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franchini

Lorenzo Franchini

Università Europea di Roma

 

Il diritto casistico: esperienza romana arcaica e ‘common law’

 

 

ABSTRACT: In this article the Author plays a reflection on the proper method of the "case law", illustrating its applicability to the practical needs of citizen's life, in the absence (or scarcity) of written laws. According to an inductive hermeneutical method, the ratio decidendi already used to solve similar cases prevailed, unless, by applying a “distinguishing”, the case will be solve differently.

As case law system, the Author compares the Roman and English experience. If in the pre-classical and classical Roman law has been noticed many interpretative guidance (i.e. ius controversum), in the common law, given the centralized nature of the English legal system, the courts play a greater uniformity. A similar role, in Roman law, was performed only in the Archaic period, by the College of Pontiffs (Collegium Pontificum), organ that, holding the monopoly of interpretation, every year used to delegate (not more than) one of its members for consultancy to private individuals.

 

 

1. – L’argomento che intendiamo trattare, in questo breve scritto, non è certamente, come noto, tra i più inconsueti per uno studioso di diritto romano. Molto è già stato detto sul “diritto casistico”, molto si potrebbe ancora dire, incorrendo però nel rischio di non introdurre nella riflessione alcunché di innovativo od originale: ciò, soprattutto ora che sul tema sono state condotte ampie ed ammirevoli sintesi, che qui assumiamo come termine critico di confronto[1]. Con il presente contributo ci proponiamo allora di sottoporre al vaglio di chi ci leggerà alcune particolari considerazioni, cui siamo per lo più indotti dal bagaglio delle nostre conoscenze specifiche, e che saranno, d’altra parte, inevitabilmente accompagnate anche da rilievi di carattere generale, assai più scontati, ma sperabilmente idonei ad inserire comunque le considerazioni in questione in un quadro d’insieme coerentemente tradizionale.

 

2. – Il metodo adottato dai giuristi romani nello studio e nella risoluzione dei casi a loro variamente posti è, come si sa, di tipo induttivo. Come è stato giustamente osservato, in dottrina[2], i prudentes, nell’affrontare le questioni sulle quali vengono consultati, non si comportano in modo sensibilmente diverso da come faranno, molti secoli dopo, i giudici del ‘common law’ inglese. L’approccio allo studio del fatto è del tutto libero da quella pregiudiziale ricerca del “principio di autorità”, tipica della nostra mentalità legalistica, e che rappresenta un “peso” - sulla cui utilità non vogliamo qui pronunciarci - che psicologicamente grava, e sempre ineluttabilmente graverà, sul giurista formatosi nel quadro degli ordinamenti codificati dell’odierno ‘civil law’: è proprio questa iniziale autonomia intellettuale, questo rapportarsi al caso, così come esso si presenta, con la mente sgombra da qualunque pre-occupazione ultronea, da qualsiasi retro-pensiero, che costituisce a nostro avviso la cifra più significativa dell’esperienza del ‘case law’ romano, ma anche la più ostica da comprendere davvero per noi oggi, ché ci risulta in fin dei conti difficile, se non addirittura impossibile, immedesimarci completamente nel modo in cui i prudentes operavano, nei processi ermeneutici che erano ogni volta capaci di innescare. Essi d’altronde, nel fare ciò, facilmente e spontaneamente si avvalevano di un habitus professionale tanto radicato nella temperie spirituale del loro tempo quanto adesso ormai perduto, dissolto dalle ben note vicende storiche che, nel corso degli ultimi due secoli, hanno finito per imporre, in ambito giuridico, un ‘Volksgeist’ oggettivamente diverso, impregnato di una logica di tipo deduttivo, del quale il singolo interprete non potrà mai soggettivamente riuscire a spogliarsi[3].

Ordunque, il giurista romano, posto come si è detto di fronte ad un caso, lo esamina in tutti i suoi aspetti, lo sviscera in tutti i suoi elementi, e sulla scorta della sua iurisprudentia, della conoscenza acquisita grazie allo studio dell’esperienza pregressa - dalla quale, si noti bene, non si sente tuttavia propriamente vincolato, se non nel modo che fra breve illustreremo -, comincia ad individuare, tra gli elementi, quelli presumibilmente essenziali ai fini della decisione. Tale indispensabile processo di selezione si svolge innegabilmente per intuito; ma si tratta di un intuito oltremodo colto, affinato da anni ed anni di militanza professionale, nell’ambito della consulenza data ai privati, nonché dallo studio attento dell’esperienza giurisprudenziale altrui, appartenga essa ad un passato anche remoto o all’epoca contemporanea, sia stata essa affidata ad opere scritte o semplicemente tramandata in orientamenti interpretativi consolidatisi di volta in volta, e quindi senz’altro conoscibili. Costituiscono, questi, le regulae, le tendenze da ritenersi, fino ad allora, in tutto o in parte prevalenti, perché considerate da lungo tempo le più ragionevoli, le più plausibili (pithaná, per citare il titolo di una celebre opera di Labeone), più elasticamente adatte ad essere applicate al caso, evidentemente simile, che il nostro giurista è chiamato a risolvere. Ma pur non potendo egli, per le suddette ragioni, in alcun modo prescindere dal raffronto con le decisioni prese in casi precedenti - perché questo risulterebbe, più ancora che contrario a qualche norma espressamente prescritta[4], totalmente estraneo alla mentalità e al modus operandi propri della giurisprudenza romana di sempre: il che rende senz’altro condivisibili, anche sotto questo profilo, le osservazioni formulate dalla dottrina circa il parallelismo esistente con la metodologia dei giudici inglesi[5] -, tuttavia il giurista non si sentirà obbligato a conformarsi alla soluzione già data per casi simili, se avrà intravisto, nelle peculiari caratteristiche della fattispecie sottoposta al suo giudizio, l’esistenza di specifici elementi differenzianti (ciò che richiama il ‘distinguishing’ su cui spesso edificano le sentenze pronunciate dai tribunali dei paesi di ‘common law’)[6]. Se invece riterrà più rilevanti gli elementi che rendono il nuovo caso analogo[7] a quelli precedenti, la soluzione non potrà che essere quella adottata in passato. E’ significativo che tali due possibili esiti dell’esame riservato dai prudentes alle singole quaestiones risultino talora espressamente attestati nel tenore stesso del responso, che, strutturandosi secondo una tecnica di tipo diairetico, indica alternativamente l’una o l’altra soluzione, a seconda che ricorrano queste o quelle circostanze, del cui fattuale accertamento il giurista ovviamente non si occupa, ma che chiaramente intende lumeggiare, nella loro indispensabile valenza discretiva. Solo a titolo di esempio, si vedano alcuni passi tratti dall’epitome paolina ai Digesta di Alfeno Varo, giurista che, forte della sua formazione serviana, sembra aver particolarmente affinato la tecnica del responso bifido o anfibico[8]:

 

D. 10.4.19: Ad exhibendum possunt agere omnes quorum interest. Sed quidam consuluit, an possit efficere haec actio, ut rationes adversarii sibi exhiberentur, quas exhiberi magni eius interesset. Respondit non oportere ius civile calumniari neque verba captari, sed qua mente quid diceretur, animadvertere convenire. Nam illa ratione etiam studiosum alicuius doctrinae posse dicere sua interesse illos aut illos libros sibi exhiberi, quia, si essent exhibiti, cum eos legisset, doctior et melior futurus esset.

 

D. 12.6.36: Servus cuiusdam insciente domino magidem commodavit: is cui commodaverat pignori eam posuit et fugit: qui accepit non aliter se redditurum aiebat, quam si pecuniam accepisset: accepit a servulo et reddidit magidem: quaesitum est, an pecunia ab eo repeti possit. Respondit, si is qui pignori accepisset magidem alienam scit apud se pignori deponi, furti eum se obligasse ideoque, si pecuniam a servulo accepisset redimendi furti causa, posse repeti: sed si nescisset alienam apud se deponi, non esse furem, item, si pecunia eius nomine, a quo pignus acceperat, a servo ei soluta esset, non posse ab eo repeti.

 

D. 33.7.16pr.-1: Villae instrumento legato supellectilem non contineri verius est. Vinea et instrumento eius legato instrumentum vineae nihil esse Servius respondit: qui eum consulebat, Cornelium respondisse aiebat palos perticas rastros ligones instrumenti vineae esse: quod verius est.

 

Come si vede, a seconda delle possibili caratteristiche del caso il giurista risolverà diversamente il quesito che gli è stato posto, talora adeguandosi (più o meno chiaramente) all’orientamento, o ad uno degli orientamenti, precedenti, talaltra – benché si dica intenzionato ad una miglior applicazione della tradizione – dando invece luogo, con i suoi distinguo, ad una nuova regula per casi dalle caratteristiche specifiche simili, la quale potrà anche essere espressamente enunciata nella motivazione del parere fornito dal giureconsulto. Ma anche quando non si assista alla genesi, ex casu, di una nuova regola[9], e quindi il giurista dia conferma, nel risolvere la quaestio a lui sottoposta, della validità della regula precedente, bisognerà tenere comunque presente che anch’essa non era venuta originariamente ad esistenza se non a partire da quando la giurisprudenza l’aveva enucleata da un caso evidentemente nuovo insorto nella prassi dei consociati.

In tutto ciò sta l’essenza, al tempo stesso fluida e penetrante, elastica e potente, di un diritto come quello casistico, che procedendo in avanti ma con lo sguardo all’indietro, come un gambero, ha saputo, di volta in volta, costruire se stesso, con metodologia apparentemente “artigianale” ma in realtà “buona ed equa”, ben scientificamente fondata, perfettamente adatta a soddisfare le esigenze della società di quel tempo.  

 

3. – Quel che si è appena detto vale tanto per l’esperienza giuridica romana quanto per quella anglosassone. Ma con una importante differenza, che è indispensabile qui rimarcare: ossia che soltanto la prima si connota – almeno nell’età preclassica e classica – per la sua natura di ius controversum. Invero, anche nel ‘common law’ si assiste, e si è sempre assistito, alla diffusione, al consolidamento di indirizzi giurisprudenziali diversi: ma ciò può avvenire solo col passare del tempo, nella diacronia, allorché, ricorrendo pressappoco le condizioni cui si è fatto cenno nel paragrafo precedente, ad un indirizzo interpretativo se ne sostituisce un altro; non propriamente nella sincronia, stante il carattere accentrato o comunque gerarchizzato del sistema giudiziario inglese[10]. Spieghiamoci meglio: soltanto nell’epoca romana, compresa fra il II secolo a.C. ed il III secolo d.C., è dato di riscontrare la normale, pacifica co-esistenza, nello stesso momento, di tendenze giurisprudenziali opposte, atte a risolvere in maniera diversa lo stesso genere di casi. E per il giurista moderno, tutto intriso di quella cultura legalistica e di quelle pregiudiziali di cui dicevamo sopra, non è facile comprendere, “realizzare” fino in fondo, forse persino accettare l’idea che correnti interpretative consapevolmente contrapposte, che il diritto per esempio dei Sabiniani e quello dei Proculiani, costituissero ufficialmente entrambi, al contempo, il diritto vigente[11]. Tutto ciò poté accadere in quanto a partire dalla metà del III secolo a.C. l’attività di consulenza si svolse, come meglio preciseremo fra breve, in modo libero, e dunque casi simili venivano talora sottoposti, pressoché contemporaneamente, all’attenzione di giuristi diversi, con soluzioni diverse da essi dettate ed ispirate a diverse rationes decidendi. La pluralità, la divergenza dei flussi interpretativi si spiega in ragione dei loro diversi “punti di innesco”, talché la giurisprudenza delle epoche successive ne fu sì inevitabilmente influenzata, ma collocandosi, a seconda delle circostanze, ora nell’alveo dell’uno ora in quello dell’altro. Il fatto che poi non esistesse un organo ufficialmente unificante l’attività interpretativa rese possibile il protrarsi ed anzi il consolidarsi di questa situazione: fenomeno, questo, che è adesso impensabile, anche in fin dei conti per un giurista di ‘common law’[12].

Non spetta a noi oggi esprimere giudizi circa la attitudine del ius controversum romano a realizzare, nella pratica, principi di equità e giustizia per tutte le persone: qui basti ricordare che mai forse nella storia una società seppe darsi un ordinamento – effettivamente applicato – così adatto a sé medesima, come riuscirono a fare i Romani, specialmente nell’età cosiddetta classica della giurisprudenza. E’ tuttavia innegabile che, forse per la ontologia stessa del fenomeno giuridico, la molteplicità di tendenze, dirette ad imporre soluzioni differenti a casi uguali, mira spontaneamente a sanarsi, in un lasso di tempo più o meno breve, più o meno lungo che sia, e che ciò inevitabilmente avvenne anche nell’esperienza romana, allorché, specie a partire dal II secolo d.C., con il superamento della dialettica giurisprudenziale sabiniana-proculiana, l’esigenza di una graduale armonizzazione delle diverse correnti interpretative dovette essere senz’altro avvertita in maniera più forte. Del resto, siamo proprio noi studiosi del diritto romano a riconoscere, ad affermare che, tra i diversi orientamenti contrapposti, di volta in volta illustrati con riferimento alle più svariate questioni, ad un certo punto fu uno a prevalere sull’altro, non sempre interrogandoci sul significato profondo che, riferito a quel contesto, va attribuito a tale termine[13]. Occorre insomma chiedersi, secondo noi, quali esattamente fossero i meccanismi in forza dei quali si determinava, in un dato momento, il totale venir meno di una delle linee interpretative, prima coesistenti, a tutto vantaggio dell’altra. Sul punto sono ragionevolmente formulabili delle ipotesi. Certo, l’emanazione di un rescritto imperiale, destinato, come si sa, ad essere immesso all’interno dello stesso flusso interpretativo, può condizionarlo a tal punto da produrre l’estinzione della corrente giurisprudenziale ad esso contraria[14]; lo stesso, fatte le debite proporzioni, potrà accadere a seguito del pronunciamento di qualche giurista riconosciuto come universalmente autorevole (supponiamo, Salvio Giuliano), tale dunque da ricondurre a sintesi i contrapposti orientamenti (supponiamo, quello sabiniano e quello proculiano)[15], sempre comunque sacrificando in tutto od in parte l’uno a beneficio dell’altro. Ma siccome per molti casi di questo genere non è attestato nelle fonti che sia accaduto alcunché di quanto sopra descritto – ossia non è attestato che sia stata la giurisprudenza a porre fine, su determinate questioni, allo stato di ius controversum, raggiungendo, in seno a se stessa, un’unanimità di vedute[16] –, è a nostro avviso da prendere in considerazione anche l’ipotesi che sia stata la prassi a segnare la prevalenza di una corrente sull’altra[17], trasformando cioè il ius controversum in ius receptum[18]; alludiamo, in particolare, alla prassi giudiziaria, alle sentenze dei giudici, di cui taluni studiosi di diritto romano provano ritrosia a tenere conto, ma non certo altri[19].

 

4. – Si è detto che, rispetto al ius controversum, considerato nella sincronia, l’esperienza anglosassone, pur per molti altri aspetti simile a quella romana[20], diverge sensibilmente da questa. Ciò vale per l’epoca di una scienza giuridica divenuta, a Roma, già laica, e dunque a partire dal II secolo a.C. Ma se noi risaliamo nel tempo, all’età arcaica – epoca in cui, oltretutto, maggiore era l’incidenza di una fonte come i mores, ossia di quella “consuetudine” a cui gli stessi giudici inglesi hanno sempre detto di ispirarsi, anche allo scopo di dare un fondamento alle innovazioni da loro introdotte nell’ordinamento[21] –, ecco che ci troviamo di fronte ad uno scenario sorprendentemente analogo, anche sotto quel profilo, allo scenario offerto dal ‘common law’: l’attività di consulenza sui casi si svolge avvalendosi di una struttura interpretativa accentrata (il collegio dei pontefici), il che come in Inghilterra rende sì possibile una pluralità di indirizzi giurisprudenziali, ma solo nella diacronia, cioè nello scorrere del tempo. Sul punto, è indispensabile approfondire la nostra analisi, che ha ad oggetto, qui, problematiche stranamente assai poco sondate dalla dottrina[22].

Con quali modalità, secondo quali procedure si svolgeva il famoso agere, cavere, respondere della giurisprudenza dei pontefici[23]? E soprattutto, come questi potevano essere interpellati, in quali circostanze erano insomma chiamati ad esprimere i loro pareri sulle questioni di diritto loro sottoposte? Ebbene, dalle fonti – per un più attento studio delle quali ci permettiamo di rinviare, qui, ai nostri scritti[24] – chiaramente si ricava che i meccanismi erano diversi a seconda degli ambiti, delle materie per cui l’attività di consulenza doveva esercitarsi. La procedura più complessa ed “ufficiale”, con cui si mirava ad ottenere l'emanazione di un vero e proprio decreto del collegio inteso come tale, era quella esperita per la risoluzione di questioni postesi nell’ambito del ius sacrum publicum (per lo più, in ordine all’elaborazione di formulari, relativi a voti solenni o ad altri riti) e forse anche per problemi attinenti all’aggiornamento generale del calendario (particolarmente, in ordine all’intercalazione). In tale procedimento erano coinvolti alcuni dei più importanti organi dello stato, in quanto il collegio pontificale era ufficialmente interpellato, in questi casi, dal magistrato, in ciò incaricato dal senato, ed erano gli stessi patres che, mediante un senatoconsulto che non va confuso con il primo, ordinavano al magistrato di provvedere anche all'esecuzione di quel responso formalizzato in un decreto che i pontefici, dopo essersi riuniti e aver preso la decisione, avevano nel frattempo comunicato alle autorità interpellanti. La necessità di questo secondo senatoconsulto derivava dal fatto che l'attuazione del decreto, che imponeva la celebrazione di pubblici riti secondo particolari solennità, avrebbe poi comportato, nella maggior parte dei casi, l'assunzione di vincoli di natura religiosa – perfettamente rilevanti sotto il profilo del ius divinum – a carico dell’intera cittadinanza. Il procedimento descritto, perfettamente scandito nelle sue varie fasi, fu certamente seguito durante tutta l’età arcaica, e risulta ancora osservato fra il III e il II secolo a.C., con riferimento al medesimo genere di questioni[25].

Per le questioni in cui erano invece implicati interessi privati, ossia per quesiti inerenti all’applicazione al caso concreto di regole di ius civile o di ius sacrum privatum, tutt’altri erano invece i meccanismi di consultazione previsti dall’ordinamento. Ce ne riferisce significativamente Pomponio:

 

D. 1.2.2.6: Omnium tamen harum et interpretandi scientia et actiones apud collegium pontificum erant, ex quibus constituebatur quis quoquo anno praeesset privatis. Et fere populus annis prope centum hac consuetudine usus est.

 

Da questa testimonianza si acquisisce un dato di grande importanza: esisteva in età arcaica una prassi interna al collegio, secondo cui ogni anno un pontefice riceveva la delega, l’incarico di esercitare attività di consulenza ai privati. Titolare della funzione restava a nostro avviso il collegio come tale[26], al quale si poteva teoricamente ancora ricorrere, al fine di ottenere un decreto di risposta, specie, è lecito supporre, nelle questioni in cui i suoi membri si fossero, l’uno di seguito all’altro, diversamente pronunciati[27]; ma in base ad una prassi consolidata, avvalendosi dello strumento della “delega” - cui peraltro il collegio pontificale faceva di frequente ricorso, come si evince anche dai casi relativi al praeire verbis[28] -, i pontefici facevano sì che almeno in prima battuta, per comprensibili ragioni di praticità, e quindi nella quasi totalità delle ipotesi, fosse il singolo sacerdote incaricato a dare il responso al privato.

Alla luce di quanto sopra osservato, risulta più chiara la ragione per cui l’esperienza giuridica romana arcaica non fu, come quella classica, un’esperienza di ius controversum: ossia perché, considerata l’esistenza di un organo che deteneva il monopolio dell’interpretazione giurisprudenziale, ma anche le specifiche descritte modalità con cui l’attività di consulenza sui casi veniva condotta, l’eventualità che più orientamenti contrapposti costituissero contemporaneamente il diritto vigente risultava del tutto improspettabile. Era invece possibile, come detto, nella diacronia, cioè in tempi diversi; ma doveva essere comunque rarissimo, in materia di ius civile, che ad un mutamento d’indirizzo ne seguisse entro breve addirittura un altro, poiché di solito i singoli pontefici si attenevano ai precedenti, e se così non era un’eventuale pronuncia del collegio avrebbe comunque fatto immediatamente prevalere un orientamento a scapito degli altri e assicurato per molto tempo uniformità di interpretazione. Così si svolgeva dunque il ‘case law’[29] pontificale, e dato che il diritto in età arcaica era dominato dal formalismo e da una concezione di tipo rituale di qualunque attività che si presumesse non priva di effetti rilevanti[30], bisogna osservare che anche il contenuto dei nostri responsa, come quello dei decreti emessi per regolare lo svolgimento di pubbliche solennità, doveva per lo più consistere in ammonimenti circa i certa verba da pronunciare o i gesti esatti da compiere, affinché l’atto in questione potesse dirsi validamente posto in essere[31]. Solo in questo modo potevano semmai introdursi anche modifiche ai formulari di atti e procedimenti, giacché qualsiasi prassi si allontanasse dagli schemi prefissati sarebbe risultata invalidante, dato il carattere pienamente stringente del formalismo, in materia di ius civile come di ius sacrum, e la assoluta inderogabilità dei precetti di cui esso constava[32].

Di tutto questo si trae conferma da una fonte, particolarmente importante, a cui noi abbiamo già dedicato uno dei nostri lavori[33] e su cui, a titolo di esempio, vogliamo soffermarci anche in questa sede. Si tratta di:

 

Liv. 31.9.5-10: Cum dilectum consules haberent pararentque quae ad bellum opus essent, civitas religiosa in principiis maxime novorum bellorum, supplicationibus habitis iam et obsecratione circa omnia pulvinaria facta, ne quid praetermitteretur quod aliquando factum esset, ludos Iovi donumque vovere consulem cui provincia Macedonia evenisset iussit. Moram voto publico Licinius pontifex maximus attulit, qui negavit ex incerta pecunia voveri debere, quia ea pecunia non posset in bellum usui esse seponique statim deberet nec cum alia pecunia misceri: quod si factum esset, votum rite solvi non posse. Quamquam et res et auctor movebat, tamen ad collegium pontificum referre consul iussus si posset recte votum incertae pecuniae suscipi. Posse rectiusque etiam esse pontifices decreverunt. Vovit in eadem verba consul praeeunte maximo pontifice quibus antea quinquennalia vota suscipi solita erant, praeterquam quod tanta pecunia quantam tum cum solveretur senatus censuisset ludos donaque facturum vovit. Octiens ante ludi magni de certa pecunia voti erant, hi primi de incerta.

 

Come si evince dalla lettura del passo sopra riportato, che verte su una questione di diritto sacro pubblico - sulla quale era dunque chiamato a pronunciarsi il collegio come tale, secondo quanto abbiamo detto sopra -, nel 200 a.C. i pontifices consentirono che per la prima volta fosse pronunciato un votum ex incerta pecunia, apportando una modifica al tenore della tradizionale formula rituale (ex certa pecunia), nella quale era da sempre invece specificata la somma in denaro da accantonare ed eventualmente da spendere nel caso in cui, verificatasi la condizione apposta alla promessa, questa dovesse essere adempiuta. Ad un consolidato indirizzo giurisprudenziale, di cui si era eretto a difensore il pontefice massimo P. Licinio Crasso, se ne sostituisce quindi un altro, destinato ad essere confermato in diverse successive pronunce[34]: ciò che appunto dimostra come, nella diacronia, l’interpretatio di un medesimo caso potesse senz’altro mutare, risultandone così enucleato il rilievo di regole nuove (cui nel testo sopra riportato ci si limita peraltro ad alludere, con l’uso del termine rectius, che appare tanto enigmatico quanto, però, formalmente rispettoso di una presunta consuetudine preesistente[35]). Dal passo liviano in esame si ricava anche che - come normalmente accadrà in epoche successive - non mancarono fra i giuristi dissensi e divergenze di opinione, espresse le une contemporaneamente alle altre[36]: ma si osservi soprattutto come, in quest’epoca, esse fossero inevitabilmente destinate ad essere superate ed assorbite dal voto a maggioranza adottato dal collegio. Era infatti possibile che i pontifices (qui, addirittura, il loro capo Licinio Crasso) si pronunciassero informalmente ed autonomamente su qualche caso: in senato, in particolare, dato che essi ne erano tutti solitamente membri, o addirittura nell’ambito dei rapporti interpersonali normalmente coltivati dagli esponenti dell’‘élite’ cittadina; ma i pareri enunciati dai pontefici in tali circostanze, pur muniti di una certa comprensibile autorevolezza, non erano considerati in alcun modo vincolanti né per le autorità interpellanti né tanto meno per gli altri membri del collegio che, se formalmente consultati, potevano anche radicalmente sovvertire il suggerimento che in precedenza era stato espresso a titolo personale[37].

D’altronde, occorre ribadire che neppure riguardo alla interpretatio dei casi che rilevavano dal ius civile era in età pontificale prospettabile, nella sincronia, un’esperienza di ius controversum, dato che come detto vi era, ogni anno, un solo sacerdote ufficialmente delegato a dare responsi ai privati. Le cose però, come noto, cambiarono a partire da quando Tiberio Coruncanio, primo pontefice massimo plebeo, decise di dare i suoi responsi in pubblico[38], così che gli ascoltatori più interessati poterono costantemente assistervi e rendersi pertanto conto della ratio che di volta in volta, sulle più svariate materie, ispirava l’attività interpretativa del capo del collegio. Ora, l’episodio, al di là dell’impatto enorme che dovette avere sull’opinione pubblica per il fatto che definitivamente poneva fine alla tradizionale segretezza dell’interpretatio pontificale, è indizio importante di un’altra circostanza, che rileva sotto il profilo procedimentale: ossia che da qualche tempo (forse proprio da quando era stato ampliato il numero dei membri del collegio, con la lex Ogulnia del 300 a.C. che vi aveva immesso i plebei[39]) molto probabilmente non venivano più osservati, da parte dei privati, i tradizionali meccanismi di consultazione. Non vi era più un singolo pontefice delegato che esaminava i quesiti posti dai patres familias; ma più pontefici singolarmente esercitavano la loro attività di consulenza, in contemporanea con altri. L’esempio fornito dallo stesso capo del collegio alimentò certamente questa prassi, oltre a quella poi generalizzatasi dei responsi in pubblico: la conseguente perdita d’autorità del pontificato, inteso come organo collegiale di raccordo cogente dell’interpretazione, dovette senz’altro favorire la comparsa dei primi consulenti laici (non crediamo molti, per la verità, all’inizio)[40], il libero confronto tra i diversi orientamenti e finalmente la nascita di un ius controversum, considerato anche nella sincronia.

Ed è a questo punto che, come si diceva in precedenza, quel parallelismo perfetto, propriamente riscontrabile – sotto questo profilo – fra l’esperienza del diritto casistico romano arcaico (non classico!) e quella dell’odierno ‘case law’ inglese[41], viene fatalmente meno.

 

 



 

[Per la pubblicazione degli articoli della sezione “Tradizione Romana” si è applicato, in maniera rigorosa, il procedimento di peer review. Ogni articolo è stato valutato positivamente da due referees, che hanno operato con il sistema del double-blind].

 

[1] Alludiamo in particolare ai molti saggi scritti in materia da L. Vacca, ora raccolti in Metodo casistico e sistema prudenziale. Ricerche, Padova, 2006; ma v. anche per es., della stessa autrice, Contributo allo studio del metodo casistico nel diritto romano, Milano, 1976, e La giurisprudenza nel sistema delle fonti del diritto romano, Torino, 1989, spec.te 65 ss., 107 ss. Cfr. ad es., per tutti, L. Lombardi, Saggio sul diritto giurisprudenziale, Milano, 1967, spec.te 16 ss., 21 ss., 59 ss.; J.A.C. Thomas, Aspetti metodologici della giurisprudenza romana classica, in Annali della Facoltà di Giurisprudenza dell’Università di Macerata, 30 (1971), 311 ss., con particolare riferimento alla metodologia interpretativa applicata da Salvio Giuliano; F. Horak, Osservazioni sulla legge, la casistica e il ‘case law’ nel diritto romano e nel diritto moderno, in Legge, Giudici, Giuristi. Atti del convegno di Cagliari, Milano, 1982, 67 ss., pur con la riserva che i “casi” trattati dai giuristi romani presentano, al contrario di quel che avviene nel ‘common law’ inglese, un alto grado di astrazione, tanto da risultare spesso il frutto di una pura invenzione giurisprudenziale; U. Vincenti, Giustizia e metodo. Contro la mitologia giuridica, I, Torino, 2005, spec.te 3-88, tutto incentrato sull’importanza della casistica, con prevalente riferimento ai diritti codificati, ma non senza significativi confronti col diritto romano; G.L. Falchi, Introduzione ai fondamenti del diritto Europeo, Città del Vaticano, 2007, 105 ss.

 

[2] Cfr. soprattutto L. Vacca, La giurisprudenza, cit., 111 ss., Casistica giurisprudenziale e concettualizzazione romanistica, in Metodo casistico, cit., 31-33, e Analogia e diritto casistico, in Metodo casistico, cit., 109 ss. V. anche ad es., per tutti, F. Pringsheim, The Inner Relationship between English and Roman Law, in CLJ, 5 (1935), 347 ss., spec.te 350-352, 365; G. Radbruch, Lo spirito del diritto inglese, trad. it., Milano, 1962, spec.te 6, 32 ss., 52; J.P. Dawson, The Oracles of the Law, Ann Arbor, 1968, 103 ss., 118-119, 145-147; H. Peter, Römisches Recht und englisches Recht, Wiesbaden, 1969, spec.te 66, 74, 76-78, 80, 91; A.A. Schiller, Roman ‘Interpretatio’ and Anglo-American Interpretation and Construction, in An American Experience in Roman Law, Göttingen, 1971, 56 ss.; J.A.C. Thomas, Aspetti, cit., 311 ss., spec.te 314-315, 319, 322, 329; A. Cavanna, Storia del diritto moderno in Europa, I, Le fonti e il pensiero giuridico, Milano, 1982, 481, 610; P. Stein, I precedenti nella ‘Common Law’, in Legge, Giudici, Giuristi. Atti del convegno di Cagliari, Milano, 1982, 53 ss., e I rapporti interni fra il diritto romano classico ed il ‘common law’ inglese, in Incontro con G. Pugliese, Milano, 1992, 59 ss.; G. Pugliese, ‘Ius honorarium’ a Roma ed ‘equity’ nei sistemi di ‘common law’, in Riv. trim. dir. proc. civ., (1988), II, 1110 (su cui v. anche L. Garofalo, Diritto romano e scienza del diritto, in Giurisprudenza romana e diritto privato europeo, Padova, 2008, 214); A. Watson, Evoluzione sociale e mutamenti del diritto, trad. it., Milano, 2006, spec.te 139 ss.; G.L. Falchi, Introduzione, cit., 119 ss.; S. Randazzo, ‘Roman Law’ vs ‘US Law’? Il contributo del diritto romano ad un dialogo possibile, in Ius, 57 (2010), 5 ss., spec.te 8, 13-14, 21-22, 28, 31, 33. Contra, ad es., per tutti, F. Horak, Osservazioni, cit., 67 ss., secondo il quale, come già detto, i giuristi romani si sarebbero avvalsi di un metodo assai diverso da quello applicato dai giudici inglesi, perché incentrato sullo studio di casi astratti (ma - è lecito replicare - non è forse vero che, al di là della trattazione in opere scritte di casi siffatti, i prudentes contribuivano eminentemente alla produzione del diritto attraverso la concreta attività respondente, come già opportunamente a suo tempo osservava, per es., L. Lombardi, Saggio, cit., 19, 72?); P.G. Monateri, T. Giaro, A. Somma, Le radici comuni del diritto europeo, Roma, 2005, spec.te 118 ss., i quali peraltro, nel rimarcare soprattutto le differenze riscontrabili fra diritto romano e inglese, parlano sì di decadenza delle tesi di Pringsheim, a loro avviso oggi sostenute sempre più raramente, ma non paiono, per la verità, fare esattamente riferimento alle tecniche proprie del metodo casistico.

 

[3] Ciò, tanto più se all’incidenza della cultura legalistica, consolidatasi fin dall’epoca delle prime codificazioni, si aggiunge quella rappresentata dalla pesante, e sovente antistorica, rielaborazione dogmatica che, delle stesse fonti romane, avrebbe fatto poi la Pandettistica, influenzando così la scienza sia romanistica che civilistica. Sul punto, v. per es. le riflessioni di G. Pugliese, I Pandettisti fra tradizione romanistica e moderna scienza del diritto, in La formazione storica del diritto moderno in Europa, I, Firenze, 1977, 29 ss.; M. Talamanca, La romanistica italiana fra Otto e Novecento, in Index, 33 (1995), 159 ss.; V. Mannino, Considerazioni intorno a una presunta Pandettistica di ritorno, in Europa e Diritto privato (2005), I, 365 ss.; L. Vacca, Casistica, cit., 29 ss., spec.te 36-37, e Amelotti pandettista e la ‘praescriptio’, in MEP, 9 (2006), spec.te 30; S. Randazzo, ‘Roman Law’, cit., 30.

 

[4] Per la verità, come si sa, una disciplina di carattere autoritativo venne effettivamente dettata, in età prima adrianea e poi giustinianea, allo scopo di indirizzare l’interpretazione analogica che, delle norme in vigore - qualunque fosse la loro fonte -, avrebbero dovuto dare tanto i giuristi quanto i magistrati giusdicenti: v. per es. D. 1.3.10-13; 1.3.32; 19.3.1pr.; Tanta-Δέδωκεν 18. Ma non vi è dubbio che l’analogia, categoria connaturata al fenomeno giuridico, sia stata in ogni tempo ampiamente applicata nel contesto del ius controversum romano, ove i responsi giurisprudenziali fungono da precedenti: cfr. per es., M. Talamanca, Recensione a F. Gallo, Produzione del diritto e sovranità popolare nel pensiero di Giuliano (a proposito di D. 1.3.32), in BIDR, 92-93 (1989-1990), 743; v. anche gli autori citati infra, alla nt. 7.

 

[5] I quali d’altronde, come noto, usavano attenersi ai precedenti già da lungo tempo, prima che, nel tardo Ottocento, il principio dello stare decisis fosse formalmente sancito entro l’ordinamento in cui operavano. Sul punto v. per es. G. Radbruch, Lo spirito, cit., 32 ss.; L. Vacca, Contributo, cit., 21-23, La giurisprudenza, cit., 112, Casistica, cit., 31-33, e Analogia, cit., 109 ss.; P. Stein, I precedenti, cit., 54-55, e I fondamenti del diritto europeo. Profili sostanziali e processuali dell’evoluzione dei sistemi giuridici, trad. it., Milano, 1987, 110-111, 114; A. Cavanna, Storia, cit., 527-529, 567 ss.; G. Pugliese, ‘Ius honorarium’, cit., 1113; U. Mattei, ‘Stare decisis’. Il valore del precedente giudiziario negli Stati Uniti d’America, Milano, 1988, e ‘Common law’. Il diritto anglo-americano, Torino, 1992, spec.te 214 ss.; G. Criscuoli, Introduzione al diritto inglese. Le fonti, 2ª ed., Milano, 1994, 325 ss., 345 ss., 360 ss.; L. Antoniolli Deflorian, Il ruolo del precedente giudiziale nel ‘Common Law’ inglese, in Il valore dei precedenti giudiziali nella tradizione europea, Padova, 1998, 167 ss.; D.F. Pugsley, L’origine della regola dello ‘stare decisis’ nella House of Lords e il caso ‘London Tramways’ (1898), in Il valore dei precedenti, cit., 235 ss.; D. Freda, La dottrina dei ‘Lawyers’. Le raccolte di giurisprudenza nell'Inghilterra dei Tudor, Napoli, 2009, 9, 18-19, 135 ss.; S. Randazzo, ‘Roman Law’, spec.te 7 nt. 9, 12-13.

 

[6] In merito, v. per es. L. Vacca, Contributo, cit., 27, e La giurisprudenza, cit., 114-116; J.A.C. Thomas, The Art of Distinguishing, in L’educazione giuridica, II. Profili storici, Perugia, 1979, 207 ss.; F. Horak, Osservazioni, cit., 71; P. Stein, I precedenti, cit., 56-57, e I fondamenti, cit., 112; A. Cavanna, Storia, cit., 572; G. Pugliese, ‘Ius honorarium’, 1113 nt. 13; U. Mattei, ‘Stare decisis’, cit., spec.te 209 ss., e ‘Common law’, cit., spec.te 214 ss.; L. Antoniolli Deflorian, Il ruolo, cit., 185, 200; D.F. Pugsley, L’origine, cit., 249. V. anche G.A. Sheets, Distinguishing Cases and Conditions in Roman Legislation, in RIDA, 52 (2005), 361 ss., con interessanti considerazioni circa l’arte del “distinguo” applicata, ai diversi casi, dallo stesso legislatore, americano e - soprattutto - antico romano.

 

[7] In generale, sul rilievo che il metodo analogico riveste nell’esperienza giurisprudenziale romana, v. ad es. F. Gallo, Alle origini dell’analogia, in Diritto e processo nell’esperienza romana. Atti G. Provera, Napoli, 1994, 37 ss., con peculiare riguardo all’estensione delle norme del ius moribus receptum nell’ordinamento civile; V. Scarano Ussani, L’utilità e la certezza. Compiti e modelli del sapere giuridico in Salvio Giuliano, Milano, 1987, 96-97; L. Vacca, La “svolta adrianea” e l’interpretazione analogica, in Metodo casistico, cit., 39 ss., Analogia, cit., 105 ss., L’interpretazione analogica della legge e il diritto casistico nell’esperienza romana, in Metodo casistico, cit., 159 ss., e L’interpretazione analogica nella giurisprudenza classica, in ‘Fides, Humanitas, Ius’. Studii L. Labruna, VIII, Napoli, 2007, 5727 ss.; A. Mantello, L’analogia nei giuristi tardo repubblicani e augustei. Implicazioni dialettico-retoriche e impieghi tecnici, in Studi R. Martini, II, Milano, 2009, 605 ss.

 

[8] In merito, sempre molto acute e penetranti, ad es., le osservazioni di G. Negri, Per una stilistica dei Digesti di Alfeno, in Per la storia del pensiero giuridico romano. Dall’età dei pontefici alla scuola di Servio, Torino, 1996, 135 ss.

 

[9] Cfr. in proposito il ben noto passo di Paolo in D. 50.17.1, che può essere a ragione considerato una sorta di “manifesto” del metodo casistico romano: non ex regula ius sumatur, sed ex iure quod est regula fiat.

 

[10] Sotto questo profilo appare perfettamente logico che il processo di riorganizzazione in senso piramidale del sistema giudiziario inglese, culminato con il ‘Judicature Act’ del 1873-75, abbia storicamente seguito di pari passo quello che portò all’affermazione della piena, rigida vigenza del principio del precedente vincolante, secondo il quale ciascun giudice è tenuto ad attenersi, in consimili casu, alle decisioni adottate da giudici di grado superiore o dello stesso grado; soltanto nell’eventualità che si tratti di sentenziare su casi del tutto nuovi è forse pensabile che in un sistema di ‘common law’ possa darsi una situazione di ius controversum anche nella sincronia: ma non è chi non veda come tale situazione sia suscettibile di essere sanata in tempi teoricamente rapidissimi, stante la funzione di nomofilassi cui le corti superiori sono immediatamente in grado di assolvere. Su tutto quanto sopra, e con particolare riferimento all’organizzazione gerarchica del sistema giudiziario inglese e degli altri paesi di ‘common law’ (sui cui più esatti dettagli non è indispensabile soffermarsi, in questa sede), v. ad es., per tutti, G. Radbruch, Lo spirito, cit., 33; C.A. Cannata, Lineamenti di storia della giurisprudenza europea, II, 2ª ed., Milano, 1976, 56; L. Vacca, Contributo, cit., 21-23, Casistica, cit., 31-33, e Analogia, cit., 109 ss.; P. Stein, I precedenti, cit., 54-56, e I fondamenti, cit., 110-111, 113-114; A. Cavanna, Storia, cit., 547 ss., spec.te 549-550, 571; U. Mattei, ‘Stare decisis’, cit., 209 ss., e ‘Common law’, cit., 105 ss.; G. Criscuoli, Introduzione, cit., 231 ss., 274 ss.; L. Antoniolli Deflorian, Il ruolo, cit., 180, 187 ss., 193, 213 ss.; G.L. Falchi, Introduzione, cit., 119 ss.; S. Randazzo,Roman Law’, cit., 12, 21, 22 ss.

 

[11] “Vigente” perché già indubbiamente oggetto di applicazione, anche in sede giudiziaria: ma non ancora ius receptum, come meglio chiariremo infra.

 

[12] In proposito, v. di nuovo le considerazioni da noi svolte supra, alla nt. 3.

 

[13] Non mancano, per la verità, in dottrina, tentativi di fare partitamente luce sulla sorte cui, nell’esperienza romana, potevano andare incontro i vari orientamenti giurisprudenziali, a seconda che si fondassero su: 1) responsi immediatamente accolti nella prassi; 2) responsi solo parzialmente accolti, e poi recepti o non, a seconda che orientamenti contrapposti abbiano avuto la peggio o la meglio; 3) responsi immediatamente non accolti. Illuminanti sul punto le considerazioni, per es., di L. Lombardi, Saggio, cit., spec.te 69 ss.; F. Bona, La certezza del diritto nell’età repubblicana, in La certezza del diritto nell’esperienza giuridica romana, Padova, 1987, 127-131, 135; F. Gallo, La sovranità popolare quale fondamento della produzione del diritto in D. 1.3.32: teoria giulianea o interpolazione postclassica?, in BIDR, 94-95 (1991-1992), 99, 195 nt. 42, e L’‘officium’ del pretore nella produzione e applicazione del diritto, Torino, 1996, 47, e T. Giaro, Diritto come prassi. Vicende del discorso giurisprudenziale, in ‘Fides, Humanitas, Ius’. Studii L. Labruna, IV, Napoli, 2007, 2249-2252, con ampia esemplificazione di fonti per ciascuna delle diverse ipotesi prospettate.

 

[14] V. ad es., per tutti, il rescritto di cui a D. 49.15.9, con il quale Settimio Severo e Caracalla ponevano fine ad ogni ‘dubitatio in materia di ius postliminii del figlio nato in prigionia.

 

[15] E’ dottrina comune che Giuliano, ultimo corifeo della scuola sabiniana (cfr. Pomp. D. 1.2.2.53), abbia comunque assolto a questa funzione: per tutti, v. ad es. F. Schulz, Storia della giurisprudenza romana, trad. it., Firenze, 1968, 219.

 

[16] Nel qual caso, in base al celebre rescritto adrianeo di cui a Gai 1.7, i responsa prudentium avrebbero assunto un’efficacia di tipo paralegislativo; ciò, in ossequio ad una tendenza che tuttavia, a nostro avviso, si sarà probabilmente manifestata ben prima che l’imperatore ne desse atto: a sostegno, v. ad es. F. Schulz, I principii del diritto romano, trad. it., Firenze, 1946, 209; L. Lombardi, Saggio, cit., 71 nt. 133; F. Gallo, Interpretazione e formazione consuetudinaria del diritto, Torino, 1971, 47-48, 153 ss., La consuetudine nel diritto romano, in Atti del colloquio romanistico-canonistico, Roma, 1979, 103, La sovranità, cit., 99, L’‘officium’, cit., 46-47, Un nuovo approccio per lo studio del ‘ius honorarium’, in SDHI, 62 (1996), 37-38 nt. 96, e La recezione ‘moribus’ nell’esperienza romana: una prospettiva perduta da recuperare, in Iura, 55 (2004-2005), 14-15, secondo il quale, in particolare, solo in caso di parere unanime si sarebbe potuto prescindere dal rilievo di una prassi sociale approvativa.

 

[17] Il principale teorico della receptio moribus – a seguito della quale, soltanto, un mero indirizzo interpretativo avrebbe ottenuto piena e definitiva integrazione nell’ordinamento (civile), in quanto ormai assistito dalla generale approvazione di tutti i possibili artefici di usi e prassi giuridicamente applicativi dell’interpretatio stessa – è, come noto, il già citato F. Gallo, di cui v. qui per es. Interpretazione, cit., La consuetudine, cit., 98 ss., Produzione, cit., 70 ss., La sovranità, cit., 1 ss., L’‘officium’, cit., spec.te 21 ss., Un nuovo approccio, cit., 9-10, 17-18 nt. 42, 28 nt. 72, 30-31 e ntt. 76-77, 32-42, 55-56, e La recezione, cit., 1 ss.; ma v. anche per es. E. Betti, La creazione del diritto nella ‘iurisdictio’ del pretore romano, in Studi G. Chiovenda, Padova, 1927, 65 ss. spec.te 101, 106; L. Bove, La consuetudine nel diritto romano, I. Dalla repubblica all’età dei Severi, Napoli, 1971, spec.te 132; W. Waldstein, Gewohnheitsrecht und Juristenrecht in Rom, in ‘De iustitia et iure’. Festgabe U. von Lübtow, Berlin, 1980, 124; G. Provera, Il valore normativo della sentenza e il ruolo del giudice nel diritto romano, in Est. Hist.-Juríd., 7 (1982), 55 ss.; F. Bona, La certezza, cit., 127, 134 ss.; D. Mantovani, Gli esordi del genere letterario ‘ad edictum’, in Per la storia del pensiero giuridico romano. Dall’età dei pontefici alla scuola di Servio, Torino, 1996, 94-95 e nt. 118; P. Cerami, ‘Breviter’ su Iul. D. 1.3.32 (Riflessioni sul trinomio ‘lex, mos, consuetudo’), in Nozione, formazione e interpretazione del diritto. Dall’età romana alle esperienze moderne. Ricerche F. Gallo, Napoli, 1997, 117 ss.

 

[18] La nozione di ius receptum (o inductum), intesa nel senso sopra indicato, trova amplissima conferma nelle fonti: solo a titolo di esempio v. Gai 3.82; 3.160; D. 1.3.14; 1.3.32; 2.1.14; 9.2.51.2; 19.1.11.8; 21.2.56.7; 22.1.2; 24.1.1; 27.4.1pr.; 30.71.4; 35.1.24; 35.1.73; 39.3.3.3; 40.7.2.4; 41.2.1.14; 41.2.32.2; 44.7.5pr.; 45.1.4.2; Paul. Sent. 5.2.2; Gell. 12.13.3.

 

[19] Scetticismo hanno per es. dimostrato L. Lombardi, Saggio, cit., 21, 59, 70, 71 nt. 133, 73, 74 e nt. 136; M. Talamanca, Recensione a F. Bona, La certezza, cit., in BIDR, 91 (1988), 854-856, e Recensione a F. Gallo, Produzione, cit., 744, e T. Giaro, Diritto, cit., 2235; ma è oggi copiosa la letteratura favorevole a riconoscere un valore normativamente rilevante ai precedenti giudiziali, considerati non di per sé, ma in quanto accolgano i suggerimenti dei giuristi, conferendo ad essi effettività: per tutti v. ad es. L. Vacca, Contributo, cit., 50-53, 62 nt. 40, 63-66, 82, 133-134, 138, La giurisprudenza, cit., 38-41, 63, 73 ss., Sulla rilevanza dei precedenti nel diritto giurisprudenziale romano, in Metodo casistico, cit., 79 ss., e I precedenti e i responsi dei giuristi, in Metodo casistico, cit., 129 ss.; G. Provera, Il valore, cit., 55 ss.; F. Bona, La certezza, cit., 134 ss.; U. Vincenti, Il valore dei precedenti giudiziali nella compilazione giustinianea, 2ª ed., Padova, 1995; M. Marrone, Su struttura delle sentenze, motivazione e “precedenti” nel processo privato romano, in BIDR, 100 (1997), 37 ss., e M. Valentino, Il precedente giudiziale: esigenze di certezza e problema sistematico, in Labeo, 44 (1998), 292 ss., con le fonti, sia giuridiche che letterarie, da questi autori variamente addotte a sostegno delle proprie argomentazioni.

 

[20] E’ evidente che le similitudini in questione – pur da non enfatizzarsi nella loro intrinseca, specifica articolazione storica, considerata anche l’abissale distanza che, sul piano cronologico, separa l’esperienza giuridica romana da quella inglese – sono soprattutto riscontrabili, rispetto al ‘common law’, con l’età preclassica e classica della giurisprudenza romana: basti pensare alla circostanza che entrambi gli ordinamenti (“celati negli interstizi della procedura”) si strutturano intorno ad una “griglia” di rimedi giudiziali definiti, poi più o meno consolidatasi, potendosi senz’altro, da questo punto di vista, individuare una significativa analogia tra la funzione dell’actio e quella del ‘writ’; o ancora alla circostanza che, per attenuare in senso equitativo le rigidità ed i formalismi propri della tradizione, in entrambi gli ordinamenti si fosse a un certo punto sentito il bisogno di introdurre rimedi di altro tipo, risp.te riconducibili al ius honorarium e all’‘equity’, ambedue storicamente destinati, alla fine, a formare un tutt’uno col diritto che avevano integrato e corretto; o infine alla circostanza che scarsa sia sempre stata, nell’ambito del diritto privato tanto romano quanto inglese, l’incidenza della legislazione, le cui disposizioni sono comunque intese nel contesto del flusso interpretativo in cui vengono ad essere immesse. Per una rassegna di opinioni e rilievi, v. ad es. F. Pringsheim, The Inner Relationship, cit., 347 ss., secondo cui, in particolare, sarebbero stati i bizantini a far venire meno tutti quei caratteri, propri della sola giurisprudenza classica, per i quali è oggi dato riscontrare analogie con quella inglese; M. Sarfatti, ‘Roman Law’ and ‘Common Law’: Forerunners of a General Unification of Law, in The International and Comparative Law Quarterly, 3 (1954), 102 ss.; H. Peter, ‘Actio’ und ‘Writ’. Eine vergleichende Darstellung römischer und englischer Rechtsbehelfe, Tübingen, 1957, spec.te 6 ss., 51 ss., 81 ss., e Römisches Recht, cit., spec.te 66, 69-70, 74, 78, 81-87, 89-92, scritti, questi, entrambi caratterizzati da un’interessante, ampia comparazione tra le rispettive epoche dell’esperienza romana e del ‘common law’ inglese; G. Gorla, Studio storico-comparativo della ‘common law’ e scienza del diritto (le forme d’azione), in Riv. trim. dir. proc. civ., (1962), I, 25 ss.; J.P. Dawson, The Oracles, cit., 100 ss., spec.te 106, 118-119; P. Stein, Roman Law and English Jurisprudence in Yesterday and Today. An Inaugural Lecture, Cambridge, 1969, 3 ss., I precedenti, cit., 54-55, 60-61, I rapporti, cit., 59 ss., e I fondamenti, cit., spec.te 32 ss., 38 ss., 109 ss.; A. Cavanna, Storia, cit., 524, 530 ss., 549-550; G. Pugliese, ‘Ius honorarium’, cit., 1105 ss.; U. Mattei, ‘Common law’, cit., 41 ss.; S. Randazzo, Tradizione romanistica e diritto statunitense: il ‘Riccobono Seminar of Roman Law’ a Washington, in BIDR, 100 (1997), 684 ss., e soprattutto ‘Roman Law’, cit., 5 ss., con acute, originali osservazioni circa la possibilità di rintracciare un “filo continuo” fra la diffusione della cultura giuridica romana in Britannia, in qualche modo conservatasi anche dopo il V secolo, e la riorganizzazione normanna della giustizia, svoltasi dall’XI secolo in poi; M. Caravale, Alle origini del diritto europeo. ‘Ius commune’, ‘droit commun’, ‘common law’ nella dottrina giuridica della prima età moderna, Bologna, 2005, 191 ss.; G.L. Falchi, Introduzione, cit., 119 ss.

 

[21] Come si sa, anche in questi casi, i giudici inglesi hanno fatto sempre ricorso alla “finzione” di non creare nuovo diritto, bensì di reperirlo nella tradizione, nelle consuetudines Anglicanae, che è loro compito “dichiarare”, disvelandole a poco a poco, più che modificare: da quanto diremo, nel testo, si potrà evincere come, anche sotto questo profilo, le più significative analogie siano individuabili con l’esperienza romana arcaica piuttosto che con quella classica. A conferma di quanto detto sulla nozione di ‘customs’, ossia di consuetudine, nel contesto di ‘common law’, v. ad es., per tutti, W.W. Buckland-A.D. Mc Nair, Roman Law and Common Law, 2ª ed., Cambridge, 1952, 15 ss.; H. Peter, Römisches Recht, cit., spec.te 61, 75, 81; P. Stein, Roman Law, cit., spec.te 7-9, 13, 16-17, e I fondamenti, cit., spec.te 90 ss., 102 ss., 109 ss., 111-113; L. Vacca, Contributo, cit., 9-10, 35, 141 e nt. 10; A. Cavanna, Storia, cit., 527-529, 568; G. Pugliese, ‘Ius honorarium’, cit., 1113; U. Mattei, ‘Common law’, cit., 19 ss.; G. Criscuoli, Introduzione, cit., 463 ss.; M. Caravale, Alle origini, cit., 182-184, 186, 194, 195 ss., 220, 223, 226, 231-232; D. Freda, La dottrina, cit., spec.te 1-2, 150; S. Randazzo, ‘Roman Law’, cit., spec.te 26.

 

[22] Vi sono per la verità alcuni autori che, nel tracciare un parallelismo tra l’esperienza romana e quella inglese, fanno, talora, qualche riferimento anche all’età arcaica, ma mai – per quanto ci risulta – collocandosi nell’ottica nella quale ci poniamo noi. Solo a titolo di esempio, cfr. G. Gorla, Studio, cit., 30-32, 34, 38, 43 nt. 9, 45, di cui non appare convincente il tentativo di avvicinare il ruolo svolto dal “tribunale cittadino” dell’epoca delle legis actiones a quello svolto dalle Corti Centrali di Londra nei secoli XII-XVII, ed assai più persuasivo, invece, il tentativo di paragonare gli artifici (simulazione, finzione, forza) di cui si avvalsero, sostanzialmente, gli interpreti al fine di garantire lo sviluppo graduale dell’ordinamento, in un contesto in cui il formalismo rivestiva particolare importanza; H. Peter, Römisches Recht, cit., 71, 81, che a sua volta sottolinea il rilievo della componente rituale e “cerimoniale”, assicurato nella Roma antica dai giuristi-pontefici, custodi delle consuetudini, al pari dei giudici inglesi, ed in particolare di quelli operanti fino alla metà del XIV secolo; P. Stein, Roman Law, cit., spec.te 9, 16-17, che allude ai pontefici al solo scopo di illustrare come diverso fosse il metodo con cui interpretavano, rispett.te, il costume e la legge (delle XII tavole), il che offre spunti per un raffronto con l’esperienza dei ‘common lawyers’, i quali certo, in presenza di ‘Statutes’, sono meno “liberi” di pronunciarsi come vogliono; A.A. Schiller, Roman ‘Interpretatio’, cit., 58-61, 740, con non pochi, ma un po’ generici, cenni ai pontifices e al modo in cui si svolgeva la loro attività interpretativa; S. Randazzo, ‘Roman Law’, cit., spec.te 21-22, 34 (ma v. già Tradizione, cit., 687 nt. 23), il cui scritto è ricco di innumerevoli, preziosi spunti, tali da rivelare una volta di più la conoscenza profonda di questo a. della giurisprudenza arcaica e a propiziarne un proficuo raffronto con quella anglosassone: basti richiamare la riflessione condotta sul linguaggio utilizzato sia dai pontefici sia dai primi ‘common lawyers’, caratterizzato dallo stile “oracolare”, rituale, volutamente riservato a pochi iniziati esperti di diritto, o la riflessione relativa all’importanza del coinvolgimento di testimoni e “giurati”, implicati, quasi come co-protagonisti, nelle solennità dei riti negoziali e processuali propri delle epoche (almeno in Roma) più risalenti; tuttavia anche R., allorquando fa riferimento all’opera di nomofilassi esercitata in modo vincolante dalle corti supreme del sistema anglosassone, nel volerla avvicinare a quella svolta da un organo della Roma antica, stranamente cita il pretore urbano, non necessariamente un giurista, anziché il collegio dei pontefici.

 

[23] V. in proposito il ben noto passo di Cic. de or. 1.48.212, pur di per sé non soltanto riferibile, comprensibilmente, ai giuristi-sacerdoti.

 

[24] V. soprattutto L. Franchini: La desuetudine delle XII tavole nell’età arcaica, Milano, 2005, Voti di guerra e regime pontificale della condizione, Milano, 2006, e Aspetti giuridici del pontificato romano. L’età di Publio Licinio Crasso (212-183 a.C.), Napoli, 2008.

 

[25] Per un attento riscontro dei dati testuali su cui edifica, in particolare, la ricostruzione della procedura ufficiale di consultazione del collegio v. ancora L. Franchini La desuetudine, cit., 87 ss., Voti, cit., 19 ss., e Aspetti, cit., 144 ss.

 

[26] Il che pare risultare in modo chiaro dalla fonte in esame, giacché Pomponio riconosce formalmente soltanto al collegio la scientia interpretandi, in merito a qualsivoglia genere di questioni.

 

[27] E’ forse il caso, per esempio, della complessa materia della trasmissione dei sacra familiaria, per cui sono effettivamente rinvenibili, nelle fonti, tracce di decisioni collegiali, comunicate all’esterno dai pontefici massimi: v. Cic. leg. 2.19.48-21.52, nella lettura autorevolmente datane, per es., da F. Bona, ‘Ius pontificium’ e ‘ius civile’ nell'esperienza giuridica tardo-repubblicana: un problema aperto, in ‘Contractus’ e ‘pactum’ (Atti Copanello 1988), Napoli, 1990, 219, 224, e da M. Talamanca, Istituzioni di diritto romano, Milano, 1990, 701.

 

[28] Spesso infatti un pontefice incaricato dal collegio interveniva alla celebrazione di pubbliche cerimonie, allo scopo di dettare al magistrato le parole per un’esatta nuncupatio della formula del rito: v. ad es., per tutti, Liv. 4.27.2; 5.41.1-3; 9.46.6; 31.9.5-10; 36.2.2-5; 42.28.8-9.

 

[29] Oltretutto, anche volendo far proprio l’approccio (da noi in gran parte contestato: cfr. supra, nt. 2) di autori come F. Horak, secondo cui il ‘case law’ anglosassone si differenzierebbe molto da quello romano, essendo quest’ultimo caratterizzato da un alto grado di astrazione, bisognerebbe inferirne che, anche sotto questo profilo, le più significative analogie esistono col diritto arcaico, la cui evoluzione era garantita dall’attività respondente dei pontefici, i quali non c’è dubbio che si pronunziassero soltanto in merito a casi concreti.

 

[30] Cfr. la definizione che del termine rito (patrius ritus) dà Festo 364 L: mos comprobatus in administrandis sacrificiis, dove per mos deve peraltro (Fest. 146 L) intendersi un institutum patrium, id est memoria veterum pertinens maxime ad religiones caerimoniasque antiquorum; per ius con valore di rito, v. poi, ad es., Gai 1.112 (riguardo alla confarreatio), 1.119 (riguardo alla mancipatio), 4.16 (riguardo al sacramentum). Sulla intangibilità dei riti formalizzati da parte della mera prassi, attestata in Gai 4.11, torneremo fra breve: si rifletta fin d’ora, comunque, sul fatto che, nella concezione giuridico-religiosa arcaica, gesti ed espressioni che si fossero già rivelati di per sé efficaci, socialmente e sacralmente rassicuranti, in quanto si fossero sempre dimostrati idonei a mantenere la pax deorum e a preservare l’ordine della comunità, dovevano, proprio per questo, essere costantemente ripetuti come tali, e che ogni modifica o correzione sarebbe potuta avvenire, ove quei comportamenti sembrassero aver perduto le loro intrinseche valenze satisfattive, soltanto ad opera dei sacerdoti. Dell’ampia bibliografia esistente in proposito si vogliono qui in particolare ricordare A. Bouché Leclercq, Les pontifes de l'ancienne Rome, Paris, 1871, 27; C. Gioffredi, ‘Ius Lex Praetor’. Forme storiche e valori dommatici, in SDHI, 13-14 (1947-1948), 12 ss., 51 ss.; P. De Francisci, Appunti intorno ai ‘mores maiorum’ e alla storia della proprietà romana, in Studi A. Segni, Milano, 1967, 623, 634; C.A. Cannata, Sulla ‘divisio obligationum’ nel diritto romano repubblicano e classico, in IURA, 21 (1970), 63; M. Piantelli, Una ricerca su ‘ritus’ in epoca arcaica, in Studi G. Grosso, VI, Torino, 1974, spec.te 289-293; F. Wieacker, ‘Ius’ e ‘lex’ in Roma arcaica, in ‘Sodalitas’. Scritti A. Guarino, VII, Napoli, 1984, 3109-3112; P. Cerami, ‘Breviter’, cit., 124; A. Schiavone, ‘Ius’. L’invenzione del diritto in Occidente, Torino, 2005, 276-278, secondo cui a quel tempo non v’era ius se non in presenza di una tipizzazione cerimoniale e ritualistica.

 

[31] Tra le numerosissime fonti adducibili a sostegno di quest’affermazione vogliamo qui soprattutto indicare quelle che testualmente riportano le formule cui, secondo il responso pontificale, bisognava assolutamente attenersi, a pena di nullità, al fine di compiere un atto giuridicamente rilevante: Liv. 8.9.6; 22.9.7-10.8; 36.2.2-5.

 

[32] Di particolare rilievo, in proposito, tra le molte testimonianze, quella di Gai 4.11. Si tratta, come noto, del passo delle Institutiones in cui si riferisce del responso (presumibilmente pontificale) che, nell’ambito della legis actio sacramenti, dichiarò irrituale la pronuncia, da parte dell’attore, di una parola in luogo di un’altra, prevista dalla legge delle XII tavole, ossia di vites al posto di arbores: Unde eum, qui de vitibus succisis ita egisset, ut in actione vites nominaret, responsum est eum rem perdidisse, cum quia debuisset arbores nominare eo, quod lex XII tabularum, ex qua de vitibus succisis actio competeret, generaliter de arboribus succisis loqueretur. Per la dottrina, v. ad es. M. Wlassak, Die klassische Prozessformel, Wien-Leipzig, 1924, 84-85 e nt. 33; J. Paoli, ‘Verba praeire’ dans la legis actio, in RIDA, 3 (1950), 315 e ntt. 75-76, 317; S. Riccobono, La ‘voluntas’ nella prassi giudiziaria guidata dai pontefici, in Festschrift F. Schulz, I, Weimar, 1951, 302 ss., 306 e nt. 4; F. Gallo, Interpretazione, cit., 112; D. Nörr, Der Jurist im Kreis der Intellektuellen: Mitspieler oder Aussenseiter (Gellius, Noctes Atticae 16.10), in Festschrift M. Kaser, München, 1976, 79; A.M. Giomaro, La tipicità delle ‘legis actiones’ e la ‘nominatio causae’, Milano, 1988, 29, 64; P. Frezza, Storia del processo civile in Roma fino all’età di Augusto, in Scritti, III, Roma, 2000, 181.

 

[33] V. L. Franchini, Voti, cit., spec.te 27 ss.

 

[34] Cfr. Liv. 34.44.1-3; 36.2.2-5; 39.5.7-10; 42.28.8-9.

 

[35] Enigmatico perché risulta assai difficile spiegare quale fosse, nella sostanza, la diversa ratio decidendi che aveva ispirato la determinazione finale dei pontefici: certo una regola nuova, quindi, ma che qui si dice dettata dall’intento di volersi più rigorosamente conformare alla tradizione cittadina. Sul punto, v. quanto già si osservava supra, alla nt. 21, circa i rapporti tra giurisprudenza delle corti inglesi e ‘customs’ o consuetudo Angliae.

 

[36] Sul dissentire, all'interno del collegio, cfr. F. Bona, La certezza, cit., 121-122, e Il ‘docere respondendo’ e ‘discere audiendo’ nella tarda repubblica, in Lectio sua’, II, Padova, 2003, 1142; M. Talamanca, Diritto e prassi nel mondo antico, in Règles et pratique du droit dans les réalités juridiques de l’antiquité, Catanzaro, 1999, 142-143; S. Randazzo, ‘Collegium pontificum decrevit’. Note in margine a CIL X.8259, in Labeo, 50 (2004), 144.

 

[37] Resta traccia, nelle fonti, anche di altri responsi dati dai pontefici a seguito di consultazione informale: v. per es. Cic. Att. 4.2.4, ove si riferisce di una decisione adottata de omnium conlegarum sententia, ossia dopo che un pontefice aveva vagliato il parere concorde dei colleghi considerati uti singuli, senza che fosse ufficialmente interpellato il collegio come tale.

 

[38] V. Pomp. D. 1.2.2.35: Iuris civilis scientiam plurimi et maximi viri professi sunt: sed qui eorum maximae dignationis apud populum Romanum fuerunt, eorum in praesentia mentio habenda est, ut appareat, a quibus et qualibus haec iura orta et tradita sunt. Et quidem ex omnibus, qui scientiam nancti sunt, ante Tiberium Coruncanium publice professum neminem traditur: ceteri autem ad hunc vel in latenti ius civile retinere cogitabant solumque consultatoribus vacare potius quam discere volentibus se praestabant; 1.2.2.38: Post hos fuit Tiberius Coruncanius, ut dixi, qui primus profiteri coepit: cuius tamen scriptum nullum exstat, sed responsa complura et memorabilia eius fuerunt. V. anche per es. F. D'Ippolito, Sul pontificato massimo di Tiberio Coruncanio, in Labeo, 23 (1977), 131 ss.; J. Vernacchia, ‘Cogitabant pontifices’, in ‘Sodalitas’. Scritti A. Guarino, I, Napoli, 1984, 315 ss.; F. Sini, ‘A quibus iura civibus praescribebantur’. Ricerche sui giuristi del III secolo a. C., Torino, 1995, 81 ss.

 

[39] Cfr. Liv. 10.6.6 e 10.9.2.

 

[40] Per l’età protolaica rileva, come si sa, soprattutto la figura di S. Elio Peto Cato, che fu sì - con il contemporaneo Acilio - esegeta e commentatore della legge delle XII tavole, ma che si distinse anche per la sua maxima scientia in profitendo: cfr. Pomp. D. 1.2.2.38. Per testimonianze ulteriori su S. Elio (console nel 198, censore nel 194: cfr. T.R.S. Broughton, The Magistrates of the Roman Republic, II, New York, 1952, 526), v. ad es. D. 1.2.2.7; 19.1.38.1; Cic. de or. 1.45.198; 1.48.212; 1.56.240; Brut. 20.78; rep. 1.18.30; Cato. 9.27; Tusc. 1.9.18; fam. 7.22; Gell. 4.1.20. V. anche, qui, per tutti, ad es. F. D’Ippolito, I giuristi e la città. Ricerche sulla giurisprudenza romana della repubblica, 2ª ed., Napoli, 1994, 51 ss.; M. Bretone, S. Elio e le XII tavole, in Labeo, 41 (1995), 66 ss.; F. Sini, ‘A quibus iura’, cit., 131 ss.; A Bottiglieri, ‘Furtum antea factum’. Riflessioni su una testimonianza ciceroniana dei ‘Tripertita’ di Sesto Elio, in SDHI, 75 (2009), 535 ss.

 

[41] Non ci illudiamo che questo nostro modestissimo scritto possa offrire un contributo utile al progresso negli studi, oggi in corso, sui rapporti fra ordinamenti di tradizione romanistica ed ordinamenti di ‘common law’; tuttavia una riflessione come quella che abbiamo condotto, tutta incentrata sulla ‘originaria’ vocazione, propria dei due sistemi, ad assicurare a se stessi uno sviluppo ordinato, perché fondato sull’adozione di una metodologia casistica suscettibile di essere ricondotta ad unità, forse potrà giovare a chi da sempre è convinto della non-incompossibilità delle due tradizioni. Certo, come ha scritto S. Randazzo, ‘Roman Law’, cit., 6, 34 nt. 85, le più significative similitudini sarà dato riscontrarle sposando una logica di arioso confronto tra le esperienze storiche, più che tra le discipline sostanziali applicabili ai vari istituti (così, però, pur sempre meritevolmente, per es., F. Pringsheim, The Inner Relationship, cit., spec.te 349, 360 ss.; W.W. Buckland-A.D. Mc Nair, ‘Roman Law’, cit., passim; C.A. Cannata, Lineamenti, cit., 64 ss., e Materiali per un corso di fondamenti del diritto europeo, II, Torino, 2008, passim; U. Mattei, ‘Common law’, cit., 41 ss.; A. Lewis, ‘What Marcellus says is against you’: Roman Law and Common Law, in The Roman Law Tradition, Cambridge, 1994, 199 ss.; G. Gandolfi, Fra l’‘obligatio’ di origine romana e la ‘liability’ di ‘common law’: un problema per il legislatore europeo, in Iurisprudentia universalis. Festschrift Th. Mayer-Maly, Köln-Weimar-Wien, 2002, 229 ss.; A. Watson, Evoluzione, cit., passim, per lo più inclini a rimarcare l’influsso talora esercitato dal diritto della tradizione romanistica anche sul concreto regime elaborato dai ‘common lawyers’ per i singoli istituti privatistici); ma giova ricordare come, anche su questo terreno, le due grandi “famiglie” tendano ora ad avvicinarsi sempre più, vuoi per l’effetto uniformante della normativa comunitaria, vuoi per la sempre maggior frequenza del ricorso agli ‘Statutes’ nei paesi di ‘common law’ e, d’altro canto, per il sempre maggior rilievo che sta assumendo la giurisprudenza delle corti nei paesi di ‘civil law’.