Università “Cardinal Stefan
Wyszyński”
Varsavia
Direttore della rivista
Zeszyty Prawnicze
‘Leges votatae’ nelle assemblee popolari
ABSTRACT:
Political life in Rome during the Republic mostly took place in the assemblies
convoked by a magistrate under the auspices. The auspices were divided into
major and minor and so were the magistrates able to perform them. There is an
important difference between a contio,
that is an informal first phase of the assembly, several of which could take
place at the same time, and the comitia,
during which the voting was carried out. A contio
could also be convoked by the ponifex
maximus and some religious ceremonies could take place in its course such
as inauguratio
regis aut flaminum, testamentum calatis comitiis, sacrorum detestatio or captio virginis Vestalis. Also women
were allowed to take part in a contio.
After this first phase the assembly was either terminated, or continued as a comitium voting according to curiae, centuriae or tribus. The
assemblies of the plebs, concilia plebis,
were also tributa which causes some
terminological difficulties. They were however convoked by a plebeian tribune
and voted plebisscita not leges. The plebissctita got equiparated with leges gradually under three subsequent laws: lex Valeria Horatia de plebisscitis, lex Publilia Philonis de plebisscitis and finally lex Hortensia. Also privilegia – decicions of the assembly that were not general
but considered a single case – should be differenciated form the leges. Such acts as adrogatio, testamentum
calatis comitiis or sacrorum
detestatio were not leges, but
were only modelled on them, as the motion was not put by a magitrate but by the
pater familias and they never
required the auctoritas patrum.
La vita politica a Roma nel periodo
della repubblica si svolgeva anzitutto in
comitia cioè in assemblee
popolari che venivano convocate dai magistrati nel tempo giusto e in modo
determinato per un dato tipo di comizio.
Prima di iniziare le attività
in assemblea si doveva stringere un rapporto diretto con le divinità per
conoscerne la volontà, cioè per trarre gli auspicia, con l’aiuto di diversi segni in cielo ed in terra[1].
Gli auspicia dovevano svolgersi nel
posto ad essi destinato che era indubbiamente legato al luogo in cui si
svolgevano i comitia.
È, però, oggetto di
discussione se gli auspicia fossero
connessi ad un determinato giorno di svolgimento dell’azione, oppure
all’azione a cui si riferivano. Se l’assemblea, preceduta dagli auspicia, non aveva effettuato le azioni
p.es. la elezione del magistrato prima del tramonto del sole,
quest’azione poteva essere tratta il giorno dopo, senza dover riprendere
gli auspicia, a meno che
anch’esso fosse il dies comitialis[2].
Quando, però, il risultato degli auspicia
era stato sfavorevole, veniva annunciato che l’azione a cui si sarebbe
dovuto procedere avrebbe avuto luogo alio
die[3].
Gli auspicia nelle questioni statali spettavano al re, agli auguri, e
poi, ai supremi magistrati repubblicani nel corso dello svolgimento della loro
carica ed al senato nel momento in cui mancavano i magistrati curuli,
cioè nel periodo dell’interregnum,
e quindi, spettavano a coloro che avevano l’imperium[4].
Aulo Gellio, un famoso antiquario[5]
dell’epoca dell’imperatore Adriano. nelle sue Noctes Atticae rileva che Valerio Messala Rufo, che visse alla fine
della repubblica e rivestì la carica di augure per cinquanta cinque
anni, nel suo libro De auspiciis
divide anzitutto gli auspici in auspicia
minora[6]
e in auspicia maiora e distingue poi
le magistrature maggiori dalle minori in base agli auspicia ad esse spettanti. Quest’autore citato da Gellio
scriveva che gli auspicia maiora
spettavano ai consoli, pretori e censori cioè alle magistrature
maggiori. Però tra queste magistrature egli notava una certa
differenziazione. Nella sua opinione i pretori erano colleghi dei consoli
nell’ufficio. I censori al contrario, anche se facevano parte delle
magistrature maggiori, non erano colleghi nell’ufficio nè dei
pretori nè dei consoli. Gli auspicia
minora spettavano, invece, ai magistrati minori[7].
La possibilità di trarre gli auspicia era collegata anche al diritto
del magistrato di convocare le assemblee ed alle competenze di questi comizi.
Secondo il suddetto Messala, il console convocava il popolo per le contiones e per i comitia[8].
Il pretore poteva farlo solo nel caso, in cui non l’avesse fatto il
console. Quando l’assemblea veniva convocata da un magistrato minore, non
si poteva eleggere un magistrato maggiore. Colui che convocava i comitia, non poteva essere sostituito
successivamente da altro magistrato perché la facoltà di
convocare e di presiedere l’assemblea era indivisibile. Di conseguenza,
la presiedeva il convocante. Anche se il popolo per l’assemblea veniva
convocato dall’assistente del console, si riteneva che l’assemblea fosse
stata convocata dal console stesso e non, invece, da colui che eseguiva il suo
ordine. I comitia curiata venivano
convocati dal lictor, mentre i comitia centuriata dal cornix[9].
Entrambe le assemblee portavano lo stesso nome comitia calata. Si
può supporre che vi fosse un altro nome per indicare le contiones cioè la prima fase
della riunione del popolo in comitia[10].
Il termine contio aveva, però, un significato molteplice[11].
Poteva significare sia un posto che una tribuna da cui si tenevano discorsi al
popolo, o il popolo riunito ad ascoltare il discorso, ed ancora il discorso
stesso indirizzato al popolo. In contione aveva luogo anche una semplice
trasmissione dell’informazione che interessava il popolo da parte del
magistrato, oppure veniva espresso il proprio parere sulle questioni pubbliche,
nonchè compiuti atti giuridici la cui validità era condizionata
della presenza del popolo[12].
La differenziazione tra la contio
ed il comitium creava dei gravi problemi agli storici greci che
descrivanno le istituzioni romane. Polibio, che soggiornò a Roma alla
metà del II secolo a.C. di solito evitava di usare la parola che
identificava le assemblee, invece il popolo riunito sia in contio che in comitium
designava il demos. Dione Cassio,
scrivendo sulla forma di governo del principato, usava spesso termini simili
per denominazione contio e comitia. Plutarco ed Appiano che non
riuscivano a comprendere le differenze tra questi tipi di assemblee, rendevano
spesso contio attraverso il termine ekklesia che nella lingua greca
significava un’assemblea in cui venivano fatte sia le discussioni che la
votazione[13].
Si pone, quindi, la domanda se la contio potesse significare una riunione
in cui veniva fatta la votazione? Lo potrebbe indicare la spiegazione
dell’espressione contionem
convocari come cum populo agi di
Lucio Giulio Cesare, coevo di Messala, riportata da Macrobio nei suoi Saturnalia[14].
Però nel suddetto caso, questa espressione non si riferiva
esplicitamente all’assemblea votante. Invece, in nessun’altra fonte
si trova il termine contio per
indicare le assemblee votanti[15].
Contro l’uso della parola contio
per indicare l’assemblea votante parla anche la relazione di Asconio.
Egli distingue coloro che votavano riuniti nelle loro tribus dalle assemblee dette contiones
in cui il popolo si riuniva senza partecipare alla votazione[16].
Una conclusione simile può essere tratta già da Varrone che in de lingua Latina riferì che i comitia centuriata, in cui veniva
organizzata la votazione, si svolgevano solo dopo le contiones[17].
La contio
poteva essere la prima fase dell’assemblea in cui venivano presentate
liberalmente le proprie opinioni prima di una decisione definitiva nella
votazione. Ciò è tanto più probabile in quanto le contiones potevano essere convocate da
numerose persone. Si potevano svolgere contemporaneamente, senza un ordine
prestabilito, in vari luoghi[18].
Queste riunioni venivano convocate o dal magistrato[19],
oppure dal pontefice massimo[20].
In esse venivano celebrati diversi riti sacrali di interesse dei gruppi
familiari: tali atti solenni potevano avere luogo soltanto dopo aver tratto gli
auspicia. Si possono elencare
l’inauguratio regis aut flaminum,
il testamentum calatis comitiis e la sacrorum detestatio[21].
Siccome la partecipazione in queste contiones
non veniva organizzata secondo il criterio dell’appartenenza alla curia,
centuria o tribù vi potevano partecipare tutti coloro che erano
interessati alle funzioni o cerimonie solenni, fra cui anche le donne[22].
La relazione di Gellio sulla captio di Vestali può servire
d’esempio[23].
Come informa Gellio, le usanze e riti connessi alla captio, cioè alla la scelta di vergini al servizio nel
tempio di Vesta, non erano stati descritti per l’epoca più
risalente, con una sola eccezione dovuta a un’annotazione sulla prima captio eseguita dal re Numa. Gellio
contrapone la captio dell’epoca
del re Numa alla captio delineata
dalla lex Papia[24].
Non sembra probabile che tale contrapposizione si riferisse al cerimoniale,
giacché un ignoto cerimoniale del passato non poteva contraporsi ad uno
descritto con non poca precisione. Parrebbe quindi che la contrapposizione si
riferisca alla persona che effettuava la captio.
Ai tempi di Numa se ne preocupava il re, mentre la lex Papia ne identicava nel pontefice massimo il responsabile. Forse
Gellio intendeva mettere in risalto proprio questo fatto. É noto,
infatti, che dapprima la captio
veniva effettuata dal re, a cui forse subentrò, nell’esercizio di
questa funzione, il rex sacrorum che,
a sua volta, ne venne privato in virtù della lex Papia dal pontefice massimo[25].
Gli elementi del cerimoniale della captio
potevano, in sostanza, rimanere immutati e le modifiche introdotte riferirsi
soltanto la scelta delle vergini. Dapprima il re sceglieva in modo
discrezionale, poi si introdusse il sorteggio. Ma, comunque fossero cambiate le
modalità del reclutamento, questo, come confermato dalla lex Papia, doveva svolgersi in populi contione. Se tale ragionamento
è corretto, si dovrebbe dedurre che alla contio partecipassero anche le vergini, fra le quali venivano
scelte ovvero, a seconda dell’epoca, sorteggiate quelle che avrebbero
dovuto accudire al tempio. Se poi alle contiones
potevano prender parte vergini, a maggior ragione potevano parteciparvi le
donne adulte per mettere in opera atti giuridici[26].
Dalla relazione di Gellio risulta che in populi contione aveva luogo il testamentum calatis comitiis e la sacrorum detestatio. Inoltre è
noto che le donne facevano il testamento già dai tempi di Romolo.
Però delle due forme più antiche del testamento il testamentum in procinctu era di natura
inaccessibile alle donne. Se, quindi, effettivamente esse facevano i
testamenti, l’unica possibilità consisteva nel farli in questa
fase dell’assemblea a cui potevano partecipare le donne e in cui venivano
fatti i testamenti, cioè in populi
contione[27].
Dopo aver eseguito, nella fase
iniziale dell’assemblea popolare cioè in contiones, gli atti solenni come la captio delle Vestali e le inaugurationes
flaminum o regis, se non
c’erano altri problemi che richiedessero una decisione del populo, la contio veniva sciolta tramite la
formula: discedite. In caso contrario
con la formula: ite in suffragium i cives venivano convocati ai comizi veri
e propri, nei quali gli aventi diritto al voto si riunivano in gruppi
corrispondenti a curie, o centurie o tribù[28].
Si può presumere che prima
della riforma di Servio, le assemblee del populo che si riunivano nel pomoerium, oppure nel raggio di un
miglio a seconda del criterio di appartenenza alla curia, venivano chiamate comitia curiata[29].
Tuttavia rimane discutibile se la divisione attribuita a Romolo, tranne gli
aspetti sacrali[30]
o militari[31],
fosse stata introdotta principalmente a fini politici[32],
oppure amministrativi[33]
e fosse legata all’assegnazione del ager[34].
Invece dopo la divisione del popolo in centuriae
fatta da re Servio Tullio, le assemblee potevano essere sia curiata che centuriata.
I comitia
centuriata in quanto assemblee militari si riunivano fuori città in
ordine di combattimento nel Campo Marzio. La tradizione collega l’inizio
di queste assemblee con la divisione del populo, effettuata a fini militari, in
cinque classi[35].
È incerto da quando fossero state sfruttate allo scopo politico
acquistando funzioni elettorali, giudiziarie e legislative[36].
È probabile che ciò fosse legato ad una scomparsa
dell’attività politica dei comitia
curiata, che alla fine vennero limitati solo ai riti religiosi e sacrali
nonchè alle azioni giuridiche connesse[37].
Proprio grazie a queste azioni, in particolare grazie alle adrogationes che erano popolari sia nell’epoca della
repubblica che della dinastia di Giulio-Claudia, i comitia curiata conservarono le loro competenze in forza della
tradizione fino al terzo secolo d.C., nonostante che dalla fine della
repubblica si limitassero ad una partecipazione simbolica di trenta littori che
rappresentavano le trenta curie[38].
Malgrado le elezioni dei magistrati si svolgessero in comitia centuriata, ancora nel periodo del principato la lex curiata de imperio veniva votata
anche nei comitia curiata[39].
Come la divisione del popolo in centuriae sostituì e in certo
modo subentrò alla divisione in curiae
ma senza abolirla, così pure la divisione in centuriae cedette il campo alla divisione del populo in
tribù[40].
Quest’ultima avvenne in seguito alla nuova organizzazione del popolo, non
secondo il criterio dell’appartenenza alla famiglia o secondo la
richezza, ma secondo le tribù territoriali. È possibile che i comitia tributa venissero convocati
ancora prima della legge delle dodici tavole, dato che essa prevedeva per il comitiatus maximus, cioè
centuriato, le competenze per le causae
capitales[41].
Questi problemi non venivano mai decisi nei comitia
curiata. Non venivano decisi nemmeno dai concilia plebis esistenti già allora. Perciò i comitia leviora, cioè le
assemblee in cui poi venivano eletti i magistrati minori, dette comitia tributa populi, potevano
costituire una contrapposizione al comitatus
maximus. Queste assemblee, convocate secondo la tribù, non venivano
però mai dette comitia calata[42].
Nonostante le assemblee della plebe, concilia plebis, fossero basate sul
criterio di residenza uguale ai comitia
plebis, se ne differenziavano sostanzialmente. Però le competenze
simili e la terminologia imprecisa, specialmente nelle fonti letterarie,
possono condurre all’identificazione di questi due tipi di assemblee[43].
Benchè la differenziazione formale tra queste assemblee tribute, concilia plebis e comitia populi, poi nei tempi della repubblica fosse divenuta
minima, ebbe però un’importanza storica. Prima di tutto un magistratus populi presiedevano i comitia
populi che potevano avere luogo lì dove erano stati da essi
convocati. In essi venivano eletti gli edili curuli, questori ed altri
magistrati inferiori, nonché venivano votate le leges. Invece il magistrato plebeo, di solito il tribuno,
presiedeva i concilia plebis, detti
anche comitia tributa plebis, che
potevano aver luogo in città o nel raggio di un circoscrizione di un
miglio, cioè nella giurisdizione dei tribuni. In essi venivano eletti i
tribuni, gli edili ed i magistrati plebei speciali, venivano approvati anche i plebiscita[44].
Le assemblee romane si differenziavano
non solo a seconda di chi le poteva presiedere, ma anche di chi ci si riuniva.
Su questo argomento si possono avere più informazioni non solo da un
frammento delle Istitutiones di Gaio[45],
noto a tutti, ma anche dalla relazione inserita nelle Noctes Atticae attinta dall’opera di Lelio Felice[46],
un giurista quasi ignoto; per questo motivo alcuni lo identificavano perfino
con Gaio. Lelio Felice riferisce che l’assemblea della plebe, convocata
dal tribuno, era composta non da tutto il populo ma solo da una sua parte.
Perciò questa assemblea dovrebbe essere chiamata concilium in confronto all’assemblea di tutto il popolo,
cioè al comitium. Differenze
simili tra i termini plebs e populus venivano sottolineate anche da
Ateio Capitone, un famoso giurista dell’epoca di Augusto, citato dal
già menzionato Gellio[47].
È molto interessante che Laelio Felice spieghi la differenziazione tra comitia e concilium con il fatto che i tribuni in quanto magistrati plebei
non avevano facoltà nè di convocare i patrizi nel concilium né di collaborare con
loro in tale assemblea. Per quanto sopra menzionato, i comitia venivano presieduti dal magistrato
che aveva ius agendi cum populo, il concilium, invece, da un magistrato
munito di ius agendi cum plebe.
Pertanto le differenze più sostanziali tra questi due tipi di assemblee
sono visibili nelle deliberazioni da esse votate, anche se formalmente equiparati
col passare del tempo. Originariamente le proposte dal magistrato munito di imperium e votate nelle assemblee del populus Romanus erano dette leges,
invece, le delibere dell’assemblea della plebe – plebiscita[48].
Nondimeno poi sotto il nome generico
di lex venivano ricomprese sia le leges in senso stretto, sia i plebiscita. Dalla definizione della lex, data da Ateio Capitone e trascritta
nelle Noctes Atticae di Aulo Gellio,
risulta che si tratta di una decisione generale del popolo o della plebe, su
proposta del magistrato[49].
Perciò la lex, secondo
Capitone, non è solo una deliberazione del popolo ma pure della plebe
perchè nel termine generale lex
era racchiuso anche il concetto di plebiscitum.
Il plebiscitum ebbe, però, un
ambito più angusto. Esso veniva votato da una parte del populo detta
plebe, cioè senza la partecipazione dei patrizi. Questa diversa
provenienza della lex e del plebiscitum veniva fortemente accentuata
prima di tutto da Gaio[50],
seguace della scuola dei sabiniani, l’origine della cui secta veniva
fatta risalire proprio ad Ateio Capitone. Tuttavia, Gaio si differenziava
rispetto a Capitone, non ritenendo che nel termine lex fosse ricompreso il plebiscitum.
Nelle Istituziones, in sede di
definizione della lex, si
limitò a descrivere la attività del populo che iubet atque constituit, tralasciando il ruolo del magistrato. Invece, grazie
alla relazione di Gellio è noto che il populo – ciò
riguarda relativamente anche la plebe – poteva esprimere, secondo
Capitone, la sua volontà soltanto nella collaborazione con il
magistrato. Esso non poteva riunirsi da solo perchè l’iniziativa
spettava esclusivamente al magistrato che poteva inviare la rogatio al populo. Senza aver fatto la rogatio o nelle questioni relative
all’individuo o in quelle generali, non poteva nascere nessuna legge. In
conclusione, la lex poteva essere
perfezionata solo dall’azione comune del magistrato e del populo. Il
compito del magistrato consisteva nel
convocare il populo e nel proporre la
rogatio, invece quello del popolo –
nell’approvarla o nel respingerla. Nella rogatio, il magistrato che aveva lo ius agendi cum plebe aut cum populo presentava la questione e
chiedeva la decisione da parte dell’assemblea. Si può dire che la lex era una specie di contratto
bilaterale tra il magistrato che poneva la rogatio cui segue
l’approvazione dell’assemblea. Si può dire, dunque, magistratus rogat populus respondendo iubet[51].
Nella creazione del diritto da fattori
così diversi, vale la pena di far notare l’evoluzione del suo vigore
a seconda della fonte da cui essa proveniva. Si può esaminarla
sull’esempio della lex, cioè della deliberazione del
populo, e del plebiscitum,
cioè della deliberazione del plebe. Gaio sottolineò chiaramente
che i plebiscita vennero equiparati
alle leges con la lex Hortensia perchè prima i
patrizi ritenevano che i plebiscita
approvati sine autoritate eorum non
li riguardassero[52].
Dello stesso parere era anche Laelio Felice, citato da Gellio, che
constatò che i plebiscita fino
alla votazione della lex Hortensia
erano privi di qualsiasi efficacia giuridica, di ogni valore legale per la
communità[53].
Nonostante la legge estendesse il
vigore dei plebiscita su tutto il
popolo, il suo scopo non consisteva nel privare i comitia delle competenze legislative. Tuttavia, dopo la sua
votazione, la plebe continuando a rappresentare nello stato una struttura
separata con i propri magistrati, era autorizzata a votare le deliberazioni che
riguardano tutti i cittadini, cioè sia i plebei che i patrizi. Gaio,
riportando che i patrizi negavano la validità dei plebiscita nei
confronti di tutti i cittadini, fa notare che lo facevano olim, cioè a suo tempo. Però dall’espressione
di questo giurista riguardante l’auctoritas
patrum si può dedurre che esistessero dei dubbi sul vigore dei plebiscita, anche prima che fosse votata
la lex Hortensia[54].
A seconda della lectio del testo di
Gaio anche oggi possiamo polemizzare se essi non fossero vigenti [quia]
sine auctoritate o <quae> sine auctoritate eorum facta essent[55].
Delle leggi precedenti alla lex Hortensia che equiparavano i plebiscita alle leges[56]
si sa esclusivamente dai libri ab Urbe
condita di Tito Livio, uno storico romano. Dalla relazione di Livio
è noto, ma non lo riporta nessun’altra fonte, che le deliberazioni
della lex Hortensia erano in un certo
senso una ripetizione del contenuto di due leggi precedenti, cioè della lex Valeria Horatia de plebiscitis[57]
e della lex Publilia Philonis de
plebiscitis[58].
La prima fu votata in una situazione
politica complicata. Come sappiamo, la legge delle dodici tavole non
riuscì a soddisfare completamente l’aspirazioni politiche della
plebe. Come se non bastasse i Decemviri non si dimisero dall’ufficio
entro il termine previsto, e in più il loro governo inefficiente provocò
alcune sommosse ed un’altra secessione nel Mons Sacer. In queste circostanze Lucio Valerio e Marco Orazio, che
già in precedenza avevano placato i conflitti tra i Decemviri e la
plebe, vennero mandati dal senato alle negoziazioni con i plebei per farli
venire a Roma alle condizioni che ritenevano giuste. I plebei, invece, dopo
aver presentato le loro richieste, autorizzarono i legati a fare concessioni al
senato. In seguito alle trattative, tra l’altro, venne accordata ai
tribuni la restaurazione del potere dei tribuni e il diritto di provocatio ad populum[59].
La plebe, dopo essere tornata dalla
secessione, si radunò in assemblea sotto la presidenza del pontifex maximus. In essa vennero eletti
i tribuni plebei nonchè venne fatta la mozione sulla elezione dei
consoli con la diritto di provocatio ad
populum rispetto alle loro decisioni. Poi, grazie alle dimissioni
dall’ufficio dei Decemviri, si poterono svolgere le elezioni dei consoli.
Grazie alla popolarità che acquisirono durante le trattative, Valerio e Orazio
vennero eletti come consoli. Anch’essi, in quanto consoli, erano
favorevoli ai plebei, ma non a discapito dell’interesse dei patrizi.
Ciononostante i patrizi trattavano ogni decisione riguardante le libertà
dei plebei come una perdita dei propri influssi. Prima di tutto obiettarono che
le deliberazioni votate dai plebei non li riguardavano.
Per risolvere vari dubbi e mantenere
contemporaneamente la promessa data durante le trattative con i plebei, grazie
a cui evitarono il conflitto, i consoli condussero alla votazione di tutta una
serie di leggi nel 449 a.C. In base a queste leggi fu ripristinata
l’inviolabilità dei tribuni con la lex Valeria Horatia de tribunicia potestate[60];
fu fatto divieto di creare magistrature esenti da provocatio ad populum con la lex
Valeria Horatia de provocatione[61];
venne decisa la questione controversa della vigenza dei plebisciti. Nei comitia centuriata venne votata una
legge detta lex Valeria Horatia de
plebiscitis[62]
che prevedeva che ai plebisciti dei plebei doveva essere soggetto tutto il
populo (quod tributim iussissent, populum
teneret). Livio, anche se constata che in questo modo ai tribuni, in quanto
autori della mozione dei plebisciti, fu data in mano un’arma forte, nella
sua ulteriore relazione sottolinea chiaramente che la votazione delle leggi
spettava al populo.
Si pone, quindi, la domanda
perchè dopo la votazione della lex
Valeria Horatia de plebiscitis, visto che ai plebisciti doveva essere
sottoposto tutto il populo, i plebei continuarono a lottare con tanto accanimento
per la votazione della lex de conubio[63]
o per la legge che permetteva loro di rivestire la carica del console[64].
È possibile che nelle suddette questioni non si potesse condurre alla
votazione del plebiscitum? Prendendo
in considerazione questa ipotesi, si può supporre che la lex Valeria Horatia de plebiscitis sia
un’invenzione di un annalista, oppure, il che sembra più
probabile, che essa non riguardasse la validità dei plebisciti futuri
della plebe, ma solo di quelli che furono votati dopo il ritorno dal Mons Sacer[65].
Invece la questione della
validità dei plebisciti della plebe, che avrebbero dovuto essere votati
in seguito, fu ripresa dalla lex Publilia
Philonis de plebiscitis[66]
del 339 a.C. Questa legge, votata sotto la dittatura di Publilio Philone,
stabiliva che ai plebisciti dovessero essere soggetti tutti i cittadini (ut plebi scita omnes Quirites tenerent).
La lex Publilia Philonis de patrum
auctoritate[67],
votata lo stesso anno, prevedeva che il senato dovesse approvare in anticipo (ante initium suffragium patres auctores
fierent) le leggi per cui era prevista la votazione nei comitia centuriata.
Secondo la narrazione di Livio prima
era stata approvata la legge che equiparava tutti i plebisciti alle leggi,
cioè anche quelli che dovevano essere votati in seguito, poi venne
votata la lex Publilia Philonis de patrum
auctoriate che decise che il senato avrebbe concesso in anticipo l’auctoritas alle leggi votate. Si pone la
domanda se tale auctoritas del senato
patrizio, concessa in anticipo, dovesse riguardare anche i plebisciti. I
patrizi ritenevano di no, e perciò erano dell’opinione che i
plebisciti sotto questo aspetto non fossero equiparati alle leggi, in quanto
dopo la loro approvazione, per vincolare tutti i cittadini, dovevano continuare
ad ottenere l’auctoritas
indispensabile[68].
Finalmente la lex Hortensia, votata post
graves et longas seditiones[69]
sotto la dittatura di Ortensio, portò ad un vera equiparazione di queste
due fonti di diritto dando loro lo stesso vigore. Probabilmente per questo motivo
le fonti, oltre a Livio, collegano questa equiparazione alla lex Hortensia del 286 a.C[70].
Si può, quindi, supporre che prima di approvare la lex Hortensia, ai plebisciti fossero soggetti solo i plebei, invece
i patrizi fossero soggetti solo a quelli che avevano ricevuto l’auctoritas patrum[71].
Ma dopo la votazione della lex Hortensia
ai plebisciti era soggetto tutto il populo, cioè sia i plebei che i
patrizi[72].
Oltre agli atti generali del populo in
comizi, o della plebe in conzioni. venivano votate anche atti riguardanti le
singole persone o i singoli problemi, anch’essi detti leges[73].
Tale accezione del termine lex si
trovò nella definizione di Aelius Gallus riferita dall’antiquario
Pompeio Festo[74].
Di tali leggi faceva parte prima di
tutto la lex curiata de imperio, che confermava l’imperium delle magistrature elette
all’inizio di ogni anno. Anche se non c’è concordanza sulla
sua genesi né sulla sua funzione, si può supporre che essa non
fosse una lex nel proprio senso della
parola, cioè approvata in seguito alla votazione, perché assumeva
la forma di un giuramento per acclamazione del popolo all’obbedienza
verso il titolare dell’imperium,
oppure di un giuramento solenne prestato al populo in comizi da parte di colui
che assumeva l’imperium. In
ogni caso tale lex era un’atto
di investitura del magistrato eletto nei comitia
centuriata: non costituiva solo un concedere potere militare, ma una vera e
propria concessione dell’imperium
da parte dei comitia curiata. anche
se l’elezione stessa veniva esercitata nei comitia centuriata.
Gellio, commentando la definizione
della lex data da Capitone, constata
che nella sua opinione le decisioni prese sia dal popolo che dalla plebe
riguardanti le singole persone p.es. lex
de imperio Cn. Pompei, lex de reditu
M. Ciceronis oppure quaestio de caede
Clodii non possono essere designate leges[75].
Questi sono atti che si riferiscono alle singole persone e dovrebbero essere
chiamati privilegia[76].
Il termine privilegium veniva tratto
dagli antichi da priva, invece i
contemporanei di Gellio la nominavano singula.
È possibile che la definizione della lex
stabilita da Capitone come generale
iussum fosse innovativa, visto che Sallustio che visse qualche anno prima,
di cui Gellio diceva che fosse famoso per la precisione di interventi, per
definire la lex Cornelia de reditu Cn.
Pompei[77]
si serviva ancora del termine lex[78].
A questo punto si potrebbe riflettere
sul come trattare atti approvati in comizi popolari, quali il testamentum calatis comitiis, la sacrorum detestatio e la adrogatio. Si pone la domanda se anche
per essi il termine "legge" sia adeguato?
Nella letteratura romanistica si
considera, prima di tutto, il fatto che questi atti venivano deliberati nei
comizi e perciò si riflette sul ruolo dell’assemblea popolare.
Tale ruolo consisteva solo nella funzione di un testimone dell’azione,
nell’esprimere una semplice approvazione, oppure nell’assumere una
deliberazione impegnativa in seguito alla votazione? Contro quest’ultima
opinione depone specialmente il fatto che gli atti come il testamentum calatis comitiis o le sacrorum detestatio avvenivano nella fase preliminare
dell’assemblea, in populi contione,
precedente quindi la votazione. Sembra, però, che nelle riflessioni
sull’uso corretto o non corretto del termine lex si debba considerare non solo il ruolo dell’assemblea, ma
anche quello della persona che presentava rogatio.
Per quanto risulta dalle fonti, la mozione (rogatio)
veniva presentata, con ogni probabilità, almeno nel caso dell’adrogatio, dal capofamiglia – pater familias. Nelle fonti non
c’è nessun cenno che nell’adrogatio, dopo la rogatio,
avesse luogo la votazione. Però la menzione che cum populo agere consisteva nel presentare la rogatio a cui il populo dava la risposta positiva o negativa,
prevede la possibilità di votare ma a condizione che l’espressione
suffragium ferre designasse fin
dall’inizio la votazione e non l’espressione del consenso per
acclamazione. Invece l’acclamazione è qui più probabile
specialmente nella situazione in cui l’adrogatus veniva introdotto nella sua nuova curia e dall’adrogante veniva pronunciata la formula velitis, iubeatis an ...?, indirizzata
al populo. Questa formula prevedeva la risposta positiva o negativa alla
domanda posta. Ciò potrebbe anche spiegare perchè l’adrogatio, come lo riportano le fonti,
si svolgeva sempre nei comitia curiata[79].
La situazione poteva essere simile
anche nel caso del testamentum calatis
comitis e della sacrorum detestatio
fatta su mozione del pater familias.
La risposta positiva per acclamazione da parte del populo aveva luogo,
però, in populi contione,
cioè nella fase dell’assemblea in cui non veniva fatta la
votazione ed essa costituiva un’approvazione della volontà del
testatore[80]
o di colui che escludeva dalla famiglia la persona ritenuta sacer[81].
In tutti questi casi la mozione che
veniva fatta dal pater familias non
costituiva rogatio nel senso stretto
della parola, perchè non veniva proposta dal magistrato, e di
conseguenza anche la decisione presa dal populo non poteva essere lex. Nelle fonti non c’è
neanche un cenno che il senato in qualsiasi momento e in qualsiasi forma
approvasse o respingesse il testamento fatto nei comitia calata o mettesse in dubbio l’adrogatio approvata nei comitia
curiata. Nello stesso tempo non contestava, come nel caso di plebiscitum, la validità
dell’adrogatio o del testamentum calatis comitiis. Si
può, quindi, presumere che questi atti non fossero leges nel senso stretto della parola, ma che fossero soltanto fatti
su modello delle leges, non solo per
il motivo che la rogatio non era
proposta dal magistrato, ma anche per quello che essi non richiedevano mai l’auctoritas patrum. Invece i plebisciti votati in assemblea plebea
su mozione del tribuno non venivano fatti su modello delle leges, ma grazie alle leges
de plebiscitis, venivano successivamente equiparati ad esse.
[Per la pubblicazione degli articoli
della sezione “Tradizione Romana” si è applicato, in maniera
rigorosa, il procedimento di peer review. Ogni articolo è stato
valutato positivamente da due referees,
che hanno operato con il sistema del double-blind].
[1] Gell. 3,2,8-10: Sacra sunt Romana partim diurna, alia
nocturna; sed ea, quae inter noctem fiunt, diebus addicuntur, non noctibus; quae
igitur sex posterioribus noctis horis fiunt, eo die fieri dicuntur, qui
proximus eam noctem inlucescit. Ad hoc ritus quoque et mos auspicandi eandem
esse observationem docet: nam magistratus, quando uno die eis auspicandum est
et id, super quo auspicaverunt, agendum, post mediam noctem auspicantur et post
meridialem solem agunt, auspicatique esse et egisse eodem die dicuntur.
[2]
L. Ross Taylor, Roman Voting Assemblies. From the Hannibalic
War to the Dictatorship of Caesar, New York, 1966, 7; J. Farrel, The Distinction between ‘Comitia’ and ‘Concilium’, «Athenaeum» 74.3-4/1986,
407 n. 2. Soltanto
l’elezione dei censori doveva concludersi in un giorno e se soltanto uno
dei candidati aveva ottenuto i voti necessari per l’elezione,non si
procedeva alla renuntiatio, ma tutta
l’elezione doveva svolgersi un altro giorno sotto nuovi auspicia. Cf. Liv. 9,34,25.
[4]
Cf. G.W. Botsford, The Roman Assemblies. From their Origin to
the End of Republic, 2a ed.,New York 1968 (First printed 1909), p. 100 ss.;
P. de Francisci, ‘Primordia civitatis’, Romae 1959,
p. 511 s.; J. Bleicken, Zum Begriff der römischen Amtsgewalt.
(‘auspicium – potestas
– imperium’), Göttingen 1981, p. 259 s.
[5]
Cf. J. Zabłocki, The Intellectual
Background of Aulus Gellius, «Diritto @ Storia» 6/2007, = < http://www.dirittoestoria.it/6/Tradizione-romana/Zablocki-Jan-Intellectual-background-Aulus-Gellius.htm
>
[7]
Gell. 13,15,4-7: Propterea ex eo libro
verba ipsius Messalae subscripsimus. “Patriciorum
auspicia in duas sunt divisa potestates. Maxima sunt consulum, praetorum,
censorum. Neque tamen eorum omnium inter se eadem aut eiusdem potestatis, ideo
quod conlegae non sunt censores consulum aut praetorum, praetores consulum
sunt. (…) Reliquorum magistratuum
minora sunt auspicia. Ideo illi ‘minores’, hi ‘maiores’
magistratus appellantur. Minoribus creatis magistratibus tributis comitiis
magistratus, sed iustus curiata datur lege; maiores centuriatis comitiis
fiunt”.
Cf. anche P. Catalano, Contributi allo studio del diritto augurale,
Torino 1960, 469 s.; A. Magdelain,
Recherches sur l’’imperium’. La loi curiate et les auspices
d’investiture, Paris 1968, 14 s.; J. Bleicken, Zum Begriff
der römischen Amtsgewalt..., 265
s.
[8] Gell. 13,16,1:
Consul ab omnibus magistratibus et
comitiatum et contionem avocare potest. Praetor et comitiatum et contionem
usquequaque avocare potest nisi a consule. Messala indica infatti la
possibilità di avocare una conzione oppure un comizio organizzati per un
magistrato da parte di un altro, ma soltanto rivestito di una più grande
postestà. Così un console poteva avocare un assemblea convocato
da un pretore ma non viceversa. Da questo si deduce che il console sicuramente
aveva sia il ius contionandi che il ius agendi cum populo.
[9] Gell.
15,27,1-3: In libro Laelii Felicis ad Q.
Mucium primo scriptum est Labeonem scribere "calata" comitia esse,
quae pro conlegio pontificum habentur aut regis aut flaminum inaugurandorum
causa. Eorum autem alia esse
"curiata", alia "centuriata"; "curiata" per
lictorem curiatum "calari", id est "convocari",
"centuriata" per cornicinem. Isdem comitiis, quae "calata"
appellari diximus, et sacrorum detestatio et testamenta fieri solebant.
[10]
Gell. 13,16,3: Ex his verbis Messalae
manifestum est aliud esse "cum populo agere", aliud "contionem
habere". Nam "cum populo agere" est rogare quid populum, quod
suffragiis suis aut iubeat aut vetet, "contionem" autem
"habere" est verba facere ad populum sine ulla rogatione.
[11]
Cf. Gell. 18,7,2-3 e 5-9: Misit autem
paulo post Favorino librum, quem promiserat - Verri, opinor, Flacci erat -, in
quo scripta ad hoc genus quaestionis pertinentia haec fuerunt: (...)
"contionem" autem tria significare: locum suggestumque, unde verba
fierent, sicut M. Tullius in oratione, quae inscripta est contra contionem Q.
Metelli: "escendi" inquit "in contionem, concursus est populi
factus"; item significare coetum populi adsistentis, sicuti idem M.
Tullius in oratore ait: "Contiones saepe exclamare vidi, cum apte verba
cecidissent. Etenim exspectant aures, ut verbis conligetur sententia"; item
orationem ipsam, quae ad populum diceretur. Cf. F. Pina Polo, Las ‘contiones’ civiles y militares en Roma, Zaragoza
1989, 4 s. e 41 s.
[14]
Macrob., Sat. 1,16,29: Sed contra Iulius Caesar sexto decimo
Auspiciorum libro negat nundinis concionem advocari posse, id est cum populo
agi.
[16]
Asconius, In Cornelianam, C. 71
(=Giarattano 77): Alia populus confusus
ut semper alias, ita et in contione. sed his peractis, cum id solum superest,
ut populus sententiam ferat, iubet eum is qui fert legem "discedere":
quod verbum non hoc significat quod in communi consuetudine est, eant de eo
loco ubi lex feratur, sed in suam quisque tribum discedat in qua est suffragium
laturus.
[19] Il magistrato
non doveva necessariamente avere il ius
agendi cum populo. Cf. Varro, De
ling. Lat. 6,82: Circum muros mitti
solitum, quo modo inliceret populum in eum locum, unde vocare posset ad
contionem, non solum ad consules et censores, sed etiam quaestores.
[23] Gell.
1,12,10-11; 15: De more autem rituque
capiundae virginis litterae quidem antiquiores non exstant, nisi, quae capta
prima e t, a Numa rege esse captam. Sed Papiam legem invenimus, qua cavetur, ut
pontificis maximi arbitratu virgines e populo viginti legantur sortitioque in
contione ex eo numero fiat et, cuius virginis ducta erit, ut eam pontifex
maximus capiat eaque Vestae fiat. (...)Plerique autem "capi" virginem
solam debere dici putant. Sed flamines quoque Diales, item pontifices et augures
"capi" dicebantur.
[25]
Cf. Gai.1,130; Ulp. 10.5; Cf. anche F. Guizzi,
Aspetti giuridici del sacerdozio romano.
Il sacerdozio di Vesta, Napoli 1968, 32 s.
[28] Cf. Varro, De ling. Lat. 6,88 nonché Liv.
2,56,12; cf. anche G. Prugni,
‘Quirites’,
«Athenaeum» 75.1-2/1987, 156.
[29]
Cf. Th. Mommsen, op. cit., III, 99 s.; E.S. Staveley, Greek and Roman Voting and Elections, London 1972, 122.
[31] R. von Jhering, Geist des römischen Rechts auf den veschiedenen Stufen seiner Entwicklung, 9a ed., I, Darmstadt 1953,
115 s. e 247 s.
[36] Cf. L. Ross Taylor, op. cit.,
5 s.; J. Linderski, Rzymskie zgromadzenia wyborcze od Sulli do
Cezara, Wrocław 1966, 8 s.
[38] Cic., De lege agr. 2,12,31. Cf. anche B. Gladigow, Die sakralen Funktionen der Liktoren. Zum Problem von institutioneller
Macht und sakralen Präsentation, «ANRW» 1.2/1972, 295 s.
[40] R. Develin, ‘Comitia tributa plebis’, «Athenaeum» 63.3-4/1975,
302 s. e letteratura ivi citata.
[41] Cf. Tab. 9,2
il cui testo è basato su Cic., de
leg. 3,19,44; B. Albanese, ‘Privilegia’, ‘maximus comitiatus’,
‘iussum populi’ (XII Tab. 9,1-2, 12-5), «Labeo»
36/1990, 19 s.; A. Corbino, ‘De
capite civis nisi per maximum comitiatum ferunto’. Osservazioni su
Cic. de leg. 3.4.11, «Index» 26/1998, 113 s.
[44] Cf. J. Bleicken, Das Volkstribunat der klassischen Republik. Studien zur seiner
Entwicklung zwischen 287 unf 133 v. Chr., München 1955, 1 s.
[45] Gai.1,3: Lex est, quod populus iubet atque
constituit. Plebiscitum est, quod plebs iubet atque constituit. Plebs autem a
populo eo distat, quod populi appellatione universi cives significantur,
connumeratis et patriciis; plebis autem appellatione sine patriciis ceteri
cives significantur; unde olim patricii dicebant plebiscitis se non teneri,
[quia] <quae> sine auctoritate eorum facta essent; sed postea lex
Hortensia lata est, qua cautum est, ut plebiscita universum populum tenerent:
Itaque eo modo legibus exaequata sunt.
[46] Gell. 15,27,4:
In eodem Laeli Felicis libro haec scripta
sunt: "Is qui non universum populum, sed partem aliquam adesse iubet, non
"comitia", sed "concilium" edicere debet. Tribuni autem neque advocant
patricios neque ad eos referre ulla de re possunt. Ita ne "leges"
quidem proprie, sed "plebisscita" appellantur, quae tribunis plebis
ferentibus accepta sunt, quibus rogationibus ante patricii non tenebantur,
donec Q. Hortensius dictator eam legem tulit, ut eo iure, quod plebs
statuisset, omnes Quirites tenerentur".
[47]
Gell. 10,20,5-6: "Plebem" autem
Capito in eadem definitione seorsum a populo divisit, quoniam in populo omnis
pars civitatis omnesque eius ordines contineantur, "plebes" vero ea
dicatur, in qua gentes civium patriciae non insunt.
[48] Cf. J. Zabłocki, ‘Leges de
plebiscitis’. Equiparazione dei ‘plebiscita’
alle ‘leges’, [in:] Forum Romanum. Doklady III mieżdunarodnoj konferencji. ‘Rimskoe czastnoe i
publicznoe pravo: Moskva 2003, 15 s. Secondo Festo, nonostante il fatto che
il frammento è assai mutilato, era anche in uso il termine scitum populi; cf. Fest., s.v. ‘Scitum populi’, L. 442.
[49] Gell. 10,20,2:
Ateius Capito, publici privatique iuris
peritissimus, quid "lex" esset, hisce verbis definivit:
"Lex" inquit "est generale iussum populi aut plebis rogante
magistratu".
[51] Cf. Festus,,
s.v. ‘Rogat’,
nonchè s.v. ‘Rogatio’,
L. 356; D. 1,3,1. Cf.
anche G. Tibiletti, Sulle ‘leges’ romane,
[in:] Studi De Francisci, IV, Milano
1956, 593 s.’ R. Orestano, I fatti di normazioni nell’esperienza
romana arcaica, Torino 1967, 185 s.; A. Ducos, Les Romains et la loi. Recherches sur
les rapports de la philosophie grecque et de la tradition romaine à la
fin de la Rępublique, Paris 1984, 123 s.; J. Bleicken, ‘Lex publica’. Gesetz und
Recht in der römischen Republik, Berlin-New York 1975, 63, 178 s.
[53] Gell. 15,27,4:
In eodem Laeli Felicis libro haec scripta
sunt: "Is qui non universum populum, sed partem aliquam adesse iubet, non
"comitia", sed "concilium" edicere debet. Tribuni autem neque advocant
patricios neque ad eos referre ulla de re possunt. Ita ne "leges"
quidem proprie, sed "plebisscita" appellantur, quae tribunis plebis
ferentibus accepta sunt, quibus rogationibus ante patricii non tenebantur,
donec Q. Hortensius dictator eam legem tulit, ut eo iure, quod plebs
statuisset, omnes Quirites tenerentur”.
[54]
Cf. E.S. Staveley, Tribal Legislation before the ‘lex
Hortensia’, «Athenaeum» 33.1-2/1955, 9 s.
[55]
Cf. M. David, H.L.W. Nelson, Gai Institutionum commentarii IV. Mit philologischen
Kommentar, Kommentar I, Leidem 1954, 12 s. e letteratura ivi citata.
[56]
Cf. A. Guarino, L’ ‘exaequatio legibus’ dei ‘plebisscita’, Festschrift Schulz, I, Weimar 1951, 458 s.; A. Biscardi, ‘Auctoritas patrum’. Problemi
di storia del diritto pubblico romano, Napoli 1987, 75 s.; J. Zabłocki, ‘Leges de plebiscitis’,
«Prawo Kanoniczne» 35.1-2/1992, 237 s. e letteratura ivi citata.
[65] Cf. F. De Martino, op. cit., 317; A. Magdelain, De l’ ‘auctoritas patrum’ e l’
‘auctoritas senatus’, «Iura» 3/1982, 39 s.
[68] Cf. J. Bleicken, Das Volktribunat, cit., 22 s.; A. Magdelain,
op. cit., 33 s.; A. Biscardi, op. cit., 39 s.
[70] Cf. J. Bleicken, ‘Lex publica’, cit., 96 nonchè F.S. Maranca, Il tribunato della plebe dalla ‘lex Hortensia’ alla ‘lex Cornelia’, Lanciano 1901, 3
s.; A. Biscardi, op. cit., 77 s.
[73] Gell.10,20,3: Ea definitio si probe facta est, neque de
imperio Cn. Pompei neque de reditu M. Ciceronis neque de caede P. Clodi
quaestio neque alia id genus populi plebisve iussa "leges" vocari
possunt.
[79] J. Zabłocki, L’ ‘adrogatio’ nel diritto romano, [in:] ‘Leges Sapere’, Studia i prace dedykowane profesorowi
Januszowi Sondlowi w pięćdziesiątą rocznicę pracy
naukowej, Kraków 2008, 733 s.
[80] Cf. J. Zabłocki, Le più antiche forme del testamento romano, [in:] ‘Ius romanum schola sapientiae’. Pocta Petrovi Blahovi k 70. Narodeninàm, Trnava 2009, 554 s.