 ss.

 

[46] Le norme sinodali dei diversi Paesi non sono univoche sotto il profilo dell’astensione dalle attività nel giorno dedicato al Signore. Generalmente vengono vietate quelle opere servili che possono costituire un impedimento al culto esteriore della festa.

 

[47] Nell’antitesi tra lettera e figura, tra schiavitù della legge e libertà, tra tempo del timore e tempo dell’amore, il giorno cultuale ha cessato di essere osservato nel significato carnale ed è stato recepito dai credenti in senso spirituale. Così, a proposito della legge sull’osservanza del sabato e delle festività solenni, Agostino, Contra Adimantum Manichaei discipulum, 16.3, in PL 42, col. 156 s., afferma: Sed quia intelligimus quo pertineant, non tempora observamus, sed quae illis significantur temporibus Repudiamus itaque temporum observationem … et temporalium signorum intelligentiam tenemus … Agostino, Ep. 55, 12.22, in PL 33, col. 214, sostiene che, tra i dieci comandamenti, solo quello relativo all’osservanza del sabato sia da intendere in senso allegorico; tale norma simboleggia il riposo spirituale e non il riposo dall’attività fisica, come lo intendono i Giudei: Ideoque inter omnia illa decem praecepta solum ibi quod de sabbato positum est, figurate observandum praecipitur; quam figuram nos intelligendam, non etiam per otium corporale celebrandam suscepimus. Cum enim sabbato significetur spiritualis requies …; caetera tamen ibi praecepta proprie sicut praecepta sunt, sine ulla figurata significatione observamus … Observare tamen diem sabbati non ad litteram jubemur, secundum otium ab opere corporali, sicut observant Judaei: et ipsa eorum observatio quae ita praecepta est, nisi aliam quamdam spiritualem requiem significet, ridenda judicatur …

 

[48] Ut evangelium cum aliis scripturis sabbato legatur (Mansi, 2, col. 568). Sul quadro interpretativo con riferimento al canone in esame cfr. C.J. HEFELE, op. cit., 1.2, 1008. I canoni LIX e LX, ibidem, col. 573, dispongono che in Chiesa vadano letti solo i libri canonici del Vecchio e Nuovo Testamento, con l’esclusione quindi di tutti i salmi composti da privati. Che il sabato fosse rilevante dal punto di vista cultuale è confermato poi da alcuni canoni sul periodo quaresimale (XLIX e LI, ibidem, col. 572).

 

[49] Quod non oportet quae a Judaeis vel haereticis mittuntur festiva accipere, neque una cum eis festum agere (can. XXXVII, ibidem, col. 569); inoltre, Quod non oportet cum gentibus festum agere, et eorum impietati communicare (can. XXXIX, ibidem, col. 572). Il can. XXXVIII vieta ai cristiani di ricevere pane azzimo e di prender parte ai sacrifici dei giudei: Quod non oportet a Judaeis azyma accipere, vel eorum impietatibus communicare (ibidem, col. 572).

 

[50] Quod non oportet omnem Christianum Christi martyres relinquere, et ad falsos martyres, hoc est, haereticos abire, vel eos qui prius haeretici fuere. Hi enim sunt a Deo alieni. Sint ergo anathema, qui ad eos abeunt (can. XXXIV, ibidem, col. 569). Il can. IX proibisce ai membri della Chiesa di recarsi presso i cimiteri o in quei posti che si chiamano martyria, non importa di quale eretico, per pregare o per rendere il culto. I cattolici che non osservano questa regola saranno scomunicati per qualche tempo e riammessi ove scontino una penitenza, dopo aver riconosciuto i propri errori (ibidem, col. 565). Sui martiri eretici, precisamente dei catafrigi, cfr. Eusebio, Historia Ecclesiastica, 5.18, in PG 20, col. 476 s. È considerato idolatra e va punito con l’anatema anche il cristiano che introduce il culto superstizioso degli angeli (can. XXXV, in Mansi, 2, col. 588). Sulla complessa questione si rinvia alle note di S. BINIO, ibidem, col. 598. Sul culto degli angeli nella liturgia cfr. M. RIGHETTI, L’anno liturgico nella storia, nella messa, nell’ufficio. Manuale di storia liturgica, 2, Milano 1969, 434 ss.; M. GALLINA, Ortodossia ed eterodossia, in Storia del cristianesimo, cit., Il medioevo, 177 ss.

 

[51] Quod non oporteat ad baptisma quemquam post duas quadragesimae hebdomadas admitti (can. XLV, in Mansi, 2, col. 581).

 

[52] Quod oporteat eos qui ad baptisma veniunt, fidem discere, et quinta feria septimae majoris episcopo aut presbyteris reddere (can. XLVI, ibidem, col. 581). La dottrina prevalente ritiene che il riferimento sia solo all’ultimo giovedì di quaresima, quello cioè della settimana santa. Cfr. C.J. HEFELE, op. cit., 1.2, 1021.

 

[53] Quod non oporteat in quadragesima panem benedictum offerri, nisi in sabbato et dominica (can. XLIX, in Mansi, 2, col. 581).

 

[54] Quod non oporteat in quadragesima, in ultimae septimae quinta feria jejunium solvere, totamque quadragesimam sine veneratione transire; magisque conveniat omnem quadragesimam districto venerari jejunio (can. L, ibidem, col. 581 s.).

 

[55] È il caso degli anniversari dei martiri, per i quali è concesso ricordarne la santa memoria solo di sabato e domenica, unici giorni liturgici: Quod non oporteat in quadragesima martyrum natalitia celebrari, sed eorum sancta commemoratio in diebus sabbatorum et dominicarum fieri conveniat (can. LI, ibidem, col. 582); lo stesso vale per le nozze o le nascite: Quod non oporteat in quadragesima aut nuptias aut natalitia celebrari (can. LII, ibidem, col. 582).

 

[56] Cfr. Mansi, 2, col. 678. Il concilio di Nicea contiene uno dei più antichi riferimenti, in Oriente, alla quadragesima paschae: si tratta di un periodo di preparazione alla festa come si evince dal can. V nel quale si prescrive di celebrare, in tale periodo, un concilio «perché, superato ogni dissenso, possa essere offerto a Dio un dono purissimo»: ut omni dissensione sublata, munus offeratur Deo purissimum (ibidem, col. 679).

 

[57] Quoniam conveniens sancta synodus episcoporum in ecclesia Gangrensi, propter quasdam ecclesiasticas et necessarias causas inquirendas, et ea quae secundum Eustathium gesta sunt, dignoscenda, invenit multa fieri indecenter ab his qui eumdem Eustathium secuti sunt, necessario statuit, palam omnibus actis, amputare universa, quae ab eodem male commissa sunt … jejunia quae in ecclesia praedicantur, contemnenda afferuisse … (ibidem, col. 1095 ss.). Si tratta di Eustazio, vescovo di Sebaste, descritto come un asceta severo e fautore di regole molto rigorose quanto all’alimentazione e all’abbigliamento. Cfr. Socrate, Historia Ecclesiastica, 2.43, in PG 67, col. 352; Sozomene, Historia Ecclesiastica, 3.14, ibidem, col. 1068.

 

[58] Mansi, 2, col. 1103.

 

[59] Si quis eorum qui exercentur absque corporali necessitate se insolenter gerat, et tradita jejunia, quae communiter servantur ab ecclesia, dissolvat, perfecta in eo residente ratione, fit anathema (can. XIX, ibidem, col. 1103). L’espressione perfecta in eo residente ratione, secondo alcune interpretazioni, dovrebbe alludere all’intelligenza superiore di cui gli Eustaziani pensavano di essere dotati e che li portava a non rispettare le norme ecclesiastiche circa i digiuni. Espressioni equivalenti sono contenute in altre versioni del canone, quale quella di Isidoro Mercator: perfectam in sua scientia vindicans rationem (ibidem, col. 1112). Tale interpretazione è in sintonia con il pensiero dei Padri del sinodo, che stigmatizzano i sentimenti di disprezzo degli eustaziani verso i cristiani. L’epilogo del concilio, che è una sorta di sintesi dei venti canoni, chiarisce che s’intende allontanare questi individui non perché, nella Chiesa di Dio, vogliono praticare l’ascetismo conformemente alle Sacre Scritture ma perché essi trasformano quel proposito di continenza in superbia, volendosi elevare al di sopra dei più semplici e introdurre nuovi precetti contro le Scritture e le regole ecclesiastiche. Si legge: Haec autem scripsimus, non, qui in ecclesia Dei secundum scripturas sanctum propositum continentiae eligunt, vituperantes, sed eos qui abutuntur proposito in superbiam, et extolluntur adversus simpliciores, abscindimus, et damnamus eos qui adversum scripturas et ecclesiasticas regulas nova introducunt praecepta (ibidem, col. 1108).

 

[60] È il caso dei Maccabei, martyres, non appellatione, sed reipsa christiani, come afferma Agostino in un sermone pronunciato nella solennità a loro dedicata. Questi martiri anticiparono il nome di cristiani, diffuso più tardi, con le loro opere: Christiani fuerunt: sed nomen Christianorum postea divulgatum factis antecesserunt … (Sermo 300, 1.1, 2.2, in PL 38, col. 1377). Ai Giudei che si chiedono il perché della celebrazione dei Maccabei come martiri cristiani, Agostino risponde che sono tali perché confessarono Cristo nascosto nella Legge mentre gli altri martiri confessarono Cristo rivelato nel Vangelo: Christum alii martyres in Evangelio revelatum, Machabaei in Lege velatum confessi sunt (ibidem, 3.3, 5.5, col. 1381 ss.).

 

[61] Sempre l’anatema è la pena prevista per chi, per superbia, trascura la liturgia dei martiri: Si quis superbiae usus affectu, conventus abominatur, qui ad consessiones martyrum celebrantur, et ministeria quae in eis fiunt simul cum eorum memoriis execratur, anathema fit (can. XX, in Mansi, 2, col. 1108). Tra gli illeciti di cui erano responsabili gli Eustaziani, la lettera sinodale includeva anche il mancato rispetto per i luoghi dei santi martiri, delle basiliche e di tutti coloro che vi convenivano: … Loca sanctorum martyrum vel basilicas contemnere, et omnes qui illuc conveniunt, reprehendere … (ibidem, col. 1099). Anche nell’epilogo citato, nel ribadire con forza i princìpi ortodossi del cristianesimo, che i seguaci di Eustazio intendono soppiantare alla luce di interpretazioni eretiche, vi è anche quello dell’onore che si deve a tutti i luoghi costruiti in nome di Dio, come i martyria (ibidem, col. 1108).

 

[62]Gratus episcopus dixit: Gratias Deo omnipotenti et Christo Jesu, qui dedit malis schismatibus finem et respexit ecclesiam suam, ut in ejus gremium erigeret universa membra dispersa; qui imperavit religiosissimo Constantio imperatori, ut votum gereret unitatis et mitteret ministros operis sancti, famulos Dei Paulum et Macarium. Ex Dei ergo nutu congregati … ad unitatem ut per diversas provincias concilia celebraremus et universas provincias Africae hodierno die concilî gratia ad Carthaginem veniretur ... necesse est nos memores praeceptorum divinorum et magisterii scripturarum sanctarum, contemplantes unitatis tempus, id est de singulis definire quod nec Carthago vigorem legis infringat nec tamen tempore unitatis aliquid durissimum statuamus (Exordium, in Mansi, 3, col. 144). Cfr. il commento di S. BINIO, ibidem, col. 150 ss. Il can. II, ibidem, col. 145 s., revoca il titolo di martire a coloro i quali si sono dati la morte: … Martyrum dignitatem nemo profanus infamet, neque passiva corpora quae sepulturae tantum propter misericordiam ecclesiasticam commendari mandatum est redigant, ut aut insania praecipitatos aut alia ratione peccati discretos, non ratione vel tempore competenti, quo martyria celebrantur, martyrum nomen appellent, at si quis in iniuriam martyrum claritati eorum adiungat insanos; placeat eos, si laici sunt, ad paenitentiam redigi, si autem sunt clerici, post commonitionem et post cognitionem honore privari. La norma intendeva colpire i donatisti, che veneravano come martiri i c.d. circoncellioni, accesi sostenitori delle posizioni più oltranziste della chiesa scismatica africana, che si davano la morte buttandosi dalle alture o facendosi bruciare vivi nei roghi. Il termine circumcelliones deriva da circum cellas e indica coloro che si aggirano intorno alle dispense. I circoncellioni erano così chiamati per disprezzo in quanto si ribellavano, anche con ruberie e atti di violenza, ai proprietari terrieri. Cfr. M. CRAVERI, L’eresia. Dagli gnostici a Lefebvre, il lato oscuro del cristianesimo, Milano 1996, 57. Agostino combatté con energia tale setta denunciando le loro violenze e l’inaudita crudeltà della persecuzione messa in atto contro i cristiani. A proposito dei loro suicidi, cfr., in particolare, Ep. 88.8, in PL 33, col. 307. Nel 412 Onorio emana leggi contro i donatisti. In argomento cfr. L. DE GIOVANNI, op. cit., 82 ss. Sul ruolo fondamentale dei concilî nella Chiesa d’Africa cfr. G. BARDY, Afrique, in Dictionnaire d’archéologie chrétienne et de liturgie, 1 (1935), col. 300 ss.

 

[63] Ne quis jejunet die dominica, causa temporis, aut persuasionis, aut superstitionis … ut de quadragesimarum diebus, ab ecclesiis non desint, nec habitent latibula cubiculorum, ac montium, qui in his suspicionibus perseverant, sed exemplum et praeceptum custodiant sacerdotum, et ad alienas villas agendorum conventuum causa non conveniant. Ab universis episcopis dictum est. Anathema fit, qui hoc commiserit (concilium Caesaraugustanum a. 380, can. II, in Mansi, 3, col. 634). Leone I include il digiuno nel giorno di domenica e nel Natale del Signore tra gli errori di questi eretici: Quarto autem capitulo continetur, quod Natalem Christi, quem secundum susceptionem veri hominis catholica Ecclesia veneratur, quia Verbum caro factum est et habitavit in nobis (Joan. I, 14), non vere isti honorent, sed honorare se simulent, jejunantes eodem die, sicut et die Dominico qui est dies resurrectionis Christi. Quod utique ideo faciunt quia Christum Dominum in vera hominis natura natum esse non credunt, sed per quamdam illusionem ostentata videri volunt quae vera non fuerint … Qui, sicut in nostro examine detecti atque convicti sunt, Dominicum diem, quem nobis Salvatoris, nostri resurrectio consecravit, exigunt in moerore jejunii … (Ep. 15.4, in PL 54, col. 682). Anche i Manichei digiunavano la domenica. Cfr. Ep. 133.5, ibidem, col. 1090; Sermo 42.5, ibidem, col. 279.

 

[64] Qui dominico die studiose jejunat, non credatur catholicus (concilium Carthaginense IV, a. 398, can. LXIV, in Mansi, 3, col. 956).

 

[65] Il canone IV del concilium Caesaraugustanum, a. 381, ibidem, col. 634 s. afferma: Viginti et uno die, quo a 16. Kalendas Januarii usque in diem Epiphaniae, quae est 8. Idus Januarii, continuis diebus, nulli liceat de ecclesia se absentare, nec latere in domibus, nec secedere ad villam, nec montes petere, nec nudis pedibus incedere, sed concurrere ad ecclesiam. Quod qui non observaverit, his decretis anathema sit in perpetuum. Ab universis episcopis dictum est: Anathema sit. Il Natale e l’Epifania sono giorni che commemorano, con la stessa importanza, avvenimenti differenti come quelli della nascita umana e della manifestazione del Cristo. I sermoni pronunciati da Agostino in occasione delle dette ricorrenze evidenziano che si tratta di giorni che commemorano, con la stessa importanza, avvenimenti differenti come quelli della nascita umana e della manifestazione del Cristo: Ante paucissimos dies Natalem Domini celebravimus: odierno autem die manifestationem, qua manifestari Gentibus coepit, solemnitate non minus debita celebramus … (Sermo 201, in PL 38, col. 1031). Si deve riconoscere nel tempo Colui per mezzo del quale sono stati creati i tempi e, celebrando le sue feste nel tempo, l’uomo deve aspirare ai premi eterni: Agnoscamus itaque in tempore, per quem facta sunt tempora: et celebrantes ejus festa temporalia, praemia desideremus aeterna (Sermo 383, 5, in PL 39, col. 1666). Dominus Christus in aeternum sine initio apud Patrem, habet et Natalem, osserva Agostino. Colui che da sempre era Dio presso il Padre è nato come uomo da una madre; se Cristo non avesse avuto la nascita umana, l’uomo non sarebbe potuto arrivare alla rinascita divina: «è nato perché noi potessimo rinascere» (natus est, ut renasceremur). Generatio Christi duplex, precisa Agostino, e ambedue le nascite di Cristo sono mirabili: la nascita dal Padre senza madre e quella dalla madre senza padre. La prima nascita è eterna, la seconda è temporale (Sermo 189, 3-4, in PL 38, col. 1006). Cristo si è manifestato nella carne e in quel giorno, che si chiama Natale del Signore, andarono a vederlo i pastori del popolo dei Giudei. Nel giorno, che è chiamato propriamente Epifania, vennero ad adorarlo i magi, provenienti dal mondo pagano (Sermo 204, 1, ibidem, col. 1037). Il piano di salvezza dell’intera umanità è svelato anche dal dodici, che è il numero di giorni che separa le due festività. I magi, si legge in Agostino, non provengono da una parte soltanto della terra ma, come dice il Vangelo di Luca (13.29), dall’Oriente, dall’Occidente, dal Settentrione e dal Meridione, per sedersi alla mensa con Abramo, Isacco e Giacobbe nel regno dei cieli. Così tutto il mondo, dalle quattro parti, è chiamato alla fede per grazia della Trinità. In base a questo numero – quattro per tre – è fissato il numero dodici degli Apostoli, che prefigura la redenzione dell’intera umanità. Per questo, forse dodici giorni dopo la nascita del Signore i magi, primitiae Gentium, vennero per vedere e adorare Cristo e meritarono non solo di ricevere la propria salvezza ma anche di simboleggiare quella di tutti gli uomini (Sermo 203, 3, ibidem, col. 1036).

 

[66] Questo concilio è il primo dei tanti presieduti da Aurelio, che dal 391 è vescovo di Cartagine. La sua importanza è testimoniata dall’alta partecipazione dei vescovi africani e dalla innovazione della disciplina al punto che Possidio lo ha definito plenarium totius Africae concilium (Vita Augustini 7, in PL 32, col. 79). Agostino pronunciò, davanti all’assemblea, il suo discorso De fide et symbolo (PL 40, coll. 181-192). Gli Atti di tale concilio sono a noi pervenuti grazie al concilio di Cartagine del 397, che racchiude un breviarium dei detti canoni che i vescovi della provincia di Bizacena desideravano rimettere in vigore. Cfr. Mansi, 3, col. 875 ss.

 

[67] Placuit … propter errorem, qui saepe solet oboriri, ut omnes Africanae provinciae episcopi observationem paschalem ab ecclesia Carthaginensi curent accipere (can. I, ibidem, col. 880).

 

[68] Item placuit, ut etiam per solennissimos paschales dies sacramentum catechumenis non detur, nisi solitum sal: quia si fideles per illos dies sacramentum non mutant, nec catechumenis oportet mutari (can. V, ibidem, col. 880 s.).

 

[69] Ut sacramenta altaris non nisi a jejunis hominibus celebrentur, excepto uno die anniversario, quo coena Domini celebratur. Nam si aliquorum, pomeridiano tempore defunctorum, sive episcoporum seu clericorum, sive ceterorum, commendatio facienda est, solis orationibus fiat, si illi qui faciunt, jam pransi inveniantur (can. XXIX, ibidem, col. 885). Quanto al giovedì santo, Agostino, che è tra i quarantatrè firmatari degli Atti del concilio d’Ippona, ibidem, col. 930, affermava: Sed nonnullos probabilis quaedam ratio delectavit, ut uno certo die per annum, quo ipsam coenam Dominus dedit, tanquam ad insigniorem commemorationem post cibos offerri et accipi liceat corpus et sanguinem Domini … Quanto all’uso di fare il bagno in questo giorno, il vescovo ne individua la ragione probabilmente nel fatto che, dovendo i battezzandi accostarsi al fonte battesimale, si era scelto il giorno in cui si celebra l’anniversario della cena del Signore per rompere il digiuno e provvedere alla cura del corpo, trascurata nel periodo quaresimale: Si …quaeris, cur etiam lavandi mos ortus sit: nihil mihi de hac re cogitanti probabilius occurrit, nisi quia baptizandorum corpora per observationem Quadragesimae sordidata, cum offensione sensus ad fontem tractarentur, nisi aliqua die lavarentur. Istum autem diem potius ad hoc electum, quo coena domenica anniversarie celebratur. Et quia concessum est hoc Baptismum accepturis, multi cum his lavare voluerunt, jejuniumque relaxare (Ep. 54.8.9, in PL 33, col. 204). Il canone conciliare successivo proibisce ogni forma di convivio nella casa del Signore, fatta eccezione per il caso in cui sia necessario provvedere ad ospiti di passaggio: Ut nulli episcopi vel clerici in ecclesia conviventur, nisi forte transeuntes hospitiorum necessitate illic reficiantur. Populi etiam ab hujusmodi conviviis, quantum fieri potest, prohibeantur (can. XXX, in Mansi, 3, col. 885). Il IV Concilio Cartaginese ribadisce che la Pasqua deve essere celebrata dappertutto nello stesso giorno: Paschae solennitas uno die et tempore celebranda (can. LXV, ibidem, col. 956).

 

[70] Poenitentes etiam diebus remissionis genua flectant (can. LXXXII, ibidem, col. 957).

 

[71] Qui die solenni, praetermisso solenni ecclesiae conventu, ad spectacula vadit, excommunicetur (can. LXXXVIII, ibidem, col. 958).

 

[72] Auguriis vel incantationibus servientem, a conventu ecclesiae separandum. Similiter et superstinionibus Judaicis vel feriis inhaerentem (can. LXXXIX, ibidem, col. 958).

 

[73] C.J. HEFELE, op. cit., 2.1, 125, riporta la data del 401.

 

[74] Illud etiam petendum, ut quoniam contra praecepta divina convivia multis in locis exercentur, quae ab errore gentili attracta sunt, ita ut nunc a paganis Christiani ad haec celebranda cogantur; ex qua re temporibus Christianorum imperatorum persecutio altera fieri occulte videatur: vetari talia jubeant, et de civitatibus et de possessionibus imposita poena prohibere; maxime cum etiam in natalibus beatissimorum martyrum per nonnullas civitates, et in ipsis locis sacris talia committere non reformident. Quibus diebus etiam, quod pudoris est dicere, saltationes sceleratissimas per vicos atque plateas exerceant: ut matronalis honor, et innumerabilium foeminarum pudor, devote venientium ad sacratissimum diem, injuriis lascivientibus appetatur; ut etiam ipsius sanctae religionis pene fugiatur accessus (can. LX, in Mansi, 3, coll. 766-767). Tale ultima espressione è stata intesa nel senso di impedimento per le donne di entrare nei luoghi divini nei quali i fedeli esercitavano il culto religioso. Cfr. E. DOVERE, C.Th. 16.11.1 (iungenda autem ei 16.10.17-18), in Rivista di Diritto romano, VIII (2008), www.ledonline.it/rivistadirittoromano.

 

[75] Necnon et illud petendum, ut spectacula theatrorum, ceterorumque ludorum die domenica, vel ceteris religionis Christianae diebus celeberrimis amoveantur; maxime quia sancti paschae octavarum die populi ad circum magis quam ad ecclesiam conveniunt, debere transferri devotionis eorum dies siquando occurrerint, nec oportere etiam quemquam Christianorum cogi ad haec spectacula: maxime, quia in his exercendis quae contra praecepta Dei sunt, nulla persecutionis necessitas a quoquam adhibenda est: sed, uti oportet, homo in libera voluntate subsistat sibi divinitus concessa. Cooperatorum enim maxime periculum considerandum est, qui contra praecepta Dei magno terrore coguntur ad spectacula convenire (can. LXI, in Mansi, 3, col. 767).

 

[76] Synodus S. Patricii, can. XXII, in Mansi, 6, col. 525: Post examinationem carceris sumenda est: maxime autem in nocte paschae, in qua qui non communicat fidelis non est

 

[77] Così, con riferimento al digiuno del sabato santo, il concilium Arausicanum I, a. 441, ibidem, col. 443 dispone: Ut in sabbato sancto, hoc est, in vigilia paschae, jejunium ante noctis initium, nisi a parvulis et infirmis, non solvatur, nec in parasceve: quia coena domini, et parasceve, et sabbatum, ad illos quadraginta dies respiciunt: vel divina mysteria his duobus diebus celebrantur, canonibus quippe jubentibus, in biduo isto, id est, parasceve et sabbato, sacramenta penitus non celebrari. Quanto alla Pasqua, vi è l’obbligo per i presbiteri e i diaconi delle Chiese rurali di procurarsi, prima della ricorrenza, il crisma direttamente dal proprio vescovo perché si ritiene sconveniente o inopportuno rivolgersi ad altri Pastori (concilium Vasense II, can. III, ibidem, col. 453). Si stabilisce che il vescovo, quando si trova fuori della propria diocesi, di domenica potrà offrire il sacrificio, ma non potrà fare alcuna ordinazione senza il permesso del vescovo diocesano (Synodus S. Patricii, can. XXX, ibidem, col. 518) e che il tempo per ricevere il battesimo è solo quello solenne di Pasqua, Pentecoste ed Epifania (can. XIX, ibidem, col. 525).

 

[78] Sulla progressiva affermazione, nel V secolo, della prassi conciliare fino alla parificazione tra canoni e regole legislative cfr. E. DOVERE, Normazione teodosiana «de fide»: la scelta conciliare (aa. 435-449), in Vetera christianorum, 1 (2006), 67 ss.

 

[79] Concilium Vasense II, can. IX, in Mansi, 6, col. 455. Il canone fa riferimento ad una costituzione di Onorio e Teodosio in materia di bambini esposti (CTh. 5.9.2).

 

[80] Saeculares, qui natale domini, pascha, et pentecostem non communicaverint, catholici non credantur, nec inter catholicos habeantur (can. XVIII, in Mansi, 8, col. 327).

 

[81] Placuit etiam, ut omnes ecclesiae filii, exceptis diebus dominicis, in quadragesima, etiam die sabbato, sacerdotali ordinatione, et districtionis comminatione jejunent (ibidem, col. 327).

 

[82] Symbolum etiam placuit ab omnibus ecclesiis una die, id est ante octo dies dominicae resurrectionis, publice in ecclesia competentibus tradi (can. XIII, ibidem, col. 327).

 

[83] Il can. XXI, ibidem, col. 328, individua, fra le altre ricorrenze, quelle di Pasqua, Natale, Epifania, Ascensione, Pentecoste, natività di San Giovanni Battista: Si quis etiam extra parochias, in quibus legitimus est ordinariusque conventus, oratorium in agro habere voluerit; reliquis festivitatibus, ut ibi missas teneat propter fatigationem familiae, justa ordinatione permittimus: Pascha vero, natale domini, epiphania, ascensionem domini, pentecostem, et natalem S. Joannis Baptistae, vel si qui maximi dies in festivitatibus habentur, non nisi in civitatibus aut in parochiis teneant. Clerici vero, si qui in festivitatibus, quas supra diximus, in oratoriis, nisi jubente aut permittente episcopio, missas facere aut tenere voluerint, a communione pellantur.

 

[84] Ut cives, qui superiorum solennitatum, id est, paschae, ac natalis domini, vel pentecostes festivitatibus cum episcopis interesse neglexerint, (cum in civitatibus communionis, vel benedictionis accipiendae causa positos se nosse debeant) triennio a communione priventur ecclesiae (can. LXIII, ibidem, col. 335).

 

[85] Si quis in clero constitutus ab ecclesia sua diebus solennibus desuerit, id est, nativitate, ephifania, pascha, vel pentecoste, dum potius saecularibus lucris studet, quam servitio Deo paret, convenit ut triennio a communione suspendatur. Similiter diaconus, vel presbyter, si tres hebdomadas ab ecclesia sua desuerint, huic damnationi succumbant (can. LXIV, ibidem, col. 336). Quanto ai laici, il can. XLVII (Mansi, 8, col. 332) impone di assistere, nel giorno del Signore, all’intera messa in modo da impedire loro di allontanarsi dall’edificio sacro prima della benedizione, pena il biasimo pubblico del vescovo: Missas de dominico a saecularibus totas teneri speciali ordinatione praecipimus: ita ut ante benedictionem sacerdotis egredi populus non praesumat. Qui si fecerint, ab episcopo publice confundantur. Il concilium Lugdunense III, a. 583, can. V, in Mansi, 9, col. 943, ribadisce l’obbligo per ciascun vescovo di celebrare nella propria chiesa le feste di Natale e Pasqua, salvo in caso di malattia o di un ordine reale: Ut nullus episcoporum natalem domini, aut Pascha, alibi nisi ad ecclesiam suam, praeter infirmitatis incursum, aut ordinem regium, celebrare praesumat.

 

[86] È ciò che accade per le Rogazioni, durante le quali servi et ancillae ab omni opere relaxentur quo magis plebs universa conveniat. Nel can. XXVII del concilium Aurelianense I, a. 511, in Mansi, 8, col. 355, si legge che devono celebrarsi in tutte le chiese le litanie prima dell’Ascensione, in modo che il digiuno, che dura tre giorni, termini con la festività della domenica. In questo arco temporale si concede anche agli schiavi, uomini e donne, di liberarsi da ogni occupazione in modo che il popolo si riunisca al completo per rendere il culto a Dio. Nello stesso tempo, è necessario astenersi e utilizzare solo i cibi permessi in quaresima: Rogationes, id est litanias ante ascensionem domini ab omnibus ecclesiis placuit celebrari; ita ut praemissum triduanum jejunium in dominicae ascensionis festivitate solvatur: per quod triduum servi et ancillae ab omni opere relaxentur, quo magis plebs universa conveniat: quo triduo omnes abstineant, et quadragesimalibus cibis utantur (ibidem, col. 355). Sul piano strettamente ecclesiastico sono previste pene facoltative per i chierici che mostrano disprezzo per questa santa cerimonia: Clerici vero qui ad hoc opus sanctum adesse contempserint, secundum arbitrium episcopi ecclesiae suscipiant disciplinam (can. XXVIII, ibidem, col. 355). Sulle litanie, in particolare in Gallia, cfr. F. CABROL, Litanies, in Dictionnaire d’archéologie chrétienne et de liturgie, 9.2 (1930), col. 1559 s.

 

[87] S’interdice al clero, in tutti i gradi, di giudicare alcuna causa, cosa invece consentita negli altri giorni, eccezion fatta per le cause criminali: Ut nullus episcoporum, aut presbyterorum, vel clericorum die dominico propositum cujuscumque causae negotium audeat judicare; nisi ut hoc tantum, ut Deo statuta solennia peragant. Ceteris vero diebus convenientibus personis, illa quae justa sunt habeant licentiam judicandi, exceptis criminalibus negotiis (concilium Tarraconense, a. 516, can. IV, ibidem, col. 541 s.). Alcune norme hanno ad oggetto il regolamento per le parrocchie di campagna. Tra le altre, il can. VII stabilisce che, quando un sacerdote e un diacono sono stati collocati con altri chierici in una chiesa rurale, questi devono alternarsi per il servizio. Durante la settimana il presbitero deve ottemperare al servizio divino, che consiste nella recitazione quotidiana dei mattutini e dei vespri, mentre la settimana successiva questo compito spetterà al diacono. Il sabato, però, tutti i chierici devono assistere ai vespri perché è più facile che nel giorno di domenica la solennità sia celebrata con la partecipazione di tutti. Talora succede che, per negligenza dei chierici, non ci sono lampade per uso nelle chiese. Chi non si uniforma a tale disposizione sarà punito (can. VII, ibidem, col. 542). Cfr. in argomento M. SOTOMAYOR, Penetración de la Iglesia en los medios rurales de la España tardorromana y visigota, in Cristianizzazione ed organizzazione ecclesiastica delle campagne nell’Alto Medioevo: espansione e resistenze, 2, Settimane di studio del Centro italiano di studi sull’Alto medioevo, XXVIII, Spoleto 1982, 642.

 

[88] Si stabilisce che, intuitu miserationis, tutte le domeniche (singulis diebus dominicis) coloro i quali sono in carcere per espiare le proprie colpe devono essere visitati dall’arcidiacono o dal responsabile della chiesa, affinché con misericordia siano assistiti nei propri bisogni conformemente al precetto divino; il vescovo deve nominare una persona diligente e fedele, che provveda alle cose indispensabili, essendo lui stesso competente a fornire i viveri necessari prelevandoli dalla casa ecclesiale, vale a dire dalla dimora episcopale e dalle sue risorse: Id etiam miserationis intuitu aequum duximus custodiri, ut qui pro quibuscumque culpis in carceribus deputantur, ab archidiacono seu a praeposito ecclesiae singulis diebus dominicis requirantur, ut necessitas vinctorum secundum praeceptum divinum misericorditer sublevetur; atque a pontifice, instituta fideli et diligenti persona, quae necessaria provideat, competens eis victus de domo ecclesiae tribuatur (concilium Aurelianense V, a. 549, can. XX, in Mansi, 9, col. 134). Tali provvidenze s’inseriscono in una tendenza più generale, accolta dalla normativa imperiale, che documenta in costituzioni del V secolo la recezione di pratiche liturgiche ispirate alla humanitas come l’assistenza e il conforto dei detenuti. Cfr. in particolare CTh. 9.3.7 = CI. 1.4.9 e Sirm. 13 su cui, per tutti, cfr. A. LOVATO, Il carcere nel diritto penale romano. Dai Severi a Giustiniano, Bari 1994, 209-212.

 

[89] Concilium Gerundense, a. 517, cann. IV-V, in Mansi, 8, col. 549. Il can. XVIII del concilium Autisiodorense, ibidem, 9, col. 914, ribadisce l’obbligo di battezzare solo durante la solennità pasquale, con l’eccezione di coloro che sono prossimi alla morte, i c.d. ‘grabatarii’. Sono previste conseguenze per i contravventori: Non licet absque paschae solennitate ullo tempore baptizare, nisi illos quibus mors vicina est, quos grabatarios dicunt. Quod si quis in alio pago, contumacia faciente, post interdictum hoc infantes suos ad baptismum detulerit in ecclesias nostras, non recipiantur usque ad satisfactionem. Et quicumque presbyter ipsos extra nostrum permissum recipere praesumpserit, tribus mensibus a communione ecclesiae sequestratus sit. L’espressione del verbo al plurale (non recipiantur) con il soggetto al singolare (si quis) ha suggerito l’ipotesi che la sanzione prevista in caso di inosservanza della norma abbia come destinatari tanto i genitori quanto i figli stessi. Cfr. J. GAUDEMET-B. BASDEVANT, Les canons des conciles mérovingiens (VI-VII siècles), 2, Paris 1989, 494 nota 2.

 

[90] Concilium Gerundense, can. I, in Mansi, 8, col. 549: De institutione missarum, ut quomodo in metropolitana ecclesia fuerit, ita in Dei nomine in omni Tarraconensi provincia, tam ipsius missae ordo, quam psallendi, vel ministrandi consuetudo servetur. Alcune disposizioni riguardano le Rogazioni: nella settimana che segue la Pentecoste devono essere celebrate le litanie per tre giorni, vale a dire dalla V feria fino al sabato, durante i quali si deve osservare l’astinenza (can. II, ibidem, col. 549). Le seconde litanie devono svolgersi a partire dal 1° novembre (Kalendis Novembris) e, se uno di questi tre giorni cade di domenica, le stesse devono essere rinviate ad un’altra settimana a partire dal giovedì per terminare il sabato dopo la messa serale. È necessario astenersi dalle carni e dal vino (can. III, ibidem, col. 549).

 

[91] Il concilium Epaonense, a. 517, can. XXXV, ibidem, col. 563 afferma: Ut cives superiorum natalium nocte paschae, ac nativitatis domini solennitate, episcopos, nec interest in quibus civitatibus positos, accipiendae benedictionis desiderio noverint expetendos. Il concilium Arvernense, a. 535, can. XV, ibidem, col. 862, conferma l’obbligo per i chierici delle chiese rurali di andare a celebrare accanto al vescovo della città nelle principali festività, vale a dire a Natale, Pasqua, Pentecoste, oltre che nelle altre solennità importanti. Negli stessi giorni, tutti i cittadini natu majores devono recarsi in città dai propri vescovi, pena l’esclusione dalla comunione: Si quis ex presbyteris aut diaconis, qui neque in civitate, neque in parochiis canonicus esse dignoscitur, sed in villulis habitans, in oratoriis officio sancto deserviens celebrat divina mysteria, festivitates praecipuas, domini natale, pascha, pentecosten, et si quae principales sunt reliquae solennitates, nullatenus alibi, nisi cum episcopo suo in civitate teneat. Quicumque etiam sunt cives natu majores, pari modo in urbibus ad pontifices suos in praedictis festivitatibus veniant. Quod si qui improba temeritate contempserint, hisdem festivitatibus, quibus in civitate adesse despiciunt, communione pellantur. Sull’impiego e il significato del termine villa con riferimento al canone in esame cfr. E. MAGNOU-NORTIER, Aux sources de la gestion publique, I, Enquête lexicographique sur fundus, villa, domus, mansus, Lille 1993, 62 ss. Il can. III del concilium Aurelianense IV, a. 541, in Mansi, 9, col. 113 s. vieta ai laici più insigni (primores) di festeggiare la Pasqua lontano dalla città episcopale: le feste solenni devono essere celebrate alla presenza del vescovo là dove deve aver luogo la santa assemblea. Tuttavia, se qualcuno è impedito da una necessità certa deve chiedere al vescovo un congedo. Se non lo fa, deve essere scomunicato, durante detta ricorrenza, nello stesso luogo in cui ha voluto trascorrerla: Quisquis de prioribus civibus pascha extra civitatem tenere voluerit, sciat sibi a cuncta synodo esse prohibitum: sed principales festivitates sub praesentia episcopi teneant, ubi sanctum decet esse conventum. Tamen si aliquis certa necessitate constringatur, ut hoc implere non possit, ab episcopo postulet commeatum. Quod si hoc postulare despexerit, in eodem loco, id est in festivitate praesenti, ubi tenere voluerit, suspendatur.

 

[92] Quia persuasum est populis die dominico agi cum caballis, aut bubus, et vehiculis itinera non debere, neque ullam rem ad victum praeparare, vel ad nitorem domus vel hominis pertinentem ullatenus exercere, (quae res ad Judaicam magis quam ad Christianam observantiam pertinere probatur) id statuimus, ut die dominico, quod ante fieri licuit, liceat. De opere tamen rurali, id est arato, vel vinea, vel sectione, messione, excussione, exarto, vel sepe, censuimus abstinendum; quo facilius ad ecclesiam convenientes orationis gratiae vacent. Quod si inventus fuerit quis in operibus suprascriptis, quae interdica sunt, se exercere, qualiter emendari debeat, non in laici districtione, sed in sacerdotis castigatione consistat (ibidem, col. 19).

 

[93] Il riferimento è alla festa pagana del 1° gennaio. Nel canone si fa riferimento anche ai credenti che, durante la festa della cattedra di San Pietro, offrono cibo ai morti e che, rientrando nelle proprie case dopo la messa, ritornano agli antichi errori, prendendo, dopo il Corpo del Signore, cibo consacrato agli dèi. Tanto i Pastori quanto i vescovi, per la loro santa autorità, vengono esortati a vegliare attentamente a che siano allontanati quanti persistano in detta sciocchezza, o compiano riti incompatibili con lo spirito della chiesa, e a che non partecipino al santo altare coloro i quali seguono le osservanze pagane. Si tratta di gravi reati, che devono essere condannati piuttosto che perdonati (concilium Turonense II, a. 567, can. XXII, ibidem, col. 803). Sulle disposizioni che condannano la partecipazione dei fedeli alle pratiche pagane, con particolare riferimento al 1° gennaio, il concilium Autisiodorense, can. I, ibidem, col. 912, dispone che in questo giorno nessuno deve travestirsi da animale o fare le strenne diaboliche: Non liceat Kalendis Januarii vetula, aut cervolo facere, vel stenas diabolicas observare: sed in ipsa die sic omnia beneficia tribuantur, sicut et reliquis diebus. Il can. III vieta di celebrare nelle proprie case le vigilie delle feste dei santi, così come proibisce di compiere i voti nelle foreste o ai piedi degli alberi sacri o presso le fonti: ordina a chiunque abbia fatto un voto di vegliare in chiesa e di compiere questo voto a vantaggio dei poveri (matricula). Questo termine appare per la prima volta nel can. XIII del Concilio d’Orléans del 541 (ibidem, col. 115). Sulle matriculae pauperum cfr. M. ROUCHE, La matricule des pauvres. évolution d’une institution de charité du Bas Empire jusqu’à la fin du Haut Moyen Age, in études sur l’Histoire de la pauvreté (Moyen Age-XVI siècle), a cura di M. Mollat, 1, Paris 1974, 83 ss.; M. DE WAHA, À propos d’un article récent. Quelques réflexions sur la matricule des pauvres, in Byzantion, 46 (1976), 354 ss.; C. CORBO, Paupertas. La legislazione tardoantica, Napoli 2006, 190 ss.

 

[94] Interessante, a tal proposito, il concilio svoltosi nel 511 a Orléans, che inaugura la serie dei concili merovingi. Nella riproposizione del modello, ispiratore di Costantino, non soltanto è il re a convocare il primo grande concilio del suo regno come espressamente riferito dalla breve prefazione ai canoni (Cum auctore Deo ex evocatione gloriosissimi regis Clothovechi, in Aurelianensi urbe fuisset concilium summorum antistitum congregatum), ma è lui stesso a delinearne la portata dei lavori: secundum voluntatis vestrae consultationem, et titulos, quos dedistis, ea quae nobis visum est definitione respondimus; secondo uno schema che si ripeterà nella prassi conciliare, nella stessa lettera sinodale la Chiesa tutta esprime grande riconoscenza al «proprio figlio e gloriosissimo re», che per la sua grande fede aveva deciso di consultare i sacerdoti per il riordino di alcune situazioni e per voler dotare le deliberazioni di quell’efficacia qualificata derivante dell’approvazione regia: … Tanti consensus regis ac domini majori auctoritate servandam tantorum firmet sententiam sacerdotum (Mansi, 8, col. 350). Tradizione e innovazione vengono a caratterizzare la disciplina dei momenti cultuali. Si riconfermano precedenti norme conciliari, tra cui quelle relative all’osservanza, prima della festività di Pasqua, della quadragesima e non della quinquagesima: Id a sacerdotibus omnibus decretum est, ut anta paschae solennitatem, non quinquagesima, sed quadragesima teneatur (can. XXIV, ibidem, col. 355), ai divieti di festeggiare in villa le festività di Pasqua, Natale e Pentecoste, salvo in caso di malattia: Ut nulli civium paschae, natalis domini, vel quinquagesimae solennitatem in villa liceat celebrare, nisi quem infirmitas probabitur tenuisse (can. XXV, ibidem, col. 355), di lasciare la Chiesa prima della fine della messa, ribadendo la necessità di ricevere la benedizione dal vescovo, ove presente: Cum ad celebrandas missas in Dei nomine convenitur, populus non ante discedat, quam missae solennitas compleatur, et ubi episcopus fuerit, benedictionem accipiat sacerdotis (can. XXVI, ibidem, col. 355). Il vescovo, inoltre, nel giorno del Signore deve recarsi nella Chiesa a lui più vicina, a meno che sia impedito da malattia: Episcopus si infirmitate non fuerit impeditus, ecclesiae cui proximus fuerit die dominico deesse non liceat (can. XXXI, ibidem, col. 356).

 

[95] Ibidem, col. 361. A tal proposito, si legge che quando i popoli della Gallia furono annientati dalla rabbia dei lupi né si potè trovare un rimedio per questo flagello, tutti insieme i Vescovi della Gallia andarono a Vienna e stabilirono di comune accordo di fare un digiuno per tre giorni. Poiché il Signore aveva abolito per pietà la peste, per consuetudine questi giorni vennero celebrati, nelle province della Gallia, prima dell’Ascensione del Signore. Questi giorni vanno celebrati con somma riverenza e con devozione, con astinenza dalla carne, umiltà del cuore, non per sfuggire alla rabbia dei lupi visibili ma per vincere le tentazioni degli spiriti immondi. In quei giorni non è concesso ad alcuno vestirsi con abiti preziosi, ubriacarsi e fare baldoria, cavalcare; in nessun caso, poi, le donne possono danzare. È necessario, invece, che tutti cantino insieme il Kyrie eleison e, con contrizione, invochino la misericordia di Dio per i peccati, per la pace, per la peste, per la conservazione dei raccolti e per ogni necessità. Sono questi, infatti, giorni di rinunce, non di letizia (ibidem, col. 366). Oltre a ciò, si stabilisce il tempo divino nel quale è necessario flettere le ginocchia durante la messa, vale a dire in quaresima e durante il digiuno delle Quattro tempora, a differenza delle domeniche o delle altre festività. Inoltre i presbiteri, quando annunciano le sacre festività, devono ammonire i popoli all’osservanza anche del digiuno prescritto durante le vigilie (ibidem, col. 368).

 

[96] Concilium Aurelianense III, can. XXX, in Mansi, 9, col. 19: Quia Deo propitio sub catholicorum regum dominatione consistimus, Judaei a die coenae Domini usque in secundam sabbati in pascha, hoc est ipso quatriduo, procedere inter Christianos, neque catholicis populis se ullo loco, vel quacumque occasione miscere praesumant.

 

[97] Il IV concilio d’Orléans, nel 541, al can. I affronta tale problematica ribadendo che la festa di Pasqua deve essere celebrata da tutti nello stesso tempo e conformemente al computo di Vittorio. Ogni anno, nel giorno dell’Epifania, il vescovo deve annunciare al popolo, in Chiesa, la data della Pasqua; in caso di dubbi sulla stessa, ci si deve attenere alla decisione della Sede Apostolica, che tutti i vescovi metropolitani devono seguire: Placuit itaque, Deo propitio ut sanctum pascha secundum laterculum Victorii ab omnibus sacerdotibus uno tempore celebretur. Quae festivitas annis singulis ab episcopo epiphaniorum die in ecclesia populis denuncietur. De qua solennitate quoties aliquid dubitatur, inquisita vel agnita per metropolitanos a sede apostolica sacra constitutio teneatur (Mansi, 9, col. 113). Alcune chiese avevano però sostituito al ciclo di Vittorio di Aquitania quello di provenienza romana, ispirato al computo degli Alessandrini creando così profonde divergenze, che la norma conciliare cerca di risolvere imponendo l’antico computo. Il canone successivo riconferma l’uniformità anche con riferimento al periodo pre-pasquale: in tutte le Chiese deve essere osservata una quaresima e non una quinquagesima o una sessagesima; in questo spazio religioso non è lecito essere dispensati dal digiuno nei giorni di sabato se non per infermità ed è possibile mangiare solo di domenica, come hanno sancito gli statuti dei Padri. Se qualcuno viola questa regola deve essere considerato dai vescovi come un trasgressore della disciplina: Hoc etiam decernimus observandum, ut quadragesima ab omnibus ecclesiis aequaliter teneatur; neque quinquagesimam aut sexagesimam ante pascha quilibet sacerdos praesumat indicere. Sed neque per sabbata absque infirmitate quisquam solvat quadragesimae jejunium, nisi tantum die dominico prandeat; quod sic fieri specialiter pratrum statuta sanxerunt. Si quis hanc regulam irruperit, tanquam transgressor disciplinae a sacerdotibus censeatur (can. II, in Mansi, 9, col. 113). Il concilium Bracarense III, nel 572, ritorna sulla importanza di stabilire una comune data di celebrazione della Pasqua secondo un particolareggiato rituale che coinvolge l’intera comunità. Nel can. IX, ibidem, col. 840 s., si stabilisce che ogni anno il vescovo metropolitano deve annunciare in quale giorno delle calende o in quale luna cadrà la Pasqua; gli altri vescovi e il rimanente clero, annotando questa data in un libro nella propria Chiesa, giunto il Natale, dopo il Vangelo devono annunciarla al popolo affinché nessuno ignori l’avvio del tempo sacro. All’inizio della quaresima, per tre giorni, devono svolgersi le litanie; il terzo giorno, dopo le messe all’ora IX o X, al popolo che si congeda si impone di osservare il digiuno nella quaresima e durante la stessa gli infanti, prossimi al battesimo, devono offrirsi alla purgazione dell’esorcismo. Il can. I dispone che al catecumeno, nel periodo pasquale, s’insegni il simbolo (ibidem, col. 838 s.).

 

[98] S’intende colpire con l’anatema quanti non onorano il Natale digiunando in quel giorno, oltre che nel giorno del Signore, perché ritengono che il Cristo non sia nato con una vera natura umana, così come insegnano Cerdone, Marcione, Manicheo e Priscilliano: Si quis natalem Christi secundum carnem non bene honorat, sed honorare se simulat, jejunans in eodem die, et in dominico; quia Christum in vera hominis natura natum esse non credit, sicut Cerdon, Marcion, Manichaeus et Priscillianus, anathema sit (concilium Bracarense II, a. 563, can. IV, ibidem, col. 775). La stessa pena è prevista per chi, nella quinta feria di Pasqua, vale a dire il giovedì santo, non assiste alla messa, a digiuno, a un’ora determinata dopo la nona ma, secondo l’uso della setta di Priscilliano, celebra, a partire dall’ora terza, la solennità di questo giorno, interrompendo il digiuno dopo aver assistito alla messa dei defunti: Si quis quinta feria paschali, quae est coena domini, hora legitima, post nonam jejunus in ecclesia missas non tenet, sed secundum sectam Priscilliani, festivitatem ipsius diei, ab hora tertia, per missas defunctorum, soluto jejunio colit, anathema sit (can. XVI, ibidem, col. 776). Il concilio impone, inoltre, l’osservanza di ventidue capitoli tendenti a stabilire più uniformità nella liturgia (ibidem, col. 777 ss.).

 

[99] Ut unaquaeque mulier, quando communicat, dominicalem suum habeat. Quod si qua non habuerit, usque in alium diem dominicum non communicet (concilium Autisiodorense, can. XLII, ibidem, col. 915). Il ‘domenicale’ era un velo che si poneva sulla testa nel giorno del Signore.

 

[100] Non licet mulieri nuda manu eucharistiam accipere (can. XXXVI, ibidem, col. 915).

 

[101] Non licet mulieri manum suam ad pallam dominicam mittere (can. XXXVII, ibidem, col. 915). Con una disposizione singolare, il can. XLV, ibidem, col. 916, stabilisce che chiunque non osserverà le disposizioni conciliari o non segnalerà al vescovo i trasgressori sarà escluso, per un anno, da tutti i rapporti con i fratelli o con gli altri cristiani: Si quis hanc definitionem, quam ex auctoritate canonica communi consensu, et convenientia conscripsimus ac instituimus, tam ad clerum, quam ad populum commonendum, vel ad id quod constitutum est conservandum, negligens inventus fuerit, et ob hoc observare distulerit, aut eos qui ipsum audire neglexerint celaverit aut suppresserit, et in notitiam episcopi non deposuerit, anno a consortio fratrum, vel ab omnium Christianorum communione habeatur extraneus.

 

[102] Ut a feria S. Martini usque ad natale domini, secunda, quarta, et sexta sabbati jejunetur, et sacrificia quadragesimali debeant ordine celebrari. In quibus diebus canones legendos esse speciali definitione sancimus, ut nullus se fateatur per ignorantiam deliquisse (concilium Matisconense, can. IX, ibidem, col. 933). La rilevanza liturgica e cultuale che, già a partire dal II secolo, si attribuisce alle ferie IV e VI è espressione dell’esigenza di riproporre nella settimana, scandita dal ritmo del giorno religioso della domenica, il memoriale del sacrificio pasquale. Nella dimensione divina del tempo, il mercoledì ricorda il giorno in cui Cristo fu tradito e il venerdì quello in cui fu crocifisso. La formalizzazione dell’ampliamento della prospettiva salvifica anche agli altri giorni della settimana si avrà solo successivamente. Così Onorio di Autun (Gemma animae, 2. 67-68, in PL 172, coll. 640-642) tradurrà nelle specifiche formule di rito il significato profetico dei vari giorni della settimana in una simbolica proiezione degli eventi divini. Ogni giorno della settimana va celebrata in ricordo di Dio: Sicut olim dies a paganis erant idolis dedicati, ita sunt nunc singuli a Christianis Cristo Deo dicati. La domenica rappresenta il concepimento (Domenica quippe ipse conceptus est. Ideo illa die nocturnam Beatus vir … psallimus, quia ipse in consilio Patris in uterum Virginis abiit, et tamquam sponsus de talamo suo processit), il lunedì il battesimo (Seconda die est baptizatus …), il martedì la nascita (tertia die est natus), il mercoledì il tradimento (Quarta die a Juda proditus), il giovedì l’eucaristia (In feria quinta, corporis ejus comestio …), il venerdì la Passione (Sexta die est crucifixus …); il sabato la sepoltura (Septima die jacuit sepultus … In octava die resurrexit …). Sull’associazione delle messe votive con i singoli giorni della settimana e sui formulari specifici utilizzati cfr. M. KUNZLER, op. cit., 536 s. Sono speciali giorni di contrizione e di astinenza secondo le testimonianze più antiche (Didachè, 8.1). Clemente d’Alessandria afferma che lo gnostico, l’idoneus operaius addestrato ad entrare nel Regno dei cieli, conosce anche il significato nascosto del digiuno fissato al quarto e sesto giorno: Novit ipse jejunii quoque aenigmata horum dierum, quarti, inquam, et sexti. Dicitur autem ille quidem Mercurii, hic vero Veneris. Hinc ille jejunat in vita, et ab avaritia, et a libidine, ex quibus omnia oriuntur vitia (Strom., 7.12, trad. lat. PG 9, col. 503 s.). Dalle testimonianze di Tertulliano emerge che a Cartagine, all’inizio del III secolo, il sacrificio della messa si celebrava la domenica e, a volte, durante la settimana, il mercoledì e il venerdì, giorni consacrati al digiuno stazionale. Basilio, Ep. 93, 4, in PG 32, col. 483 osserva: … quater singulis hebdomadibus communicamus, Domenica die, quarta die, in parasceve et Sabbato. Gregorio di Tours parla dell’adorazione della croce non solo di domenica ma altresì alla quarta e sesta feria (De gloria martyrum, 1.5, in PL 71, col. 709). Con riferimento a questi giorni anche le norme conciliari ne esaltano il significato memoriale della passione di Cristo. Sul finire del IV secolo è documentata la presenza del Triduum Sacrum (venerdì, sabato e domenica) del Cristo morto, sepolto e risorto (sacratissimum triduum crucifixi, sepulti, suscitati) e il caput jejunii della quaresima è proprio il mercoledì (cd. delle ceneri) precedente la prima domenica. L’antica istituzione dei Quattro tempora, che si celebrava in quattro periodi dell’anno (prima settimana di Quaresima, ottava di Pentecoste, terza settimana di settembre e di Avvento), dedicava tre giorni ciascuno, e precisamente il mercoledì, il venerdì e il sabato, a preghiere e atti di penitenza.

 

[103] Il re Gontrano pubblicò le ordinanze del concilio in un editto del 10 novembre 585, diretto a tutti i vescovi, sacerdoti e giudici del suo regno e di quello di suo nipote Clotario II, confermando il can. I del concilio: … Idcirco hujus decreti ac definitionis generalis vigore decernimus, ut in omnibus diebus dominicis, in quibus sanctae resurrectionis mysterium veneramur, vel in quibuscumque reliquis solennitatibus, quando ex more ad veneranda templorum oracula universae plebis coniunctio devotionis congregatur studio, praeter victum quem praeparari convenit, ab omni corporali opere suspendantur, nec ulla causarum praecipue jurgia moveantur … (Praeceptio gloriosissimi regis Guntramni, in Mansi, 9, col. 962).

 

[104] Il concilium Narbonense, a. 589, in una dimensione formalistica del riposo domenicale, stabilisce un’uguaglianza tra gli uomini quanto al precetto negativo dell’inattività e una diversità di trattamento punitivo quanto all’inosservanza dello stesso. Se da un lato si richiede che ogni uomo, libero o schiavo, gotico, romano, siriaco, greco o giudeo die dominico non deve attendere ad opera alcuna né deve aggiogare i buoi, eccetto il caso di necessità, dall’altro per l’applicazione della pena rileva lo status del peccatore: sanzione pecuniaria (sei solidi) per gli uomini liberi e pena corporale per gli schiavi (cento frustrate): Ut omnis homo, tam ingenuus, quam servus, Ghotus, Romanus, Syrus, Graecus, vel Judaeus, die dominico nullam operam faciant, nec boves jungantur, excepto si in mutando necessitas incubuerit. Quod si quisquam praesumpserit facere, si ingenuus est, det comiti civitatis solidos sex; si servus, centum flagella suscipiat (can. IV, ibidem, col. 1015). Il can. XV vieta di celebrare il giovedì alla maniera dei pagani: Ad nos pervenit quosdam de populis catholicae fidei execrabili ritu diem quintam feriam, qui et dicitur Jovis, multos excolere, et operationem non facere. Quam rem pro Dei timore execrantes et blasfemantes, quicumque ab ac die, praeter festivitates in eo die venientes, ausus vel ausa fuerit vacare, et operam non facere, si ingenuus est, aut ingenua, de ecclesia repellendus, et sub poenitentia mittendus anno uno, et eleemosyna et fletu satisfaciat, ut ei dominus ignoscat: si servus aut ancilla fuerit, flagellis correcti domino consignentur, et ultra talia eos observare non permittat (ibidem, col. 1017 s.).

Nella Historia Francorum (10.30, in PL 71, col. 562) Gregorio di Tours riferisce intorno alle punizioni divine legate alla violazione della domenica. Significativo il racconto di un evento accaduto nei pressi di una città dove molte persone, per aver eseguito nel giorno del Signore un’opera pubblica, erano state divorate da un fuoco celeste: Sanctus enim est hic dies, qui in principio lucem conditam primus vidit, ac dominicae resurrectionis testis factus emicuit: ideoque omni fide a Christianis observari debet, ne fiat in eo omne opus publicum …; o ancora, tra le tante storie miracolose raccontate da Gregorio, l’esaltazione di una guarigione, operata da San Martino, di un uomo che, non metuens neque honorans diem sactum dominicae resurrectionis, aveva macinato il grano al mulino e, per questo, era stato punito da Dio (De miraculis Sancti Martini episcopi, 3, 3, in PL 71, col. 971).

 

[105] Mansi, 9, col. 949 s. Nei giorni di domenica si richiede agli uomini e alle donne di presentarsi all’altare con l’offerta di pane e vino come espiazione dei propri peccati; l’inosservanza di questa disposizione è punita gravemente: … Omnes autem qui definitiones nostras per inobedientiam evacuare contendunt, anathemate percellantur (can. IV, ibidem, col. 951). L’astensione dai lavori servili è prescritta anche durante la settimana santa. Il can. II dispone che la solennità di Pasqua, nella quale il sommo sacerdote e pontefice è stato immolato per i peccati degli uomini, deve essere celebrata e venerata da tutti con grande festa: durante i sei giorni così santi non è possibile svolgere un lavoro servile; tutti devono recitare o cantare gli inni pasquali, partecipare assiduamente ai sacrifici quotidiani, lodando di sera, al mattino e a mezzogiorno l’autore della creazione e della rinascita spirituale: Pascha itaque nostrum, in quo summus sacerdos et pontifex pro nostris delictis nullam habens obnoxietatem peccati immolatus est, debemus omnes festivissime colere, et sedulae observationis sinceritate in omnibus venerari: ut illis sanctissimis sex diebus nullus servile opus audeat facere; sed omnes simul coadunati, himnis paschalibus indulgentes, perseverationis nostrae praesentiam quotidianis sacrificiis ostendamus, laudantes creatorem ac regeneratorem nostrum vespere, mane, et meridie (ibidem, col. 950 s.). La Pasqua è inoltre il legitimus dies per rigerenarsi. Contro la cattiva usanza, attestata dai rapporti di alcuni cristiani, di ricorrere al battesimo in altri giorni dell’anno, come ad esempio negli anniversari dei martiri, il can. III stabilisce che gli infanti vanno battezzati solo a Pasqua, tranne i casi di necessità, e i genitori devono presentarli alla comunità all’inizio della quaresima, in modo che, dopo aver ricevuto l’imposizione delle mani e le unzioni sacre, possano ricevere il battesimo nel giorno della festa e giungere, se sopravvivano, agli onori del sacerdozio: … censemus, ut ex hoc tempore nullus eorum permittatur talia perpetrare … Ideoque praesentibus admonitionibus a suis erroribus vel ignorantia revocati, omnes omnino a die quadragesima cum infantibus suis ad ecclesiam observare praecipimus, ut impositionem manuum certis diebus adepti, et sacri olei liquore peruncti, legitimi diei festivitate fruantur, et sacro baptismate regenerentur: quo possint et honoribus, si vita comes fuerit, sacerdotalibus fungi, et singularis celebrationis solennitate frui (ibidem, col. 951). Il concilio fa riferimento ad antichi canoni che stabilivano l’esclusione dal sacerdozio di coloro i quali avevano ricevuto il battesimo mentre erano malati (c.d. clinici) e fuori dai giorni solenni. Cfr., in argomento, C.M. CHARDON, Histoire des sacrements, ou de la manière dont ils ont été célébrés et administrés dans l’Église, et de l’usage qu’on en a fait depuis le temps des apôtres jusqu’à présent, in Migne, Theologiae curcus completus, 20, I, 2.3, col. 85. Il can. VI rinnova la prescrizione del concilio d’Ippona che esige che le messe siano celebrate a digiuno, tranne nel giorno della cena del Signore. Nessun presbitero, infatti, dopo aver mangiato o bevuto vino, può celebrare messe durante le festività: è ingiusto, infatti, che si preferisca il cibo materiale a quello spirituale; ma se qualcuno attenti a ciò, perde la dignità dell’onore. Dopo la messa i resti del pane consacrato, inumiditi di vino, saranno dati il mercoledì e venerdì a giovani ragazzi che devono essere ugualmente a digiuno (Mansi, 9, col. 952). Un capitolare di Colonia del 29 febbraio 594 impone, per il regno di Childeberto II, gli stessi divieti e le medesime sanzioni del concilio Matisconense in ordine al riposo domenicale. Il cap. XIV dispone, infatti, l’astensione dai lavori servili, escluse le attività del cucinare e del mangiare: sono previsti il pagamento di quindici solidi ove il trasgressore sia salicus, vale a dire un uomo libero, sette e mezzo se romanus, tre solidi o la fustigazione se schiavo (Childeberti II, Regis Decretio, in MGH, 1, 10).

 

[106] Concilium Toletanum III, a. 589, can. XXIII, in Mansi, 9, col. 999. Questo concilio è confermato dal re Recaredo con una ordinanza speciale, unita ad un processo verbale, nella quale si ordina che questi decreti siano osservati da chierici e laici, punendo i trasgressori con pene severe.

 

[107] Cfr., in argomento, C. VENTRELLA MANCINI, La sinfonia di Sacerdotium e Imperium nei concilî generali e particolari dei secoli VI e VII, in Diritto e religioni, (2011), 1, 357 ss.

 

[108] Solet in Hispaniis de solennitate paschali varietas existere praedicationis: diversa enim observantia laterculorum paschalis festivitatis interdum errorem parturit. Proinde placuit, ut ante tres menses epiphaniorum metropolitani sacerdotes literis invicem se inquirant: ut communi scientia edocti diem resurrectionis Christi, et comprovincialibus suis insinuent, et uno tempore celebrandum annuntient (concilium Toletanum IV, can. V, in Mansi, 10, col. 618). Il concilio, convocato da re Sisenando nel 633, dispone l’universalità nella celebrazione dei sacri riti in tutta la Spagna e nella Gallia Narbonense. Le regole fissate dai Padri ispirarono la compilazione di un ordo conciliare, che ebbe una grande influenza su tutti gli Ordines composti per i concilî, provinciali e nazionali, fino al Vaticano II. Cfr., in argomento, C. MUNIER, L’Ordo de celebrando concilio wisigothique. Ses remaniements jusqu’au X siècle, in Revue des sciences religieuses, 37 (1963), 1, 250 ss.

 

[109] Lucerna et cereus in praevigiliis paschae apud quasquam ecclesias non benedicuntur, et cur a nobis benedicantur inquirunt. Propter gloriosum enim noctis ipsius sacramentum solenniter haec benedicimus, ut sacrae resurrectionis Christi mysterium, quod tempore hujus votivae noctis advenit, in benedictione sanctificati luminis suscipiamus. Et quia haec observatio per multarum loca terrarum, regionesque Hispaniae, in ecclesiis commendatur, dignum est, ut propter unitatem pacis, in Gallicanis ecclesiis conservetur. Nulli autem impune erit, qui haec statuta contempserit, sed patrum regulis subjacebit (can. IX, in Mansi, 10, col. 620 s.).

 

[110] Comperimus, quod per nonnullas ecclesias in die sextae feriae passionis domini, clausis basilicarum foribus, nec celebratur officium, nec passio domini populis praedicatur; dum idem salvator noster apostolis suis praeceperit, dicens: Passionem et mortem et resurrectionem meam omnibus praedicate. Ideo oportet eodem die mysterium crucis quod ipse dominus cunctis nuntiandum voluit, praedicari, atque indulgentiam criminum clara voce omnem populum postulare: ut poenitentiae compunctione mundati, venerabilem diem dominicae resurrectionis, remissis iniquitatibus suscipere mereamur; corporisque ejus, et sanguinis sacramentum mundi a peccatis sumamus (can. VII, ibidem, col. 620). Sulla cerimonia dell’indulgenza in uso nelle chiese spagnole il venerdì santo cfr. L. DUCHESNE, Origines du culte chrétien: étude sur la liturgie latine avant Charlemagne, Paris 1889, 426.

 

[111] Can. XI, in Mansi, 10, col. 621 s. In particolare, in questo giorno di astinenza, non si canta l’Alleluia così come in quaresima.

 

[112] Scilicet ut in cuncto regno a Deo sibi concesso specialis et propria haec religiosa omni tempore teneatur observantia, ut a die Iduum Decembrium litaniae triduo usque annua successione peragantur, et indulgentia delictorum lacrymis impetretur. Quod si dies dominica intercesserit, in sequenti hebdomada celebrentur; ut quoniam abundante iniquitate, et deficiente caritate, eo usque protelatur malitia, ut nova exerceantur facinora, nova quoque haec ipsa surgat consuetudo, quae possit ante omnipotentis oculos vestra esse purgatio (concilium Toletanum V, a. 636, can. I, ibidem, col. 653 s.).

 

[113] Ibidem, col. 657 s. Due anni dopo, questa disposizione è confermata dal concilium Toletanum VI, ibidem, can. II, col. 663: Religiosissimi principis nostri devotionem, et nostrorum consacerdotum primo anno regni sui constitutionem cum magna reverentia et veneratione suscipientes, quam constat jam in omni regno suo annua vice caelebrari, placuit etiam nostra assensione firmari. Proinde universalis auctoritate censemus concilii, ut hi dies litaniarum, qui in synodo praemissa sunt instituti, eodem in tempore, quo jussi sunt excoli, annuo recursu omni observatione habeantur celeberrimi, ut pro illis quibus nunc usque simul implicati sumus delictis, sit nostra expiatio ante oculos Dei omnipotentis.

 

[114] Concilium Rothomagense, a. 650, can. XV, ibidem, col. 1202 s.

 

[115] Con riferimento all’astensione dal lavoro servile nel giorno di domenica, anche il concilium Cabilonense, a. 650, can. XVIII, ibidem, col. 1192 s., è conforme alla tradizione.

 

[116] I sacerdoti del luogo hanno il compito di allontanare dalle basiliche queste persone, le quali, in caso di resistenza all’emenda, devono essere scomunicate o, comunque, provare l’aculeo della disciplina (can. XIX, ibidem, col. 1193).

 

[117] Baptizati Judaei quocumque loco cetero tempore conversentur, festis tamen praecipuis novi testamenti serie consecratis, ac diebus illis, qui olim sanctione veteris legis sibimet censebantur esse solennes, in civitatibus publicisque conventibus cum summis Dei sacerdotibus celebrare praecipimus, ut eorum conversationem, ac fidem, et pontifex approbet, et veritas servetur. Hujus vero temerator edicti, prout aetas permiserit, aut flagris aut abstinentiae subjacebit. Expletis omnibus, quae ad honestatis regulam in collationem venere fraternam, grates exolvimus immortali domino soli, cuius dispositione mirabili ad hunc sanctae congregationis coetum meruimus adunari, ut et communis visio prosperitatem nostram ostenderet, et par definitio concordiam assignaret: obsecrantes ejus misericordiam largam, ut serenissimo domino et amabili Christo Reccesvintho principi glorioso ita praesentis vitae felicitatem impendat, ut angelicae beatitudinis gloriam post tempora longaeva concedat: atque ita nos ejusdem felicitate laetos semper efficiat, ut in terra viventium remuneraturus attollat. Antiquitatis dehinc ordinem saluberrime retinentes, postquam rationem festi paschalis fraternitas vestra cognovit, noverit se anno venturo, die Kalendarum Novembrium, causa peragendi concilii in hac urbe, favente domino, congregari; ut simili disceptatu, aut quae prospexerimus congrua decernamus, aut solius pacis conventu laetemur … (Mansi, 11, col. 30 s.).

 

[118] Ibidem, col. 33 s. Nel 664 si tenne in Northumbria il c.d. Sinodus Pharensis per affrontare l’irrisolta e grande (frequens et magna) questione religiosa legata al calcolo del giorno di celebrazione della Pasqua. Beda fornisce un resoconto accurato del dibattito svoltosi intorno alla controversia che vedeva contrapposti i sistemi dei computi, romano e bretone, utilizzati entrambi in quella terra e che erano stati motivo di conflitti reali particolarmente dopo la nomina del nuovo abate di Iona e vescovo di Lindisfarne, Colomano. Oswiu, aderendo alla dottrina di Pietro, stabilì che la liturgia ufficiale della Pasqua nel regno di Northumbria fosse quella romana (ibidem, col. 67 ss.). Nel settembre del 673 si svolse ad Herford un concilio sotto la presidenza di Teodoro, arcivescovo di Dorobernia. In esso si confermarono, in maniera generale, gli antichi canoni e si decretarono dieci nuovi capitoli, di cui Teodoro raccomanda l’osservanza. Tra questi, il primo stabilisce che tutti devono celebrare la Pasqua la domenica dopo il 14 del primo mese lunare (ibidem, col. 129).

 

[119] Can. I, ibidem, col. 33 s. Cfr. F. CABROL, Annonciation (fête de l’), in Dictionnaire d’archéologie chrétienne et de liturgie, 1 (1924), col. 2243 s.; sulla festa della Espettazione del parto della Beata Vergine cfr. T. STROZZI, Controversia della concezione della beata Vergine Maria, II ed., Palermo 1703, 110 ss.

 

[120] Il can. VI del concilium Emeritense, a. 666, in Mansi, 11, col. 85 ss. stabilisce, per il presbitero, l’obbligo di rispondere all’invito del vescovo metropolitano di trascorrere presso di lui le feste di Natale o di Pasqua o di evidenziare, per lettera, il motivo dell’impedimento. Il chierico non viene scomunicato, ove la giustificazione sembri ragionevole. Il can. XIV afferma, inoltre, che ciò che si offre in argento, nei giorni di festa, in una chiesa episcopale, deve essere diviso in tre parti, di cui una per il vescovo, la seconda per i sacerdoti e i diaconi, la terza per il resto del clero. Ciò vale anche per le chiese di campagna (ibidem, col. 83). Il can. XIX dispone, infine, che il presbitero è tenuto a celebrare, di domenica, una messa in ognuna delle Chiese affidate alla sua cura (ibidem, col. 85 ss.). Nel 675, il IV sinodo provinciale di Praga, ibidem, can. VI, col. 157 s., stigmatizza il comportamento di alcuni vescovi che, durante le feste dei martiri, attaccano al proprio collo le reliquie e si fanno trasportare in chiesa da diaconi, vestiti di bianco (albati), in cellulis, come se fossero loro stessi reliquiari. I sacerdoti devono ritornare all’antica usanza portando sulle loro spalle le casse delle reliquie, così come, nell’Antico Testamento, i Leviti portarono l’arca dell’Alleanza. Il concilium Caesaraugustanum III, a. 691, convocato per ordine di re Egica, confermerà le antiche prescrizioni sia in ordine alla consacrazione, di domenica, delle chiese e dei chierici sia in merito all’obbligo per i vescovi di riunirsi a Pasqua intorno al loro primate (metropolita), celebrando con lui la solennità (cann. I-II, in Mansi, 12, col. 42 s.).

 

[121] Concilium Augustodunense, a. 670, can. XIV, ibidem, 11, col. 126.

 

[122] Concilium Anglosaxonicum, a. 692, can. III, ibidem, 12, col. 57. Questa disposizione sarà, in parte, confermata nel concilium Berghamstedense, convocato nel 697 dal re Whithred (cann. X-XI, ibidem, col. 112). Il can. XII stabilisce che se un uomo libero lavora in tempo proibito, sarà punito con la gogna. La stessa pena si applica al padrone che dà da mangiare al suo schiavo in un giorno di digiuno (can. XV, ibidem, col. 113).

 

[123]et qualiter populus Christianus ad salutem animae pervenire possit, et per falsos sacerdotes deceptus non pereat (can. I, in Mansi, 12, col. 365).

 

[124] Ibidem, col. 366 s.

 

[125] Ibidem, col. 367.

 

[126] Can. IV, ibidem, col. 371. Il concilium Romanum I (a. 743) vieta di celebrare alla maniera dei pagani le calende di gennaio e i brumalia (can. IX, ibidem, col. 384).

 

[127] Mansi, 12, col. 375 ss.

 

[128] Marc. 2; Luc. 6, 13.

 

[129] Mansi, 12, col. 378.

 

[130] Concilium Suessionense, a. 744, can. VI, in MGH, cit., 21. Negli statuti sinodali che si fanno risalire a San Bonifacio, a. 745, in Mansi, 12, col. 385 s., si evidenzia tale opera d’indottrinamento, da parte dei presbiteri sui fedeli a loro sottoposti, a proposito del simbolo e dell’orazione domenicale (can. XXV), dei digiuni prescritti nei mesi di marzo, giugno, settembre e dicembre (can. XXX), del digiuno del sabato prima di Pentecoste e di Pasqua (can. XXXIV), dei giorni che si devono osservare (can. XXXVI).

 

[131] Can. X, in MGH, cit., 21.

 

[132] Il can. VII ordina di distruggere le crucicolae piantate da Adalberto per parrochia e che aveva indotto tanta gente in errore (ibidem, 21).

 

[133] In Dei nomine incipit epistola Domini nostri Jesu Cristi Filii Dei … (Ep. Bonifacii ad Zachariam papam, in Mansi, 12, col. 384 s.). Cfr. J. CHELINI, La pratique dominicale des laïcs dans l’Église franque sous le règne de Pépin, in Revue d’histoire de l’Église de France, 42 (1956), 167 s.

 

[134] Cfr. H. DELEHAYE, Note sur la légende de la lettre du Christ tombée du ciel, in Bulletin de la classe des lettres de l’Académie de Belgique, 2 (1899), 171 ss.; E. RENOIR, Christ (lettre du) tombée du ciel, in Dictionnaire d’archéologie chrétienne et de liturgie, 3 (1948), col. 1534 ss.; C. BRUNEL, Versions espagnole, provençale et française de la lettre du Christ tombée du ciel, in Analecta Bollandiana, 68 (1950), 2, 383 ss.

 

[135] Ciò è sottolineato dalla versione francese della lettera nella quale si afferma che coloro i quali non vogliono rispettare il santo giorno della domenica né le altre feste comandate saranno sbranati dai cani e su di loro si abbatterà ogni genere di disgrazie. Cfr. C. BRUNEL, op. cit., 394.

 

[136] Ibidem, 395. Nello spirito di condanna di testi apocrifi e pseudoepigrafici, nel 789 Carlo Magno definirà questa lettera pessima et falsissima e inviterà alla osservanza dei soli libri canonici (MGH, 1.77, 65).

 

[137] Mansi, 12, col. 398 s.

 

[138] Ibidem, col. 399 s. Quanto al peculiare processo di cristianizzazione nelle regioni insulari cfr. M. SIMONETTI, Romani e barbari. Le lettere latine alle origini dell’Europa (secoli V-VIII), a cura di G.M. Vian, Roma 2006, 217 ss.; sull’istituzione, invece, del riposo domenicale cfr. N. STALMANS, Le repos dominical en Irlande au haut Moyen Âge, in Revue belge de philologie et d’histoire, 79, 2 (2001), 517 ss.

 

[139] Can. XVI, in Mansi, 12, col. 400. Cfr., in argomento, C. VENTRELLA MANCINI, Symbolum crucis, in Giornate canonistiche baresi, Simboli religiosi e istituzioni pubbliche. L’esposizione del crocifisso dopo l’ordinanza n. 389/2004 della Corte costituzionale, V, a cura di R. Coppola-C. Ventrella Mancini, Bari 2008, 183 ss.

 

[140] Can. XVII, in Mansi, 12, col. 400.

 

[141] De die dominico ita constitutum est, ut tali honore habeatur sicut in lege scriptum est, et in decretis canonum. Et si quid praesumpserit frangere contra legem aut decreta canonum, tali pena subjaceat sicut ibi scriptum est (can. I, ibidem, col. 852).

 

[142] Si quis sanctum quadragensimale ieiunium pro despectu christianitatis contempserit, et carnem comederit, morte moriatur ... (can. IV, in MGH, cit., 48). Interessanti, sotto tale profilo, anche i cann. VI, VII, IX, ibidem, 48 s.

 

[143] Can. XVIII, ibidem, 49.

 

[144] Can. XV, ibidem, 57; cfr., altresì, il can. XXI, ibidem, 73, del capitolare di Francoforte del 794.

 

[145] Can. XLVIII, ibidem, 61.

 

[146] Gli uomini non possono coltivare la vigna, arare i campi, mietere, tagliare il fieno, seminare, estirpare o tagliare alberi nei boschi, lavorare la pietra, costruire case, lavorare nell’orto, cacciare, etc. Le donne non possono, fra le altre attività, tessere, dividere la lana, battere il lino, lavare in pubblico i vestiti (can. LXXX, ibidem, 66). Sulla natura religiosa della cd. rinascita carolingia cfr. A. BARBERO, Carlo Magno. Un padre dell’Europa, Bari 2006, 243 ss.

 

[147] Concilium Forojuliense, a. 791, can. XIII, in Mansi, 13, col. 851 s.

 

[148] Statuta Rhispacensia et Frisigensia, a. 799, can. IV, in MGH, cit., 77.

 

[149] Can. V, ibidem, 77 s. Nella disposizione, sono definite praecipuae le festività di Maria, san Giovanni Battista, l’arcangelo Michele, san Martino, nonché quelle dei Dodici apostoli e della veneranda festività della parrocchia (festa patronale). A tal proposito, gli Statuta Salisburgensia (can. X, ibidem, 80) ricordano che durante l’anno liturgico quattro sono le ricorrenze che ricordano la Madre di Dio: il 2 febbraio (Purificazione), il 25 marzo (Annunciazione), il 15 agosto (Assunzione), l’8 settembre (Natività).

 

[150] Can. XII, ibidem, 80.