Università
di Genova
Gli studi sui giuristi
romani di Federico D’Ippolito[1]
Sommario: 1. Gli esordi. – 2. I
giuristi e la politica nella Repubblica. – 3.
Il colloquio con i maestri. – 4. Un
progetto da completare sui giuristi arcaici. – Abstract.
Parlare delle ricerche effettuate da Federico D’Ippolito
sui giuristi romani e delle metodologie da lui usate nell’affrontare
questi studi è impresa estremamente impegnativa in quanto, nel suo lungo
e prolifico lavoro di studioso, egli ha dato uno spazio amplissimo, anzi
predominante, a questo tipo di studi. Tenterò di tracciare alcune linee
del suo lavoro e degli intenti che lo hanno guidato servendomi soprattutto
delle affermazioni
dell’autore, esplicitate nelle introduzioni ai suoi lavori. Un primo
tassello lo possiamo trovare nella premessa alla monografia Sulla giuriprudenza
medio-repubblicana uscita nell’88, e
dunque, approssimativamente, quando
D’Ippolito si trovava a metà del suo percorso scientifico,
un’indagine sul ruolo del giurista nei primi decenni del II secolo a. C.
attraverso due protagonisti di quel periodo, Publio Cornelio Scipione Nasica Corculum e Sesto
Elio Peto Cato. In essa leggiamo: «..del
diritto e dei suoi interpreti remoti sappiamo assai poco….cercare
di saperne di più è impresa quasi disperata…è
sempre in agguato il rischio dell’ipotesi suggestiva, ma insicura. Si
deve allora rinunziare? Io credo che valga sempre la pena provarci, anche se si
tratterà solamente di aprire uno spiraglio su questi mondi senza
luce»[2].
Ho
provato una grande emozione nel rileggere queste parole perché in esse
trapela una profonda consapevolezza della difficoltà dei suoi, dei
nostri studi, e nello stesso tempo la forte motivazione a non rinunciare,
nonostante che i risultati non sempre siano commisurati alla fatica fatta.
Alcuni anni prima avevo partecipato a Bari ad un seminario organizzato da Mario
Bretone e tenuto da D’Ippolito su una parte importante di questo libro,
quella relativa al rapporto tra il poeta Ennio e il giurista Sesto Elio;
ricordo ancora le perplessità di alcuni partecipanti, tra cui filologi
di chiara fama, rispetto alle sottili interpretazioni proposte dal relatore
nell’analisi dei testi enniani,
perplessità derivanti dalla nuova prospettiva di “mescolare”
poesia e diritto ivi presentata. La sensazione era che non si fosse ancora
preparati, e io meno degli altri data la mia giovanile inesperienza, ad
affrontare il taglio di ricerca proposto, ad eccezione di Mario Bretone,
finissimo studioso del pensiero e delle opere dei giuristi romani e grande
amico di Federico D’Ippolito, con il quale egli ha intrattenuto negli
anni un dialogo ininterrotto[3].
Per
tentare di rappresentare le novità degli studi sui giuristi di
D’Ippolito bisogna partire
dal suo primo lavoro monografico, uscito nel ’69, dedicato ad un
giurista degli inizi del principato, attivo nell’età di Caligola,
Claudio e Nerone, Gaio Cassio Longino.
Ideologia e diritto in Gaio Cassio Longino apriva insieme
ad altri lavori, non so fino a che punto consapevolmente, una nuova stagione di
studi. Pochissimi studiosi si occupavano in quegli anni di giuristi:
nell’ambito degli studi di diritto privato prevaleva ancora
l’impostazione dogmatica e la ricerca delle interpolazioni, mentre lo
studio storico del diritto era applicato prevalentemente agli studi di diritto
pubblico. A metà degli anni sessanta si era formato a Napoli un filone
di ricerca sulla giurisprudenza romana che si sarebbe poi imposto nella cultura
storico giuridica europea. Una sorta di scuola napoletana dove, per la prima
volta, tali ricerche iniziarono a rivendicare una loro autonomia negli studi di
diritto romano[4].
Molti dei saggi scritti in quegli anni furono pubblicati in Labeo, importante rivista
napoletana per la romanistica internazionale fondata da Antonio Guarino con l’apporto di Francesco De Martino e di
Mario Lauria (1954-55 - 2004).
Ricordo
alcuni di questi studiosi iniziando da Mario Bretone, il cui saggio La giurisprudenza romana nella letteratura
storico-giuridica era uscito nel 1957[5],
seguito nel ’64 dall’importante lavoro Motivi ideologici dell’Enchiridion di
Pomponio (poi incluso nelle dispense per studenti Linee dell’Enchiridion di Pomponio,
I ed. 1965), che ha gettato le basi per uno studio serio e approfondito
dell’unico manuale di storia giuridica romana scritto da un giurista
romano[6].
In questi saggi D’Ippolito individua l’esordio degli studi sulla
giurisprudenza romana[7].
Luigi
Amirante nel 1961 aveva pubblicato su Labeo una
puntuale lettura critica su Texstufen klassicher Juristen di Franz Wieacker,
edito l’anno precedente: un testo tuttora indispensabile per chi studia
le trasformazioni subite dai testi “classici” nel passaggio
all’età postclassica[8].
Il Simposio romanistico svoltosi a
Napoli nel 1965 ebbe un ruolo importante perché Francesco Casavola, altro notissimo studioso napoletano, espose il
suo lavoro Gaio nel suo tempo davanti
a importanti studiosi europei: la mente del giurista e gli scopi delle sue
opere, in particolare delle Istituzioni erano al centro di questa ricerca[9]
alla quale si affiancherà, qualche anno dopo, lo studio sugli allievi di
Servio Sulpicio Rufo[10].
Nel
1971 Aldo Schiavone pubblicava Studi
sulle logiche dei giuristi romani, un lavoro imperniato sull’analisi
della metodologia di singoli giuristi su un tema circoscritto e usualmente
dogmatico, quello relativo alla definizione dei contratti, ma molto diverso
dagli innumerevoli analoghi lavori, in quanto dava spazio allo studio della
formazione del singolo esperto di diritto e lasciava cadere la ricerca delle
interpolazioni.
Una
strada aperta a Napoli nell’arco di un decennio cruciale per il
rinnovamento degli studi romanistici che, pur con interruzioni e dibattiti
talvolta aspri, prosegue ancora oggi in Italia e in Europa[11].
Soffermiamoci
un momento su Ideologia e diritto in Gaio
Cassio Longino per
descrivere le novità di questa piccola monografia: vi si trova un rapido
profilo biografico del giurista, la ricostruzione della carriera senatoria, le
parentele di sangue e acquisite, e soprattutto il rapporto con il potere
imperiale (rottura con l’imperatore Caligola, poi riabilitazione con
Claudio; opposizione a Nerone e successivo estraniamento dalla politica). Il
cuore del lavoro è costituito dal discorso pronunciato da Cassio Longino in senato nel 61
d. C. in occasione dell’uccisione di un senatore, il prefetto della
città Pedanio Secondo, discorso riportato
ampiamente da Tacito[12].
Il prefetto era stato ucciso da un suo schiavo per motivi non chiari, forse il
rifiuto di liberarlo, benché avesse riscattato la propria
libertà, oppure la rivalità amorosa nei confronti del padrone
(erano frequenti le relazioni sessuali tra padroni e schiavi). Longino chiede l’applicazione del Senato consulto Silaniano (10 d. C.) in base al quale i servi del dominus ucciso dovevano essere puniti
con la morte se non erano intervenuti per impedirne l’uccisone o se
avevano tradito il padrone. In questo caso l’applicazione verrà
effettuata senza alcuna verifica delle condizioni predette e verranno uccisi
centinaia di schiavi. La motivazione della richiesta è esclusivamente
politica in quanto Cassio Longino
si fa portavoce delle esigenze di tutela della sicurezza dei senatori stessi:
per bocca di Cassio Longino la stessa aristocrazia
chiede al principe il riconoscimento del suo posto nell’ordinamento[13].
D’Ippolito
ha dunque messo in luce in Cassio Longino
il forte legame tra l’attività politica e quella scientifica,
poiché il ruolo di politico e il ruolo di giurista erano per lui
indissociabili. Egli ha usato la chiave di lettura sociologica e politica,
interpretando il comportamento del giurista alla luce dell’ideologia
aristocratica e dell’atteggiamento antiservile, che emerge anche in alcuni
passi del suo commento allo ius civile.
Dopo
questo lavoro D’Ippolito si sposta all’indietro verso
l’età repubblicana con alcuni importanti studi che, prendendo le
mosse dall’Enchiridion
di Pomponio, risalgono all’indietro fino ai primi interpreti delle 12
Tavole.
Nella
monografia I giuristi e la città,
pubblicata nel 1978, il primo saggio ripercorre i punti salienti dell’Enchiridion di
Pomponio, nella parte che riguarda la storia dei giuristi, la successio auctorum,
seguendo la strada già aperta da Mario Bretone[14].
Il filo conduttore è ancora una volta la relazione tra il giurista e il
potere politico. D’Ippolito si sofferma su ogni tappa evolutiva del
diritto indicata da Pomponio e analizza i cambiamenti nello stile di questo
autore ponendoli in collegamento con i mutamenti politici intercorsi: tra i
giuristi più antichi, quelli vissuti negli anni in cui la repubblica era
solida e in espansione, viene dato risalto a quelli che hanno ottenuto maggior
credito presso il popolo, che ne riconosce l’auctoritas attraverso appellativi
come sapiente, ottimo, esperto, oppure offre loro riconoscimenti come la dedica
di statue. Con gli inizi della crisi e il profilarsi di personalità
politiche con le caratteristiche di capi, Pomponio pone in evidenza i legami
del giurista con chi detiene il potere (Ofilio Caesari familiarissimus).
Nell’ultima parte dell’Enchiridion scompaiono
gli appellativi, in quanto, con l’affermarsi del principato e dello ius respondendi,
il giurista è posto in relazione con il potere imperiale.
Nella sua storia dei giuristi Pomponio esalta in particolare
alcune figure chiave. Innanzitutto il primo pontefice massimo plebeo, Tiberio Coruncanio, citato due volte nell’Enchiridion e del quale viene
enfatizzata la rottura della tradizionale segretezza del collegio con la
rivoluzionaria apertura al pubblico delle consultazioni (publice profiteri). E’ un momento
importante, secondo Pomponio, perché da qui nasce la scienza del
diritto. Di Coruncanio sono ricostruiti da
D’Ippolito la carriera e i legami politici con il gruppo di Curio Dentato
e Decio Mure, prestigiosi leader contadini
decisamente contrari alla politica di Appio Claudio il Cieco: proprio la
collocazione politica del pontefice massimo viene utilizzata per dare un
significato al ruolo assunto dal giurista nell’ambito del collegio[15].
In secondo luogo è posta in rilievo l’opera di
Sesto Elio, i Tripertita,
in quanto conteneva, a detta di Pomponio, i fondamenti del diritto (cunabula iuris),
cioè il testo delle 12 Tavole, l’interpretazione dei giuristi o ius civile e le legis actiones. Questo giurista proveniva da
famiglia di nobili plebei, ma il padre era pontefice; è stato console
nel 198 e censore nel 194; frequentava l’ambiente filo Scipionico: Egli era legato, inoltre, da vincoli di
amicizia al poeta nazionale Ennio che elogia la grande umanità e
l’acutezza del giurista, come ricordano sia Cicerone che Pomponio (egregie cordatus
e cato).
Per rappresentare il giurista viene, dunque, effettuata una ricostruzione
accurata dell’ambiente, della cultura, della religione, delle relazioni
politiche e personali. Anche i Tripertita sono collocati da D’Ippolito in una
dimensione politica: essi rappresentano gli interessi dell’oligarchia
patrizio-plebea e garantiscono la conoscenza del diritto rispetto al ristretto
gruppo pontificale, con deciso spirito antipontificale[16].
In terzo luogo un posto particolare è riconosciuto da
Pomponio a Quinto Tuberone, filosofo stoico allievo
di Panezio, molto vicino per il rigore ad un altro
allievo, Ecatone di Rodi; benché provenisse da
una gens aristocratica, anche se non
ricca, e fosse ostile alla politica portata avanti dai Gracchi, non fece
carriera. Era esperto di pratiche astronomiche. Egli seguiva, insieme a pochi
altri romani, le regole della lex Fannia, limitatrice del
lusso: forse proprio a questa legge si era rifatto, secondo
l’interpretazione di D’Ippolito, nell’allestire modestamente
il banchetto funebre in onore di Scipione Africano, evento che aveva suscitato
scandalo, bloccando la sua carriera[17].
In quarto luogo occupa un posto particolare Aulo
Ofilio di cui è messo in evidenza da Pomponio
il forte legame con Cesare. Questo giurista è collegato da
D’Ippolito con il progetto codificatorio delle
leggi che Cesare desiderava portare a termine e che aveva un precedente in Pompeo e coincideva con le idee di Cicerone sulla
necessità di riordinare il diritto. Ofilio
doveva essere l’iniziatore della realizzazione del progetto. Di rango
equestre, questo giurista non ricoprì nessuna carica pubblica e si
dedicò esclusivamente al diritto; le sue opere erano composte in una
organica prospettiva di lavoro e dovevano dare fondamento in ogni sua parte al
diritto civile. Egli portava avanti un’idea ordinatrice delle leggi e della
iurisdictio
pretoria. I libri ofiliani
abbracciavano tutto il sapere giuridico, sul modello dei Tripertita eliani[18].
Con Giuristi e sapienti in
Roma arcaica del 1986, l’indagine di D’Ippolito si sposta
ancora all’indietro, a cavallo tra quarto e terzo secolo, sui giuristi
pontefici colti nel momento della crisi del collegio pontificale, letta in
particolare attraverso l’opera di Gneo Flavio e
di Appio Claudio il Cieco.
L’esito finale della crisi darà luogo alla laicizzazione del
diritto, che è studiata da D’Ippolito non come momento di
passaggio, bensì come momento a sé stante di grandi tensioni
politiche, di cambiamenti contrastanti e di grande creatività. Questo
lavoro costituisce un esordio importante, in quanto presenta una rivalutazione
della giurisprudenza arcaica e un modello metodologico per studiarla. Ogni
singolo protagonista e ogni singolo evento è analizzato e scavato sia
con riferimento alla storiografia precedente e alle fonti (tutte quelle che
parlano di questi avvenimenti, senza trascurarne alcuna), sia chiarendo la
trama delle connessioni tra i singoli avvenimenti alla luce dei conflitti
politici tra patrizi e plebei e tra correnti diverse all’interno del
patriziato: dall’analisi emergono le diverse concezioni di politica
normativa. In questo ambito si situa il cambiamento del collegio pontificale
che culmina, a partire dal 300, con l’entrata della componente plebea
prevista dal plebiscito Ogulnio.
Pomponio,
com’è noto, riferisce che nel 304 a. C. Gneo
Flavio, liberto e scriba di Appio Claudio il Cieco, rubò il calendario
giudiziario ed il liber actionum ad
Appio Claudio che li aveva pubblicati[19]. Egli, a sua volta, li aveva sottratti
agli archivi pontificali per renderli noti al pubblico. A Gneo
Flavio, acclamato dalla plebe, fu conferita la carica di edile. Sia Livio che
Pomponio parlano dell'avvenimento come di una grande conquista democratica,
perché avere una conoscenza diretta dei giorni in cui si potevano
compiere attività processuali e delle formule da adoperare in tali
attività avrebbe finalmente permesso ai cittadini romani di svolgere i
propri affari senza dover dipendere dai potenti e aristocratici pontefici[20].
L’episodio viene attentamente valutato nella sua validità storica
e D’Ippolito giunge alla conclusione che l'iniziativa della
publicizzazione dei riti processuali e della scansione del tempo deve essere
attribuita al potente Appio Claudio. L’azione di Gneo
Flavio era stata concordata con Appio, ma il ruolo di quest’ultimo viene
mimetizzato dalle fonti per celare la responsabilità del più
potente e attribuirla a Gneo Flavio[21].
Di quest’ultimo è necessario, inoltre, rivalutare la cultura e la
posizione politica. L’opera attribuita ad Appio Claudio e intitolata De usurpationibus coincide
con la pubblicazione delle formule da parte di Gneo
Flavio[22].
Queste vicende permettono di individuare una tendenza al rinnovamento della
politica del diritto perseguita da Appio Claudio.
Riguardo
al plebiscito Ogulnio e ai suoi effetti
D’Ippolito propone una lettura controcorrente: l’apertura alla
plebe del collegio avrebbe condotto ad una restaurazione del potere dei
pontifici contro gli interventi di rottura del segreto pontificale portati
avanti da Appio Claudio e Gneo Flavio; tale
restaurazione sarebbe stata realizzata tramite la creazione di nuove formule
negoziali e processuali. Avviene dunque uno scontro tra il disegno demagogico,
ma laico, di Appio Claudio, e quello istituzionale, ma integratore della
componente plebea che faceva capo agli Ogulnii[23].
Ritorniamo alla monografia da cui abbiamo preso le mosse, Sulla giuriprudenza
medio-repubblicana: uscita nell’88, essa si
occupa dei giuristi laici tra secondo e primo secolo a. C.,
«un’epoca in cui i giuristi venivano considerati più come
sapienti che come rigorosi specialisti di una scienza»[24].
Il primo saggio è dedicato a «un tipico esponente
dell’antica sapienza civile»[25],
Publio Cornelio Scipione Nasica Corculum, giurista e pontefice massimo (150-141 a. C.), che
ricevette dal senato l’appellativo di optimus e al quale fu concessa, a
spese pubbliche, una casa sulla via Sacra affinché potesse essere
consultato più agevolmente[26].
Il passo di Pomponio presenta oscurità che vengono risolte con
un’attenta indagine prosopografica: Nasica è accomunato a Tiberio Coruncanio e a P. Licinio Crasso
per quel sapere “enciclopedico” che consente di essere interrogati
su ogni cosa divina e umana[27].
La casa privata del giurista prende il posto della sede del collegio
pontificale. Di ceto aristocratico, egli ha ricoperto tutte le cariche
pubbliche più rilevanti e ha scritto un resoconto storiografico sulla
campagna contro Perseo e la battaglia di Pidna, a cui
aveva partecipato attivamente. I suoi interessi scientifici si rivelano con
l’introduzione a Roma del primo orologio ad acqua da lui stesso realizzato.
Alcuni interventi pubblici suggeriscono aspetti peculiari di questo personaggio
e della sua tecnica giuridica: la difesa degli antichi costumi e un uso
rigidamente formalistico del diritto. Un tassello interpretativo di rilievo
è costituito dalla presa di posizione assunta nei confronti della
distruzione di Cartagine: per Nasica non esisteva una
iusta causa belli, mentre per Catone i
cartaginesi erano hostes,
l’uno si basava su precise norme di diritto internazionale, l’altro
sulla potenzialità bellica[28].
Nel secondo saggio, dal titolo suggestivo L’età degli oracoli, l’indagine si sposta sull’origine
dell’appellativo optimus
e sulle trasformazioni politico religiose avvenute in Roma nell’arco del
terzo secolo[29].
In realtà Pomponio ha in questo caso commesso un errore in quanto tale
appellativo è da ricondurre ad un’epoca precedente, come ha
dimostrato D’Ippolito attraverso una finissima esegesi sui testi di
Livio, desunti, perlomeno in parte, da Fabio Pittore. Il punto di partenza è
l’ingresso del culto frigio di Cibele a Roma
nel 204, il cui simulacro è accolto dalle mani di un giovane Nasica,
padre del giurista, prescelto per questo rito in quanto ritenuto vir optimus, come
richiedeva l’oracolo, l’uomo migliore che ci fosse a Roma[30].
Il trasferimento a Roma sanciva il legame della città con i Troiani
sulla scia del consolidamento, operato dallo stesso Fabio Pittore, della
tradizione troiana di Roma. La confusione creatasi nel tempo nelle fonti ha
indotto Pomponio ad attribuire a Nasica figlio l’appellativo riconosciuto
al padre.
Nel terzo saggio D’Ippolito riprende il tema della casa
del giurista e della sua collocazione nella Roma del II/I secolo della
repubblica come luogo di sapienza, dove si accoglievano i consultanti e i
discepoli[31].
La casa del giureconsulto è l’oracolo di tutta la città,
come afferma Cicerone, e Apollo pitico è colui al quale tutti i
cittadini chiedono consiglio, come afferma Ennio citato a sua volta da Cicerone[32]:
il confronto tra la casa del giurista e l’oracolo di Apollo rivela come
Ennio abbia utilizzato la giurisprudenza romana come parametro per
“interpretare” il mondo greco[33].
Qui D’Ippolito torna nuovamente due grandi figure del finire del secondo
secolo a. C., il giurista Sesto Elio e il poeta Ennio: dagli intensi rapporti
intercorsi tra i due lo studioso trae l’ipotesi che le svariate citazioni
giuridiche rintracciabili nelle opere di Ennio (ad esempio ius et aecum, ex iure manum conserere, proletarius) siano tratte dai Tripertita[34].
Anche
quando D’Ippolito, risalendo all’indietro, giunge a lavorare sulle
12 Tavole (Questioni decemvirali,
1993), egli riesce a cogliere nella loro pubblicazione non solo il conflitto
politico patrizio-plebeo, ma anche il conflitto all’interno del
patriziato rispetto alla politica del diritto che porta a perseguire istanze
profondamente diverse che si esprimono, da un lato, con la nomina dei decemviri
e, dall’altro, si oppongono alla pubblicazione del testo di leggi per
mantenere il tradizionalismo pontificale. Egli dimostra efficacemente che la
legislazione dei decemviri fu decisamente compiuta contro il collegio dei
pontefici. Ipotizza inoltre che dopo l’incendio gallico che distrusse il
testo originale delle 12 Tavole, i pontefici riuscirono ad imporre di nuovo il
loro potere controllando sia la conoscenza e l’interpretazione del
diritto, sia il calendario.
Mi
occuperò brevemente ancora dell’ultimo libro dedicato da
D’Ippolito ai giuristi, Del fare
diritto nel mondo romano, uscito una decina di anni fa (Torino 2000), una
raccolta di saggi che prende le mosse nuovamente da Sesto Elio, particolarmente
caro allo studioso, sul quale egli aggiunge, rispetto alle ricerche precedenti,
alcuni approfondimenti[35].
Gli altri saggi toccano i poco conosciuti maestri di Servio
Sulpicio Rufo, Lucilio Balbo, Gaio Aquilio, Gaio
Giuvenzio e Sesto Papirio[36],
e i mutamenti sociali e politici dei giuristi nel periodo della crisi della
repubblica[37];
rispolverano, inoltre, dal passato un’opera di gusto antiquario, i Memoralia di
Masurio Sabino, rimasta nell’ombra rispetto al notissimo commento
civilistico in tre libri[38].
Con gli ultimi saggi D’Ippolito giunge a toccare l’età del
principato, ed in particolare l’età dei Severi, un terreno nuovo
per lui ed esaminato da un’ottica nuova, quella del ruolo dei valori
etici espressi dagli esperti di diritto: l’oggetto dell’indagine si
sposta perciò dai singoli giuristi ai principi e ai valori da essi
enunciati, con esiti che hanno suscitato e susciteranno ancora, reazioni
contrastanti[39].
La
ricostruzione delle vicende che riguardano i giuristi arcaici, la loro
personalità e il loro ruolo sono stati un tema appassionante per
D’Ippolito, oggetto di ricerche non più abbandonate. Una decina di
anni fa egli scriveva: «La giurisprudenza arcaica, i suoi tentativi di
costruire un pensiero interpretativo senza distaccarsi dalla legge scritta,
conservano per me un fascino straordinario, che non si è esaurito
né in questa, né in altre precedenti analisi. La sfida più
difficile è quella di restituirle una maggiore visibilità, oltre
a quella finora accertata»[40].
Gli intrecci che abbiamo brevemente sintetizzato, desumendoli dagli studi da
lui effettuati, hanno senza dubbio dato visibilità ai giuristi
pontefici, al loro monopolio del diritto, ai tentativi di laicizzazione, ai
giuristi meno noti fino a Sesto Elio e oltre.
Una
caratteristica è, a mio parere, molto evidente nello stile di questo
studioso: ogni tentativo di rappresentazione di una singola personalità
di giurista è costruito come un’indagine, una vera e propria
investigazione “filologica”, condotta attraverso un’attenta e
meditata lettura delle testimonianze, con l’inserimento del personaggio
studiato in un contesto culturale, sociale e politico preciso, in una rete di
relazioni che lo rendono “identificabile” e vivo, con una
ricostruzione delle vicende a lui collegate che si segue con suspence, come in
un buon libro giallo: solo alla fine si può cogliere in pieno
l’esito dell’interpretazione dell’autore dell’indagine
e la configurazione completa dell’oggetto di essa, cioè il
giurista, sapientemente estratta dalle fonti stesse. Uno studioso rigoroso, il
cui modo di praticare il mestiere di storico si desume dalla seguente
affermazione: «Nello scrivere di storia, non è pur sempre meglio
proporre domande il più possibile precise, piuttosto che contentarsi di
generiche risposte?»[41].
Non si può trascurare un aspetto rilevante della
metodologia di ricerca di D’Ippolito, meritevole perlomeno di qualche
cenno: un colloquio fitto e continuo con le pagine dei “Maestri”
del diritto romano, che testimonia un grande rispetto per la tradizione, per i
fondamenti della nostra tradizione. A questo particolare aspetto, che tutti
dovremmo tener presente nei nostri lavori, D’Ippolito ha dedicato una
parte non piccola della sua produzione scientifica: Maestri d’Europa (1999), Modelli
storiografici fra Otto e Novecento (2007) e Saggi di storia della
storiografia romanistica (2009)[42].
Mi soffermerò solo sulla prima e sull’ultima di
queste opere. I “Maestri” sono soprattutto gli studiosi che si sono
occupati di giurisprudenza come Sanio, Lenel, Lauria, Orestano, Casavola e, ovviamente, il suo primo Maestro, Francesco De
Martino. Il suo colloquio inizia con il quasi dimenticato Friedrich Sanio della cui opera Zur Geschichte der Römischen Rechtswissenschaft.
Ein Prolegomenon,
uscita nel 1858, D’Ippolito ha curato una riedizione nel 1981[43]..
Alcuni rilievi proposti da questo studioso possono risultare ancora importanti
per chi si occupa di giuristi: egli aveva la chiara cognizione delle
difficoltà incontrate da chi intende occuparsi di quanto ci rimane di
un’opera giuridica classica[44].
Un posto speciale viene dato alla Palingenesia di Otto Lenel (1890)
nella quale D’Ippolito riconosce, alla pari con l’editio maior del
Digesto di Mommsen, la base testuale della nostra
disciplina, pur rilevando puntualmente i limiti in essa presenti,
consapevolmente posti dal suo autore[45].
Forte è l’ammonimento alle generazioni più
giovani di rileggere le cose scritte nel passato, che ritiene spesso migliori
dei lavori contemporanei: si deve partire ad ogni ricerca da Lenel, Mommsen e Schulz,
leggendoli personalmente, senza fidarsi delle opinioni altrui, per quanto
consolidate, consapevoli delle qualità e dei limiti.
L’ultima raccolta di scritti riporta sette saggi su opere
di autori diversi che presentano, a detta dell’autore, un filo conduttore
comune: essi si avvicinano al diritto romano come ad un «fenomeno
storicamente valutabile», hanno alle spalle una formazione tradizionale,
ma hanno saputo proporre svolte innovative attraverso la «revisione di
modelli nobili e forti, ma non per questo indeclinabili»[46].
Il saggio di apertura rappresenta non tanto un’introduzione, quanto una
sintesi matura del pensiero e della metodologia di D’Ippolito, quasi un
suo testamento scientifico. Ha un titolo molto evocativo rispetto al contenuto:
Al di là del principio di
autosufficienza[47].
Con tale principio D’Ippolito intende «da un lato la propensione a
rinchiudersi nei tradizionali campi di ricerca; dall’altro il tentativo
di superarlo»[48].
In esso lo studioso delinea limpidamente una breve storia della storiografia
romanistica e dei cambiamenti dei parametri scientifici avvenuti in Italia e in
Europa dalla metà del secolo scorso nei nostri studi. Egli accoglie la
tesi di Momigliano che ha individuato negli studiosi attivi dopo la seconda
guerra mondiale la tendenza a trasporre nel mondo antico preoccupazioni del
momento presente, e lo sviluppo di profonde tensioni ideologiche (soprattutto
il conflitto tra pensiero crociano e marxista). Riguardo ai romanisti continua
ad essere mantenuto il modello pandettistico, il
metodo interpolazionistico e l’isolamento
rispetto alle altre discipline dell’antichità, ma si segnala
l’inizio dello sgretolamento di alcune certezze, tra cui quella
fondamentale del diritto classico considerato quasi come diritto vigente[49].
Benché fosse viva l’illusione di poter collaborare alle linee
interpretative del nuovo codice civile, tuttavia «il diritto privato
romano perdeva la sua centralità ordinamentale….e
si separava dalla realtà circostante»[50].
D’Ippolito pone in evidenza come l’interpolazionismo avesse creato una sua filologia, con
specifiche regole e arbitrii esegetici, che in qualche modo perseguiva un
profilo storicistico, la ricerca del classico, della lingua pura dei giuristi
classici, e portava l’attenzione sulle personalità
“letterarie” dei giuristi. Ma l’esigenza di ricomporre un
modello metatemporale ancora valido nel presente
tende a declinare sempre più, così come la “positivizzazione” del diritto romano nel diritto
civile.
La crisi del metodo interpolazionistico
fu aperta dalla History of Roman Legal Science di Schulz uscita nel 1946, in quanto il
risalto dato agli interventi postclassici sui testi giurisprudenziali rende la
ricerca del testo classico una impresa quasi disperata. Negli anni ‘50
altre importanti nuove pubblicazioni apriranno la strada agli studi
prosopografici e allo studio della storia del diritto romano[51].
Fra gli anni ‘50 e ‘60 si assiste, in particolare a
Napoli, al fiorire di studi prosopografici, sociologici e storici sulla
giurisprudenza, che produssero uno scontro molto forte tra chi si apriva alle
tendenze innovatrici e chi si arroccava sul principio di autosufficienza[52]:
«L’innesto di metodi prosopografici e sociologici nella tradizione
degli studi romanistici doveva apparire come un’azione dissolvitrice sull’unità concettuale del
diritto romano»[53].
Solo intorno alla metà degli anni ‘70 si può
affermare che «gli studi sulla giurisprudenza romana e sui singoli giuristi
si sono radicati in un saldo spazio scientifico nella romanistica
europea»[54].
Molte spinte tendono ormai a scardinare il principio di autosufficienza per
aggiungere nuove zone di conoscenza, instaurare un costante colloquio con gli
storici e con le altre discipline dell’antichità e privilegiare la
restituzione al mondo antico del diritto romano.
Tenere presente questa meditata ricostruzione storiografica
delineata da D’Ippolito è indispensabile, a mio parere, per uno
studioso di oggi, in particolare se giovane, sia come formazione personale, sia
come punto di partenza per poter scegliere con maggiore consapevolezza e minori
condizionamenti il suo percorso di ricerca.
A
lungo D’Ippolito ha coltivato il progetto ambizioso di formare un gruppo
di studiosi per fare una raccolta completa di fonti sui giuristi arcaici, a
completamento di quanto Lenel aveva fatto con la Palingenesia (che
inizia con Sesto Elio e ignora i giuristi più antichi). Per ciascun giurista
era prevista una raccolta di Testimonia
e di Fragmenta,
un breve profilo biografico e una discussione approfondita di ciascun fragmentum e dei
criteri di attribuzione. Si doveva tener conto sia dello ius civile, sia dello ius sacrum e pubblico (questi ultimi esclusi da Lenel nel suo lavoro), la raccolta delle fonti non doveva
trascurarne nessuna, doveva essere posta grande attenzione all’edizione
critica delle stesse, fidandosi solo di quelle migliori, che D’Ippolito
stesso citava nei suoi lavori (era, come è noto, un finissimo lettore ed
interprete di fonti antiche, attentissimo alla tradizione testuale delle stesse
e alla loro edizione critica). All’inizio il gruppo operante era molto
esiguo, formato dalla sottoscritta, da Anna Bottiglieri
e dal Maestro, ossia D’Ippolito stesso. Avevamo lavorato subito su Appio
Claudio e Tiberio Coruncanio, sottoponendo il
materiale raccolto ad una attenta e periodica discussione di gruppo, con la
supervisione dello stesso D’Ippolito. Il primo risultato, e anche
l’unico, fu la relazione che tenemmo a Mosca nell’estate del 2000:
D’Ippolito aveva fatto la relazione introduttiva, Anna Bottiglieri aveva esposto i risultati del suo lavoro su
Appio Claudio, io quelli su Tiberio Coruncanio.
È
stata un’esperienza memorabile in primo luogo per la straordinaria
accoglienza e la squisita ospitalità degli organizzatori, e poi per
l’allegra solidarietà che si era formata nel gruppo napoletano,
molto folto e rumoroso, di cui mi sentivo in qualche modo di fare parte.
Pensavamo di proseguire subito, ma altre urgenze ce lo hanno impedito.
D’Ippolito riprese il lavoro alcuni anni più tardi con un gruppo
di collaboratori napoletani (ad Anna Bottiglieri si
erano aggiunti Emilio Germino, Anna Maria Manzo e Adelaide Russo) ai quali mi
aggiunsi in un secondo momento, dopo aver completato una impegnativa ricerca
sul giurista Modestino. D’Ippolito aveva deciso
di far confluire il lavoro nel progetto Scriptores iuris romani che fa parte delle attività
dell’Istituto Italiano di Scienze Umane diretto da Aldo Schiavone: con la
scomparsa di D’Ippolito è stato deciso di proseguire il lavoro da
lui ideato, in base ai criteri da lui stabiliti e il nostro gruppo si è
impegnato a portare a termine, forse addirittura entro il prossimo anno, un
primo volume che raccolga i giuristi più antichi, realizzando il
progetto lungamente ambito dallo studioso scomparso.
Un
ricordo mi è caro di quel primo tentativo di esporre i primi risultati
del progetto di Federico D’Ippolito: io ero arrivata a Mosca molto
provata emotivamente per il fatto di parlare davanti ad un pubblico straniero e
davanti a colleghi di chiara fama, ma soprattutto ero tormentata da
un’ipotesi di tradizione testuale di una particolare interpretazione di
Tiberio Coruncanio riportata da Gellio che riguardava
le vittime sacrificali. Non avevo prove certe, ma alcuni indizi mi avevano
suggerito Nigidio Figulo, un erudito e filosofo
neopitagorico di età cesariana, come tramite di conoscenza tra Tiberio Coruncanio e Gellio stesso. Mi tormentava l’idea di
esprimere questa congettura, non basata su evidenze incontestabili, o di
tralasciarla e avevo trovato il coraggio di parlarne a D’Ippolito solo
poco prima della relazione. Egli fu lapidario: il vero storico non può
aspettarsi di lavorare solo su prove certe, ma deve seguire anche le sue
intuizioni. Questo fu decisivo per convincermi a esporre la mia ipotesi e fu
formativo per le mie ricerche successive.
Rimpiango
molto che la momentanea sospensione del progetto ci avesse allontanato e che i
nostri incontri fossero diventati fuggevoli scambi di saluti ai convegni, ma il
suo insegnamento ironico e fiducioso, così come la sua determinazione a
ricostruire le personalità, le ideologie, il mondo politico e culturale
dei giuristi romani hanno lasciato un segno indelebile dentro di me, come in
tutti quelli che hanno lavorato con lui, e mi hanno incoraggiato a proseguire
in questa direzione. Il continuo colloquio con i grandi Maestri del passato,
che D’Ippolito ha sempre proficuamente coltivato, ci suggerisce il modo
con cui possiamo continuare il nostro colloquio con lui.
In this paper the author analyzes the
innovatory researches carried out by Federico D’Ippolito
on Roman lawyers, following a chronological path: from the first paper (Gaio Cassio Longino’s
monography), trough the works on the II
century’s B.C. jurists up to the archaic jurisprudence. The
methodological criteria used by D’Ippolito are
pointed out. They are the reconstruction of each personality on the basis of
all the instruments used by the ancient historians, such as the philological
inquiry of the sources and the insertion of any jurist in its cultural, social
and political environment. In addition the historiographical
papers are examined: they represent a great part of the scientific production
of D’Ippolito and involve mainly the changes
that the European Romanist legal science operated toward the study of the
ancient lawyers: from Sanio to Lenel,
from Schulz to Wieaker, from Pandectist
science to the Neapolitan school and the debates on the new trends. In the
final part of this paper the D’Ippolito’s
project on the collection of Testimonia and Fragmenta of all archaic jurisprudence is described. Such
research project is now inside the SIR (Scriptores iuris romani) project,
coordinated from the Italian Institute of Human Science and will be performed
by coworkers of the departed scholar.
[1] Il
presente lavoro è scaturito da una relazione da me tenuta
all’Università di Salerno nell’ambito dell’incontro
che si è svolto il 21 novembre 2011 su Il diritto, la giustizia, la storia alla luce del pensiero di Federico
Maria D’Ippolito. L’incontro è stato organizzato da
Francesco Lucrezi e Anna Bottiglieri,
che ringrazio per averne gentilmente acconsentito la pubblicazione. La versione
attuale è stata ampliata rispetto a quella pronunciata oralmente e
corredata di note.
[5]
E’ uscito in Atti
dell’Accademia di Scienze morali e politiche della società di scienze
lettere ed arti in Napoli, 67, 1957.
[6] Il
saggio è riprodotto nella terza parte di Linee dell’Enchiridion di Pomponio,
Torino 1974 (rist. ampliata I ed.), 78 ss.
[9] Sulle
ricerche di Casavola F. M. D’Ippolito, Etica
e diritto nell’opera di F. P. Casavola, in Maestri d’Europa, Napoli 1999, 107
ss.; su Gaio nel suo tempo 111-113;
la relazione di Casavola fu pubblicata poi in Labeo 12, 1966.
Un precedente studio metodologicamente innovativo su Gaio era uscito in Gran
Bretagna agli inizi degli anni ’60, la monografia di Tony Honoré
su Gaio, (Gaius,
Oxford 1962).
[10] Auditores Servii in La critica del testo, 1, 1969, che con altri saggi sui giuristi fa
parte anche di Giuristi adrianei, Napoli 1980, opera che presenta una
utilissima appendice con note di prosopografia e bibliografia sui giuristi del
II secolo d. C. a cura di G. De
Cristofaro.
[11] Per
questo ed altri approfondimenti sul breve excursus
fatto rimando alle bellissime pagine scritte da D’Ippolito nella lunga
introduzione al suo ultimo libro che mi è parsa una sorta di riepilogo
del lungo dialogo intercorso tra lo studioso e i maestri e i compagni di
strada: Saggi di storia della storiografia, XI-XXXVI; sulla “durissima polemica” fra i romanisti
della scuola napoletana si veda la bibliografia citata a p. XXII, nt. 21.
Qualche segnale di interesse per la storia dei giuristi si trova nello stesso
decennio anche al di fuori della “scuola napoletana”: in
particolare si devono segnalare le lezioni di Luigi Raggi dell’anno
accademico 1967-1968, raccolte a cura degli studenti in una dispensa
controllata dallo stesso autore uscita sotto il titolo Appunti delle lezioni di Storia del diritto romano. Le lezioni sono
state poi accolte negli Scritti,
Milano 1975, 165-254 con il titolo Il
metodo della giurisprudenza romana, e di recente ristampate, con il
medesimo titolo, in un piccolo libro autonomo a cura M. Campolunghi e S. A.
Fusco (Torino, 2007).
[14] Le «forme» della maxima dignatio nell’Enchiridion
di Pomponio, in I giuristi e la
città, Napoli 1978, 3-21; per la pubblicazione di Bretone cfr. in
questo lavoro nt. 5.
[26]
D.1.2.2.37, Pomp. ench.; Simboli e miti, in Sulla
giurisprudenza medio-repubblicana, cit., 1-20.
[31] Poesia e diritto nei primi trent’anni
del secondo secolo a. C., in Sulla
giurisprudenza medio-repubblicana, cit., 75-103.
[35] Sesto Elio e le legis
actiones, in Del
fare diritto nel mondo romano, cit., 1-19. La novità principale
è relativa al tentativo di distinguere nelle Notae di Valerio Probo gli
aggiornamenti introdotti da Sesto Elio rispetto ai formulari pubblicati da Gneo Flavio.
[36] I maestri di Servio,
in Del fare diritto nel mondo romano,
cit., 21-44: questi giuristi poco conosciuti sono inquadrati attraverso una
lettura attenta di Pomponio che sottolinea come Servio
li abbia citati tutti nei suoi libri. Essi scrissero opere non accessibili a
tutti e quindi che non circolavano.
[39] Etica e stato in età giulio-claudia, in Del
fare diritto nel mondo romano, cit., 85-110; Etica e diritto nell’età dei Severi (ragioni di uno
scetticismo), in Del fare diritto nel
mondo romano, cit., 111-132. Il secondo lavoro è stato vivacemente
discusso nel 1997 a Parma nell’ambito del seminario sulla Storia del pensiero giuridico romano.
L’età dei Severi organizzato da Dario Mantovani e Aldo
Schiavone.
[42] D’Ippolito ha curato anche la
riedizione degli scritti di Lenel insieme con Okko Behrends: Gesammelte Schriften, 5 voll., Napoli,
1990-1994.
[44] F.
D. Sanio, Zur
Geschichte der Römischen Rechtswissenschaft. Ein Prolegomenon, a
cura di F. D’Ippolito, Napoli
19812, 4 s.
[46] Saggi
di storia della storiografia romanistica, cit., XII-XII. I saggi sono dedicati a F. Casavola
(Giuristi adrianei, 1980), R. A. Bauman (Lawyers in
Roman Repubblican Politics.
A study of the Roman Jurists in their Political Setting, 316-82 BC., 1983), F. Wieacker (Römische Rechtgeschichte,
1988), O. Diliberto (Materiali per la palingenesi delle XII Tavole,
1992), A. Schiavone (Ius. L’invenzione del
diritto in Occidente, 2005) e M. Bretone (Diritto e tempo nella
tradizione europea, 6° ed., 2006).
[51] Per
la prosopografia dei giuristi il riferimento è ovviamente a W. Kunkel, Herkunft und soziale Stellung
der römischen Juristen, Weimar 1952. Un’altra opera innovativa
del medesimo anno è quella di A. B. Schwarz,
Das strittige Recht der römischen
Juristen, che introduce il concetto di ius controversum
per indicare la dialettica del lavoro dei giuristi e il loro utilizzo nei
tribunali.
[54] Saggi
di storia della storiografia romanistica, cit., XXII: per D’Ippolito il momento di consolidamento
coincide con il bilancio effettuato da F. Wieacker
nel saggio I giuristi romani della storiografia degli ultimi
trent’anni, in La giurisprudenza romana nella storiografia
contemporanea. Testi di un seminario, a cura di A. Schiavone e A. G. Cassandro, Bari 1982, 35-52.