SPECIFICITÀ DELLA CAUSA DEL CONTRATTO DI SOCIETAS E ASPETTI ESSENZIALI DELLA SUA RILEVANZA ESTERNA

 

PIETRO PAOLO ONIDA

Università di Sassari

 

 

SOMMARIO: – 1. Specificità della causa del contratto di societas e piani congiunti del ius publicum e del ius privatum. – 2. La societas tra impresa collettiva e persona giuridica. – 3. Importanza della questione specifica della rilevanza esterna della societas e superamento del filtro della persona giuridica. – 4. Rinnovata impostazione della questione. a. Primo equivoco. – b. Secondo equivoco. – 5. La rilevanza esterna della societas: superamento del dilemma fra regola generale ed eccezioni alla regola generale. – 6. La regola della generale irrilevanza esterna della societas come negazione della rilevanza esterna delle relazioni tra i soci. – 7. I diversi tipi societari a rilevanza esterna. Abstract.

 

1. Specificità della causa del contratto di societas e piani congiunti del ius publicum e del ius privatum

 

Una analisi dei caratteri essenziali della causa della societas permette di evidenziare, attraverso la lettura congiunta dei due piani connessi del ius publicum e del ius privatum[1], la relazione fondamentale, per la scienza giuridica, tra utilità singolare e perseguimento della utilità comune dei soci[2].

La causa della societas costituisce una prospettiva privilegiata per comprendere, come all’interno di siffatto contratto, le modalità di costruzione dell’assetto di interessi fra le parti siano del tutto particolari. L’analisi di tali assetti, inoltre, è più proficua quando si tenga conto della rilevanza della societas consensuale romana come modello per la costruzione delle relazioni umane: basti considerare le differenze[3] ed anche le evidenti affinità espressive delle societates rispetto ai collegia[4] e alle sodalitates[5], in una visione che conduce fino alle nozioni di populus[6], di res publica[7], di civitas[8] e di coniugium[9], la cui considerazione, a sua volta, può essere utile per comprendere il funzionamento stesso della stessa societas.

Nella causa si identifica l’“interesse concretamente perseguito” dai soci[10], i quali, impegnando se stessi a mettere in comune “beni” ed “attività”, si prefiggono uno scopo sociale reso possibile soltanto attraverso la sintesi delle utilità individuali. Le particolarità dell’assetto di interessi fra le parti nella societas si riflettono specificamente nella bilateralità  contrattuale e nella eguaglianza fra i soci. La bilateralità del contratto di societas si differenzia dalla bilateralità degli altri contratti consensuali a causa del carattere omogeneo delle obbligazioni sociali. La natura tendenzialmente eguale della posizione delle parti di un contratto di societas si evidenzia, anzitutto, nella loro stessa denominazione di socii, a differenza di quanto avviene per gli altri contratti consensuali in cui le parti sono in una posizione contrapposta attestata dal differente nome con cui sono designati, ad esempio, da un lato l’emptor e dall’altro il venditor, e ancora, da un lato il locator e dall’altro il conductor, rispettivamente nella compravendita e nella locazione. E quindi nella affermazione della medesima azione, l’actio pro socio, a tutela di tutti i socii[11].

Alla base di tale carattere della societas vi è l’impiego della energia proveniente dal rapporto di fraternitas, che caratterizza il rapporto fra i socii attraverso il tramite dell’antico consortium ercto non cito[12]. Il contratto di societas appare fondarsi su un rapporto di fraternitas costruito evidentemente non sulla base del vincolo di sangue, ma sulla base del vincolo altrettanto forte del consensus, che spinge gli uomini a trattarsi reciprocamente come fratelli nel perseguimento di uno scopo comune[13]. La formazione di una comunità si rinnova in tale scopo, nel quale si realizza la sintesi delle utilità dei singoli, in modo che la societas si presenta di fronte all’esterno come una macchina attraverso la quale le forze individuali sono amplificate e convogliate verso la composizione di una volontà societaria: è il momento in cui la societas, entrando in relazione col mondo esterno, si presenta come unità.

 

 

2. La societas tra impresa collettiva e persona giuridica

 

Andrea Di Porto, nella sua monografia su Impresa collettiva e schiavo ‘manager’ in Roma antica, ha preso in esame il “presupposto diffuso”, per usare la sua espressione, che ha condotto per lungo tempo la dottrina a identificare la realizzazione della impresa collettiva con la societas e che ha finito per avere ripercussioni anche nella analisi dei problemi di fondo connessi alla societas consensuale romana: da quello della distinzione fra rapporti interni ed esterni, a quello della personalità della societas, e infine, per venire al tema del mio contributo, a quello della rilevanza o non rilevanza esterna della societas[14].

È sulla base di base di tale presupposto, rileva ancora l’autore, che per lungo tempo la dottrina romanistica ha finito per individuare nella societas romana una «formula organizzativa della negotiatio plurium, in qualche misura rispondente alle esigenze minime degli operatori economici di una sviluppata economia commerciale, nella consapevolezza che essa, così come appare ricostruibile da una equilibrata interpretazione delle fonti, fosse inadeguata alle esigenze medesime e non si inserisse funzionalmente nel contesto delle strutture economiche dell’epoca»[15].

Oggi siamo tutti più consapevoli, grazie anche agli studi ora richiamati, di come la societas, nelle sue relazioni identitarie con il fenomeno più esteso della impresa collettiva, abbia costituito uno strumento per dare forma e sostanza a istanze anche assai differenti, pur entro una comune matrice. Non quindi uno strumento di organizzazione elementare e di ripiego rispetto alle esigenze antiche né tantomeno rispetto alle esigenze odierne. Se, quindi, guardiamo alla societas antica è evidente, ma non del tutto banale ricordarlo, che lo facciamo anzitutto per risolvere problemi giuridici, direi del presente, secondo la nota riflessione del Koschaker[16]. Perché riteniamo che sia possibile individuare ancora nello strumento organizzativo della societas, nei termini in cui esso è stato elaborato in passato, una macchina complessa e raffinata per risolvere il problema fondamentale nella scienza giuridica, sul quale Giovanni Lobrano ha richiamato da ultimo lucidamente l’attenzione, della considerazione unitaria della attività compiuta da una pluralità di persone, contro la soluzione moderna al medesimo problema offerta dalla costruzione della categoria della persona giuridica[17], categoria quest’ultima oggi in fortissima crisi[18].

È per certi aspetti singolare che sia stata proprio la dottrina commercialistica degli ultimi anni a mettere in rilievo il valore non meramente antichistico della nozione romana di societas, quando, col richiamare il carattere contrattuale della società[19], ha inteso reagire alla sempre più diffusa tendenza del legislatore nazionale e comunitario a costruire vere e proprie aberrazioni giuridiche, quali, ad esempio, ne ricordo solo una, la figura della societas unipersonale per volontà di un solo costituente, e quindi anche ha respinto l’innesto infruttuoso della categoria di persona giuridica sulla societas, per negare la possibilità di identificare un interesse della società distinto da quello dei soci[20].

Per comprendere i caratteri della societas romana, soprattutto per comprendere i caratteri di essa nelle sue relazioni esterne, vedremo subito che cosa possiamo intendere con questa espressione, è necessario evitare, da un lato, l’assimilazione della societas alle altre forme di realizzazione della impresa collettiva e, dall’altro, scongiurare i rischi derivanti dalla lettura del contratto di societas attraverso il prisma deformante della moderna e antitetica categoria di persona giuridica. Se ci si libera da tali condizionamenti, è possibile, proprio nel momento in cui si mettono in risalto le differenze anche ideologiche connesse alle diverse opzioni possibili, restituire a ciascuna di esse il proprio significato storico e le specifiche funzioni e guardare a quei problemi fondamentali, ai quali accenna il Di Porto, con una lettura più rispettosa anche della identità del fenomeno della societas nelle sue relazioni esterne.

 

 

3. Importanza della questione specifica della rilevanza esterna della societas e superamento del filtro della persona giuridica

 

Il tema della rilevanza esterna della societas è senz’altro centrale per la comprensione di tale contratto, perché esso assurge ad una fase più complessa soprattutto nel momento fondamentale in cui i soci entrano in relazione, per mezzo di tale strumento organizzativo, nella concreta realtà in cui operano.

Come è noto, per lungo tempo, la dottrina romanistica ha ritenuto, pressoché pacificamente, che il contratto di societas producesse effetti soltanto nei rapporti fra i soci, essendo invece privo di effetti nei confronti dei terzi[21]. E la questione, si potrebbe essere tentati dal dire, avrebbe potuto essere risolta in poche battute richiamando la natura contrattuale della societas, che in quanto tale potrebbe essere idonea a creare obbligazioni solo fra i contraenti.

Il fondamento della irrilevanza della societas nei confronti dei terzi, curiosamente, non era però ricondotto perlopiù alla sua natura contrattuale, ma al rilievo della impossibilità di considerare la societas come persona giuridica, fatte salve alcune ipotesi eccezionali rispetto alla regola generale testé richiamata, tra le quali normalmente si annoverava la societas publicanorum, la quale avrebbe invece goduto del riconoscimento della personalità giuridica[22]. E si comprende anche, data la connessione storica tra la persona giuridica e la rappresentanza[23], perché, di solito, fosse richiamato quest’ultimo istituto per giustificare i casi in cui, avendo i soci di una impresa marittima o di una impresa commerciale terrestre preposto un magister o un institor, dovessero essere considerati destinatari degli effetti del negozio stipulato dai preposti e quindi responsabili solidalmente[24].

L’importanza della questione della rilevanza esterna della societas, a causa della connessione col profilo della natura o meno di persona giuridica della societas, finiva per essere o trascurata o fraintesa. Si direbbe persino che anche quando ci si affannava a negare la natura di persona giuridica della societas, il dilemma societas persona giuridica sì, societas persona giuridica no, finiva per apparire in tutta la sua forza condizionante, costringendo a dimenticare l’esistenza di un modello in cui i soci potessero operare all’esterno.

In tal senso, è anzitutto esemplare la impostazione adottata per la analisi della questione da Claudio Arnò, autore, come è noto, nel secolo scorso, di un celebre Corso di lezioni dedicate al tema del contratto di società. Egli, infatti, da un lato rilevava che “non solo di fronte ai socii la società non costituisce una persona giuridica da essi distinta, ma neppure di fronte ai terzi”, dall’altro concludeva che “Con tutto ciò, forse la parte più importante dello studio del contratto di società è questa concernente le relazioni dei socii con i terzi estranei alla società, giacché la vita della società ben più si svolge, in generale, nel rapporto esterno, che non in quello interno”[25]. Si capisce che, nonostante tali conclusioni, la importanza della questione della rilevanza esterna della societas era assolutamente sottovalutata attraverso il prisma deformante del dilemma sopra richiamato.

Nella linea di una tale impostazione si può richiamare anche Vincenzo Arangio-Ruiz, il quale, nel suo celebre Corso sulla società in diritto romano, riassumeva e liquidava la questione della rilevanza esterna della societas, dedicando ad essa un paragrafo apposito intitolato categoricamente “Esclusione di ogni riflesso nei riguardi dei terzi”[26]. In tale paragrafo, Arangio-Ruiz dapprima osservava che «la società romana crea un rapporto esclusivamente interno, avente cioè effetti solo fra i soci, senza riflessi all’esterno. Di ciò i romanisti non soltanto sono oggi tutti convinti, ma lo sono stati in ogni tempo», ma poi riconduceva espressamente la questione della rilevanza esterna della societas alla esclusione della natura di persona giuridica della medesima: «L’idea che anche la societas romana, nata da contratto consensuale, si presentasse di fronte ai terzi come un soggetto autonomo di diritti e di obblighi (persona giuridica), è stata solo eccezionalmente sostenuta da scrittori estranei alla più genuina tradizione scientifica degli studii nostri».

La equazione societas=persona non spiega soltanto le ragioni ovvie per le quali la dottrina abbia finito col trascurare le differenze fra i due diversi modelli di soluzione del problema della considerazione unitaria degli atti compiuti da una “pluralità di uomini”[27]. Essa chiarisce anche, direi specularmente, le ragioni per le quali la dottrina o abbia perlopiù eluso il fatto che con il contratto di societas si dà luogo alla formazione di un nuovo corpus, che prima non esisteva e che ora si presenta come un fenomeno dal quale derivano modificazioni della realtà giuridica o, se in casi sporadici ha preso in considerazione tale fatto, lo abbia ricondotto all’unico schema ritenuto ammissibile: quello appunto della persona giuridica.

Per analizzare la possibilità che la societas si presenti di fronte ai terzi anche come unità e non solo come pluralità di contraenti non è necessario, ma anzi direi dannoso, riferirsi alla categoria di persona giuridica. Bisogna invece avere il coraggio di sbarazzarsi una volta per tutte di tale impostazione scientifica e ammettere che l’impiego della categoria della persona giuridica con riferimento allo studio dei fenomeni collettivi propri del diritto romano non ha portato a un reale progresso[28].

Così non possono essere considerati condivisibili i risultati delle ricerche di coloro che, richiamandosi più o meno espressamente agli studi fondamentali di Riccardo Orestano sulle persone giuridiche[29], ritengono di poter superare l’assimilazione tra persona giuridica e societas attraverso l’impiego di una terminologia ancora incerta e condizionata dalla equazione sopra richiamata[30]. Il vero problema non è se la societas sia o non sia persona giuridica, ma cosa sia la societas e cosa sia la persona giuridica, quando tali modelli siano impiegati per risolvere il problema fondamentale di come un gruppo organizzato di persone possa realizzare una attività giuridica che la pone in contatto con l’esterno.

 

4.  Rinnovata impostazione della questione

 

La dottrina, nella analisi della rilevanza esterna della societas, ha finito, quindi, per fondarsi su due equivoci di fondo: il primo, che le due questioni ‒ quella della rilevanza esterna della societas e quella della natura o meno di persona giuridica della societas ‒ siano da risolvere congiuntamente; il secondo, che la rilevanza esterna della societas sia da intendere, nel senso, direi riduttivo, perlopiù della rilevanza per i terzi delle obbligazioni contratte fra i soci.

Occorre, quindi, preliminarmente sgomberare il campo dai due equivoci.

 

a. Primo equivoco

 

Per il primo equivoco, basterà qui solo una osservazione di metodo relativa alla contrapposizione, nella considerazione unitaria degli atti giuridici realizzati da pluralità di persone, fra lo schema antico della societas e lo schema moderno della persona giuridica[31]. E la osservazione, in estrema sintesi, è la seguente: l’impiego della categoria di persona giuridica per considerare (anche) il problema della rilevanza esterna della societas non è solo frutto di una arbitraria applicazione di concetti e mentalità moderni per descrivere la esperienza giuridica antica[32]. Direi di più, limitandomi al tema specifico del presente lavoro: qui l’impiego della categoria di persona giuridica non porta alcuna utilità alla analisi giuridica. E la riprova sta anzitutto nel fatto che anche negando la applicazione della categoria della persona giuridica alla interpretazione del fenomeno della societas, permane insoluto il problema specifico ma centrale della rilevanza esterna di quest’ultima. I due problemi ‒ quello della possibilità di intravedere o meno nella societas una persona giuridica e quello della rilevanza esterna della medesima ‒ non sono assimilabili e devono essere analizzati senza che la soluzione di uno possa influenzare l’altro.

 

b. - Secondo equivoco

 

Per il secondo equivoco è necessario precisare che cosa si debba intendere con la espressione “rilevanza esterna della societas”. Al riguardo, in dottrina, mi sembra che la espressione sia impiegata in due accezioni diverse.

Una prima accezione, alla quale ci si riferisce di solito, è quella secondo cui per “rilevanza esterna della societas” si allude alla rilevanza esterna delle relazioni tra i soci, vale a dire al rilievo che tali relazioni assumono all’esterno per i terzi.

Una seconda accezione, meno considerata se non del tutto trascurata o al limite assimilata alla prima, è quella della rilevanza della societas di fronte ai terzi anche come unità e non solo come mera pluralità di contraenti.

Anche tali aspetti, normalmente, sono confusi uno con l’altro e invece devono essere tenuti distinti. Così, per fare solo un esempio, il già citato Arnò, sulla base dell’assunto che di fronte ai terzi non si possa parlare di diritti e obbligazioni della società, ma soltanto dei soci e che quindi “di fronte ai terzi non vi è società, ma vi sono solo degli individui; di fronte ai terzi la società non è che la somma dei singoli socii che la compongono”, prendeva in esame congiuntamente “le obbligazioni, i crediti e i debiti, che dalla società si producono tra i socii ed i terzi”, gli “effetti che il rapporto di società può produrre in ordine alle contrattazioni con gli estranei” e quindi “come un socio possa acquistare diritti ed essere obbligato di fronte ad essi”, proponendo semplicemente di distinguere tra le due ipotesi “in cui tutti i socii abbiano contrattato con i terzi” e “ipotesi in cui uno solo dei socii o alcuni socii abbiano contrattato con i terzi”[33].

La idea che la societas non sia altro che la somma dei singoli soci mortifica la funzione del contratto e non tiene conto proprio del momento più rilevante per la societas che è quello in cui essa permette ai soci di entrare in relazione esterna.

Punto di partenza, invece, per una riconsiderazione della societas come fenomeno organizzativo nuovo rispetto alla considerazione meramente aritmetica dei soci mi sembra che si possano ritenere, al riguardo, gli studi fondamentali di Pierangelo Catalano, il quale ha sostenuto vigorosamente, richiamando l’ammonimento di Giorgio La Pira[34] ripreso da Jacques Maritain[35], la necessità di evitare la confusione, sconosciuta ai giuristi romani, tra il “tutto sostanziale dell’organismo biologico e il tutto collettivo, composto anch’esso di persone, della società”[36]. E devono qui essere richiamati i risultati, a cui il Catalano giunge, evidenziando che la nozione concreta e direi societaria, secondo la definizione ciceroniana (Cicero, De republica, 1,25,39: … populus … non omnis hominum coetus quoquo modo congregatus, sed coetus multitudinis iuris consensu et utilitatis communione sociatus), di populus Romanus Quirites esprime non un ‘ente ideale’, ma una “pluralità di uomini ‘riuniti’ o ‘uniti’[37]. Ciò che non impedisce che il populus possa essere considerato come un insieme, un “tutto indipendente da ciascun singolo” e che quindi i giuristi romani, senza dovere ricorrere alla astrazione della persona giuridica, possano riconoscere situazioni giuridiche per gruppi umani[38].

Per fare una analisi di questo genere diventa essenziale però, sempre richiamando il Catalano, liberarsi in maniera totale dalla influenza nefasta della contrapposizione, condizionata da pregiudizi evoluzionistici, quali quello astratto-concreto, che ancora pervadono soprattutto le ricostruzioni dell’Albertario[39] e parzialmente quelle dell’Orestano[40].

Un passo ulteriore, in tal senso, è quello ora compiuto da Giovanni Lobrano, il quale ha sostenuto la inammissibilità della contrapposizione, costante nella romanistica contemporanea attraverso il Savigny, fra i due concetti di “unità”, “intesa come astrazione”, e di “collettività”. Alla base di tale contrapposizione vi è, da un lato, il rifiuto della idea di una “unità che supera e fa sintesi nuova della ‘semplice’ pluralità di uomini”, e, dall’altro, la fondazione di un «‘giudizio’ secondo cui la “concretezza” e la “unità” siano inconciliabili ovvero la “concretezza” degli universi cives escluda la “unità” della loro organizzazione in societas”. Si deve invece respingere col Lobrano la tesi che una collettività possa presentarsi come unità solo attraverso l’artificio della astrazione e quindi della nozione di persona giuridica e di quella connessa di rappresentanza. Contro una “unità astratta di persona giuridica” è possibile invece parlare di una “unità collettiva concreta della societas”.

L’impostazione dottrinale a lungo dominante ha finito per gettare sulla questione della rilevanza esterna della societas un velo che ha coperto l’aspetto più rilevante della societas: quello in cui tale contratto si rivela strumento che permette ai soci di amplificare le loro forze superando la utilità individuale per raggiungere una sintesi ulteriore maggiore della somma meramente aritmetica delle utilità di ciascuno. Ciò è reso possibile solo attraverso la circostanza che la societas si presenti come unità concreta. Il fatto che la societas non abbia una rilevanza esterna, in quanto con essa si generano obbligazioni solo fra i contraenti, non è un limite ma l’affermazione più evidente della idoneità di essa a costituire una comunità nuova, il cui obiettivo, come vedremo subito, non è quello semplicemente di costituire una relazione interna ma di permettere proprio in forza di essa lo edificazione e lo sviluppo di ulteriori rapporti verso il mondo esterno.

 

 

5. La rilevanza esterna della societas: superamento del dilemma fra regola generale ed eccezioni alla regola generale 

 

Una volta sgomberato il campo dai due possibile equivoci, si può prendere in esame la questione della rilevanza esterna della societas tenendo conto della unità e della pluralità ad essa sottesa, senza dovere ricorre all’impiego della categoria della persona giuridica nell’inquadramento della attività compiuta da una collettività di persone.

Siffatta impostazione aiuta anche a superare il dilemma in cui si dibatte la dottrina, quando tenta di risolvere la questione attraverso la individuazione di una regola generale che parrebbe assoluta ‒ il contratto di societas non ha alcuna rilevanza esterna ‒  e un insieme di eccezioni alla regola generale ‒  taluni tipi di societates hanno (in varia misura) rilevanza esterna ‒  che sono una elaborazione, più o meno esplicita, di una regola specifica[41]. Eccezioni che, come è noto, sono individuate di solito con riguardo anzitutto alle societates publicanorum, argentariorum, venaliciaria e da ultimo, con qualche perplessità, anche con riferimento alla “impresa collettiva di navigazione”[42].

Contro la dottrina dominante, che per lungo tempo ha finito per riconoscere una rilevanza esterna alla societas solo come eccezione alla regola generale, Feliciano Serrao, in un contributo ormai classico, specificamente dedicato al tema della “rilevanza esterna del rapporto di società”, il cui paragrafo di apertura è intitolato in maniera molto significativa “La regola e le eccezioni”, ha scardinato il senso della impostazione della questione nei termini di un rapporto fra regola generale ed eccezione alla regola generale, ponendo in dubbio la “estensione” delle ipotesi di rilevanza esterna di determinati tipi societari e quindi, mi pare di poter aggiungere, il valore stesso di esse[43]. E in realtà il Serrao ha ritenuto che sia possibile individuare un esempio di rilevanza esterna di societates non solo per i tipi tradizionalmente richiamati quali le società di pubblicani e le società di banchieri, ma anche per le società di mercanti di schiavi e le società di armatori. Queste ultime, in particolare, ricoprivano una importanza economica così grande nella economia antica, da poter concludere che il “campo in cui la regola della non rilevanza esterna del rapporto sociale si applicava incontrastata” fosse più o meno corrispondente al “campo in cui l’applicazione del principio veniva esclusa o fortemente limitata dalle diverse eccezioni”[44]. Il Serrao, come già aveva ritenuto la dottrina commercialistica per il diritto moderno, ha ritenuto di dovere parlare anche per il diritto romano di societates anziché della societas, riconducendo il problema della rilevanza esterna delle società alla “diversità di struttura economica” e “alla diversità del modo di produzione”, nell’ambito di certi settori economici propri di un “capitalismo compatibile con le condizioni storiche generali dell’antichità”[45].

Si può ritenere acquisito l’approccio ora richiamato volto ad analizzare la questione della rilevanza esterna della societas attraverso la considerazione dei singoli tipi societari, in un quadro che prescinde dalla contrapposizione fra regola generale ed eccezioni ad essa. Certo oggi siamo più consapevoli che le condizioni economiche non spiegano necessariamente da sole le soluzioni giuridiche. Bisognerebbe quindi sempre considerare che, alla base dei diversi tipi di società, risiedono modi articolati di concepire le relazioni umane in funzione del perseguimento dello scopo comune che di tali tipi costituisce ancora oggi il filo rosso, tra passato e presente, nonostante, si direbbe, la tendenza del legislatore a creare con l’innesto della persona giuridica sulla societas autentici mostri giuridici.

 

 

6. La regola della generale irrilevanza esterna della societas come negazione della rilevanza esterna delle relazioni tra i soci

 

La irrilevanza sul piano esterno della societas è di solito ricondotta in dottrina alla regola formulata da Ulpiano in D. 17,2,20 (Ulp. 31 ad. ed.): nam socii mei socius meus socius non est[46]. In essa è noto che l’Arangio-Ruiz ha voluto vedere un “corollario” del principio secondo il quale i rapporti fra uno o più soci e i terzi riguardano solo coloro che siano parte dell’atto stesso. E ciò, sempre secondo l’illustre romanista, anche quando l’attività sia stata compiuta dal socio con il terzo in adempimento di un obbligo sociale. Applicazione di questo principio si avrebbe così nel caso, ricordato in D. 17,2,67 pr-1 (Paul. 32 ad. ed.), in cui sia stipulato da uno dei soci con terzi un contratto di compravendita o di mutuo, con la conseguente “estraneità” degli altri soci rispetto al vincolo instaurato coi terzi[47]. Più recentemente, nella medesima linea, Mario Talamanca ha ribadito che la irrilevanza esterna della societas è attestata nel principio ulpianeo, rilevando, inoltre, che esso è, a sua volta, parte di una discussione più estesa riportata in D. 17,2,19, «dove esso è fondato sul carattere di obligatio consensu contracta della societas». Entrambi tali frammenti, poi, «sono l’inizio di una catena, che prosegue con» D. 17,2,21 e 23 e 31 (Ulp. 30 ad Sab.), D. 17,2,24 (Ulp. 31 ad ed.) e quindi con D. 17,2,22 (Gai. 10 ad ed. prov.).

La regola relativa alla irrilevanza esterna del contratto di societas, intesa come irrilevanza esterna degli obblighi contratti dai soci nei loro reciproci rapporti, corrisponde, dunque, più alla struttura del contratto in generale che a un carattere proprio ed esclusivo della sola societas. In questa ottica, il richiamo al principio enunciato da Ulpiano non pare potersi invocare per fondare la specifica irrilevanza esterna del contratto di societas. A conferma di ciò è anzitutto decisiva l’osservazione di Serrao, secondo il quale il principio enunciato in D. 17,2,20 non può essere richiamato per affermare la irrilevanza esterna della societas, in quanto Ulpiano sembra qui limitarsi a rilevare che la stipulazione da parte di un socio di un secondo contratto di società con altri soggetti, come pure l’ipotesi di una associazione a sé di un terzo nelle perdite e profitti che il primo contratto dovesse produrre, non vincola il socio del primo contratto poiché egli è estraneo ad una attività che è stata compiuta al di fuori della prima società[48].

In tal senso, si può aggiungere, sembra deporre lo svolgimento stesso del principio come esso si presenta nella catena di passi sopra richiamati e in particolare in D. 17,2,19 (Ulp. 30 ad Sab.), in cui il criterio espresso rimane sempre quello del consenso, e quindi di per sé non esclusivo della societas[49]: cum enim societas consensu contrahatur, socius mihi esse non potest quem ego socium esse nolui.

Si può affermare, inoltre, che la regola ulpianea non costituisce una attestazione di una chiusura della societas verso l’esterno ma è essa stessa espressione di una apertura della societas verso l’esterno. Si tratta di chiarire in che termini si possa parlare di chiusura o apertura della societas sulla base della sequenza di passi presi in esame.

Certamente la societas è chiusa, come del resto in genere ogni altro contratto, ma nel senso che l’attività realizzata da una delle parti non necessariamente riguarda anche l’altra, e quindi va da sé che l’attività realizzata a titolo personale da uno dei soci con terzi, sia essa un ulteriore contratto di societas, sia essa un altro contratto, un mutuo o una compravendita ad esempio[50], non vincola necessariamente anche gli altri soci del primo contratto di societas[51]. Tuttavia è evidente che Ulpiano avverte qui il bisogno di enunciare un principio proprio con riferimento alla societas, poiché la sua struttura e la sua causa sono differenti da quelle degli altri contratti. Il principio non può quindi banalmente essere inteso nel senso che il contratto costituisce fonte di obbligazioni fra le sole parti, ma viene ad avere una sua ragione nel momento in cui lo si intenda come relativo al riconoscimento di quella che anche ad Ulpiano doveva sembrare la vocazione naturale della societas: vale a dire la sua capacità di presentarsi a coloro che l’abbiano stipulata come lo strumento fondamentale con cui è possibile entrare in contatto coll’esterno. In questo senso, la formulazione lessicale del principio nam socii mei socius meus socius non est rivela l’aspetto essenziale della causa della societas, che è di dar corso ad una progressione di relazioni societarie, nel momento in cui lo sviluppo dell’assetto di interessi delle parti conduce alla determinazione di una sintesi di volontà che dall’interno della comunità sociale si esprime appunto verso l’esterno.

Il problema della rilevanza esterna del contratto di societas poteva assumere connotazioni differenti in relazione al rapporto specifico di tale forma organizzativa con una eventuale communio. Qui non è possibile prendere in esame il problema di come questo rapporto fosse strutturato in relazione alle diverse ipotesi di societates e in considerazione dei rapporti preesistenti fra i soci. È sufficiente considerare che la connessione esistente in origine tra la societas, in particolare nella forma della societas omnium bonorum, e l’antico consortium, in quella che appare ancora oggi, nonostante autorevoli opinioni contrarie, la ricostruzione preferibile[52], depone a favore di una communio la cui esatta valutazione non può avvenire sulla base di un criterio di natura puramente economica. Non è un caso che il filo rosso che unisce l’antico consortium e la societas consensuale sia offerto da quel legame di fraternitas su cui le fonti insistono non a caso[53]. E la communio doveva presentarsi come una espressione immediata e concreta di una relazione che andava al di là di un rapporto meramente economico.

La concretezza della relazione fra i soci allontana l’ipotesi, da ultimo sostenuta dal Guarino[54], secondo cui la organizzazione e la gestione comune del patrimonio societario potesse indurre i terzi a ritenere di essere di fronte a “un ente a se stante” o “una comunità distinta dalle persone dei socii”, con il conseguente crearsi fra questi ultimi di un “vincolo solidale”[55]. La dimensione concreta della societas, contro il valore astratto della sua presunta natura di persona giuridica, aiuta a tenere presenti i termini della questione della rilevanza esterna nel frammento di Papiniano, in cui si ribadisce il criterio della estraneità dei soci di fronte ai terzi nel caso di attività compiuta da uno dei soci con essi, coll’aggiunta, però, ma forse meglio specularmente, che laddove il socio abbia reso comune agli altri soci i vantaggi della attività anche essi siano obbligati:

 

D. 17,2,82 (Pap. 3 resp.): Iure societatis per socium aere alieno socius non obligatur, nisi in communem arcam pecuniae versae sunt.

 

Senza entrare nel merito della genuinità del passo, la cui valutazione positiva è ormai data per assodata nella più recente letteratura[56], la questione che viene qui richiamata è in sintesi la seguente: nel caso in cui un socio abbia preso del denaro, evidentemente a mutuo, da un terzo, siffatta attività non è idonea a far sorgere obbligazioni in capo agli altri soci. Lo diventa solo quando il denaro sia stato conferito nella arca communis della societas.

La ipotesi, prospettata soprattutto nella dottrina più risalente che Papiniano facesse qui riferimento ad una applicazione della actio de in rem verso, alla quale i terzi contraenti il mutuo avrebbero potuto fare ricorso per far valere la responsabilità dei soci estranei al contratto, è da respingere[57]. Il Serrao, in particolare, ha fatto piazza pulita di questa ipotesi[58], rilevando che l’ambito di applicazione della actio de in rem verso non ha niente a che fare con l’ipotesi prevista nel frammento di Papiniano[59]. Il caso in esame è infatti specificamente quello di un socio che abbia contratto, anche a nome degli altri soci, un mutuo e quindi versato il denaro nella arca communis della societas, mentre più generale era l’ambito di applicazione dell’actio de in rem verso[60].

Non pare inoltre che si possa scorgere nel passo una distinzione, propria del diritto societario alla fine della età classica, fra “regola generale” e “correlata eccezione”[61], poiché la espressione nisi in communem arcam pecuniae versae sunt costituisce una esplicitazione del medesimo principio della estraneità della attività compiuta da terzi, quando essa non abbia assunto i caratteri di quella sociale per avere il socio agente evitato di far confluire nella società i risultati della medesima attività[62].

Il riferimento alla arca communis nel passo papianianeo è un esplicito riferimento alla capacità organizzativa della societas: solo un pregiudizio, assai diffuso in dottrina, determinato dalla applicazione della categoria della persona giuridica al contratto di società, può spiegare le ragioni per le quali si sia giunti a negare la classicità del passo sulla base della osservazione che il possesso della cassa comune, in quanto attestazione di una organizzazione, fosse possibile solo in riferimento alle persone giuridiche. Con il che si finiva col dimenticare che anche e a maggior ragione la societas potesse avere una propria organizzazione con una cassa comune[63].

Secondo la dottrina, che è stata fortemente condizionata dalla categoria della persona giuridica nella interpretazione del fenomeno societario, il frammento papinianeo conduce al problema della rappresentanza della societas[64]. In realtà il frammento è interessante per il richiamo alle discussioni che dovevano caratterizzare i giuristi romani in merito al concreto funzionamento della società. La concretezza della societas, nel suo funzionamento, si presenta come l’aspetto essenziale della valutazione presente nel frammento di Gaio, in cui l’arca communis è a denotare la organizzazione della societas:

 

D. 3,4,1 pr.-1 (Gaius 3 ad ed. prov.): Neque societas neque collegium neque huiusmodi corpus passim omnibus habere conceditur: nam et legibus et senatus consultis et principalibus constitutionibus ea res coercetur. Paucis admodum in causis concessa sunt huiusmodi corpora: ut ecce vectigalium publicorum sociis permissum est corpus habere vel aurifodinarum vel argentifodinarum et salinarum. Item collegia Romae certa sunt, quorum corpus senatus consultis atque constitutionibus principalibus confirmatum est, veluti pistorum et quorundam aliorum, et naviculariorum, qui et in provinciis sunt. 1. Quibus autem permissum est corpus habere collegii societatis sive cuiusque alterius eorum nomine, proprium est ad exemplum rei publicae habere res communes, arcam communem et actorem sive syndicum, per quem tamquam in re publica, quod communiter agi fierique oporteat, agatur fiat.

 

Il frammento costituisce una sorta di manifesto riassuntivo del diritto associativo nella età degli Antonini[65] ed offre una chiave di lettura generale della organizzazione delle società. La corporalità della societas non si evidenzia nella assimilazione alla persona giuridica ma ne è anzi da essa offuscata. La unità che emerge nel passo gaiano non può in effetti essere compresa se la si riconduce necessariamente alla astrazione della persona giuridica. Al contrario, il richiamo della societas al corpus, in cui si evidenzia la unità, appare manifestazione essenziale della organizzazione “concreta o fisica della collettività”[66]. Problema del tutto moderno, e per molti aspetti ormai anche privo di interesse, è la discussione su quale sia la categoria da impiegare per designare la natura concreta di una unità. Espressioni quali quelle di persona giuridica, soggetto di diritto, con le connesse categorie di capacità giuridica o di personalità, e quindi infine, secondo una linea che solo apparentemente si distacca dall’atteggiamento scientifico sotteso all’uso di tali categorie, di “centro di imputazioni” o di “situazioni unificate” o peggio di ente[67], non solo non corrispondono ad una linea di pensiero dei giuristi romani attenti alla valutazione concreta dell’agire umano all’interno del gruppo, ma neppure si mostrano oggi di reale utilità nella comprensione della esperienza antica.

L’avere un corpus, non essere un corpus, ad exemplum rei publicae, svela una linea di continuità, in una prospettiva unificante fra ius publicum e ius privatum, fra le societates e i collegia, sia nella considerazione del possesso di res communes o di arca communis, sia nella possibilità di esprimere il suo concreto funzionamento con un actor sive syndicus.

Gaio osserva che non a tutte le società e ai collegi è consentito l’habere corpus, in quanto la materia è regolata da leggi, senatoconsulti e costituzioni. Il riferimento al corpus habere ad exemplum rei publicae si esprime, infatti, in relazione a diversi tipi di società commerciali (le societates vectigalium, aurifodinarum, argentifodinarum e salinarum) o di collegi che svolgono pubblici servizi, nell’avere res communes e in una arca communis e quindi nel poter agire o essere convenuti attraverso un actor sive syndicus[68]. La questione più interessante, al di là di sovrastrutture ideologiche estranee alla riflessione dei giuristi romani, pare qui essere la valutazione delle concrete forme organizzative connesse all’impiego di tali tipi societari, anche in relazione al riferimento contenuto nel testo gaiano ad una struttura operativa costruita ad exemplum rei publicae.

In tale ottica, nel senso cioè di una societas, che come altre concrete strutture organizzative, assolve ad una funzione pubblica, si deve richiamare il noto frammento di Florentino riportato in:

 

D. 46,1,22 (Florent. 8 inst.): Mortuo reo promittendi et ante aditam hereditatem fideiussor accipi potest, quia hereditas personae vice fungitur, sicuti municipium et decuria et societas.

 

Ha osservato di recente Pietro Cerami che la “locuzione gaiana ‘corpus habere ad exemplum rei publicae’” è “espressione denotativa dell’unità concettuale del ‘corpus’”. Tali “strutture corporative”, egli osserva citando Alfeno in D. 5,1,76[69], “conservano la loro identità giuridica, nonostante il mutare dei singoli componenti” e quindi “fungono, appunto in quanto unità-molteplicità di individui, da centri d’imputazione di rapporti giuridici”[70].

 

 

7. I diversi tipi societari a rilevanza esterna

 

Restano ora da esaminare alcune ipotesi tipiche di rilevanza esterna del contratto di società. La prima ipotesi che possiamo brevemente prendere in considerazione riguarda la societas argentariorum, per la quale il Petrucci ha ritenuto di poter parlare di “uno dei tipi più perfezionati di società a rilevanza esterna dell’esperienza romana”[71]. Caratteristica essenziale di tale tipo di societas era la sussistenza di un regime di solidarietà, sia dal lato attivo sia da quello passivo, fra i soci nei confronti del cliente, operante anche nel caso in cui l’affare fosse stato realizzato da uno solo dei soci agente per gli altri. Tale solidarietà è attestata, già per gli inizi del I sec. a.C., nella Rhetorica ad Herennium[72], e si trova confermata in alcuni testi di Paolo, con riferimento al pactum de non petendo, per la solidarietà passiva, in D. 2,14,25 pr. (Paul. 3 ad ed.)[73], e per quella attiva in D. 2,14,27 pr. (Paul. 3 ad ed.)[74], e con riferimento al pactum ut minus solvatur in D. 2,14,9 pr. (Paul. 62 ad ed.)[75], e ancora, ma per entrambi i versanti in tema di compromissum, in D. 4,8,34 pr. (Paul.  13 ad ed.)[76].

Il rapporto sociale qui ha una rilevanza esterna che si giustifica in ragione dell’affidamento ingenerato nei terzi, ma che ha, allo stesso tempo, precise connotazioni nel fornire la base, come l’ha definita il Talamanca, per la solidarietà attiva e passiva degli argentarii socii[77].

Nel caso della societas venaliciaria la estensione della rilevanza esterna doveva avvenire, sulla base dell’editto degli edili curuli, attraverso una “clausola di stile” del contratto di societas. Tale rilevanza esterna, che ha trovato in letteratura un preciso riconoscimento grazie agli studi fondamentali del Serrao, risulta attestata anzitutto in D. 21,1,44,1 (Paul. 2 ad ed. aed. cur.)[78], ove, sulla base del principio, adombrato nella espressione “plerumque venaliciarii ita societatem coeunt, ut quidquid agunt in commune videantur agere”, vale a dire della costituzione del rapporto sociale in modo che la realizzazione di operazioni commerciali apparisse funzionale all’interesse di tutti i soci, si consentiva all’acquirente di non dovere esperire l’actio redhibitoria o l’actio quanti minoris contro ciascun socio, ma in solidum contro quel socio che risultasse essere titolare della quota maggiore o eguale a quella degli altri soci. Così mi sembra che si debba interpretare l’inciso ut quidquid agunt in commune videantur agere, in cui il giurista, dopo avere evidenziato la necessità di una costituzione di un rapporto sociale aperto all’esterno, richiede che tale apertura sia connotata dalla agevole riconoscibilità per i terzi che l’attività perseguita sia di utilità comune. Mentre l’actio empti viene riconosciuta contro i soci in proporzione della quota di ciascuno. Quanto alla legittimazione passiva all’una e all’altra azione sembra probabile, come hanno sostenuto da angolature diverse il Serrao[79] e il Talamanca[80], che essa si verifichi anche nel caso in cui il negozio sia stato stipulato con uno solo dei soci.

Nel caso della societas exercitorum (la società degli armatori) la rilevanza esterna del contratto di società è confermata da una serie di testi inseriti dai compilatori nel titolo dei Digesta De exercitoria actione[81].

Una prima ipotesi è quella relativa al caso in cui plures exercitores esercitino la impresa armatoriale senza nominare un magister:

 

D. 14,1,4 pr. (Ulp. 29 ad ed.): Si tamen plures per se navem exerceant, pro portionibus exercitionis conveniuntur: neque enim invicem sui magistri videntur.

 

Una seconda ipotesi è quella in cui i plures exercitores nominino un magister al loro interno:

 

D. 14,1,4,1 (Ulp. 29 ad ed.): Sed si plures exerceant, unum autem de numero suo magistrum fecerint, huius nomine in solidum poterunt conveniri.

 

Una terza ipotesi, infine, è quella in cui i plures exercitores scelgano un magister esterno (servo o libero):

 

D. 14,1,1,25 (Ulp. 28 ad ed.): Si plures navem exerceant, cum quolibet eorum in solidum agi potest.

 

Si trattava di tre ipotesi differenti entro comunque un quadro unitario contrassegnato dal ricorso alla formula organizzativa della società armatoriale. L’ipotesi sostenuta dal Talamanca, di per sé corretta, secondo il quale la nomina di un servus magister non implicasse necessariamente la costituzione di una società[82], non significa, pure secondo le stesse valutazioni dell’illustre romanista, che frequentemente non fosse proprio lo schema organizzativo della societas ad essere impiegato[83]. Non mi pare quindi plausibile che la rilevanza esterna della societas, quando ad essa si faceva ricorso, sia stata qui prevista esclusivamente per ragioni di politica legislativa, perché semmai era essa a fondarsi sull’impiego di un carattere essenziale della struttura societaria.

Nel caso in cui i plures exercitores abbiano scelto un magister esterno, la rilevanza esterna del contratto di società sembra connettersi anche alla prepositio del magister, in modo da evitare che i terzi contraenti siano costretti ad agire nei confronti di tutti i soci[84]. Soluzione che del resto trova corrispondenza nel caso in cui i plures abbiano provveduto a individuare al loro interno un magister, quando si consideri il principio della solidarietà passiva dei preponenti, attestato da Ulpiano in D. 14,1,4,1: huius nomine in solidum poterunt conveniri. Nel caso in cui i plures exercitores abbiano provveduto ad esercitare l’impresa senza nominare un magister, posto che neque enim invicem sui magistri videntur, si deve conseguentemente ritenere che al contratto con i terzi non abbiano preso parte tutti i soci ma solo uno o più fra essi. In tal modo si comprende la soluzione individuata dal giurista di prevedere una responsabilità determinata in funzione della quota dei soci: pro portionibus exercitionis, intendendo con tale espressione un riferimento “alla rispettiva quota di esercizio dell’impresa armatoriale”[85].

La rilevanza esterna della societas publicanorum, rinunciando per la presente occasione a delineare un quadro articolato a seconda delle diverse epoche storiche in cui risulta impiegato tale tipo, a partire dal III sec. a.C., si esprime già nel I sec. a.C. nel coinvolgimento di tutti i soci nel contratto concluso dal manceps o dal redemptor[86]. Si è citato a fondamento di tale rilievo la lettera indirizzata da Cicerone a Pomponio Attico, in riferimento alla riscossione degli appalti dei tributi d’Asia, in cui la espressione “qui de censoribus conduxerunt” parrebbe rinviare alla estensione degli effetti del rapporto fra censori e aggiudicatario a tutti i soci, secondo del resto quanto attestato nel testo gaiano D. 3,4,1,1 sopra richiamato.

Sembra tutt’altro che poco significativo, come invece si è sostenuto[87], che la societas disponesse di una assemblea, entro la quale si potevano individuare alcuni soggetti, i decumani, i quali con una certa probabilità componevano un consiglio più ristretto. I magistri curavano invece la amministrazione della societas, in ciò coadiuvati dai pro magistri, e avevano un potere di convocazione dell’assemblea dei soci[88]. Disponevano con ogni probabilità di un potere di agire per la societas, come ad esempio parrebbe attestato da D. 2,14,14 (Ulp. 4 ad ed.): Item magistri societatim pactum et prodesse et obesse constat.

Quanto alla esistenza di res communes nella societas publicanorum, di cui si hanno indizi in fonti diverse[89], il riferimento più importante che depone a favore di una rilevanza esterna del rapporto sociale sembra essere quello relativo alla arca communis di cui parla Papiniano in D. 17,2,82 (Papin. 3 resp.), ove nell’ipotesi di un prestito di uno dei soci, il versamento del denaro nell’arca rendeva responsabili anche gli altri soci.

Ne risulta un quadro complessivo in cui la tendenza dei publicani ad unirsi in forme societarie si giustifica in modo così da consentire una riduzione e ripartizione dei rischi, alla quale funzione si univa l’interesse della res publica a confidare sulla estensione della responsabilità a più soggetti[90].

 

 

Abstract

 

L’analisi dei caratteri fondamentali della causa del contratto di società permette di prendere in considerazione, sul piano congiunto del diritto pubblico romano e del diritto privato romano, la relazione tra utilità del singolo e perseguimento del bene comune. Il tema della rilevanza esterna del contratto di società è molto importante perché essa riguarda il momento fondamentale in cui i soci entrano in relazione, per mezzo di tale contratto, con la concreta realtà in cui essi operano. Per l’analisi di questo tema è però necessario evitare l’assimilazione del contratto di società alle altre forme di realizzazione della impresa collettiva e soprattutto tenere ben distinto esso dalla moderna categoria di persona giuridica.

 

The analysis of the fundamental characters of Company agreement cause allows to consider, at the same time on ius publicum and ius privatum side, the connection between individual utility and common good pursuit. The topic of the company agreement external relevance is very important because it involves the fundamental moment the partners enter into a relationship with the concrete reality they operate. For the analysis of this matter is however necessary to avoid any assimilation of Company agreement with others collective enterprises partnership and above all make differences within the legal person modern category.

 

 



 

[Per la pubblicazione degli articoli della sezione “Contributi” si è applicato, in maniera rigorosa, il procedimento di peer review. Ogni articolo è stato valutato positivamente da due referees, che hanno operato con il sistema del double-blind].

 

[1] Cfr. G. Broggini, “Causa e contratto”, in Aa.Vv., Causa e contratto nella prospettiva storico-comparatistica, II Congresso Internazionale ARISTEC, Palermo, 7-8 giugno 1995 (a cura di L. Vacca), Torino 1997, pp. 31 ss., il quale rileva che il problema essenziale della disciplina giuridica relativa al contratto è quello del limite alla “utilizzazione della volontà privata” e all’“autonomia della volontà” e dunque quello della “unità e inscindibilità del diritto pubblico e del diritto privato”.

 

[2] L’osservazione di A. Di Majo, “Causa del negozio giuridico”, in Enciclopedia giuridica, VI, Roma 1988, p. 2, secondo il quale la causa “è un modo per guardare complessivamente al ruolo degli atti di privata autonomia (contratti e negozi) e al loro rapporto complessivo con gli interessi (individuali) delle parti e al loro rapporto complessivo con gli interessi (individuali) delle parti e con l’ordinamento”, trova il suo riscontro più evidente nella considerazione dei caratteri della societas, per la sintesi che attraverso tale contratto si realizza fra utilità dei singoli e perseguimento del bene comune.

 

[3] Sulla opportunità di distinguere tra le società e le diverse forme associative si veda M. Talamanca, “Società. (Diritto romano)”, in Enciclopedia del diritto, XLII, Milano 1990, p. 814 nt. 2, il quale osserva: “La tendenza della dottrina moderna a non distinguere … tra figure che ai nostri occhi – ma anche a quelli dei giuristi romani – erano differenziate corrisponde, del resto, alla mancata diversificazione da parte dei contemporanei”. Ciò non significa che non si debba tenere conto anche delle affinità fra societas e le varie forme associative che alla prima si riconducono.

 

[4] Per i riferimenti bibliografici al fenomeno associativo nel mondo romano si rinvia a P.P. Onida, “La causa della societas fra diritto romano e diritto europeo”, in Diritto @ Storia. Rivista Internazionale di Scienze Giuridiche e Tradizione Romana, 5, 2006= http://www.dirittoestoria.it/5/Memorie/Onida-Causa-societas-diritto-romano-diritto-europeo.htm.

 

[5] Sulle sodalites un quadro di insieme molto utile è offerto da R. Fiori, “Sodales. Gefolgshaften e diritto di associazione in Roma arcaica (VIII-V sec. A.C.)”, in Aa.Vv., Societas-Ius. Munuscula di allievi a Feliciano Serrao, Napoli 1999, pp. 101 ss.; a cui si può aggiungere F. Serrao, Diritto privato economia e società nella storia di Roma, 1, Dalla società gentilizia alle origini dell’economia schiavistica, Napoli 2006, pp. 358 ss.

 

[6] Sulla definizione ciceroniana del populus come coetus multitudinis iuris consensu et utilitatis comunione sociatus (Cic., rep. 1,25,39) si veda anzitutto G. Lobrano, Res publica res populi. La legge e la limitazione del potere, Torino 1996, pp. 113 ss.; Id., “La Respublica romana, municipale-federativa e tribunizia: modello costituzionale attuale”, in Diritto @ Storia. Rivista internazionale di Scienze Giuridiche e Tradizione Romana, 3, Maggio 2004 = http://www.dirittoestoria.it/3/Memorie/Organizzare-ordinamento/Lobrano-Res-publica-Romana-modello-costituzionale-attuale.htm., il quale osserva che “il ricorso allo schema del contratto di società, per il quale i cittadini sono soci e il popolo è la società risultante, consente di fondare teoreticamente la partecipazione diretta di ogni cittadino (quindi, sovrano [= cum potestate] e non soltanto privato) alla formazione della volontà pubblica e dà ragione della necessità, per la Repubblica, della virtus (e della, quindi connessa, magistratura censoria), senza la quale non sarebbe possibile il complesso percorso volitivo di ciascuno e di tutti i cittadini verso la singulorum utilitas (Ulp. D. 1.1.1.2 = I.J. 1.1.4) attraverso la communio utilitatis”. Sulla tesi della societas, come fondamento della nozione di populus, si veda anche G. Mancuso, “Sulla definizione ciceroniana dello Stato”, in Sodalitas. Scritti in onore di Antonio Guarino, II, Napoli 1984, pp. 609 ss.; Id., “Il concetto di costituzione nel pensiero politico greco-romano”, in Annali del Seminario Giuridico dell’Università di Palermo, 39, 1987, pp. 339 ss.; Id.,Potere e consenso nell’esperienza costituzionale repubblicana”, in Annali del Seminario Giuridico dell’Università di Palermo, 41, 1991, pp. 211 ss.; Id., Forma di Stato e forma di governo nell’esperienza costituzionale greco-romana, Catania 1995, pp. 73 ss. Una critica della “interpretazione in chiave contrattualistica della definitio ciceroniana”, sopra richiamata, si trova in M. Varvaro, “Iuris consensus e societas in Cicerone. Un’analisi di Cic., De rep., 1,25,39”, in Annali del Seminario giuridico dell’Università di Palermo, XLV.1, 1998, pp. 445 ss.

 

[7] Sulla nozione di res publica si veda G. Lobrano, Res publica res populi. La legge e la limitazione del potere cit., passim, a cui si rinvia anche per i riferimenti alla letteratura.

 

[8] Per la concezione ‘societaria’ della civitas in Cicerone si veda G. Lobrano, Res publica res populi. La legge e la limitazione del potere cit., pp. 113 ss., il quale nota “la essenziale interrelazione tra la nozione di populus(-societas) e la nozione di civitas (città, diritto di cittadinanza e, appunto, universitas civium) già espressa da Cicerone sempre nel De republica: concilia coetusque hominum iure sociati, quae civitates appellantur (6.13.13; cfr. 1.32.49 quid est enim civitas nisi iuris societas)”.

 

[9] Sulla societas vitae fra i coniugi, per un primo esame, si vedano: E. Volterra, Lezioni di diritto romano. Il matrimonio romano, Roma 1960-61, pp. 130 ss.; Id., “Matrimonio (diritto romano)”, in Enciclopedia del diritto, XXV, Milano 1975, p. 754 nt. 62; G. Lobrano, Uxor quodammodo domina”: riflessioni su Paul. D. 25,2,1, Sassari 1989, pp. 54 ss.; R. Astolfi, Il matrimonio nel diritto romano preclassico, 2 ed., Padova 2002, pp. 103 ss. Id., Il matrimonio nel diritto romano classico, Padova 2006, pp. 265 ss.; ed ora, con riferimento però ad altri “aspetti particolari” connessi al matrimonio, Id., Studi sul matrimonio nel diritto romano postclassico e giustinianeo, Napoli 2012.

 

[10] Così A. Palma, “Note critiche sul concetto di causa”, in Roma e America diritto romano comune, 12 (2001), p. 325, il quale rileva: “In conclusione, quando si discute delle fonti romane, il termine causa appare assumere solitamente il significato di interesse concretamente perseguito, quale emerge o dalle dichiarazioni delle parti o dall’equilibrio complessivo degli interessi. Vi è quindi una sorta di singolare corrispondenza di impostazione tra le più antiche dottrine dei giuristi romani e le attuali moderne impostazioni dei privatisti, i quali si sono liberati della nozione astratta di causa e l’hanno giustamente ancorata alla composizione e all’equilibrio degli interessi concretamente perseguiti”.

 

[11] Si veda per tutti V. Arangio-Ruiz, La Società in diritto romano cit., pp. 72 ss.

 

[12] Sottolinea in modo particolare la rilevanza della fraternitas nella societas M. Talamanca, v. Società. Diritto romano cit., p. 817: «il suo regime è profondamente influenzato dalla fraternitas tra i consortes che traluce ancora dalle fonti classiche relative alla societas». Per l’esame delle fonti e della dottrina in tema di fraternitas si rinvia a P.P. Onida, “Fraternitas e societas: i termini di un connubio”, in Diritto @ Storia. Rivista Internazionale di Scienze Giuridiche e Tradizione Romana, 6, 2007= http://www.dirittoestoria.it/6/Tradizione-romana/Onida-Fraternitas-e-societas.htm.

 

[13] Il legame tra la societas e l’antico consortium, sul piano della fraternitas, si ricava nelle fonti anzitutto da Gai. 3.154 e da D. 17.2.63 pr. (Ulp. 31 ad ed.). La fraternitas fa sì che il permanere della unità del gruppo non sia fondato su un rapporto di natura esclusivamente economica e giustifica l’ampiezza di poteri riconosciuti ai fratres in relazione al patrimonio familiare. Cfr. E. Betti, Istituzioni di diritto romano, I, 2ª ed., Padova 1942, 426 ss.: «Il vincolo personale di fraternità fra consorti, che giustifica e governa la comunione, rende ragione, nella concezione romana, della pienezza di poteri ricono­sciuti a ciascuno nei rapporti esterni, allorché si tratta di disporre di una cosa comune, o di assumerne la difesa in giudizio … La con­cezione romana è probabilmente … che il fratello non può tradire il fratello, come il tutore non può tradire il pupillo …, ma deve apprezzare e sentire l’interesse comune od altrui come interesse suo proprio e assumere verso l’altro la responsabilità dell’apprezzamento fatto … Il vincolo di fraternità fra consorti, come legittima tanto estesi poteri d’iniziativa, così giustifica una piena fiducia reciproca».

 

[14] A. Di Porto, Impresa collettiva e schiavo «manager» in Roma antica (II sec. a.C.-II sec. d.C.), Milano 1984, pp. 7 ss.

 

[15] A. Di Porto, Impresa collettiva e schiavo «manager» in Roma antica (II sec. a.C.-II sec. d.C.) cit., p. 9.

 

[16] Si veda P. Koschaker, Europa und das römische Recht, 3 ed., München-Berlin 1958, p. 352.

 

[17] G. Lobrano, “Dell’homo artificialis deus mortalis dei Moderni comparato alla societas degli Antichi”, in Aa.Vv., Giovanni Paolo II. Le vie della giustizia. Itinerari per il terzo millennio (a cura di A. Loiodice-M. Vari), Roma 2003, pp. 161 ss.

 

[18] Sulla crisi della persona giuridica, sono fondamentali le osservazioni di P. Catalano, “Alle radici del problema delle persone giuridiche”, in Rassegna di diritto civile, 1983, 4, pp. 941 ss. (=Id., Diritto e persone. Studi su origine e attualità del sistema romano, Torino 1990, pp. 163 ss., da cui si cita); e di G. Lobrano, “La alternativa attuale tra i binomi istituzionali: persona giuridica e rappresentanza e società e articolazione dell’iter di formazione della volontà. Una ìpo-tesi (mendeleeviana)”, in Diritto @ Storia. Rivista internazionale di Scienze Giuridiche e Tradizione Romana, 10 (2011-2012)= http://dirittoestoria.it/10/D&Innovazione/Lobrano-Persona-giuridica-rappresentanza-societa-formazione-volonta.htm, a cui si rinvia per i riferimenti essenziali alla letteratura.

 

[19] Cfr. per tutti G. Cottino-R. Weigmann, Le società di persone, in Trattato di Diritto commerciale, diretto da G. Cottino, III, Società di persone e consorzi, Padova 2004, pp. 4 ss.

 

[20] Si veda con, riferimento a Cass., sez. I, 26 ottobre 1995, n.11151, in cui si è esclusa la possibilità di riconoscere un interesse della società (s.r.l.) in quanto persona giuridica, distinto da quello dei soci, P.G. Jaeger - C. Angelici - A. Gambino - R. Costi - F. Corsi, “Cassazione e contrattualismo societario: un incontro?”, in Giurisprudenza Commerciale, 1996, II, pp. 334 ss.

 

[21] Si veda per tutti, con rinvii alla letteratura precedente, F. Serrao, Sulla rilevanza esterna del rapporto di società in diritto romano, in Studi in onore di Edoardo Volterra, V, Milano 1971, pp. 743 ss. (=Id., Impresa e responsabilità a Roma nell’età commerciale, Ospedaletto [Pisa] 1989, pp. 67 ss.), a cui si aggiunga almeno: M.R. Cimma, Ricerche sulle società di publicani, Milano 1981, pp. 203 ss.; P. Cerami, “Impresa e società nei primi due secoli dell’Impero”, pubblicato on line in http://www.unipa.it/dipstdir/pub/annali/2007-2008/Cerami2.pdf., spec. pp. 107 ss.

 

[22] Si veda, per citare solo un esempio,  M. Talamanca, “Società. (Diritto romano)” cit., pp. 831 ss.

 

[23] Sul punto ora G. Lobrano, “La alternativa attuale tra i binomi istituzionali: persona giuridica e rappresentanza e società e articolazione dell’iter di formazione della volontà. Una ìpo-tesi (mendeleeviana)” cit., di cui si veda in particolare il cap. 1. sul tema de “La questione della persona giuridica e della rappresentanza: i termini”.

 

[24] Cfr. V. Arangio-Ruiz, La società in diritto romano, Napoli 1950, rist. an. 1988, pp. 88 ss.

 

[25] C. Arnò, Il contratto di società. Lezioni raccolte dagli studenti F. Palieri e G. Berto, Torino 1938, pp. 325 ss.

 

[26] V. Arangio-Ruiz, La società in diritto romano cit., p. 78.

 

[27] Si veda G. Lobrano, “La alternativa attuale tra i binomi istituzionali: persona giuridica e rappresentanza e società e articolazione dell’iter di formazione della volontà. Una ìpo-tesi (mendeleeviana)” cit., il quale, a proposito delle categorie di persona giuridica e rappresentanza parla di un “binomio” che costituisce «soltanto una soluzione storica-dogmatica del problema di base e complesso del diritto che è la concezione e il regime (cioè la “struttura” e la “dinamica”) unitari dell’agire volontario di una pluralità di uomini», mentre «soluzione storica-dogmatica altra è (è stata e resta) l’antitetico ‘binomio’ istituzionale che definiamo “società e articolazione dell’iter di formazione della volontà”».

 

[28] Cfr. P. Catalano, Diritto e persone. Studi su origine e attualità del sistema romano cit., pp. 163 ss.

 

[29] Si veda R. Orestano, Il problema delle fondazioni in diritto romano, Torino 1959; Id., Il «problema delle persone giuridiche» in diritto romano, I, Torino 1968.

 

[30] Non mi sembra sufficiente, ai fini di un ripensamento della questione della rilevanza esterna della societas, osservare, come fa M.R. Cimma, Ricerche sulla società di pubblicani cit., pp. 163 ss.; spec. pp. 193 ss., che “non si può negare che il processo di astrazione avesse già consentito di identificare nei collegia e nelle societates di cui parla Gaio”, il riferimento è a D. 3,4,1 pr.-1 (Gai. 3 ad ed. prov.), “entità diverse e distinte da quelle dei soggetti che la componevano”, per poi concludere ricorrendo alla categoria della “limitata capacità giuridica”. Si veda, al riguardo le osservazioni condivisibili di M. Talamanca, “Società. (Diritto romano)” cit., p. 832 nt. 198, secondo il quale il ricorso a tale categoria corrisponde ad una impostazione ancora troppo tradizionale, mentre “il problema sarebbe appunto di vedere a quale livello di ‘personalizzazione’ andrebbe posta la societas publicanorum. Non è verisimile che una struttura così complessa non avesse dato luogo ad un inizio di entificazione”.

 

[31] Sulla contrapposizione fra societas e persona giuridica si veda da ultimo G. Lobrano, “Dell’homo artificialis deus mortalis dei Moderni comparato alla societas degli Antichi” cit., pp. 161 ss.

 

[32] Il problema dell’uso delle categorie giuridiche per lo studio del diritto romano, dopo decenni di pressoché totale silenzio o allineamento alla letteratura della prima metà del secolo scorso, è di nuovo oggetto di una riconsiderazione generale da parte della dottrina. Penso soprattutto agli studi da ultimo condotti da U. Vincenti, Categorie del diritto romano, Napoli 2007, pp. 15 ss., che osserva: «Una deviazione, per certi aspetti sconcertante, dalla ontologia rigorosamente fisica riconosciuta alla nozione di persona si ebbe con riferimento alle consociazioni, private (come le società) o pubbliche (come la res publica o i municipia), a cui lo stesso diritto romano assegnò la capacità di essere parte di un rapporto giuridico patrimoniale alla stessa stregua dell’homo …».

 

[33] C. Arnò, Il contratto di società. Lezioni raccolte dagli studenti F. Palieri e G. Berto cit., p. 327.

 

[34] Il riferimento è allo scritto di G. La Pira, “I problemi della persona umana”, in Acta Pontificiae Academiae Romanae S. Thomae Aq. Et Religionis Catholicae, n.s., VIII, 1943, pp. 49 ss., su cui si veda P. Catalano, “Alcuni concetti e principi giuridici romani secondo Giorgio La Pira”, in Il ruolo della buona fede oggettiva nell’esperienza giuridica storica e contemporanea. Atti del Convegno internazionale di studi in onore di Alberto Burdese, a cura di L. Garofalo, Padova 2003, p. 105.

 

[35] J. Maritain, La persona e il bene comune, Brescia 1978, p. 18.

 

[36] Si veda P. Catalano, Diritto e persone. Studi su origine e attualità del sistema romano, Torino 1990, p. 165 nt. 7, a cui si rinvia per le citazioni di Maritain e La Pira.

 

[37] Così ancora P. Catalano, Diritto e persone. Studi su origine e attualità del sistema romano cit., pp. 166 ss.

 

[38] Cfr. P. Catalano, Diritto e persone. Studi su origine e attualità del sistema romano cit., p. 182 e nt. 55.

 

[39] E. Albertario, “Corpus e universitas nella designazione della persona giuridica”, in Id., Studi di diritto romano, I, Milano 1933, pp. 97 ss., il quale contrappone una concezione concreta di collettività, propria dei classici, alla concezione astratta, di unità, dei postclassici e giustinianei, su cui si vedano i rilievi critici di P. Catalano, Diritto e persone. Studi su origine e attualità del sistema romano cit., p. 173.

 

[40] Una critica in tal senso alle tesi di R. Orestano, Il «problema delle persone giuridiche» in diritto romano cit., pp. 178 ss., il quale con riferimento al «rapporto che nell’esperienza romana corre fra “situazioni unificate” e taluni fenomeni di imputazione», ipotizza un passaggio da una concezione “totalistica” a una concezione “corporalistica” e quindi a una  concezione “astratta”, si trova in P. Catalano, Populus Romanus Quirites, Torino 1974, p. 105 nt. 33.

 

[41] Si veda, per tutti, M. Talamanca, “Società (Diritto romano)” cit., p. 827, il quale dopo avere osservato che «In accordo all’efficacia meramente obbligatoria dei contratti romani, la societas crea fra i soci solo reciproche obbligazioni e non ha rilevanza esterna nei confronti dei terzi», scrive che «L’irrilevanza esterna del rapporto sociale è una regola generale, che soffre di talune ‒ reali od apparenti ‒ eccezioni».

 

[42] A. Di Porto, Impresa collettiva e schiavo «manager» in Roma antica (II sec. a.C.-II sec. d.C.) cit., pp. 174 ss., su cui si veda però le riserve di M. Talamanca, “Società (Diritto romano)” cit., pp. 829 ss.

 

[43] Si veda F. Serrao, Sulla rilevanza esterna del rapporto di società in diritto romano cit., pp. 67 ss.: «La regola generale sulla non rilevanza del rapporto sociale all’esterno corrisponde senza dubbio alla realtà giuridica romana: ma sulla estensione delle eccezioni alla regola stessa sono legittimi, mi sembra, alcuni dubbi».

 

[44] F. Serrao, Sulla rilevanza esterna del rapporto di società in diritto romano cit., pp. 87 ss.

 

[45] G. Ferri, Delle società, artt. 2247-2324, in Commentario del codice civile, a cura di A. Scialoja - G. Branca, Bologna-Roma 1955, pp. 3 ss., citato da F. Serrao, Sulla rilevanza esterna del rapporto di società in diritto romano cit., p. 89 nt. 57.

 

[46] Per la manualistica, con espresso riferimento a D. 17,2,20, si vedano: A. Burdese, Diritto privato romano, p. 476 nt. 31, il quale nota che «La società produce effetti solo tra i soci, non essendo riconosciuta, fatta eccezione per la societas publicanorum, quale corporazione avente una qualche capacità giuridica; i negozi conclusi con i terzi da un socio producono effetti esclusivamente nella sua sfera giuridica». E. Volterra, Istituzioni di diritto romano, Roma 1988, p. 527: «Il contratto di società non pone in essere una persona giuridica distinta da quelle dei soci. Pertanto non possono configurarsi rapporti obbligatori fra la società e terzi (cioè crediti e debiti della società) ma solo crediti e debiti dei singoli soci con terzi». G. Pugliese, Istituzioni di diritto romano (con la collaborazione di F. Sitzia-L. Vacca), Torino 1991, pp. 574 ss.: «Dal contratto di società non nasce, come invece talvolta avviene nel nostro diritto, una persona giuridica autonoma; ciò significa che la società non ha verso i terzi rilevanza giuridica autonoma rispetto a quella delle persone dei singoli soci … rimase comunque fermo il principio che il contratto di società, concluso da uno dei soci con i terzi, non coinvolgeva ovviamente i soci della prima società». Non si richiamano espressamente alla regola enunciata nel frammento ulpianeo: P.F. Girard, Manuale elementare di diritto romano, tr. it. di C. Longo, Roma-Milano-Napoli 1909, pp. 590 ss., il quale rileva che «A torto si è talora affermato che il contratto di società abbia l’effetto di creare una persona giuridica distinta dalle persone dei soci, con un patrimonio, un attivo ed un passivo distinto da quelli dei soci». E ancora, a p. 591 nt. 3, parlare di «effetti rispetto ai terzi, e specialmente in materia di obbligazioni, di crediti e debiti prodotti dalla società fra i soci ed i terzi corrisponde ad un «linguaggio abusivo». E. Betti, Istituzioni di diritto romano, II, Parte Prima, Padova 1962, pp. 265 ss., per il quale «la struttura della societas in diritto classico è quella di un rapporto di obbligazione … quindi produttivo di obblighi reciproci fra i partecipanti; un rapporto, dunque, con meri effetti interni, non esterni di fonte ai terzi. Di fonte ai terzi, la societas non costituisce una unità, un soggetto di diritti e obblighi autonomo: questo non avviene se non in via eccezionale: così per esempio per le societates publicanorum. In generale la societas non assurge a persona  giuridica». B. Biondi, Istituzioni di diritto romano, rist. 4 ed., Milano 1972, p. 507, si limita ad osservare che «La società romana ha netta impostazione individualistica ed importa esclusivamente rapporti interni tra soci, esulando qualsiasi elemento sociale, se non nell’ambito dei soci”. C. Sanfilippo, Istituzioni di diritto romano, 10 ed., curata e aggiornata da S. Corbino e A. Metro, Soveria Mannelli 2002, pp. 305 ss., nota: «La società romana non ha personalità giuridica; i diritti ed obblighi verso i terzi non sono dunque della società, ma dei singoli soci. Inoltre poiché il ius civile non ammette la rappresentanza diretta (nemo alteri sipulari potest) ne consegue che se un negozio nell’interesse della società non fu concluso con l’intervento di tutti i soci, ma da taluni o da uno soltanto di essi, i diritti ed obblighi che da tale negozio sorgono verso i terzi ricadono unicamente sulla persona dei soci o del socio che lo hanno stipulato». P. Voci, Istituzioni di diritto romano, sesta ed., Milano 2004, p. 456: «La società non è persona giuridica» coll’aggiunta però alla nt. 2: «Meno qualche figura che ha aspetti pubblicistici, come la societas publicanorum». E ancora, a p. 457: «La società non ha rilievo giuridico per i terzi».

 

[47] V. Arangio-Ruiz, La società in diritto romano cit., pp. 84 ss.

 

[48] F. Serrao, Sulla rilevanza esterna del rapporto di società in diritto romano cit., p. 67 nt. 1: «il concludere un secondo contratto di società con altri soggetti, o anche l’associarsi un estraneo nei profitti e perdite che il primo contratto di società comporta, non costituisce un’esplicazione dell’attività sociale, ma un atto compiuto dal socio esclusivamente per proprio conto e che, come tale, rimane al di fuori della sfera di interessi della prima società di cui il socio agente fa parte».

 

[49] D. 17,2,19 (Ulp. 30 ad Sab.): Qui admittitur socius, ei tantum socius est qui admisit, et recte: cum enim societas consensu contrahatur, socius mihi esse non potest quem ego socium esse nolui. Quid ergo si socius meus eum admisit? Ei soli socius est. Si veda per l’esame della dottrina R. Knütel, Die Haftung für Hilfspersonen im römischen Recht”, in Zeitschrift der Savigny-Stiftung für Rechtsgeschichte (Rom. Abt.), 100 (1983), pp. 423 ss.

 

[50] Come ad esempio si ipotizza in D. 17,2,67 (Paul. 32 ad ed.), su cui si veda V. Arangio-Ruiz, La società in diritto romano cit., pp. 85 ss.

 

[51] Cfr. V. Arangio-Ruiz, La società in diritto romano cit., p. 92, il quale rileva che «Come infatti i soci non intervenuti nel contratto di mutuo, o di vendita, o quel che sia, sono estranei al rapporto obbligatorio che si crea fra il socio agente e il mutuatario o compratore o simile, così essi restano estranei in confronto al nuovo contratto di società».

 

[52] Sul punto si veda per tutti, con specifico riferimento alla questione della rilevanza esterna della societas, M. Talamanca, “Società (Diritto romano)” cit., pp. 827 ss.

 

[53] Si vedano M. Bretone, “‘Consortium’ e ‘communio’”, in Labeo, 6 (1960), pp. 165 ss.; G. Grosso, Schemi giuridici e società nella storia del diritto privato romano. Dall’epoca arcaica alla giurisprudenza classica: diritti reali e obbligazioni, Torino 1970, p. 406; M. Talamanca, “Società (Diritto romano)” cit., 817.

 

[54] A. Guarino, La società in diritto romano, Napoli 1988, pp. 70 ss.

 

[55] Contro tale opinione si veda M. Talamanca, “Società (Diritto romano)” cit., p. 829 nt. 164, che osserva come «l’affermazione, presa alla lettera, è infondata».

 

[56] In passato la interpolazione era stata sostenuta sulla base di una non cesura fra l’andamento della prima parte (Iure societatis per socium aere alieno socius non obligatur), ritenuto classico, e della seconda parte del frammento (nisi in communem arcam pecuniae versae sunt ), che sarebbe stata invece aggiunta in età postclassica, e quindi, nello specifico, sulla base del rilievo che l’uso del plurale pecuniae non sarebbe stato possibile per un classico e che il riferimento alla arca communis avrebbe costituito una prova che si intendeva alludere ad una persona giuridica sia a base associativa sia a base propriamente societaria. La tesi della interpolazione del passo con riguardo all’uso del termine pecuniae si trova in particolare in F. Mancaleoni, “La in rem versio nel diritto giustinianeo”, in Il Filangieri, 24 (1899), p. 64; Id. “Contributo allo studio delle interpolazioni”, in Il Filangieri, 26 (1901), p. 89. Il sospetto di interpolazione del passo, sulla base della considerazione della espressione arca communis, è invece in V. Arangio-Ruiz, La società in diritto romano cit., p. 90, il quale parla espressamente di «una persona giuridica a carattere associativo, o di una società contrattuale avente personalità giuridica (come una societas publicanorum)». Per lo stato della dottrina meno recente sulla genuinità o meno del frammento si rinvia a M.R. Cimma, Ricerche sulle società di publicani cit., pp. 204 ss. e nt. 120, la quale sembra propendere con qualche dubbio per la interpolazione. I sospetti relativi al passo sono risolti definitivamente in senso negativo da F. Serrao, Sulla rilevanza esterna del rapporto di società in diritto romano cit., p. 71 nt. 5, con l’osservare, da un lato, che il termine pecunia, che al plurale ricorre in numerosi frammenti del Digesto, starebbe ad indicare il fatto che il denaro versato nella cassa comune dal socio contraente sarebbe potuto derivare da più mutui e non da una unica operazione, e, dall’altro, che la espressione arca communis non necessariamente dovrebbe essere ricondotta ad una persona giuridica, poiché anche i soci di una società contrattuale non avente personalità giuridica avrebbero potuto disporre di una cassa per la gestione della attività sociale. Oltre al Serrao, propendono per la genuinità del frammento: L. Maganzani, Pubblicani e debitori d’imposta. Ricerche sul titolo edittale De publicanis, Torino 2002, p. 251 ss. e nt. 109; P. Cerami, “Impresa e societas nei primi due secoli dell’impero” cit., pp. 108 ss.

 

[57] Sulla questione si veda F. Serrao, Sulla rilevanza esterna del rapporto di società in diritto romano cit., p. 70 ss. nt. 5, che la riconduce alla sua nota lettura circa il “carattere strettamente reale del mutuo”, dal quale dipende “l’obbligazione alla restituzione nei limiti in cui il mutuatario è divenuto proprietario della somma ricevuta a mutuo”, sui cui però si vedano le riserve critiche di M. Talamanca, “Società (Diritto romano)” cit., p. 833 nt. 206.

 

[58] P. Bonfante, Istituzioni di diritto romano, 10 ed., Torino 1951, p. 410 nt. 1.

 

[59] Si veda F. Serrao, Sulla rilevanza esterna del rapporto di società in diritto romano cit., pp. 70 ss. e nt. 5: «l’ipotesi prevista dal testo è che il danaro sia stato materialmente versato nella cassa sociale e limitatamente a tale ipotesi sarebbe ammesso, eccezionalmente, il sorgere dell’obbligazione alla restituzione a carico degli altri soci. L’a. de in rem verso riguardava invece qualsiasi caso in cui il ricavato da un negozio fosse stato impiegato nell’azienda del principale. Non v’è quindi identità di campo di applicazione fra l’a. de in rem verso e l’azione prevista dal nostro fr. 82. Anzi, a ben valutare il caso, ci si accorge di trovarsi di fronte ad un’ipotesi che non ha niente in comune coll’ a. de in rem verso». Sulla tesi del Serrao, con particolare riferimento alla sua nota lettura circa il “carattere strettamente reale del mutuo”, dal quale dipende “l’obbligazione alla restituzione nei limiti in cui il mutuatario è divenuto proprietario della somma ricevuta a mutuo”, si vedano però le riserve critiche di M. Talamanca, “Società (Diritto romano)” cit., p. 833 nt. 206.

 

[60] F. Serrao, Sulla rilevanza esterna del rapporto di società in diritto romano cit., p. 70 nt. 5, che nota come l’actio de in rem verso si riferiva, a differenza di quanto previsto nel passo papinianeo, a “qualsiasi caso in cui il ricavato da un negozio fosse stato impiegato nell’azienda del principale”.

 

[61] Come invece vorrebbe P. Cerami, “Impresa e societas nei primi due secoli dell’impero”, in http://www.unipa.it/dipstdir/pub/annali/2007-2008/Cerami2.pdf, p. 108.

 

[62] Si superano così le riserve espresse da V. Arangio-Ruiz, La società in diritto romano cit., pp. 84 ss., sulla possibilità di conciliare quanto previsto nel passo di Papiniano con  il principio emergente in D. 17,2,67 pr-1 (Paul. 32 ad. ed.) sopra richiamato.

 

[63] Si veda per questo orientamento V. Arangio-Ruiz, La società in diritto romano cit., p. 90, che è seguito da M. Talamanca, La “societas”. Corso di lezioni di Diritto Romano, anno accademico 1961-62, s.l., s.n., p. 189; Id., “Società (Diritto romano)” cit., p. 832, con una impostazione più sfumata, limitandosi qui tale autore a ricondurre l’arca communis alla societas vectigalium.

 

[64] Così, ad esempio, M. Talamanca, “Società (Diritto romano)” cit., p. 833, che, con riguardo alla societas vectigalium, vede nella rappresentanza «il terzo elemento caratteristico del corpus habere».

 

[65] Si vedano in questo senso F.M. De Robertis, Storia delle corporazioni e del regime associativo nel mondo romano, II, Bari s.d., pp. 386 ss.; P. Cerami, “Impresa e societas nei primi due secoli dell’impero” cit., pp. 109 ss.

 

[66] Così G. Lobrano, “La alternativa attuale tra i binomi istituzionali: persona giuridica e rappresentanza e società e articolazione dell’iter di formazione della volontà. Una ìpo-tesi (mendeleeviana)” cit.

 

[67] Così M. Talamanca, “Società (Diritto romano)” cit., p. 832.

 

[68] Sui problemi connessi alla legittimazione ad agire in riferimento ai pubblicani si veda per tutti L. Maganzani, Pubblicani e debitori d’imposta. Ricerche sul titolo edittale De publicanis cit., pp. 217 ss.

 

[69] D. 5,1,76 (Alf. 6 dig.): Proponebatur ex his iudicibus, qui in eandem rem dati essent, nonullos causa audita excusatos esse inque eorum locum alios esse sumptos, et quaerebatur, singulorum iudicum mutatio eandem rem an aliud iudicium fecisset. Respondi, non modo si unus aut alter, sed et si omnes iudices mutati essent, tamen et rem eandem et iudicium idem quod antea fuisset permanere: neque in hoc solum evenire, ut partibus commutatis eadem res esse existimaretur, sed et in multis ceteris rebus: nam et legionem eandem haberi, ex qua multi decessissent, quorum in locum alii subiecti essent: et populum eundem hoc tempore putari qui abhinc centum annis fuissent, cum ex illis nemo nunc viveret: itemque navem, si adeo saepe refecta esset, ut nulla tabula eadem permaneret quae non nova fuisset, nihilo minus eandem navem esse existimari. Quod si quis putaret partibus commutatis aliam rem fieri, fore ut ex eius ratione nos ipsi non idem essemus qui abhinc anno fuissemus, propterea quod, ut philosophi dicerent, ex quibus particulis minimis constiteremus, hae cottidie ex nostro corpore decederent aliaeque extrinsecus in earum locum accederent. Quapropter cuius rei species eadem consisteret, rem quoque eandem esse existimari.

 

[70] P. Cerami, “Impresa e societas nei primi due secoli dell’impero” cit., pp. 109 ss.

 

[71] Si veda A. Petrucci, in P. Cerami - A. Di Porto - A. Petrucci, Lezioni di diritto commerciale romano, Torino 2002, pp. 162 ss.

 

[72] Rhetorica ad Herennium, 2,13,19: Consuetudinis ius est id, quod sine lege aeque, ac si legitimum sit, usitatum est quod genus id quod argentario tuleris expensum, ab socio eius recte petere possis.

 

[73] D. 2,14,25 pr. (Paul. 3 ad ed.): Idem in duobus reis promittendi et duobus argentariis sociis.

 

[74] D. 2,14,27 pr. (Paul. 3 ad ed.): Si unus ex argentariis sociis cum debitore pactus sit, an etiam alteri noceat exceptio? Neratius Atilicinus Proculus, nec si in rem pactus sit, alteri nocere: tantum enim constitutum, ut solidum alter petere possit. Idem Labeo: nam nec novare alium posse, quamvis ei recte solvatur: sic enim et his, qui in nostra potestate sunt, recte solvi quod crediderint, licet novare non possint. Quod est verum. Idemque in duobus reis stipulandi dicendum est.

 

[75] D. 2,14,9 pr. (Paul. 62 ad ed.): Si plures sint qui eandem actionem habent, unius loco habentur. Ut puta plures sunt rei stipulandi vel plures argentarii, quorum nomina simul facta sunt: unius loco numerabuntur, quia unum debitum est. Et cum tutores pupilli creditoris plures convenissent, unius loco numerantur, quia unius pupilli nomine convenerant. Nec non et unus tutor plurium pupillorum nomine unum debitum praetendentium si convenerit, placuit unius loco esse. Nam difficile est, ut unus homo duorum vicem sustineat. Nam nec is, qui plures actiones habet, adversus eum, qui unam actionem habet, plurium personarum loco accipitur.

 

[76] Rileva M. Talamanca, “Società (Diritto romano)” cit., p. 830, che D. 4,8,34 pr. (Paul. 13 ad ed.) attiene ad entrambi i lati della solidarietà «con riguardo alla commissio poenae nel compromissum, in seguito alla sentenza di assoluzione a favore del cliente nei confronti di uno degli argentarii socii. In quest’ultimo caso, l’estensione è affermata sia dal lato passivo che da quello attivo, mentre per il pactum de non petendo è concessa a favore e non contro il banchiere».

 

[77] Cfr. M. Talamanca, “Società (Diritto romano)” cit., p. 830 nt. 178.

 

[78] D. 21,1,44,1 (Paul. 2 ad ed. aed. cur.): Proponitur actio ex hoc edicto in eum cuius maxima pars in venditione fuerit, quia plerumque venaliciarii ita societatem coeunt, ut quidquid agunt in commune videantur agere: aequum enim aedilibus visum est vel in unum ex his, cuius maior pars aut nulla parte minor esset, aedilicias actiones competere, ne cogeretur emptor cum multis litigare, quamvis actio ex empto cum singulis sit pro portione, qua socii fuerunt: nam id genus hominum ad lucrum potius vel turpiter faciendum pronius est.

 

[79] F. Serrao, Sulla rilevanza esterna del rapporto di società in diritto romano cit., pp. 748 ss.

 

[80] Cfr. M. Talamanca, “Società (Diritto romano)” cit., p. 830.

 

[81] Si veda però C. Sanfilippo, “Sulla irrilevanza del rapporto sociale nei confronti dei terzi”, in Iura, 2 (1951), pp. 159 ss.

 

[82] Cfr. M. Talamanca, “Società (Diritto romano)” cit., p. 829 nt. 168.

 

[83] Si veda A. Petrucci, in P. Cerami - A. Di Porto - A. Petrucci, Lezioni di diritto commerciale romano cit., p. 249.

 

[84] Si veda anche D. 14,3,13,2 (Ulp. 28 ad. ed.): Si duo pluresve tabernam exerceant et servum, quem ex disparibus partibus habebant, institorem praeposuerint, utrum pro dominicis partibus teneantur an pro aequalibus an pro portione mercis an vero in solidum, Iulianus quaerit. Et verius esse ait exemplo exercitorum et de peculio actionis in solidum unumquemque conveniri posse, et quidquid is praestiterit qui conventus est, societatis iudicio vel communi dividundo consequetur, quam sententiam et supra probavimus.

 

[85] Così P. Cerami, “Impresa e societas nei primi due secoli dell’impero” cit., p. 114.

 

[86] Sulla figura del manceps si veda M.R. Cimma, Ricerche sulle società di publicani cit., pp. 64 ss.

 

[87] E. Badian, Publicans and Sinners. Private Enterprise in the Service of the Roman Republic, Ithaca (New York) 1972, p. 72.

 

[88] Si veda M.R. Cimma, Ricerche sulle società di publicani cit., la quale cita Cic. Verr. 2,3,71,167: 2,2,71,173.

 

[89] Si veda per i rinvii alle fonti M. Talamanca, “Società (Diritto romano)” cit., pp. 832 ss.

 

[90] V. Arangio-Ruiz, La società in diritto romano cit., pp. 81 ss.