IL NESSO TRA LIBERTÀ
E VOLONTÀ GENERALE NEL CONTRATTO
SOCIALE DI JEAN-JACQUES ROUSSEAU*
Università di Sassari
Sommario: 1. Alle origini del pregiudizio
antirousseauviano: Benjamin Constant e Isaiah Berlin. – 2. I tre concetti di libertà del Contrat social. – 3. La
«libertà morale». – 4. Il
nesso tra «libertà morale» e «volontà
generale» e tra «libertà civile» e
«volontà particolare». – 5. Il
principio di legalità e il favor
libertatis. – 6. Il presunto dispotismo
della volontà generale. – 7. Che
cosa non è la volontà
generale. – 8. La volontà generale e
il criterio di reciprocità.
– 9. La reciprocità della ragione
pubblica. – 10. Perché
la difesa delle libertà fondamentali non è estranea al modello
della volontà generale. – 11. La
questione del pluralismo: un ardito accostamento tra Rousseau e Madison.
– 12. I fallimenti della volontà
generale e la figura del Legislatore. – Abstract.
In
queste mie brevi riflessioni voglio richiamare l’attenzione su un aspetto
nodale del pensiero rousseauviano illustrato nel Contratto sociale, il nesso tra libertà e volontà
generale.
È noto che sull’opera di Rousseau e, in particolare,
sulla sua idea di libertà pesa il giudizio negativo di Constant, il
quale lo accusa di avere, anche se in buona fede, «accordato alla
sovranità del popolo un potere senza limiti»[1].
Sicuramente la sovranità del popolo è preferibile a quella di uno
solo o di pochi e tante volte nella storia si è visto «un piccolo
numero di uomini, o anche un solo uomo, possedere un potere immenso e fare
molto male»[2]:
il difetto di Rousseau sarebbe stato, però, quello di avere diretto la
propria collera «contro i possessori del potere e non contro il potere
medesimo. Invece di distruggerlo (ha) pensato di spostarlo»[3].
Non solo, anche ammettendo che «la società intera
possieda sui suoi membri una sovranità senza limiti»[4],
tuttavia – è sempre Constant che parla – non si può
spacciare questo per libertà. Non si può chiamare una cosa col
nome del suo contrario, come deliberatamente avrebbe fatto Rousseau, quando
scambiava «l’autorità del corpo sociale per la
libertà e tutti i mezzi gli sembravano buoni per estendere
l’azione di quest’autorità su quella parte recalcitrante
dell’esistenza umana di cui egli deplorava l’indipendenza»[5].
Sicché – è il verdetto finale di condanna – pur
essendo «animato dal più puro amore per la libertà»,
il Contratto sociale «ha
tuttavia fornito pretesti funesti a più di un tipo di tirannide»[6].
Più di un secolo dopo Isaiah Berlin riprende, quasi senza
variazioni, il giudizio di Constant. È facile osservare che Two Concepts of Liberty, forse
l’opera più nota di Berlin, si ricollega idealmente al
constantiano Discorso sulla
libertà degli antichi paragonata a quella dei moderni: la
distinzione berliniana tra libertà positiva e negativa obbedisce,
infatti, al proposito di concettualizzare in modo più compiuto e
approfondito la distinzione tra libertà degli antichi e dei moderni. In
questa divisione di campo il pensatore ginevrino è il campione dei
fautori della libertà positiva.
Secondo Berlin, difatti, «per libertà Rousseau non
intendeva la libertà “negativa” dell’individuo che non
deve essere ostacolato all’interno di un’area determinata,
bensì il possesso da parte di tutti, e non solo di alcuni dei membri a
pieno titolo della società, di una parte del potere pubblico che ha facoltà d’interferire
con ogni aspetto della vita di ciascun cittadino»[7].
Ma se il potere di autodeterminazione collettiva ha facoltà d’interferire con ogni aspetto della vita di
ciascun cittadino, allora «la libertà nel suo senso
“positivo” (può) facilmente distruggere una quantità
eccessiva delle libertà “negative”, come i liberali della
prima metà del diciannovesimo secolo avevano correttamente
previsto»[8].
La libertà negativa e quella positiva sarebbero quindi
termini antitetici e «nessuno meglio di Benjamin Constant – a
giudizio di Berlin – vide, o espresse più chiaramente, il
conflitto tra i due tipi di libertà»[9].
Ora, che di uno stesso valore o concetto possano proporsi due o
più differenti concezioni non dovrebbe impensierire più di tanto:
ciò che conta è che almeno si riconosca che la libertà
è un valore positivo, che merita di essere onorato e realizzato; se poi
non c’è unanimità di vedute circa il suo esatto
intendimento, poco conta, perché si tratta di dettagli e
difficoltà se non trascurabili perlomeno superabili. Sennonché a
giudizio di Berlin – e prima ancora di Constant – la libertà
positiva non è affatto una concezione della libertà, ma
tutt’altro: e dunque, all’origine della distinzione tra
libertà negativa e positiva non ci sarebbe tanto «il conflitto tra
due tipi di libertà», ossia tra due diversi modi di concepire uno
stesso valore, quanto il conflitto tra libertà e autorità. La vera libertà sarebbe soltanto
quella negativa, e la teoria della libertà positiva sarebbe, invero,
nient’altro che una teoria circa il primato dell’autorità
collettiva sulla libertà individuale: la coercizione potrebbe essere
giustificata in nome della libertà, se questa è necessaria per
realizzare la sola società in cui gli uomini sono realmente liberi. In breve,
a seguire l’indirizzo interpretativo di Berlin, lo scopo autentico delle
teorie sulla libertà positiva – ivi compresa quella di Rousseau
– sarebbe quello di dimostrare che gli uomini possono essere costretti a
essere liberi.
Insomma, grazie a Benjamin Constant e Isaiah Berlin si è
radicato il pregiudizio che Rousseau sia, insieme a Thomas Hobbes e Georg W. F.
Hegel, il prototipo del pensatore illiberale. È uno schema
interpretativo del quale ancora oggi fatichiamo a liberarci e che, soprattutto,
c’impedisce di apprezzare le affinità, se non il legame profondo
di continuità, del Contrat social con
alcuni motivi fondamentali della riflessione giuspolitica contemporanea, anche
e soprattutto d’ispirazione liberale (per quanto possa dubitarsi che
quest’etichetta sia ancora d’aiuto per orientarsi nel complesso
dibattito filosofico dei nostri giorni…).
Anzitutto
conviene ricordare come Rousseau effettivamente teorizza il tema della libertà,
soprattutto al fine di chiarire se effettivamente il Contrat social riconduca l’intera tematica della
libertà a quella della libertà positiva: la sola libertà
di cui parla Rousseau è quella positiva?
Hans Kelsen ne era convinto. Nei suoi scritti sulla democrazia,
infatti, attribuisce al pensatore ginevrino il merito di avere teorizzato la
«trasformazione della libertà naturale nella ben diversa
libertà politica»[10]
e di avere, così, posto le basi ideali e assiologiche della concezione
democratica dei regimi politici moderni, cui lo stesso Kelsen dichiara di
riconoscersi e aderire: «se ci deve essere società e, più
ancora, Stato, ci deve essere un regolamento obbligatorio delle relazioni tra
gli uomini fra di loro, ci deve essere un potere. Ma se noi dobbiamo essere
comandati lo vogliamo essere da noi stessi. La
libertà naturale si trasforma in libertà sociale o politica.
È politicamente libero chi è sottomesso, sì, ma alla
volontà propria, non alla volontà esterna»[11].
Che in Rousseau vi sia il nucleo originario, l’embrione
delle teorie moderne sulla libertà positiva è indubbio. È
dubbio, invece, che tale «libertà politica» (per usare la
terminologia di Kelsen) o libertà positiva (per usare la terminologia di
Berlin) sia il prodotto unico della trasformazione che – nella lettura
kelseniana del pensiero rousseauviano – la libertà naturale
subirebbe quando dallo stato di natura si passa all’ordinamento sociale.
Questa lettura, infatti, non tiene conto del fatto che Rousseau distingue
chiaramente non due, ma tre concetti di libertà: la
«libertà naturale», la «libertà civile» e
la «libertà morale».
Anzitutto il Contrat social
si preoccupa di definire il rapporto tra le prime due nozioni:
«Quel che l’uomo perde col contratto sociale è
la sua libertà naturale e un
diritto illimitato su tutto ciò che lo tenta e che può
raggiungere: quel che guadagna è la libertà
civile e la proprietà di tutto ciò che possiede. Per non
sbagliarsi in queste compensazioni bisogna distinguere la libertà
naturale, che ha per solo limite le forze dell’individuo, dalla
libertà civile, che è limitata dalla volontà generale: e
il possesso, che è solo l’effetto della forza o il diritto del
primo occupante, dalla proprietà, che è fondata su un titolo
positivo»[12]
La libertà naturale dell’individuo è il diritto illimitato su tutto ciò
che lo tenta. Il che evidentemente sta a significare che non è un
diritto in senso proprio, una situazione soggettiva giuridicamente garantita e
quindi necessariamente limitata dal diritto positivo per fare spazio ad altri
diritti soggettivi, ad altre situazioni soggettive di vantaggio. Al contrario
indica tutto ciò che l’individuo riesce a fare e a procacciarsi
contando sulle proprie forze: poiché ha
per solo limite le forze dell’individuo, la libertà naturale si estende fin dove le forze di chi la
esercita lo consentono. Non per caso alla libertà naturale corrisponde
il mero fatto del possesso (che è, per l’appunto, l’effetto della forza).
Una volta stipulato il patto sociale la libertà naturale
scompare per cedere il posto alla libertà civile, che ha per limite non
già le forze dell’individuo,
ma la volontà generale. Mentre
la prima è il diritto di fare tutto ciò che si ha il potere di
fare, con l’effetto che più si è forti più si
è liberi, la seconda invece è il diritto di fare tutto ciò
che la volontà generale non proibisce, ossia il diritto di usare
liberamente le proprie forze, risorse, capacità, abilità, ecc., a
proprio vantaggio, ma entro i limiti posti dal vincolo scaturente dal patto
sociale.
Sin qui il pensiero rousseauviano sembra ripercorrere lo schema
del più schietto contrattualismo liberale (del tipo di quello lockiano,
per intenderci). Per effetto del contratto sociale il diritto naturale ed
illimitato di usare i propri mezzi per i propri scopi ed interessi particolari
si converte nel diritto positivo e limitato di usare i propri mezzi per i
propri scopi ed interessi particolari. Non per caso, mentre alla libertà
naturale corrisponde il mero fatto del possesso,
alla libertà civile corrisponde la proprietà,
per l’appunto fondata su un titolo
positivo.
Sennonché a queste due nozioni di libertà se ne
aggiunge una terza:
«oltre a ciò che precede si potrebbe aggiungere
all’attivo dello stato civile, la libertà
morale, che sola può render l’uomo veramente padrone di
sé; poiché l’impulso del solo appetito è
schiavitù mentre l’obbedienza alla legge che ci si è
prescritti è libertà»[13]
È esattamente in questo passo che ritroviamo quella che
Constant chiamerà «libertà degli antichi», Berlin
«libertà positiva» e Kelsen «libertà
politica». Orbene, non c’è alcun dubbio che la
libertà morale, l’obbedienza
alla legge che ci si è prescritti o autonomia, è evidentemente qualcosa di diverso dalla
libertà civile.
C’è
stato chi, come Norberto Bobbio, ha provato a relativizzare le differenze tra
le due libertà sopradette[14].
A giudizio del pensatore torinese, se la libertà civile
è il diritto di perseguire liberamente i miei scopi, e quindi le mie
inclinazioni, i miei interessi particolari, entro la sfera che
l’ordinamento mi garantisce e senza perciò temere intromissioni,
impedimenti da parte di terzi, essa coinciderebbe col diritto di non essere
determinato da altri se non da me stesso, cioè col diritto di agire in
base a criteri, norme d’azione che io stesso mi sono dato e che dunque
non mi sono imposti dall’esterno. La libertà negativa o civile e
la libertà positiva o autonomia sarebbero, così, le due facce di
una medesima medaglia.
Per il vero lo stesso Bobbio precisa che le due libertà,
pur facendo leva entrambe sul concetto di autodeterminazione, tuttavia si
distinguono tra loro perché mentre quella negativa metterebbe capo
all’autodeterminazione individuale,
quella positiva invece farebbe principalmente riferimento all’autodeterminazione
collettiva. E in effetti, anche
Rousseau, quando definisce la libertà morale come obbedienza alla legge che ci si è prescritti, sembra
richiamarsi all’idea dell’autodeterminazione collettiva, ossia alla
partecipazione individuale al processo di formazione della volontà
collettiva. Ma allora perché adopera l’espressione
«libertà morale»? Che senso ha quest’aggettivo?
Bisogna tenere presente che l’obbedienza
alla legge che ci si è prescritta è da Rousseau contrapposta all’impulso del solo appetito
(definito come schiavitù). E
ancora: nel passaggio dallo stato di natura allo stato di civiltà
all’istinto si sostituisce la giustizia, conferendo alle azioni umane
«quella moralità che prima loro mancava». E difatti,
«il dovere succede all’impulso fisico, il diritto
all’appetito; e l’uomo, che fin allora non aveva considerato altro
che se stesso, è costretto ad agire con altri principi e ad ascoltare la
ragione prima di cedere alle inclinazioni»[15]
La libertà morale non è perciò l’obbedienza alla legge che ci si
è prescritta facendo valere nel processo decisionale collettivo le proprie inclinazioni singolari, i propri
interessi particolari. Quando esercitiamo la nostra libertà civile
lo facciamo in vista del nostro utile egoistico, del nostro tornaconto
individuale o comunque parziale; ma quando esercitiamo la nostra libertà
morale e deliberiamo sui contenuti della legge, dobbiamo abbandonare la
prospettiva particolare del nostro utile personale o di gruppo; dobbiamo
frenare le inclinazioni e le passioni, e far parlare soltanto la ragione.
Come vedremo meglio alla fine, è il concetto di
volontà generale a spiegarci in che modo dobbiamo intendere questo
riferimento alla ragione: il
significato della libertà morale è illuminato da quello di
volontà generale, viceversa.
Con esatto e simmetrico parallelismo la libertà civile sta
alla libertà morale come la volontà particolare sta alla
volontà generale. La libertà civile esprime la volontà
particolare, ovviamente entro il vincolo sociale costituito dalla
volontà generale, mentre la libertà morale esprime la
volontà generale.
Ciascun individuo, dunque, ad un tempo ha una volontà
particolare e partecipa di quella generale; come mero individuo persegue il
proprio interesse singolare od obbedisce alle proprie inclinazioni e passioni,
ma come cittadino è ritenuto capace di trascendere se stesso per
deliberare razionalmente sul bene comune. Di talché
«ogni individuo può, come uomo, avere una
volontà particolare opposta o diversa dalla volontà generale,
ch’egli stesso ha in quanto cittadino; il suo interesse particolare
può parlargli diversamente dall’interesse comune»[16]
Tra volontà generale e volontà particolare,
libertà morale e libertà civile c’è ovviamente un
vincolo di subordinazione, perché la seconda può manifestarsi
solo entro il limite fissato dalla prima. L’interesse comune deve
subordinare a sé l’interesse particolare e la ragione deve
dominare sulle passioni. Per essere liberi non basta essere indipendenti
dall’altrui volere, non basta avere la possibilità di perseguire i
propri scopi anziché quelli di altri individui e divenire, così,
strumento di se stessi e non di qualcun’altro: occorre anche essere
padroni di se stessi nel senso più profondo della formula e liberarsi,
per quanto possibile, dai vincoli che la nostra stessa natura c’impone,
sotto forma di passioni, desideri, appetiti, inclinazioni. Quando agisco per
soddisfare un piacere verso cui la mia natura mi muove o per evitare un dolore
indesiderato, non sono ancora libero
nel senso morale del termine, non sono ancora autonomo, perché il mio comportamento è invero
determinato da ragioni biologiche o da condizionamenti sociali. Non sono io ad
avere scelto in modo consapevole e razionale il fine del mio agire: in un certo
senso è stato imposto da forze esterne – il desiderio, le
preferenze del gusto, le debolezze del carattere, le inclinazioni biologiche,
le pressioni implicite del gruppo sociale d’appartenenza, ecc. – di
cui non ho saputo riconoscere e neutralizzare il potere condizionante.
Nella distinzione tra volontà particolare e generale,
libertà civile e morale, ragione e passione, c’è come
l’immagine di un Io diviso e in lotta con se stesso: c’è un
Io ideale ma più “vero”, identificato con la ragione e
costituente la parte migliore e “più alta”
dell’individuo, al quale si contrappone un Io empirico, in balia delle
passioni e preda d’impulsi irrazionali, che evidentemente costituisce la
parte meno nobile e “alta” dell’uomo. Va da sé che il
primo deve sottomettere e disciplinare il secondo, affinché
l’autonomia possa primeggiare sull’eteronomia; e la volontà
generale su quella particolare.
Isaiah Berlin ravvisa proprio in questa visione impegnativa
dell’autonomia (o libertà morale) il potenziale illiberale della
teoria rousseauviana. Una volta stabilito che c’è un Io ideale e
un Io empirico e che il primo deve dominare sul secondo, allora il passo
è breve perché questo Io più alto e nobile sia concepito
«come qualcosa di più grande dell’individuo, come il
“tutto” sociale di cui l’individuo è un elemento o un
aspetto: una tribù, una razza, una chiesa, uno stato, la grande
società dei vivi dei morti e non ancora nati. S’identifica poi
questa entità con il “vero” io che con l’imporre la
sua singola volontà collettiva, “organica”, ai propri membri
recalcitranti, consegue la propria, e quindi la loro, più
“alta” libertà»[17].
In nome dell’autonomia, della libertà morale, della
“vera” libertà, secondo Berlin diventa perciò
«possibile e a volte giustificabile costringere con la forza le persone
in nome di qualche obiettivo (la giustizia o la salute pubblica, diciamo) che
esse stesse perseguirebbero se fossero più illuminate, ma che di fatto
non perseguono per cecità, ignoranza o corruzione»[18].
Ma è proprio così? Rousseau teorizza che gli uomini
possono essere costretti a essere liberi, con ciò legittimando il
dispotismo e, perfino, il totalitarismo?
Prima
di rispondere all’ultima domanda (peraltro lasciata in sospeso fin dalle
prime battute di questo saggio) bisogna affrontate qualche questione
preliminare, sempre in tema di rapporti tra volontà generale e
particolare[19].
La distinzione tra le due volontà non è soltanto la
distinzione tra le due libertà: è altresì la distinzione
tra norma generale e astratta e comando concreto, tra legge e decreto:
«la volontà o è o non è generale; o
è quella del corpo del popolo, o soltanto di una parte. Nel primo caso
la dichiarazione di questa volontà è atto di sovranità, e
fa legge; nel secondo caso è una volontà particolare o un atto di
magistratura: al più è un decreto»[20]
Il collegamento tra sovranità ed esercizio del potere
legislativo non è un’innovazione rousseauviana perché
risale ad Hobbes, e prima ancora a Bodin. Il merito di Rousseau semmai quello
di avere precisato in cosa consista funzionalmente
l’esercizio del potere legislativo, cioè di avere delineato con
maggiore nettezza la distinzione tra legge e decreto, fra l’astratto
disporre e il concreto provvedere:
«ogni funzione che si riferisca a un oggetto individuale
non fa parte del potere legislativo (…) la legge riunisce
l’universalità del volere e quella dell’oggetto, e
perciò un uomo, chiunque sia, che ordini di sua testa, non fa una legge:
anche quello che ordina il sovrano su un oggetto particolare non è
legge, ma decreto; non è atto di sovranità, ma di
magistratura»[21]
Onde evitare fraintendimenti, bisogna però precisare che
il sovrano non può ordinare su
oggetti particolari e adottare decreti in luogo di leggi. Difatti, alla
distinzione funzionale tra
attività legislativa e attività provvedimentale corrisponde la
distinzione organica tra chi deve
svolgere la prima e chi la seconda, ossia tra il popolo sovrano e il governo (o
potere esecutivo o principe o magistratura). A giudizio di Rousseau
«se il sovrano vuole governare, o se il magistrato vuol
dare leggi (…), il disordine succede alla regola, la forza e la
volontà non agiscono più di conserva, e lo Stato, dissolvendosi,
cade così nel dispotismo e nell’anarchia»[22]
E ancora:
«non è bene che colui che fa le leggi dia loro
esecuzione, né che il popolo distragga la sua attenzione dalle
considerazioni generali per dedicarla a oggetti particolari (…) il potere
esecutivo non può appartenere alla generalità come legislatrice o
sovrana, perché questo potere non consiste che in atti particolari i
quali non sono di competenza della legge, né conseguentemente del
sovrano, tutti gli atti del quale non possono essere che leggi»[23]
Sotto la categoria della volontà particolare non rientra
soltanto ciò che il singolo individuo decide nell’esercizio della
propria libertà civile, ma anche ciò che è deciso dal
potere esecutivo (principe, governo o magistratura). Tutte le volontà
particolari, sia quelle dei privati cittadini che delle magistrature pubbliche,
sono perciò subordinati alla volontà generale.
C’è però una differenza. Il limite che la
volontà generale pone a carico delle volontà particolari degli
individui è di tipo esterno,
mentre rispetto alle magistrature è di tipo interno. Nel primo caso si limita a circoscrivere l’ambito
della libertà civile, senza però determinarne il contenuto (che
è quindi liberamente prescelto dal soggetto agente); nel secondo caso,
invece, non solo circoscrive il potere esecutivo, ma ne predetermina pure il
contenuto: la volontà particolare che determina l’atto di
magistratura, decreto o sentenza che sia, deve eseguire la volontà generale. Ne discende che la
libertà civile deve solo
essere compatibile con la volontà generale (diversamente non avrebbe
senso chiamarla “libertà”), mentre l’atto di
magistratura deve anche essere
conforme.
In Rousseau c’è dunque una chiara teorizzazione del
principio di legalità come necessaria conformità
dell’attività delle magistrature pubbliche alla legge. Il potere
legislativo e il potere esecutivo sono rispettivamente «la volontà
e la forza del corpo politico» e «nulla vi si fa o vi si deve fare
senza il loro concorso»; ma la forza presuppone tuttavia la
volontà, ponendosi al suo completo servizio: il potere del governo
esiste solo nella misura in cui può essere sillogisticamente dedotto
dalle prescrizioni generali del potere legislativo; e non può impiegare
i poteri di coercizione fisica per assecondare una propria volontà, se
questa non coincide con la volontà della legge come sua derivazione
logica.
«La volontà dominante del principe non è o
non deve essere che la volontà generale o la legge; la sua forza non
è che la forza pubblica concentrata in lui: non appena egli voglia
trarre da sé qualche atto assoluto e indipendente, il legame del tutto
comincia ad allentarsi (…) l’unione sociale svanirebbe e il corpo
politico sarebbe dissolto»[24]
Attraverso il principio di legalità la libertà
civile è protetta dagli atti di magistratura che non siano esecutivi
della volontà generale. Al di fuori dei casi espressamente tipizzati
dalla legge generale ed astratta il governo non può invadere
l’ambito riservato alla libertà individuale e il potere coercitivo
non può impedire agli individui/cittadini di coltivare il proprio
interesse particolare.
Contrariamente alle demonizzazioni proposte da Constant e Berlin,
nel sistema rousseauviano è possibile rintracciare un favor libertatis: ciascuno ha diritto di
godere di tutta la libertà individuale che la volontà generale
espressa dal potere legislativo non autorizza a limitare. Per gli individui
è permesso tutto ciò che la volontà generale non
proibisce, mentre per le magistrature pubbliche (che concretamente detengono
l’esercizio del potere coercitivo) è proibito tutto ciò che
la volontà generale non consente[25].
Resta,
ciò nondimeno, il fatto che la volontà particolare non può
porre alcun argine alla volontà generale e che pertanto la
libertà civile soggiace totalmente alla libertà morale.
C’è dunque un’integrale subordinazione della libertà
negativa rispetto a quella positiva, tanto che questa seconda può
svuotare completamente l’altra o perlomeno ridurla ai minimi termini?
Secondo la clausola fondamentale del contratto sociale «ciascuno di noi mette in comune la sua
persona ed ogni suo potere sotto la suprema direzione della volontà
generale»[26].
Ciò sembra giustificare il timore paventato da Constant e Berlin. E quale
che sia l’interpretazione che voglia darsi del concetto di volontà generale, sembra che non
ci sia via di scampo e che non si possa sfuggire all’alternativa tra
Scilla e Cariddi.
Il primo corno del dilemma lo conosciamo già: se per
volontà generale s’intende l’esercizio della libertà
morale e l’obbedienza alle prescrizioni della retta ragione, diventa
giustificato costringere gli individui ad essere liberi. Ma un dispotismo
illuminato dalla ragione è pur sempre un dispotismo.
Un’interpretazione alternativa – il secondo corno del
dilemma – potrebbe essere quella d’intendere la volontà
generale secondo un’accezione procedurale,
sicuramente meno impegnativa; ma il risultato non cambierebbe granché.
Possiamo anche assumere che per aversi volontà generale sia sufficiente
la deliberazione popolare di un atto normativo generale ed astratto, ma pure in
tal caso non esisterebbe alcun limite a ciò che il tutto può
infliggere alla parte. È chiaro, infatti, che così ragionando la
legge potrebbe adottare qualsiasi contenuto, col solo vincolo costituito dalla
forma generale ed astratta delle sue disposizioni.
È vero che grazie a questa generalità e astrattezza
la legge non potrà mai essere ad
personam, cioè colpire, o beneficiare, questo o
quell’individuo espressamente nominato. Ed è vero anche che il
peculiare rapporto tra legge e decreto, potere legislativo e potere esecutivo,
che abbiamo esaminato prima, assicura comunque un ambito di libertà
negativa residuale. Sennonché Constant e Berlin potrebbero obiettare che
si tratta di ben poca cosa e che non esistono veri argini allo strapotere della
volontà generale.
Immaginiamo, ad esempio, che per deliberazione popolare si
vogliano proibire i culti differenti dalla confessione cattolica. Basterebbe
scrivere: “È punito col carcere professare fedi religiose diverse
da quella cattolica romana”. Non c’è dubbio alcuno che
sarebbe una legge generale ed astratta, perché non si riferisce
nominativamente a nessuno e si applicherebbe a chiunque si trovasse nella
fattispecie astratta tipizzata dalla disposizione. Alla luce, quindi, della
definizione procedurale di prima si tratterebbe in ogni caso di un atto della
volontà generale. Constant avrebbe, così, buon gioco ad eccepire
che «non basta che gli agenti esecutivi abbiano bisogno d’invocare
l’autorizzazione del legislatore» e che «è ben poco
che il potere esecutivo non abbia il diritto di agire senza il concorso di una
legge se ad esso non si pongono dei confini, se non si dichiara che vi sono
materie su cui il legislatore non ha il diritto di fare una legge, o in altri
termini che la sovranità è limitata e che vi sono delle
volontà che né il popolo né i suoi delegati hanno il
diritto di piegare»[27].
Esiste, allora, la possibilità di sfuggire sia a Scilla
che a Cariddi? Ci sono margini per un’interpretazione della
volontà generale che sia radicalmente alternativa rispetto a quelle
finora prospettate e che salvi il pensiero rousseauviano dall’accusa di
dispotismo?
Può
essere utile muovere dall’elencazione di ciò che la volontà
generale non è.
1) Non è definibile in termini organicistici come la
volontà della società o corpo politico in quanto tale, entificato
in modo da trascendere, con una propria personalità e volontà, i
singoli cittadini che ne fanno parte.
2) Non è l’unanimità dei consensi dei
cittadini. E difatti c’è differenza tra la volontà generale
e la «volontà di tutti», perché non si può mai
escludere che questa seconda sia «una somma di volontà
particolari» e che tutti quindi
possano talvolta volere qualcosa che non è realizzazione degli interessi
comuni[28].
3) Non è neanche la mera volontà della maggioranza,
determinata attraverso una mera aggregazione di preferenze soggettive. Quindi
non è definibile in termini utilitaristici, benthamiani, come la
più grande felicità per il più grande numero[29].
4) Insomma, la volontà generale non è
l’unanimità dei consensi, ma neppure può essere la
volontà della maior pars
perché, per quanto grande essa sia, sarebbe nondimeno una volontà
particolare. Per dirlo con terminologia mortatiana, non è il «fine
politico fondamentale» del «gruppo politico o fazione
dominante» (partito o classe che sia)[30].
Ma allora cos’è?
Per
interpretare correttamente l’opera di Rousseau non si deve mai perdere di
vista il programma del Contrat social:
«Trovare una forma di associazione che difenda e protegga
con tutta la forza comune la persona e i beni di ogni associato e per la quale
ciascuno, unendosi a tutti, non obbedisca che a se stesso, e resti libero come
prima»[31]
In seguito al patto sociale e nonostante il vincolo così
contratto occorre che ciascuno resti
libero come prima. La libertà naturale non viene sostituita da un
tipo nuovo di libertà, qualitativamente diverso, più nobile ed
elevato. La libertà morale non prende il posto di quella naturale, ma
piuttosto si aggiunge a questa, per meglio garantirne a tutti il godimento.
Quando Rousseau scrive che il patto sociale prevede
«l’alienazione totale di ogni associato, con tutti i suoi diritti,
a tutta la comunità», dimodoché «ciascuno mett(a) in
comune la sua persona ed ogni suo potere sotto la suprema direzione della
volontà generale», non fonda – così facendo –
il potere di svuotare completamente la libertà civile. Difatti,
poiché «dandosi ognuno tutto intero (alla volontà
generale), tale condizione è la stessa per tutti; ed essendo eguale per
tutti, nessuno ha interesse di renderla più grave agli altri»[32].
Detto in altro modo:
«ciascuno, dandosi a tutti, non si dà a nessuno, e
poiché non v’è un solo associato su cui non abbia lo stesso
diritto ch’egli ha su se stesso, il guadagno equivale alla perdita per
tutti e ne deriva per ciascuno una maggiore forza per conservare quanto egli ha»[33]
La volontà generale è tale in virtù del criterio di reciprocità. Difatti,
«gli impegni che ci uniscono al corpo sociale sono obbligatori soltanto
se sono reciproci: la loro natura è tale che, adempiendoli, non si
può lavorare per altri senza lavorare contemporaneamente per
sé». Sicché la volontà generale «obbliga e
favorisce egualmente tutti i cittadini», «parte da tutti per
applicarsi a tutti», con l’effetto che «ognuno si sottomette
necessariamente alle condizioni che impone agli altri»[34].
Ogni volta che viene meno questa reciprocità viene meno pure la
volontà generale[35].
Inoltre, prima ancora di tradursi in atto per mezzo di leggi
generali e astratte, la volontà generale – essendo la sola
autorità cui ciascuno si sottomette in seguito al patto sociale –
opera sul piano degli «elementi costituzionali essenziali» e delle
«questioni politiche fondamentali»[36].
Sono in primo luogo le «leggi fondamentali», le costituzioni (nel
senso moderno del termine), che debbono informarsi ai vincoli di
reciprocità logicamente implicati dalla volontà generale[37].
Così
illuminato dal criterio di reciprocità, il nesso tra ragione, legge e
libertà morale acquista un senso diverso da quello proposto da Isaiah
Berlin. La volontà generale non è quanto sarebbe prescritto da
una ragione comprensiva, metafisica,
ma raccoglie invece le prescrizioni della ragione
pubblica: l’io razionale che esercita la libertà morale e che
partecipa della volontà generale è quell’io che tutti siamo
quando partecipiamo alla deliberazione pubblica offrendo argomenti rispettosi
del vincolo di reciprocità[38].
Non avere colto il ruolo fondamentale di questo vincolo è
precisamente il limite di fondo della ricostruzione berliniana. Non abbiamo a
che fare, infatti, con una ragione totalizzante, ispirata ad una verità
oggettiva trascendente o immanente, che per ciò stesso non può
che imporsi ad ogni essere umano razionale. Se fosse così, il
depositario di questa verità razionale avrebbe buon gioco nel definirla
come volontà generale, per poi imporla dispoticamente a tutti sotto le
mentite spoglie della libertà morale: se la libertà è
l’obbedienza alla legge che ci si è prescritta, ossia obbedienza
alla volontà generale, e questa a sua volta è quanto è
prescritto da una verità razionale obiettiva che taluni conoscono e
altri no, non costituirà certo una negazione di libertà il fatto
che i primi la impongano ai secondi: sarà invece un atto di liberazione
e non d’oppressione; e Berlin non sarebbe certo in torto nello
stigmatizzare il tratto illiberale della teoria di Rousseau.
Invece, grazie al criterio di reciprocità, la ragione che
sta a fondamento della volontà generale – e che sola può
determinarne il contenuto – è una ragione pubblica, discorsiva e
deliberativa.
È pubblica,
perché non riguarda l’intera esistenza umana (fino a ricomprendere
il rapporto tra questa e ciò che la trascende), ma soltanto ciò
che è pubblico, politico: ossia ciò che si
riferisce agli interessi comuni fondamentali su cui si accordano gli interessi
particolari.
Ovviamente gli interessi particolari possono essere di vario
tipo: economici, religiosi, culturali, ricreativi, familiari, ecc. Ciascun
individuo e gruppo ha i propri: c’è chi è cristiano e chi
è islamico, chi cinofilo e chi sportivo, chi lavoratore autonomo e chi
dipendente, e così via. Tali interessi, pur potendo essere
legittimamente perseguiti attraverso l’esercizio della libertà
civile, non sono però politici,
pubblici, poiché non possono essere usati come argomenti per
giustificare deliberazioni pubbliche. Solo l’interesse comune può
costituire l’oggetto della ragione pubblica e, quindi, della
volontà generale. Ma come lo si riconosce? È interesse comune ciò che i cittadini, facendo uso
della loro ragione deliberativa, non possono negare senza con ciò violare
il criterio della reciprocità. Mentre è interesse particolare
ciò che il criterio di reciprocità non consentirebbe di elevare
mai al rango d’interesse comune in base al quale governare il corpo
politico.
Lungi dall’essere una ragione comprensiva, totalizzante, la
ragione pubblica che sta a fondamento della volontà generale non si
pronuncia sulla verità della fede cristiana o di quella islamica,
sull’immortalità dell’anima o se vi sia salvezza fuori dalla
Chiesa: si preoccupa, invece, di stabilire quali argomenti i cittadini, quali
che siano le loro differenze particolari in materia di fede o altro, possono reciprocamente offrirsi gli uni agli
altri con l’auspicio che siano ragionevolmente accettati da tutti. Come
cittadino cristiano e cattolico posso essere razionalmente convinto che nulla salus extra ecclesiam: ma per
quanto io sia certo della sua evidenza razionale, non posso proporre questo mio
credo quale argomento per giustificare una deliberazione pubblica e aspettarmi,
sinceramente e ragionevolmente, che il cittadino musulmano lo faccia proprio.
Non sarebbe coerente, in breve, col criterio della reciprocità e non
potrebbe quindi annoverarsi tra le prescrizioni della volontà generale.
Ritornando ad un esempio già fatto, se propongo il dogma nulla salus extra ecclesiam come
argomento per giustificare la proibizione di culti diversi da quello cattolico,
posso dire che in questo caso la volontà generale «obbliga o favorisce egualmente tutti i
cittadini»? Che essa «parte da tutti per applicarsi a tutti»?
Che «ognuno si sottomette
necessariamente alle condizioni che impone agli altri» e che
perciò è soddisfatto il principio (di reciprocità) secondo
cui «il patto sociale stabilisce
tra i cittadini tale eguaglianza che essi si obbligano tutti sotto le stesse
condizioni e devono godere tutti dei medesimi diritti»?
A
questo punto non è difficile comprendere quanto destituito di fondamento
siano le preoccupazioni constantiane e berliniane. Lo stesso Rousseau avverte
che:
«il potere sovrano, per quanto assoluto sacro e
inviolabile, non oltrepassa, né lo potrebbe, i limiti delle convenzioni
generali, e che ogni uomo può disporre pienamente di quel che gli
è stato lasciato, dei suoi beni e della sua libertà; di modo che il
sovrano non ha mai il diritto di aggravare un suddito più di un altro,
perché allora l’affare diventa particolare e il suo potere non
è più competente»[39].
È il criterio di reciprocità, cioè l’impossibilità
di aggravare un suddito più di un
altro, a definire il carattere generale, anziché particolare, della
legittima volontà sovrana. La volontà generale non sarebbe tale
senza il criterio di reciprocità; e questo, a sua volta, sarebbe
fatalmente violato qualora la deliberazione pubblica conculcasse diritti e
libertà fondamentali (proprio gli stessi ritenuti sacri dalla tradizione
liberale).
Va ascritto soprattutto a John Rawls il merito di avere colto
questo nesso tra libertà e reciprocità:
«quando si negano libertà fondamentali, si viola di
norma anche il criterio della reciprocità. Quali ragioni, infatti,
possono sia soddisfare tale criterio sia giustificare la negazione a qualcuno
della libertà religiosa, il mantenere altri in schiavitù,
l’idea di subordinare il diritto di voto alla proprietà, o la
negazione del suffragio alle donne?»[40]
Se, come dice Rousseau, in base al patto sociale ognuno
si sottomette necessariamente alla condizione che impone agli altri,
non sarebbe conforme alla volontà generale, né alla ragione
pubblica, limitare la libertà d’espressione dei dissidenti senza
prescrivere un eguale vincolo per tutti gli altri. Né sarebbe
logicamente concepibile che la volontà generale negasse la libertà
d’espressione a tutti, senza eccezione alcuna, perché
condannerebbe se stessa al mutismo, ossia all’impossibilità di
potere esercitare ancora la sua guida suprema.
L’identificazione
della volontà generale con la ragione pubblica (intesa rawlsianamente)
chiarisce, peraltro, l’annosa questione se Rousseau sia un pensatore
“antipluralista”, fautore di una «democrazia
totalitaria», secondo il noto giudizio di Jacob L. Talmon[41].
Indubbiamente il pensatore ginevrino ritiene che una
società politica priva di società
parziali (ossia di corpi intermedi, associazioni, partiti, lobbies, sindacati, ceti, corporazioni,
ecc.) favorisca grandemente l’espressione della volontà generale.
Ma poiché ciò è realisticamente impossibile, è
necessario in alternativa (e come second
best) «moltiplicare il numero e prevenirne
l’ineguaglianza»[42].
Le fazioni sono in sé un male perché distolgono
dalla volontà generale; ma il loro formarsi è inevitabile, visto
che comunque gli individui sono portatori di interessi e volontà
particolari e ricercano naturalmente la massimizzazione dell’utile
personale e familiare. Peraltro, come si è detto, il patto sociale
converte la libertà naturale nella libertà civile, il mero
possesso garantito dalla forza che ciascuno ha nella giuridica proprietà
garantita dalla forza di tutti: e nei limiti della libertà civile e
della proprietà giuridicamente garantita ciascuno può
legittimamente perseguire il proprio egoistico tornaconto (quale che esso sia:
economico, sociale, culturale, religioso, politico, ecc.), pure unendosi con
coloro che ne posseggono uno identico o simile, ossia costituendo società parziali.
Per certi versi non si possono proibire le fazioni senza proibire
la ricerca individuale del proprio interesse particolare e senza,
perciò, escludere che il patto sociale converta la libertà
naturale nella libertà civile.
Ciò premesso, cos’altro si può
ragionevolmente auspicare se non la moltiplicazione del numero delle società
parziali, delle fazioni? Onde impedire che una sola o un numero limitato di
esse possa acquisire la forza di proporsi come il tutto, come “parte
totale”, la sola cosa da fare è creare la condizione perché
vi sia sempre il pluralismo delle fazioni.
Diversamente, alla sovranità della volontà generale si
sostituirebbe quella delle volontà particolari.
È sorprendente, ma in questo momento del pensiero
rousseauviano sembra di scorgere la chiara anticipazione del discorso
costituzionale madisoniano sulle factions[43].
Anche James Madison esprime il timore che il fine di fazione
divenga tanto forte da assurgere al rango d’interesse o fine generale
dello stato. Perciò «all’ambizione bisogna opporre
l’ambizione», al potere il potere e all’interesse
l’interesse, in modo tale da impedire che una parte divenga il tutto e
che una fazione si faccia Stato. Delle due l’una, infatti: o la
costituzione è strumento d’affermazione progressiva del fine
politico o interesse particolare della fazione più forte oppure
n’è l’antidoto: di qui la necessità della separazione
dei poteri[44].
Indubbiamente anche per Madison, come per Rousseau, le
«fazioni» sono la negazione della volontà generale, del bene
comune; ma allo stesso tempo – alla stregua di Rousseau – ritiene
che siano il prodotto inevitabile della natura, libertà e varietà
umane: «la libertà sta alla fazione, come l’aria sta al
fuoco»[45].
Ciascuno, infatti, ricerca il proprio interesse singolare, solidarizzando con
coloro che ne perseguono di simili e unendosi a questi per aumentare le chances di successo dei propri obiettivi
particolari.
Poiché «le cause che fanno nascere una fazione non
possono essere eliminate», la messa al bando delle factions è, dunque, improponibile e il factionalism un fenomeno inestirpabile. Il solo rimedio, allora,
è fare in modo che i gruppi d’interesse siano quanto più
numerosi possibile e che il loro rapporto sia quanto più possibile
equilibrato. Insomma, «i rimedi si trovano solamente nei mezzi che ne
controllano gli effetti»[46].
Di qui l’esigenza di predisporre un assetto costituzionale
che, soprattutto per mezzo della separazione dei poteri, assicuri sempre il pluralismo delle fazioni: per dirlo con le parole di Rousseau,
occorre «moltiplicarne il numero e prevenirne
l’ineguaglianza».
Gli
uomini sono sempre perfettamente capaci di usare correttamente la loro ragione
deliberativa e di onorare nel giusto modo gli impegni della reciprocità?
Non c’è dubbio che per quanto siano sinceramente intenzionati a
dar voce alla volontà generale e non alla volontà particolare, in
alcuni casi e contro le loro stesse intenzioni, potranno pur sempre compiersi
degli errori: le abilità umane sono limitate e soprattutto, davanti alla
prova dei casi difficili, le capacità di ragionamento e di giudizio sono
fallibili.
La volontà generale è una potenzialità
umana, che non sempre però riesce a tradursi in atto. Non è di
là dalla nostra portata, perché siamo anche esseri razionali e
ragionevoli, provvisti di capacità deliberativa. Ma è anche
un’aspirazione ideale, la cui completa realizzazione, per via dei difetti
umani, è sempre incerta.
Questo problema può manifestarsi soprattutto nelle fasi
“costituenti”, ossia quando si deve progettare l’architettura
costituzionale complessiva. Affinché gli uomini imparino a fare uso
della loro ragione pubblica, in modo che il punto di vista della volontà
generale possa prevalere sul punto di vista della volontà particolare,
occorrono istituzioni adeguate, ossia buone leggi fondamentali, costituzioni:
tuttavia, se ancora manca una legge costituzionale adeguata, questa
“educazione alla cittadinanza” non può dirsi compiuta (e
neppure iniziata), sicché è impensabile che la volontà generale
(la ragione pubblica) possa guidare la fase costituente, essendo inconcepibile
che ciò che è effetto possa
divenire causa:
«perché un popolo nascente possa vagliare le sane
massime della politica e seguire le regole fondamentali della ragione di Stato,
bisognerebbe che l’effetto potesse
divenire causa; che lo spirito sociale, che dev’essere opera
dell’istituzione, preesistesse all’istituzione stessa; e che gli
uomini fossero, prima delle leggi, ciò che dovrebbero divenire per mezzo
di esse»[47]
Se la volontà generale può prendere forma solo
dentro un contesto costituzionale adeguato, qualora questo mancasse, non
potrebbe essere certo la volontà generale a produrlo. Si tratta di un
paradosso evidente e difficile da dissolvere.
Da un lato non c’è alcun dubbio che la legge fondamentale,
la costituzione debba essere coerente col «punto di vista della
volontà generale» - per dirlo con le parole di John Rawls[48]
– e perciò informare la disciplina costituzionale ai vincoli
imposti dal «criterio della reciprocità»; dall’altro,
però, non è pensabile che «quando agiamo come membri
dell’assemblea che promulgano le norme costituzionali o le leggi
fondamentali», possiamo essere guidati solo da «ragioni basate
sugli interessi fondamentali che condividiamo in quanto cittadini»; non
è pensabile che «quando votiamo sulle leggi fondamentali,
(possiamo) dare la nostra opinione riguardo a quali leggi siano più atte
a stabilire le condizioni politiche e sociali che mettano ciascuno egualmente
in grado di promuovere i suoi interessi fondamentali»[49].
Insomma, non è pensabile che – contrariamente a quanto è
auspicato da John Rawls – dei cittadini non ancora educati all’uso
della ragione deliberativa si facciano guidare dalla volontà generale
nell’esercizio del potere costituente.
Per risolvere il problema, Rousseau ricorre alla figura mitica di
un «legislatore» provvisto di profonda rettitudine e altissima
intelligenza:
«per scoprire le regole migliori di società che
convengono alle nazioni, ci vorrebbe un’intelligenza superiore, che
vedesse tutte le passioni degli uomini, senza provarne alcuna; che non avesse
nessun rapporto con la nostra natura e che la conoscesse a fondo;
un’intelligenza la cui felicità fosse indipendente da noi e che
tuttavia volesse occuparsi della nostra, e che finalmente, procurandosi nel
progresso dei tempi una gloria lontana, potesse operare in un secolo e godere
in un altro. Ci vorrebbero degli dei per dare leggi agli uomini»[50]
Questo «uomo straordinario», fornito – quasi
fosse una sorta di semi-dio – di erculea forza morale e intellettiva,
avrebbe soltanto il compito di redigere la costituzione, la quale non
entrerebbe in vigore in virtù della volontà e potere del suo
fattore: il «legislatore» rousseauviano
«non è magistratura, non è sovranità.
Quest’ufficio che costituisce la repubblica, non entra nella sua
costituzione: è una funzione particolare e superiore che non ha nulla di
comune con l’imperio umano»[51]
Difatti, se si riconoscesse a questo legislatore individuale la
titolarità della funzione legislativa fondamentale, ossia la
dignità del potere costituente, sarebbe sconfessata la clausola
fondamentale del contratto sociale, secondo cui «ciascuno di noi mette in
comune la sua persona ed ogni suo potere sotto la suprema direzione della
volontà generale»[52].
Poiché, in base al patto fondamentale,
«solo la volontà generale obbliga i singoli, non si
può mai esser sicuri che una volontà particolare sia conforme
alla volontà generale, se non dopo averla sottoposta ai liberi suffragi
del popolo»[53]
Il Legislatore deve solo redigere il testo costituzionale. La sua
grande saggezza e intelligenza è indice presuntivo che l’assetto
costituzionale sia ispirato ai principi del bene comune e ai vincoli della
reciprocità. Tuttavia, poiché «non si può mai essere
sicuri che una volontà particolare sia conforme alla volontà
generale», l’approvazione del testo non può che riservarsi
alla deliberazione popolare, ossia al vaglio finale della volontà
generale.
Sennonché, ad argomentare così, ritorna fatalmente
la difficoltà iniziale: se l’esercizio della ragione pubblica,
cioè della volontà generale, presuppone lo stabilimento di
adeguate istituzioni costituzionali nonché cittadini educati a una
pratica costituzionale consolidata e introiettata, com’è possibile
che l’effetto si faccia causa e
che la volontà generale possa vagliare e approvare il lavoro del
Legislatore costituente?
«Così dunque il legislatore, non potendo usare
né la forza né il ragionamento, deve per necessità
ricorrere ad un’autorità di un altro ordine, che possa obbligare
senza violenza e persuadere senza convincere»[54]
Il Legislatore non può imporre con la forza le nuove
istituzioni costituzionali, poiché è sprovvisto di
autorità pubblica – «non è magistratura né
sovranità», come si è detto; e neppure può fare
appello alla ragione deliberativa di coloro che dovranno recepire il testo
costituzionale, per le ragioni che abbiamo dianzi esposto: non gli resta altro
da fare, allora, che indurre la credenza che all’origine della
costituzione ci sia «l’intervento del cielo», la
volontà divina. Il Legislatore, quindi, deve mettere le sue decisioni
«sulla bocca degli dèi, per trascinare con
l’autorità divina quel che la prudenza umana non potrebbe
conquistare»[55]
Il successo del processo costituente è, dunque, affidato non
all’intervento divino, ma alla capacità d’indurre la
credenza che esso ci sia stato.
In questo saggio non posso occuparmi in maniera approfondita del
nesso tra politica e religione nel pensiero di Rousseau[56].
Dico solo che si tratta di un rapporto complesso, ora di collegamento ora di
disgiunzione.
È, deve essere,
un rapporto di separatezza. Come si è già detto, la ragione che
sta a fondamento della politica è quella «pubblica» e
«deliberativa» e non quella «metafisica» e
«totalizzante» (Rawls direbbe «comprensiva»): la
democrazia, e l’unità politica che in essa si realizza, non
necessitano del sostegno costante della religione, né di quella
«dell’uomo» né di quella « del cittadino».
La prima, infatti, «non può rafforzare l’obbedienza o la
fedeltà del cittadino, anzi lo stacca dalla vita dello Stato, come da
tutto ciò che si svolge entro il mondo»; la seconda,
«essendo fondata sull’errore e sulla menzogna, preferendo cerimonie
superstiziose al culto interiore della divinità, (…) giustifica
l’intolleranza, spinge all’assassinio o alla guerra contro coloro
che appartengono a una religione diversa»[57].
Tuttavia, nelle fasi fondative (“costituenti”) della
politica, è irrinunciabile la fede nell’autorità divina e
in un suo intervento provvidenziale nelle vicende umane. In definitiva,
«da tutto ciò non bisogna concludere (…) che
la politica e la religione abbiano (…) un oggetto comune, ma che,
nell’origine delle nazioni, l’una serve di strumento
all’altra»[58]
La politica e la religione riguardano, debbono riguardare, ambiti separati. Ma la fondazione e la
vincolatività originaria della prima ha bisogno del mito e del sacro. Anche in Rousseau c’è una teologia politica[59].
The essay concerns the relationship between
two concepts that are fundamental in the thought of Rousseau: liberty and
general will. The purpose of the analysis is to demonstrate that general will
means, essentially, principle of
reciprocity: this principle is strongly related with the concept of
“public reason”, which is of central importance in the political liberalism of John Rawls.
Peraphs we need to re-think the ancient idea that suggests a democratic but not
a liberal interpretation of Rousseau’s thought; and it could be the case
that his theoric work finds a place even in the contemporary liberal thought.
[Per la pubblicazione degli articoli della sezione
“Contributi” si è applicato, in maniera rigorosa, il
procedimento di peer review. Ogni articolo è stato valutato
positivamente da due referees, che
hanno operato con il sistema del double-blind].
* Relazione al Convegno
"La sovversione dei soggetti: J. J. Rousseau", tenutosi a Roma il 7
ottobre 2011 nella Biblioteca Nazionale Centrale.
[1] B.
Constant, Cours de
politique constitutionnelle, Paris 1818, trad. ital. Principi di politica, a
cura di U. Cerroni, Roma 1970, p. 54.
[7] I.
Berlin, Four
essays on Liberty, London-Oxford-New York 1969, trad. ital. Due concetti di libertà, Milano
2000, p. 65 [corsivo mio].
[10] H. Kelsen, Vom Wesen und Wert der
Demokratie, Tubingen 1929, trad. ital. Essenza e valore della democrazia, in Id., I
fondamenti della democrazia, tr. it. di A. M. Castronovo, F. L.
Cavazza, G. Melloni, Bologna 1966, p. 160.
[12] J.-J. Rousseau, Du contrat social ou Principes du droit politique, Paris 1762 trad.
ital., Il contratto sociale, a cura
di G. Perticone, trad. it. di M. Perticone de Vincolis, Milano 1965-1987, I,
VIII, p. 34.
[14] N. Bobbio, Kant e le due libertà, in Id.,
Da Hobbes a Marx, Napoli 1965, 3a
ed., 1974, pp. 147 ss. (ora in Id.,
Teoria generale della politica [a
cura di M. Bovero], Torino 1999, pp. 40 ss.)
[19]
Riprendo qui alcune riflessioni già svolte in O. Chessa, Libertà
fondamentali e teoria costituzionale, Milano 2002, p. 63, cui rinvio per
ulteriori approfondimenti.
[25] Sul favor libertatis come
«libertà negativa residuale», ossia «sicurezza
giuridica, e sul ricorrere costante di questo concetto nel pensiero giuspolitico
moderno (da Hobbes, Locke, Kant fino a Montesquieu, Rousseau e le teorizzazioni
dello stato borghese di diritto), rinvio a O.
Chessa, Libertà
fondamentali e teoria costituzionale cit., tutta la Parte Prima.
[29] In un
passo dell’Economia politica,
tr. it. Scritti politici, Torino
1970, p. 389, Rousseau giudica la
massima secondo cui si può sacrificare un innocente per la salvezza
della comunità «una delle più esecrabili che la tirannide
abbia mai inventato, la più falsa mai formulata, la più
pericolosa che si possa ammettere, e la più radicalmente contraria alle
leggi fondamentali della società».
[30] Faccio
ovviamente riferimento a C. Mortati,
La costituzione in senso materiale,
Milano 1940, passim.
[35] Il
criterio di reciprocità, e quindi di volontà generale, che si
evince dal pensiero rousseauviano corrisponde alla definizione di eguaglianza
giuridica offerta da I. Kant, Zum Ewigen Frieden,1795, trad. ital. Per la pace perpetua (a cura di S.
Veca), Milano, 1991, p. 33 (in nota): questa indica «quel rapporto tra i
cittadini secondo il quale nessuno può obbligare giuridicamente un altro
a qualcosa senza che egli sia contemporaneamente soggetto alla legge di poter essere obbligato a sua volta da
questo cittadino in egual modo».
[36] Per
usare la terminologia di John Rawls,
Political Liberalism, 1993, tr. it.
(a cura di S. Veca), Liberalismo politico,
Milano-Torino 1994-1999, passim.
[37] Questa
interpretazione “costituzionale” del concetto rousseauviano di
volontà generale si deve soprattutto a John
Rawls (vedi l’opera postuma che raccoglie le Lectures on the History of Political Philosophy, Harvard 2007, tr.
it. cura di S. Veca, Lezioni di storia
della filosofia politica, Milano 2009, pp. 244, 245): adottare «il
punto di vista della volontà generale» implica che «quando
agiamo come membri dell’assemblea che promulgano le norme costituzionali
o le leggi fondamentali, a contare come ragioni dovrebbero essere solo le
ragioni basate sugli interessi fondamentali che condividiamo in quanto cittadini.
Da tale punto di vista, nell’ordine delle ragioni qui appropriate tali
interessi fondamentali ottengono la priorità assoluta sugli interessi
particolari. Quando votiamo sulle leggi fondamentali, dobbiamo dare la nostra
opinione riguardo a quali leggi siano più atte a stabilire le condizioni
politiche e sociali che mettano ciascuno egualmente in grado di promuovere i
suoi interessi fondamentali».
Tuttavia, come vedremo meglio
nel paragrafo 12, Rawls non sembra tenere conto delle riflessioni rousseauviane
sulla figura del «Legislatore», quale rimedio escogitato per
fronteggiare l’impossibilità che la volontà generale possa
guidare l’attività costituente di cittadini che ancora non sono
stati educati all’esercizio della ragione pubblica.
[38]
Intendo qui la nozione di «ragione pubblica» nell’accezione
propriamente rawlsiana della formula. Questo accostamento tra volontà
generale e ragione pubblica è lo stesso J.
Rawls, op. ult. cit., 245, a
proporlo: Egli, infatti, asserisce assai chiaramente che «la visione di
Rousseau comprende un’idea di ciò che ho definito ragione
pubblica», aggiungendo (nella nt. 2) che per «ragione
pubblica» deve intendersi quella «forma di ragionamento appropriata
a cittadini uguali, che come corpo collettivo si impongono reciprocamente delle
regole sostenute dalle sanzioni del potere statuale». Per una trattazione approfondita del
concetto di ragione pubblica, vedi J.
Rawls, The Idea of Public Reason
Revisited, in Id., The Law of Peoples with “The Idea of
Public Reason Revisited”, Harvard 1999, trad. ital. Un riesame dell’idea di ragione
pubblica, in Id., Il diritto dei popoli (a cura di S.
Maffettone), tr. it., Torino 2001, pp. 173 ss..
[41] J.L.
Talmon, The
Origins of Totalitarian Democracy and Political Messianism 1952, trad. ital. Le origini della democrazia totalitaria,
Bologna, 1967, passim.
[44] Per
una trattazione più approfondita della concezione costituzionale
americana della separazione dei poteri – e del suo intimo legame con la
questione delle factions e del loro
necessario pluralismo – rinvio a O.
Chessa, Il Presidente della
Repubblica parlamentare. Un’interpretazione della forma di governo
italiana, Napoli 2010, pp. 133 ss. e 167 ss.
[45] The Federalist n. 10, 83. E «le
cause latenti da cui possono nascere le fazioni sono … disseminate nella
natura umana». Difatti, «opinioni profondamente diverse relative
alla religione, a questioni di governo o d’altro genere, speculative o
pratiche, nonché legami verso leaders
diversi (che con ambizione lottano per la preminenza e il potere) o verso
persone di tipo diverso (le cui fortune siano interessanti per le umane
passioni) hanno, di volta in volta, diviso gli uomini in partiti, li hanno
infiammati di mutua animosità e resi molto più pronti a
oppressioni e vessazioni reciproche, che non a cooperare per il bene comune
… Ma l’origine più comune e persistente di atteggiamenti
faziosi è la distribuzione varia e ineguale dei patrimoni. Coloro che
hanno proprietà e coloro che ne sono privi hanno sempre contribuito a
creare interessi distinti nella società».
[55] J.-J.
Rousseau, op. cit.,
II,VII, p. 53. Rousseau, però, precisa che «non tutti gli uomini
possono far parlare gli dèi né esser creduti quando si presentano
come loro interpreti. La grande anima del legislatore è il solo miracolo
che deve provare la sua missione».
[56] Il
tema, peraltro, costituisce oggetto del contributo di G. Forni Rosa, La
religion civile avant et après la révolution, cui rinvio.