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Chessa comm Cossiga

Specialità e asimmetria nel sistema regionale italiano*

 

omar chessa

Università di Sassari

 

 

SOMMARIO: 1. Due idealtipi – 2. Il modello cooperativo – 3. Il modello asimmetrico – 4. I due idealtipi nel regionalismo italiano – 5. L’autonomia statutaria e legislativa – 6. La matrice comune alle diverse specialità finanziarie – 7. Ruolo e rendimento delle norme di attuazione degli statuti speciali – 8. La specialità finanziaria “forte” e “debole” – 9. Conclusione. – Abstract.

 

 

1. – Due idealtipi

 

I sistemi federali e regionali possono essere distinti e classificati secondo diversi criteri e modelli. In questa mia relazione, che ha per oggetto la specialità e l’asimmetria nel regionalismo italiano, vorrei occuparmi in particolare di due idealtipi tra loro speculari: il federalismo/regionalismo cooperativo, integrativo e simmetrico e quello asimmetrico, differenziato e competitivo. Il confronto tra questi due modelli, o idealtipi, può essere di una qualche utilità per inquadrare il tema affidatomi. Inizio dal modello più risalente, cioè da quello cooperativo, integrativo e simmetrico.

 

 

2. – Il modello cooperativo

 

Com’è noto, il federalismo cooperativo nasce negli Stati Uniti d’America sulle ceneri del vecchio federalismo duale[1]. La sua affermazione è legata allo sviluppo del welfare state impresso dal New Deal roosveltiano. Dai primi anni ’30 del secolo scorso l’interventismo crescente dei poteri federali in materia sociale ed economica, con la moltiplicazione dei compiti pubblici nelle politiche del lavoro, dei redditi, dell’istruzione, della previdenza, dell’assistenza sanitaria, ecc., trasforma profondamente il vecchio stato liberale in un administrative state. Il governo del welfare si centralizza e, attraverso lo strumento fiscale, persegue l’obiettivo di redistribuire la ricchezza in modo da garantire a tutti i cittadini un livello minimo di benessere e migliori opportunità di vita.

Il passaggio dallo stato liberale allo stato sociale non è privo di ripercussioni sulla struttura federale. Si espandono progressivamente le competenze federali e diventa recessiva l’idea, tipica del federalismo duale, di una rigida ripartizione di competenza tra federazione e stati membri. L’accentramento a livello federale è, però, compensato dal rafforzamento dei meccanismi e dei raccordi cooperativi tra centro e periferia: se cresce il potere degli organi federali, deve conseguentemente crescere l’influenza di ciascuna entità federata sui processi decisionali accentrati. Per un verso ciascuno stato membro subisce una contrazione delle sue competenze esclusive, dei suoi spazi di autodeterminazione singolare; per l’altro cresce – proporzionalmente – il suo potere di contribuire alla formazione della volontà federale, ossia all’autodeterminazione collettiva.

In sintesi, la logica di fondo del federalismo cooperativo consiste nel ridurre l’autonomia negativa di ciascuna entità federata a vantaggio di quella positiva: sicché si limitano le loro funzioni esclusive e si valorizzano, invece, quelle che si esercitano in forma integrata nelle sedi di codecisione federale[2]. Si riduce quindi il numero delle decisioni che ciascuna entità federata può assumere singolarmente e in modo differenziato e cresce, di contro, il numero di quelle che debbono prendersi di comune accordo. Il modello cooperativo è, dunque, integrativo in due sensi: perché è funzionale a un sistema di welfare che realizza la coesione, l’integrazione sociale; e perché si regge sulla forte integrazione istituzionale e decisionale dei livelli di governo.

Inoltre il modello cooperativo è anche simmetrico. L’intero prevale sulla parte ma tutte le singole parti concorrono a eguale titolo e con eguali poteri alle decisioni dell’intero. La federazione si relaziona allo stesso modo con ciascuna parte o entità federata: nel federalismo cooperativo il sistema delle relazioni interordinamentali è essenzialmente multilaterale e paritario – ferma restando la tendenziale preminenza dell’intero, ossia degli organi federali – e raramente di tipo bilaterale e asimmetrico, ossia in modo da privilegiare o differenziare alcuni stati membri nel rapporto col centro[3].

Infine, va detto che il modello federale cooperativo dello stato sociale è al servizio di una logica individualistica (ma forse sarebbe più corretto dire personalistica). Difatti, questa complessa architettura cooperativa, integrata e simmetrica si accompagna a un modello redistributivo centralizzato, per il quale rilevano le esigenze individuali di welfare e i cleavages sociali e non le differenze territoriali: i destinatari delle prestazioni assistenziali e i beneficiari degli interventi redistributivi sono i singoli individui o famiglie o gruppi sociali svantaggiati – quale che sia la loro collocazione geografica nel territorio della federazione – e non le comunità territoriali. Tutti i poveri hanno gli stessi diritti e tutti i ricchi hanno gli stessi doveri, senza che assuma rilievo la loro appartenenza a comunità territoriali floride o depresse[4].

 

 

3. – Il modello asimmetrico

 

Finora ho illustrato le caratteristiche del federalismo cooperativo guardando soprattutto all’esperienza statunitense. Ma non c’è alcun dubbio che pure il sistema tedesco sia stato – perlomeno fino a qualche tempo fa – un esempio perfetto, quasi paradigmatico, di assetto federale cooperativo, integrato e simmetrico.

Sennonché dagli anni ’90 il modello cooperativo germanico è divenuto oggetto di contestazione. Furono tre, in particolare, i fattori di crisi: a) la paralisi decisionale determinata dai veti incrociati: uno sbocco probabile in un sistema di competenze integrate, intrecciate, il cui esercizio avviene nelle sedi di codecisione[5]; b) l’appannamento del principio di responsabilità politica, visto l’intreccio complesso delle competenze dei diversi livelli di governo e la conseguente difficoltà di distinguere con precisione le responsabilità di ciascuno nell’attuazione o inattuazione delle politiche pubbliche; c) le rivendicazioni avanzate dai Laender più sviluppati economicamente, anche per reazioni ai due fattori di crisi precedentemente indicati.

Alla luce di queste motivazioni nel 1994 e nel 2006 furono introdotti degli elementi di federalismo asimmetrico e competitivo[6]. Ma cosa s’intende con questa formula?

Per certi versi il federalismo asimmetrico/competitivo esprime un movimento inverso rispetto a quello cooperativo, simmetrico e integrativo. Il suo principio animatore è la pretesa delle comunità territoriali di “poter fare da sole”, attraverso la rivendicazione di spazi crescenti di autodeterminazione singolare, ossia di più ampie e numerose competenze esclusive. Ora, è evidente che se crescono le competenze esclusive, si riduce inevitabilmente l’incidenza di quelle integrate, esercitabili nelle sedi di co-decisione federale. Prevale dunque la spinta a valorizzare l’autonomia negativa su quella positiva, con un trade-off rovesciato rispetto a quello che caratterizza il modello cooperativo.

Tutto ciò non può essere privo di conseguenze riguardo all’organizzazione dello stato sociale. Per effetto di un rafforzamento progressivo dell’asimmetria competenziale, è nella logica delle cose che il livello federale sia costretto a dismettere alcuni settori del governo centralizzato del welfare, con la riallocazione dei relativi compiti a livello locale, secondo una logica di differenziazione territoriale dei servizi sociali e delle prestazioni assistenziali. In un quadro siffatto la federazione conserverebbe solo il compito di assicurare il rispetto dei «livelli essenziali» delle prestazioni di welfare[7] e dalla garanzia federale delle condizioni «uniformi» di vita si passerebbe alla, sicuramente meno intensa, garanzia di condizioni «equivalenti»[8].

La clausola dei «livelli essenziali» è, dunque, un istituto del federalismo asimmetrico-competitivo e non di quello cooperativo-welfaristico, nonostante possa sembrare il contrario. Finora non si è riflettuto abbastanza su quanto sia problematico il nesso tra la formula costituzionale dei «livelli essenziali» e il principio di eguaglianza di cui all’art. 3, comma 2, della Costituzione. L’eguaglianza sostanziale esprime una direzione obbligata: la rimozione degli ostacoli di ordine economico-sociale che impediscono il pieno sviluppo della persona e la partecipazione effettiva all’organizzazione politica, economica e sociale del Paese. Questo «pieno sviluppo» e «partecipazione effettiva» esigono l’avanzamento progressivo delle dinamiche redistributive e non sono istanze che possono essere soddisfatte dalla sola garanzia dei livelli essenziali delle prestazioni. I «livelli essenziali» non esprimono una direzione obbligata: se c’è infatti una competenza nazionale sui livelli essenziali, la regione è competente circa la scelta se tenere inalterato il livello previsto dallo Stato o se innalzarlo.

Insomma, nella logica del modello asimmetrico la garanzia federale, centralizzata, dei diritti sociali deve mantenersi a un livello minimo, onde lasciare ai poteri locali la discrezionalità di determinarne livelli ulteriori: se è vero che la concezione “espansiva” dello stato sociale esige l’espansione dei poteri federali e l’accentramento dei poteri d’intervento pubblico (seppure nel quadro di modalità integrate d’esercizio), allora è inevitabile che la contrazione dei poteri centralizzati – a vantaggio di una maggiore differenziazione delle competenze locali – s’accompagni con una concezione minimale del welfare federale.

Ovviamente nel modello asimmetrico e competitivo non scompaiano le istanze costituzionali della solidarietà economica e sociale. Tuttavia perde forza propulsiva il modello redistributivo centralizzato secondo cui i portatori di bisogni sarebbero gli individui e i gruppi sociali: a questo modello si sostituisce gradualmente il metodo della perequazione territoriale delle risorse finanziarie, secondo cui i destinatari diretti dell’intervento solidaristico-redistributivo non sarebbero più gli individui e i gruppi sociali svantaggiati – quale che sia la loro appartenenza territoriale – ma le comunità territoriali con minore capacità fiscale. Soggetti di diritti e di doveri non sono più gli individui ma i territori.

Non è un caso che la spinta verso il federalismo (o regionalismo) asimmetrico provenga dalle comunità territoriali più forti economicamente, alle quali conviene adottare il nuovo modello della perequazione territoriale anziché quello redistributivo tradizionale, non fosse altro perché cresce la quota del reddito che viene trattenuto in loco anziché messo a disposizione della redistribuzione centralizzata[9].

Infine, va detto che la perdita della simmetria nell’assetto delle competenze – perché qualcuno acquista più competenze di altri – muta altresì il rapporto tra centro e periferia, tra l’intero e le sue parti costitutive: alcune parti, alcuni lembi di periferia, pretendono di relazionarsi direttamente col centro, con l’intero, in forma singolare e non più collettiva; ossia – forti del peso economico-finanziario e dell’influenza politica acquisita – non si confrontano più col centro nelle sedi comuni e multilaterali di raccordo e codecisione, ma preferiscono curare i loro interessi attraverso una negoziazione bilaterale con il governo centrale.

 

 

4. – I due idealtipi nel regionalismo italiano

 

Come già si è detto, i due modelli descritti sono degli idealtipi. Nelle esperienze costituzionali effettivamente esistenti ritroviamo sempre, in misura più o meno significativa, una commistione di entrambi. Ad esempio, il sistema federale tedesco è ancora essenzialmente di tipo cooperativo, sebbene le riforme del 1994 e del 2006 abbiano iniettato dosi sensibili di federalismo asimmetrico e competitivo, con un trade-off tra cooperazione e competizione.

Anche il regionalismo italiano realizza una peculiare commistione di entrambi i tipi. La costituzionalizzazione del principio di leale collaborazione, gli strumenti di raccordo cooperativo che si compendiano nel sistema delle conferenze, la tendenza a leggere in modo flessibile e integrato i riparti competenziali, sono indubbiamente elementi che richiamano il modello cooperativo. Invece sono da ricondurre all’altro modello la possibilità per le Regioni di ottenere una differenziazione delle competenze legislative, secondo quanto previsto dall’art. 116, comma 3, Cost.[10], e le linee guida del processo attuativo del federalismo fiscale contenute nella legge n. 42 del 2009 e nei relativi decreti[11].

Anche l’esperienza delle cinque regioni speciali costituisce inveramento del modello asimmetrico-competitivo? La risposta è complessa e conviene avvicinarvisi per gradi. Prenderò in esame tre profili differenti: l’autonomia statutaria, l’autonomia legislativa e, infine, l’autonomia finanziaria.

 

 

5. – L’autonomia statutaria e legislativa

 

Inizio con l’autonomia statutaria. È ovviamente opportuno distinguere i due versanti dello statuto propriamente detto e della legge statutaria.

Per quanto riguarda il primo versante, a prima vista parrebbe scontato richiamare il modello asimmetrico, almeno per due ragioni. In primo luogo perché la forma costituzionale dello statuto differenzia la regione speciale da quella ordinaria, creando una forma di asimmetria tra le due tipologie di regione. In secondo luogo perché lo statuto speciale è una legge costituzionale sui generis, atipica, con ciò confermando e approfondendo la peculiarità delle esperienze regionali speciali, anche nel quadro della sistematica generale delle fonti (costituzionali)[12].

Tuttavia, nonostante questi elementi d’indubbia asimmetria, è difficile sostenere che in questo caso ci troviamo dinanzi a un inveramento genuino del modello asimmetrico-competitivo (inteso nel senso ricostruito nelle pagine precedenti). La legge costituzionale atipica che modifica lo statuto speciale è pur sempre un atto di competenza del Parlamento nazionale e non degli organi regionali. Certo, è vero che la formazione della legge di revisione statutaria è arricchita da un onere sconosciuto alla legge costituzionale tipica: la richiesta del parere del Consiglio della regione interessata. Ed è anche vero che il corpo elettorale nazionale non può, tramite referendum, mettere in discussione la modifica statutaria approvata con la partecipazione consultiva regionale. Sennonché si tratta di una fase partecipativa molto “debole”, che non intacca in modo sostanziale il potere decisionale del Parlamento (e che peraltro non compensa la perdita della fase referendaria). Sicché la forma costituzionale dello statuto speciale non solo non è espressione di maggiore autonomia (negativa o positiva) rispetto a quanto goduto dalle regioni ordinarie, ma non è neppure espressione di autonomia tout court. Non è, infatti, un atto di autonomia.

Per quanto riguarda il versante della legge statutaria, la conclusione non è diversa: la potestà di adottarne una è sicuramente una forma di minore autonomia rispetto alla potestà statutaria riconosciuta alle regioni ordinarie. Per avvedersene, basta raffrontare gli elenchi degli oggetti ricadenti nella competenza dell’una e dell’altra: diversamente dagli statuti ordinari, infatti, le leggi statutarie di regione speciale non sono competenti in materia di «principi di organizzazione e funzionamento», con quel che ne consegue circa la possibilità per la regione speciale di disciplinare il proprio procedimento legislativo[13].

Vengo all’autonomia legislativa. Sotto questo profilo, se guardiamo alla prassi avallata dalla giurisprudenza costituzionale, non esiste una vera differenziazione tra regioni ordinarie e speciali. Nel tempo abbiamo assistito a uno smussamento progressivo delle differenze tra le competenze legislative delle due tipologie di regione: quello che lo Stato può fare nei confronti delle funzioni legislative delle regioni ordinarie lo può fare anche nei confronti delle funzioni legislative delle regioni speciali, sicché il sistema complessivo dei limiti statali alle competenze regionali è sostanzialmente il medesimo per le regioni ordinarie e speciali[14].

E dunque, quale bilancio se ne deve trarre? Che l’esperienza delle regioni speciali ha poco o nulla a che vedere col modello asimmetrico-competitivo, perché o l’asimmetria a conti fatti non c’è oppure se c’è non è certo strumentale alla costruzione di un’autonomia più competitiva?

 

 

6. – La matrice comune alle diverse specialità finanziarie

 

La risposta affermativa alla domanda che chiude il paragrafo precedente sarebbe una conclusione affrettata. Bisogna, infatti, focalizzare l’attenzione su un altro aspetto: ora l’essenza della specialità è soprattutto la differenziazione del regime finanziario. Per come si è evoluta l’esperienza delle regioni speciali, il proprium della specialità, il suo attuale significato, riguarda ormai soprattutto il versante delle relazioni finanziarie con lo Stato. È, dunque, una specialità finanziaria, prima ancora che una specialità del riparto delle competenze legislative e amministrative.

 

Ciò premesso, occorre chiedersi se la specialità finanziaria sia una categoria omogenea oppure se, per via della grande varietà delle soluzioni e degli istituti adottati nelle discipline statutarie, le diverse esperienze regionali speciali siano irriducibili a un modello unitario che funga da comune denominatore. Recentemente c’è chi ha correttamente sostenuto che esiste, sul punto, una «matrice comune» alle diverse esperienze speciali, riassumibile nei seguenti elementi[15]:

a) a parte i tributi propri, variamente identificati e identificabili, le entrate regionali dipendono soprattutto dalla «devoluzione dei gettiti locali delle imposte statali», cioè da compartecipazioni al gettito erariale riferibile al territorio;

b) il livello di questa devoluzione o compartecipazione è direttamente proporzionale al livello della spesa affidata alla regione speciale, cioè «è tanto più significativa, sia in termini di quota del gettito che di tributi interessati, quanto maggiori sono le competenze di spesa»;

c) in base agli statuti «non sono previste forme di perequazione se non per colmare deficit infrastrutturali» (ma ciò solo limitatamente a favore di talune regioni speciali: mi riferisco al Fondo di solidarietà per la Sicilia ex art. 38 Stat. Siciliano, al Piano di Rinascita per la Sardegna ex art. 13 Stat. Sardo);

d) e specularmente, «non è prevista la partecipazione delle autonomie speciali a forme di solidarietà nazionale, se non attraverso la parte non devoluta dei tributi erariali localmente riscossi»[16].

A questo elenco aggiungerei, infine, quest’ultimo punto: e) la manutenzione, l’aggiornamento, la correzione dell’assetto finanziario della regione speciale si realizzano attraverso il metodo della negoziazione bilaterale con lo Stato, e quindi per mezzo di quelle peculiari fonti chiamate «norme di attuazione degli statuti speciali» (su cui ritornerò tra breve).

Come si vede, la logica sottesa alla specialità finanziaria non è certo quella del modello cooperativo (integrativo e simmetrico): ci troviamo, infatti, di fronte a un’applicazione particolarmente intensa del modello asimmetrico-competitivo, il cui principio animatore è – come si è detto – la pretesa delle comunità territoriali di “poter fare da sole” attraverso la rivendicazione di maggiori spazi di autodeterminazione esclusiva. In particolare, in questo caso ci troviamo di fronte a un “principio di territorialità”, così formulabile: il gettito fiscale prodotto da un territorio, da una comunità territoriale, deve tendenzialmente rimanere e, quindi, essere speso nel territorio di provenienza.

È evidente che questo principio istituisce «un rapporto stretto tra risorse regionali ed economia locale», determinando «una forma di estrema responsabilizzazione dell’ente rispetto ai propri destini finanziari»[17]. In coerenza con questa logica “territoriale” non c’è, conseguentemente, una partecipazione a meccanismi di solidarietà nei confronti del resto del Paese: «se l’economia locale si sviluppa, il “dividendo fiscale” va a vantaggio della comunità locale; se l’economia peggiora, è la stessa comunità a sopportare in via esclusiva le conseguenze»[18].

 

 

7. – Ruolo e rendimento delle norme di attuazione degli statuti speciali

 

Tuttavia all’interno di questa matrice comune della specialità finanziaria, espressiva di una logica omogenea, si possono registrare oscillazioni e differenziazioni anche molto pronunciate.

I fattori che ne sono all’origine sono diversi, ma un ruolo preponderante va sicuramente riconosciuto alle norme di attuazione degli statuti speciali. Si tratta di una tipologia di fonti che evidentemente rappresenta un inveramento del modello asimmetrico, poiché evoca la concezione della specialità come “rapporto singolare con lo Stato”, come relazione bilaterale col Governo nazionale.

Ebbene, finora le norme di attuazione sono state adoperate soprattutto per dosare il livello delle devoluzioni, delle compartecipazioni ai gettiti erariali riferibili al territorio e, contestualmente, per trasferire competenze di spesa: per loro tramite si è realizzato un costante scambio tra innalzamento delle compartecipazioni (o interpretazione/applicazione estensiva dei criteri di compartecipazione) e oneri aggiuntivi legati alla regionalizzazione di funzioni originariamente statali.

Tuttavia il rendimento di questo strumento non è uguale per tutte le regioni speciali. Guardiamo i dati. Finora sono stati emanati circa 500 decreti di attuazione degli statuti speciali; oltre un terzo negli ultimi quindici anni. Il dato eloquente è la loro distribuzione regione per regione. Sono così ripartiti: Trentino-Alto Adige 38, Valle d’Aosta 16 (dato aggiornato al 2010), Friuli-Venezia Giulia 15 (dato aggiornato al 2010), Sicilia 7 (al 2010), Sardegna 6 (al 2010). Lo scarto tra le regioni speciali settentrionali e quelle insulari, con la Sardegna come fanalino di coda, non potrebbe essere più evidente.

Ciò dimostra, inoltre, che non è vero – come spesso si afferma – che le norme di attuazione siano di per sé un ostacolo allo sviluppo autonomistico[19]. Invero, possono essere indifferentemente una risorsa ovvero un freno al potenziamento delle prerogative regionali speciali, secondo la capacità delle classi dirigenti locali di interloquire in modo fruttuoso col Governo. L’esito delle relazioni bilaterali tra la singola regione speciale e l’esecutivo nazionale dipende fortemente dalla capacità di ciascuna Regione di individuare e rappresentare con efficacia le proprie esigenze, e dal “potere contrattuale” di ognuna di esse[20].

Tuttavia – come evidenziato anche dal dato quantitativo di cui sopra – il bilancio è decisamente negativo per le specialità insulari. C’è come una sorta di marginalità insulare rispetto al movimento regionale complessivo, con gravi ritardi istituzionali e culturali. Ciò è emerso soprattutto in occasione dei grandi trasferimenti di funzioni operati dallo Stato a favore delle autonomie territoriali. In tali circostanze anche la Sicilia e la Sardegna, come del resto le altre speciali, si sono trovate a dover “inseguire” le regioni ordinarie. Ma l’adeguamento del corredo di funzioni a quello posseduto dalle regioni ordinarie, almeno nel caso dei trasferimenti di funzioni del 1972 e del 1977, non è stato per nulla solerte, né efficiente.

Insomma, è senz’altro possibile affermare che, lo strumento delle norme di attuazione non sia riuscito a potenziare l’autonomia speciale insulare come forse ci si sarebbe potuti aspettare. Non ha certo rappresentato quella corsia preferenziale che invece è stato in altre esperienze. Anzi, per più di un verso, e in molteplici occasioni, ha rappresentato un ostacolo allo sviluppo dell’autonomia regionale.

 

 

8. – La specialità finanziaria “forte” e “debole”

 

Grazie agli sviluppi illustrati le regioni speciali del Settentrione hanno realizzato una specialità finanziaria “forte”; una specialità, quindi, che è un’applicazione particolarmente intensa del “principio di territorialità”. La comunità territoriale trattiene la quasi totalità del proprio gettito, facendosi carico in cambio della quasi totalità delle funzioni pubbliche potenzialmente esercitabili sul territorio, finanche di quelle originariamente e tradizionalmente spettanti allo Stato; realizza, quindi una condizione di autosufficienza finanziaria e tendenzialmente potrebbe sopportare l’intero onere della spesa pubblica; l’esempio più eloquente sono le funzioni e le spese in materia di istruzione, finanza locale e previdenza (oltre, ovviamente, alla sanità). E ciò è stato possibile non solo per il particolare attivismo delle loro classi dirigenti, ma anche e soprattutto perché sono comunità territoriali con un’elevata capacità fiscale per abitante. Insomma, sono territori competitivi e, coerentemente, pretendono forme particolarmente accentuate di federalismo differenziato e asimmetrico.

Per quanto riguarda invece le regioni speciali insulari (Sicilia e Sardegna), non si può certo dire che abbiano inverato un modello “forte” di specialità finanziaria: le norme di attuazione sono state scarse e quelle poche non hanno certo realizzato quello scambio di cui parlavo prima, tra innalzamento delle devoluzioni finanziarie e assunzione di funzioni aggiuntive con relativi oneri di spesa.

Ciò detto, è evidente che le regioni speciali del Settentrione hanno sicuramente interesse a mantenere una condizione di specialità finanziaria “forte”. Non c’è alcun dubbio che, in ossequio a questa logica di territorializzazione dell’assetto finanziario, alle regioni speciali del Settentrione conviene conservare il loro attuale regime, perché con le risorse fiscali generate dalle rispettive comunità territoriali riuscirebbero non solo a finanziare abbondantemente le funzioni che attualmente esercitano (insieme ai loro enti locali), ma riuscirebbero altresì a coprire il finanziamento di ulteriori funzioni che lo Stato dovesse trasferire loro[21]. Non per caso la linea politico-istituzionale delle suddette regioni è, sul punto, ferma e senza tentennamenti: sanno perfettamente qual è il loro interesse e coerentemente mirano a perseguirlo; un interesse che, peraltro, non appare mutevole nel tempo.

Qual è invece l’interesse delle specialità insulari? Non è del tutto corretto sostenere che avrebbero interesse a rivendicare una specialità finanziaria “forte” e seguire, così, la stessa linea delle regioni speciali prima ricordate. Non bisogna dimenticare che la capacità fiscale insulare non è la stessa delle regioni speciali settentrionali.

Si prenda ad esempio il caso della Sardegna. Questa si trova in una condizione complessa, perché ha un interesse di breve periodo che diverge da quello di lungo periodo. Vive, perciò, una sorta di condizione dissociata, schizofrenica.

Nel breve periodo sicuramente avrebbe interesse a dare finalmente realizzazione all’art. 8 dello Statuto speciale e portare a casa le risorse aggiuntive che questo riconosce: rebus sic stantibus basterebbero per coprire degnamente il costo delle funzioni esercitate dalle amministrazioni sarde[22].

Inoltre, sempre rimanendo dentro la logica dell’art. 8 (indubbiamente espressiva di una specialità finanziaria “forte”), la Sardegna in prospettiva potrebbe richiedere allo Stato l’attribuzione di ulteriori competenze di spesa (ad esempio in materia di finanziamento degli enti locali o del sistema universitario): ovviamente, per coprire il costo di queste competenze ulteriori si dovrebbe pretendere contestualmente una corrispondente quota aggiuntiva di compartecipazioni ai tributi erariali. Quindi man mano che si acquistassero nuove funzioni, col relativo accollo di nuove spese, si acquisterebbero pure le risorse per farvi fronte, e tutto ciò sempre secondo la logica dell’art. 8 dello Statuto speciale e sempre secondo la logica del principio di territorialità (cioè, repetita iuvant, secondo la logica della specialità finanziaria forte).

Questo nel breve e, forse, medio periodo. E nel lungo? Nel lungo periodo, una volta ottenuta, in ipotesi, l’attribuzione dei 10/10 del gettito fiscale prodotto in Sardegna, se si volesse il trasferimento di nuove funzioni e quindi di nuove competenze di spesa, aggiuntive rispetto a quelle preesistenti, sarebbe inutile e controproducente appellarsi al principio di territorialità e di specialità finanziaria forte: giunti a questo punto la Sardegna avrebbe bisogno, infatti, di perequazione, ossia di trasferimenti finanziari a titolo di solidarietà. E va da sé che, data la ridotta capacità fiscale sarda, ben presto i 10/10 sarebbero insufficienti per coprire la spesa connessa all’eventuale trasferimento di nuove funzioni.

In sintesi, se nel breve periodo forse può essere conveniente improntare al principio di territorialità (e di specialità finanziaria forte e differenziata) il regime dei rapporti finanziari con lo Stato, nel medio e lungo periodo forse converrà rivendicare la perequazione. E l’abilità politica consisterà nel capire in quale momento conviene dismettere la prima strategia per abbracciare la seconda.

 

 

9. – Conclusione

 

Mentre l’esperienza delle regioni speciali del nord-Italia s’inserisce perfettamente nella tassonomia generale proposta all’inizio di questo saggio, poiché rappresenta un esempio perfetto di regionalismo/federalismo asimmetrico e competitivo, nel caso della Sardegna e della Sicilia la valutazione deve essere significativamente diversa: dal quadro generale tratteggiato risulta, infatti, che le specialità insulari rappresentano una vera e propria anomalia rispetto ai fenomeni cui solitamente è associato il regionalismo/federalismo differenziato o asimmetrico[23].

In definitiva, la specialità è un modello asimmetrico-competitivo solo per tre regioni speciali su cinque. Quelle insulari hanno finora conosciuto poca asimmetria e nessuna capacità competitiva. Si conferma, perciò, una verità sempiterna dell’indagine comparata: il federalismo/regionalismo differenziato (asimmetrico e competitivo) è un lusso per comunità territoriali forti.

 

 

Abstract

 

In the contemporary constitutional experiences there are two general models of federal system: the first is cooperative, inclusive and symmetrical, whereas the second is a-symmetrical and competitive. Moving from the perspective opened by this big dichotomy, what can we say about the experience of regional “specialty” that characterizes the italian constitutional order? Is it totally true that it belongs to the second one or, perhaps, a different answer is nearer the truth?

In this essay I will offer a general theoretical explanation of regional specialty in Italy and I will show which features of italian special regions are related to competitive and asymmetrical federal systems and which features, on the contrary, are connected to a different institutional logic.

 



 

[Per la pubblicazione degli articoli della sezione “Contributi” si è applicato, in maniera rigorosa, il procedimento di peer review. Ogni articolo è stato valutato positivamente da due referees, che hanno operato con il sistema del double-blind].

 

* Relazione presentata al Convegno CNR "Il regionalismo italiano dall'Unità alla Costituzione e la sua riforma". Il convegno, promosso dall’ISSIRFA-Istituto di studi sui sistemi regionali federali e sulle autonomie “M.S. Giannini”, tenutosi a Roma il 20-21-22 ottobre del 2011 nell’ambito delle celebrazioni del 150° dell’Unità d’Italia (atti in corso di pubblicazione).

 

[1] Il processo trasformativo che dal federalismo duale ha condotto a quello cooperativo è illustrato a fondo da G. Bognetti, Federalismo, in Dig. disc. pubbl., VI, 1191, 282 ss., e G. De Vergottini, Stato federale, in Enc. dir., XLIII, 1998, 849 ss.

 

[2] Qui uso la distinzione tra autonomia negativa e positiva in analogia con quella tra libertà negativa e positiva: mentre la prima accezione di autonomia indica uno spazio in cui possiamo autodeterminarci liberamente, protetti da intromissioni esterne, la seconda indica invece la partecipazione a quei processi decisionali che si svolgono al di fuori della nostra sfera esclusiva di disponibilità e che pur tuttavia si ripercuotono su e dentro questa.

 

[3] Del resto, come ricorda A. Anzon Demmig, Quale regionalismo differenziato?, in Le istituzioni del federalismo, I, 2008, 51, «l’uniformità di regime competenziale è tipica degli stati federali più tradizionali, di origine autenticamente pattizia, nei quali l’eguaglianza di posizione degli Stati membri nel nuovo ordinamento è il riflesso della pregressa sovranità e dunque parità dei protagonisti del patto».

 

[4] Giustamente P. Carrozza, Riforme istituzionali e sistemi di welfare, in M. Campedelli, P. Carrozza, L. Pepino (cur.), Diritto di welfare. Manuale di cittadinanza e istituzioni sociali, Il Mulino, Bologna, 2010, 236, osserva che «astrattamente, la più razionale forma di redistribuzione si ottiene mediante la costruzione di un sistema fiscale fortemente centralizzato, che consenta, sulla base di politiche redistributive di servizi di tipo universalistico finanziate dalla risorsa centralizzata ed organizzate dal centro, di operare una redistribuzione puramente individuale, basata sui bisogni individuali, che escluda qualsiasi forma di differenziazione territoriale in nome della più assoluta eguaglianza redistributiva».

 

[5] Gli strali polemici sono soprattutto rivolti contro l’uso costante che il Bundesrat avrebbe fatto del suo potere di veto nel procedimento legislativo federale: circostanza che avrebbe mutato il Consiglio federale in un organo di rappresentanza politica e non più di rappresentanza territoriale (come osserva F. Palermo, Recenti sviluppi del federalismo tedesco, tra continuità e innovazione, in A. Benazzo (cur.), Federalismi a confronto. Dalle esperienze straniere al caso veneto, Cedam, Padova, 2010, 74). In realtà, non è chiaro dove passi la linea di confine tra ciò che caratterizza un organo di rappresentanza politica e ciò che, invece, dovrebbe caratterizzare un organo di rappresentanza territoriale (per una ricostruzione del relativo dibattito, vedi I. Ruggiu, Contro la camera delle regioni. Istituzioni e prassi della rappresentanza territoriale, Jovene Editore, Napoli, 2006, 83 ss.). Se la garanzia del divieto di mandato imperativo è un indice di cui dobbiamo tenere conto, allora è sicuramente affrettato sostenere che il Bundesrat sia divenuto un organo di rappresentanza politica nello stesso modo in cui lo è il Bundestag. Se invece si considerano il comportamento e le decisioni assunte dai membri del Bundesrat, può sostenersi che essi operano come organi di rappresentanza politica, anziché territoriale, quando non operano avendo di mira l’interesse del Land di provenienza e perseguono, invece, l’obiettivo di osteggiare la maggioranza politica del Bundestag in ragione della diversa appartenenza partitica? Credo di no, perché non abbiamo strumenti precisi per dire, di ciascuna decisione, che sia motivata più dal proposito di osteggiare il partito nazionale maggioritario che non da quello di curare un interesse territoriale. Peraltro questo presupporrebbe la distinzione tra questioni “territoriali” – le sole che dovrebbero guidare le scelte di un Bundesrat che volesse attenersi fedelmente al proprio ruolo – e questioni di rilievo nazionale, riservate alle deliberazioni partitiche nazionali di competenza del Bundestag. Sennonché si tratterebbe di una distinzione che cozza con l’ispirazione autentica di qualsiasi sistema federale, che è precisamente quella di non disgiungere le due questioni e d’integrare – per l’appunto – le entità federate nel processo formativo della volontà politica generale o nazionale. Non bisogna dimenticare che «i membri del Bundesrat sono al tempo stesso le figure chiave della classe politica nazionale sia come membri dei partiti sia come capi o membri del governi dei Laender» (come evidenziato da L. Violini, Bundesrat e Camera delle Regioni, Giuffrè Editore, Milano, 1989, 57). Poiché il Bundesrat partecipa delle più importanti funzioni costituzionali federali (da quella legislativa, a quella amministrativa, da quella di revisione costituzionale a quella di garanzia, ecc.), è inevitabile che esso proietti sulla scena politica federale le classi dirigenti locali, sostanzialmente annullando la differenza con quelle nazionali. E tuttavia, oltre ad essere un personaggio politico di rilievo nazionale, il membro del Bundesrat è pur sempre il responsabile primo della politica locale ed è quindi politicamente impensabile che le esigenze di governo della sua amministrazione di provenienza siano sistematicamente posposte rispetto a qualsiasi altra considerazione.

 

[6] Non è necessario in questa sede illustrare nei dettagli il contenuto di queste riforme. Sul punto rinvio a J. Woelk, Quant’è difficile pensare l’asimmetria: solo deroghe allo stato federale tedesco, in A. Mastromarino, J.M. Castellà Andreu (cur.), Esperienze di regionalismo differenziato. Il caso italiano e quello spagnolo a confronto, Giuffrè Editore, Milano, 2009, 283 ss.

 

[7] È evidente il richiamo – credo – all’art. 117, comma 2, lett. m, della nostra Costituzione.

 

[8] Come previsto dalla riforma dell’art. 72, comma 2, GG, adottata nel 1994 quale primo passo verso il federalismo asimmetrico.

 

[9] Da questo punto di vista la vicenda tedesca ha carattere esemplare. J. Woelk, Quant’è difficile pensare l’asimmetria: solo deroghe allo stato federale tedesco, cit., 294, osserva come la richiesta di maggiore asimmetria competenziale e competizione fosse «legata alla pretesa dei Länder con maggiore capacità di entrate fiscali di poter usufruirne direttamente, senza essere costretti a condividere le entrate maggiori con gli altri Länder». Sicché «non meravigliavano le forti resistenze da parte dei Länder orientali e più poveri».

 

[10] Disposizione nella quale S. Mangiameli, Le Regioni e l’organizzazione della giustizia di pace, in Forum costituzionale, 25 maggio, 2004, scorge, per l’appunto, una «clausola di simmetria». Anche M. Cecchetti, Le fonti della “differenziazione regionale” ed i loro limiti a presidio dell’unità e indivisibilità della repubblica, in S. Pajno, G. Verde (cur.), Studi sulle fonti del diritto. Le fonti delle autonomie territoriali, vol. II, Milano, 2010, 69 ss., spec. 73, legge nella disposizione costituzionale citata un esempio di «regionalismo asimmetrico», formula che «indica propriamente una differenza tra le Regioni concernente il grado e/o la misura delle loro sfere di autonomia, dunque – in definitiva e principalmente – una differenziazione in astratto delle “forme e condizioni” dell’autonomia regionale, ossia del complessivo patrimonio di competenze e di poteri esercitabili dall’ente Regione nel sistema degli enti della Repubblica». Tale «principio di differenziazione», però, andrebbe ben oltre i confini dell’art. 116, ponendosi come «sviluppo logico e coerente dei principi di cui all’art. 5 Cost. su cui è fondata la nostra forma di stato». Tale tesi è inoltre ripresa e sviluppata da A. Poggi, Esiste nel Titolo V un “principio di differenziazione” oltre la “clausola di differenziazione” del 116 comma 3?, in A. Mastromarino, J.M. Castellà Andreu (cur.), Esperienze di regionalismo differenziato, cit., 27 ss.

 

[11] Faccio riferimento, ovviamente, al modo in cui – in queste discipline – si combinano il principio di territorialità e quello di perequazione.

 

[12] Ricordo, infatti, che – diversamente da quanto previsto dall’art. 138 Cost. per le leggi costituzionali tipiche – il procedimento di revisione degli statuti speciali, da un lato, esclude la fase eventuale del referendum nazionale confermativo e, dall’altro, contempla la fase aggiuntiva della consultazione della regione speciale interessata. Sui complessi problemi d’inquadramento dell’esperienza regionale speciale nella sistematica delle fonti costituzionali mi sia consentito rinviare a O. Chessa, La specialità regionale tra leggi di revisione della Costituzione e altre leggi costituzionali, in Le Regioni, 2009, 297 ss., e ripubblicato pure in S. Pajno, G. Verde (cur.), Studi sulle fonti del diritto. Le fonti delle autonomie territoriali, cit., 97 ss.

 

[13] La Corte costituzionale, infatti, ha riconosciuto agli statuti ordinari una competenza in tema di procedimento legislativo regionale: e l’ha fatto proprio in virtù della competenza statutaria in materia di «principi fondamentali di organizzazione e funzionamento». Nella sentenza n. 12 del 2006 può leggersi che la «disciplina del procedimento legislativo regionale (è) ricompresa indubbiamente nei principî fondamentali di organizzazione e funzionamento attribuiti dall’art. 123, primo comma, Cost. alla potestà statutaria delle Regioni». E in particolare si afferma che la disciplina del procedimento legislativo può legittimamente prevedere «l’introduzione di un particolare, eventuale passaggio procedurale, consistente nel parere del Collegio regionale per le garanzie statutarie».

 

[14] Per un’esauriente dimostrazione di questa tesi rinvio a S. Parisi, Regioni speciali e Titolo V: materie residuali e «chiamata in sussidiarietà», paper in corso di pubblicazione nel volume a cura di R. Bin e L. Coen, che raccoglie gli atti del convegno ISGRE L’impatto del titolo V sulle regioni speciali: profili operativi, tenutosi a Udine il 3 dicembre 2010.

 

[15] Mi riferisco a G. Cerea, La finanza delle autonomie speciali: le previsioni originarie, la realtà e le prospettive del “federalismo”, in J. Woelk (cur.), Federalismo fiscale tra differenziazione e solidarietà. Profili giuridici italiani e comparati, Eurac Research, Bolzano, 2010, 71-72.

 

[16] Le parti tra virgolette sono di G. Cerea, La finanza delle autonomie speciali: le previsioni originarie, la realtà e le prospettive del “federalismo”, cit., 71-72.

 

[17] Così G. Cerea, op. cit., 72-73.

 

[18] Sempre G. Cerea, op. cit., 90.

 

[19] P. Pinna, Il diritto costituzionale della Sardegna, cit., 27, scrive che «per il rapporto impari tra lo Stato e la singola Regione, le norme di attuazione hanno influito negativamente sull’autonomia speciale». Non è un’opinione isolata: vedi G. Mor, Le autonomie speciali tra passato e futuro, in G. Mor (cur.), Le autonomie speciali alla ricerca di un’identità, Il Mulino, Bologna, 1988, 23 ss.; P. Ciarlo, Federalismo amministrativo e Regioni speciali, in Quad. cost., 2000, 129 ss. Secondo P. Giangaspero, I decreti di attuazione degli statuti speciali, in R. Bin, L. Coen, I nodi tecnici della revisione degli statuti speciali, CLEUP, Padova, 2008, 116, sono «ricorrenti – ed in particolare si present(a)no con impressionante regolarità ad ogni “svolta” del regionalismo italiano - posizioni che addebitano all’inefficienza di questo strumento il prodursi del problema della cd “specialità alla rovescia”, ossia di una situazione in cui il regionalismo differenziato finisce per trovarsi in una situazione di svantaggio rispetto alle innovazioni introdotte per le Regioni ordinarie».

 

[20] Sicché se elementi di criticità vi sono, questi – come correttamente osserva P. Giangaspero, I decreti di attuazione degli statuti speciali, cit., 118 – «non valgono in maniera omogenea per tutte le Regioni, in quanto si possono riscontrare situazioni anche notevolmente differenti quanto all’efficienza nell’attuazione delle disposizioni statutarie».

 

[21] Anche se bisogna dire che ormai è rimasto ben poco da trasferire: per fare l’esempio della sola Valle d’Aosta, l’attività statale si limita a difesa, giustizia, sicurezza pubblica e poco altro. Per una disamina esauriente di questi dati vedi G. Cerea, op. cit., 69 ss.

 

[22] Ricordo che l’art. 8 dello Statuto sardo è stato modificato dalla legge n. 296 del 27 dicembre 2006, che ha significativamente riformato l’assetto finanziario della Regione Sardegna. In particolare ha riconosciuto il diritto a percepire i sette decimi dei tributi prima non compartecipati, ha trasformato la quota IVA da variabile a fissa e ha esteso la compartecipazione al gettito tributario maturato in Regione anche al gettito riscosso fuori dal territorio isolano. Si prevede, dunque, un significativo incremento delle entrate e il regime finanziario sardo viene così adeguato a quello delle altre Regioni a statuto speciale. Sennonché, nonostante il nuovo sistema dovesse entrare a regime nel 2010, a tutt’oggi il Governo nazionale non ha trasferito le somme dovute.

 

[23] C’è da dire, però, che sotto questo profilo la situazione della Sicilia è parzialmente diversa da quella in cui versa la Sardegna. La debolezza della sua struttura economica e sociale fa certamente eccezione alla regolarità secondo cui ci sarebbe un nesso costante tra assetto differenziato delle competenze e peso economico-finanziario rilevante: sotto questo aspetto vale l’analogia col caso sardo. Tuttavia il peso demografico, e quindi politico-elettorale, della Sicilia assicura alle sue istituzioni rappresentative dei vantaggi competitivi sconosciuti alle istituzioni sarde: difatti, la situazione politica siciliana spesso incide pesantemente sugli equilibri politici nazionali, assicurando agli organi regionali un potere contrattuale enorme nelle negoziazioni bilaterali con lo Stato.